SENTENZA N. 38
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Gaetano SILVESTRI Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA
”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 5,
commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell’articolo 6 della legge della Provincia autonoma di
Bolzano 16 marzo 2012, n. 7 (Liberalizzazione
dell’attività commerciale), promosso dal Presidente
del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 17-21 maggio 2012,
depositato in cancelleria il 21 maggio 2012 ed iscritto al n. 79 del registro
ricorsi 2012.
Visto l’atto di costituzione della Provincia autonoma di
Bolzano;
udito nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2013 il Giudice
relatore Alessandro Criscuolo;
uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del
Consiglio dei ministri e l’avvocato Romano Vaccarella per
Ritenuto in
fatto
1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso
consegnato per la notifica il 17 maggio 2012 (previa deliberazione del
Consiglio dei ministri in data 11 maggio 2012), notificato il 21 maggio 2012
mediante il servizio postale e depositato in cancelleria il 21 maggio
Dopo aver trascritto le disposizioni
censurate, il ricorrente, in primo luogo, denunzia, in relazione all’articolo
117, secondo comma, lettera e), della
Costituzione, violazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in
materia di tutela della concorrenza, nonché violazione dell’art. 41 Cost. e
degli artt. 4, 5, 8 e 9 dello statuto del Trentino-Alto Adige, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione
del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per
il Trentino-Alto Adige).
La difesa dello Stato richiama
l’orientamento di questa Corte, in forza del quale rientrano nel concetto di
concorrenza – previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. – le misure «che mirano ad
aprire un mercato o a consolidarne l’apertura eliminando barriere all’entrata,
riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità
imprenditoriale e della competizione tra imprese» (sono richiamate le sentenze n. 401 e n. 430 del 2007).
In sintesi, farebbero parte del concetto di concorrenza, previsto in
Costituzione, non soltanto le misure di tutela in senso proprio, ma anche
quelle pro-concorrenziali.
Le disposizioni di cui all’art. 5, commi
1, 2 e 3, della legge provinciale impugnata, considerate singolarmente e in
combinato disposto, nel prevedere che il commercio al dettaglio nelle zone produttive
sia ammesso soltanto come eccezione, nei limiti delle categorie merceologiche
individuate e dei relativi accessori (questi ultimi, a loro volta, determinati
da una successiva deliberazione della Giunta provinciale), traducendosi in
disposizioni restrittive della concorrenza (nel significato emergente dalla
giurisprudenza richiamata), si porrebbero in contrasto con i principi e le
regole dettati dall’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214,
norma introdotta dal legislatore statale nell’esercizio della competenza di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost.
Il detto art. 31, comma 2 – prosegue il
ricorrente – sancisce il principio (nel rispetto della disciplina comunitaria
in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei
servizi) della libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali, senza
contingenti e limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura. Le
uniche restrizioni ammesse attengono alla tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente (incluso l’ambiente urbano) e dei beni culturali. La previsione
normativa si conclude con l’indicazione, cogente per le Regioni e gli altri
enti locali, di adeguare i propri ordinamenti ai principi così declinati entro
il 30 settembre 2012.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato,
risulterebbe evidente che le limitazioni previste dalla normativa impugnata
sarebbero in palese contrasto con le richiamate disposizioni statali, perché si
tradurrebbero nell’introduzione di restrizioni all’apertura di nuovi esercizi
per il commercio al dettaglio nelle zone produttive, apertura ammessa soltanto
per la vendita di alcune categorie merceologiche. Il che verrebbe ad integrare
gli estremi di un vincolo inammissibile, perché non giustificato dagli
interessi indicati in modo espresso dal citato art. 31, comma 2, quali uniche
ipotesi legittimanti la permanenza di limitazioni alla libertà di apertura di
esercizi commerciali.
Invero, l’apodittico riferimento
contenuto nelle norme impugnate alle esigenze di tutelare l’ambiente urbano,
nonché la pianificazione ambientale e culturale (pur volendo prescindere dalla
vaghezza dei concetti richiamati), non varrebbe a rendere tali norme conformi
ai principi in materia di liberalizzazioni dettati dal legislatore nazionale;
ciò, da un lato, proprio in ragione della rilevata assenza di motivazione in
ordine alla necessità di prevedere limiti all’apertura di esercizi di commercio
al dettaglio, al fine di salvaguardare gli interessi indicati dal legislatore
provinciale e, dall’altro, in considerazione della circostanza che non
risulterebbe comprensibile in qual modo possa venire in rilievo l’esigenza di
tutelare «l’ambiente urbano» e «la pianificazione ambientale e culturale» in
zone già destinate agli insediamenti produttivi, cioè già di per sé aventi
vocazione tipicamente commerciale.
Le disposizioni in esame, peraltro, risulterebbero
anche in palese contrasto con l’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti
per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto
2006, n. 248.
Ai sensi di tale norma, le attività
commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114
(Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art.
4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonché quelle di
somministrazione di alimenti e bevande, si svolgono senza limitazioni
quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi.
Né sarebbe utile obiettare che la
materia disciplinata dalla legge in esame, siccome relativa al «commercio» e,
quindi, rientrante nella competenza regionale, non potrebbe essere censurata
dal ricorrente per violazione delle regole sul riparto di competenze tra
legislatore nazionale e provinciale. Come chiarito dalla giurisprudenza di
questa Corte, anche se una disciplina regionale sia riconducibile alla materia
del commercio «è comunque necessario valutare se la stessa nel suo contenuto
determini o meno un vulnus alla
tutela della concorrenza, tenendo presente che è stata riconosciuta la
possibilità per le regioni, nell’esercizio della potestà legislativa nei loro
settori di competenza, di dettare norme che, indirettamente, producano effetti
pro-concorrenziali. Infatti la materia "tutela della concorrenza”, di cui
all’art. 117, comma secondo, lettera e),
Cost., non ha soltanto un ambito oggettivamente individuabile, attinente alle
misure legislative di tutela in senso proprio, quali ad esempio quelle che
hanno ad oggetto gli atti e i comportamenti delle imprese incidenti in senso
negativo sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità
di controllo, ma, dato il suo carattere "finalistico”, anche una portata più
generale e trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve essere
valutata in concreto al momento dell’esercizio della potestà legislativa sia
dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro rispettiva competenza» (è
richiamata la sentenza
n. 150 del 2011). In tale pronuncia si è altresì affermato, tra l’altro,
che «è illegittima una disciplina che, se pure in astratto riconducibile alla
materia "commercio” di competenza legislativa delle Regioni, produca, in
concreto, effetti che ostacolino la concorrenza, introducendo nuovi o ulteriori
limiti o barriere all’accesso al mercato e alla libera esplicazione della
capacità imprenditoriale» (è richiamata la sentenza n. 18 del
2012).
Nel caso di specie non si potrebbe
dubitare che le disposizioni dettate dal legislatore provinciale si traducano
nella violazione dei principi pro-concorrenziali posti dal legislatore
nazionale. Ciò varrebbe, a maggior ragione, con riferimento al comma 3 della
norma censurata, che, ai fini dell’individuazione degli accessori delle
categorie merceologiche di cui è ammessa la vendita, rinvia ad una
determinazione della Giunta provinciale, in tal modo operando una
delegificazione della materia che rende ancor più evidente la violazione
dell’ambito di competenza statale nella materia in esame.
2.— La difesa dello Stato prosegue
osservando che
Ad avviso del ricorrente, le norme
impugnate ricadrebbero nella materia del «commercio», essendo destinate a
regolare le modalità di apertura di attività di vendita al dettaglio.
Pertanto, essendo esercitabile
l’attività legislativa in materia di commercio, ai sensi dell’art. 9 dello
statuto, nei limiti indicati dall’art. 5, tra cui il rispetto dei principi
stabiliti da leggi dello Stato, risulterebbe palese il contrasto delle previsioni
impugnate con il combinato disposto dei citati artt. 2 e 9 dello statuto
stesso.
La natura di principio degli interventi
del legislatore statale in materia di concorrenza emergerebbe da quanto esposto
e, comunque, non sarebbe revocabile in dubbio.
Né la conclusione potrebbe mutare
invocando l’applicazione dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ai
sensi del quale le disposizioni del nuovo titolo V si applicano anche alle
Regioni ad autonomia speciale per le parti in cui prevedono «forme di autonomia
più ampie di quelle già attribuite»: infatti, in ogni caso la potestà
legislativa della Provincia autonoma andrebbe esercitata nel rispetto dei
limiti imposti dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario, alla stregua
dei quali, qualora la potestà legislativa regionale o provinciale interferisca
con la materia della «tutela della concorrenza», attribuita, ai sensi dell’art.
117, secondo comma, lettera e),
Cost., alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, essa dovrebbe
ritenersi esercitata in modo illegittimo, ove produca – come nella specie –
effetti restrittivi della concorrenza medesima (sono richiamate le sentenze n. 18 del 2012,
n. 326 e n. 1 del 2008, n. 443 del 2007).
Sulla scorta della medesima
giurisprudenza si dovrebbero considerare del pari illegittime le norme
censurate, anche se si volesse ritenere che la materia da tali norme
disciplinata rientri tra quelle di cui all’art. 8 dello statuto, in relazione
alle quali la competenza legislativa va esercitata nei limiti di cui all’art.
4, ossia nel rispetto della Costituzione e dei principi dell’ordinamento
giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi
nazionali, nonché delle norme di riforma economico-sociale della Repubblica,
nel cui novero senza dubbio rientrerebbero le disposizioni dettate dall’art. 31
del d.l. n. 201 del
Del resto, la giurisprudenza di questa
Corte avrebbe più volte messo in luce che, nel caso in cui una materia,
attribuita dallo Statuto alla potestà primaria delle Regioni a statuto speciale
o delle Province autonome, interferisca in tutto o in parte con un ambito
spettante – ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost. – alla potestà
legislativa esclusiva statale, il legislatore nazionale potrebbe incidere sulla
materia di competenza regionale, qualora l’intervento sia diretto a garantire standard
minimi e uniformi e ad introdurre limiti unificanti che rispondano ad esigenze
riconducibili ad ambiti riservati alla competenza esclusiva dello Stato, con
una prevalenza della competenza esclusiva statale su quella primaria delle
Regioni a statuto speciale e delle Province autonome (sono richiamate le
sentenze n. 447
del 2006 e n.
536 del 2002).
Risulterebbe chiaro, dunque, che le
norme impugnate sono viziate anche dalla violazione delle norme statutarie.
3.— In relazione all’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost., all’art. 41
Cost., agli artt. 4, 5, 8 e 9 del d.P.R. n. 670 del
1972, poi, sussisterebbero violazioni della potestà legislativa esclusiva dello
Stato in materia di tutela della concorrenza, violazioni della libertà di
iniziativa economica e violazioni dello statuto del Trentino-Alto Adige anche
con riguardo all’art. 5, comma 4, della legge provinciale n. 7 del 2012. Tale
norma, nel fare salve dall’applicazione dei primi tre commi le strutture di
vendita al dettaglio già autorizzate o già in esercizio – nelle quali, nelle
aree interessate, sono vendute merci diverse da quelle elencate nel comma 2 –
stabilisce che dette strutture, pur potendo continuare la loro attività, non
possono essere ampliate, trasferite o concentrate.
La citata norma costituirebbe
un’ingiustificata restrizione al libero svolgimento dell’attività di commercio
al dettaglio delle merci differenti da quelle ammesse, risolvendosi in una
sorta di "congelamento” delle attività in essere, che non potrebbero essere
modificate nelle loro modalità di svolgimento fino al loro esaurimento, come
sarebbe dimostrato dalla disposizione di cui al successivo comma 7, ai sensi
della quale, nel momento in cui una delle attività di cui al comma 4 decade,
verrebbe meno la possibilità di esercitare l’attività stessa.
I commi in esame, ancor più di quelli
precedenti, si porrebbero in palese contrasto con l’art. 31, comma 2, del
citato d.l. n. 201 del 2011, (poi convertito), impedendo di fatto che le
attività in essi contemplate possano adattarsi alle mutate esigenze del
mercato, con evidenti riflessi anticoncorrenziali, e che, al cessare di esse,
le attività medesime possano essere di nuovo esercitate.
La palese restrizione della concorrenza
renderebbe chiara la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., alla luce della richiamata
giurisprudenza di questa Corte, come altrettanto chiara sarebbe la violazione
del principio di libertà nell’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., in
quanto i vincoli menzionati sarebbero un evidente ostacolo alla possibilità di
adottare strategie differenziate da parte degli esercenti e, dunque, un
ostacolo all’ampliamento dell’offerta a beneficio dei consumatori, nonché al
potenziale aumento o, quanto meno, al mantenimento del proprio giro di affari.
In definitiva, le norme di cui al
censurato art. 5, commi 4 e 7, avrebbero il chiaro scopo di avvantaggiare la
chiusura degli esercizi in essere, imponendo loro vincoli che ne rendono più
difficile la sopravvivenza ed impedendo che, nel momento in cui quelle
attività, per qualunque motivo, cessino, possano essere avviate nuove attività
negli stessi esercizi.
4.— Ancora, in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., è
denunziata violazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in
materia di tutela della concorrenza, nonché violazione degli artt. 4, 5, 8 e 9
del d.P.R. n. 670 del 1972.
Contrario ai parametri invocati
risulterebbe l’impugnato art. 6 della legge regionale, ai sensi del quale
Tale norma, benché non introduca
nell’immediato disposizioni vincolanti, favorirebbe l’adozione di iniziative
locali idonee ad introdurre vincoli che la normativa nazionale di
liberalizzazione avrebbe abolito. Infatti, l’art. 31, comma 1, del d.l. n. 201
del 2011, (poi convertito), nel modificare l’art. 3, comma 1, lettera d-bis),
del d.l. n. 223 del 2006, (poi convertito), stabilisce che le attività
commerciali, come individuate dal d.lgs. n. 114 del 1998, nonché le attività di
somministrazione di alimenti e bevande, si svolgano senza limiti e prescrizioni
quanto al rispetto degli orari di apertura e di chiusura, dell’obbligo di
chiusura domenicale e festiva, nonché di quello della mezza giornata di
chiusura infrasettimanale.
Risulterebbe evidente che attribuire
alla Giunta la facoltà di reintrodurre in ambito provinciale le suddette
prescrizioni comporterebbe una potenziale limitazione alla possibilità di
differenziare il servizio, adattandolo alle caratteristiche della domanda, con
conseguente possibilità di peggioramento delle condizioni dell’offerta e della
libertà di scelta dei consumatori, senza che di ciò la norma di legge fornisca
un’adeguata giustificazione.
Tali considerazioni troverebbero ancora
una volta conforto nella giurisprudenza di questa Corte (è richiamata la sentenza n. 150 del
2011), alla luce della quale sarebbe evidente l’illegittimità
costituzionale della norma impugnata.
Tenuto conto, peraltro, della
formulazione chiaramente inderogabile del citato art. 31, comma 1, che non
prevede alcun margine d’intervento in senso restrittivo rispetto al suo
disposto, sarebbe palese che il legislatore provinciale non potrebbe legiferare
in senso (anche potenzialmente) modificativo rispetto allo stesso.
5.— Con atto depositato in data 25 giugno 2012, si è costituita, nel
giudizio di legittimità costituzionale,
In primo luogo, la difesa della Provincia osserva come l’impugnazione investa singole disposizioni della legge provinciale n. 7 del 2012, ignorando del tutto il contesto in cui esse si inseriscono; le norme suddette, infatti, sono collocate in una legge dichiaratamente volta ad attuare «i principi previsti dalla normativa comunitaria, dalle leggi quadro nazionali, dall’art. 31 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214, tenendo conto della particolare autonomia attribuita alla Provincia autonoma di Bolzano dal Testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, nonché dell’articolo 117, comma 4, della Costituzione».
Inoltre, nella memoria di costituzione si riporta il contenuto dell’art. 1, comma 2, della legge in esame e dell’art. 2 che disciplina la procedura per l’avvio o per il trasferimento dell’attività commerciale o per l’ampliamento delle superficie di vendita, dalle quali risulta che sono totalmente rimossi autorizzazioni amministrative, limiti alla superficie degli esercizi, limiti alla qualità delle merci (tabelle merceologiche), contingentamenti geografici e così via.
La difesa della Provincia pone, poi, in rilievo il contenuto dell’art. 1, comma 3, della legge provinciale – non oggetto di censura – secondo cui «la liberalizzazione delle attività commerciali e della struttura dell’offerta commerciale al dettaglio deve adeguarsi alle esigenze connesse alla tutela dell’ambiente, ivi compreso l’ambiente urbano, della natura e del paesaggio, alla tutela dei monumenti e dei beni culturali, alla tutela della salute e del diritto al riposo dei lavoratori e dei cittadini, alla tutela e allo sviluppo equilibrato dello spazio vitale urbano ed alla necessità di uno sviluppo organico e controllato del territorio e del traffico».
La difesa provinciale ritiene che detta disposizione non sia stata oggetto di censura in quanto non potrebbe esser posto in dubbio che la liberalizzazione dell’attività commerciale non possa sacrificare le esigenze connesse ad un razionale ed ordinato assetto del territorio; non possa cioè significare – come invece si sostiene da parte dell’Avvocatura dello Stato – «piena libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio nazionale», ma dovrebbe essere intesa nel senso che la rimozione di ostacoli al dispiegamento di energie e capacità imprenditoriali e di barriere all’accesso all’attività commerciale dovrebbe coordinarsi con la «tutela e conservazione del patrimonio storico, artistico e popolare», con «l’urbanistica e piani regolatori», con «la tutela del paesaggio» (art. 8, nn. 3, 5 e 6 dello statuto).
Sicché, fermo restando che
Ciò premesso, la difesa della Provincia osserva come
sia la struttura stessa della legge n. 7 del
La legge in esame, dunque, disciplina il commercio al
dettaglio in funzione delle caratteristiche urbanistiche, paesaggistiche e
ambientali del territorio affidato al suo governo: un territorio del tutto
particolare, esteso per circa due terzi ad una quota superiore ai
Al riguardo, la difesa provinciale osserva che non a caso la legge urbanistica provinciale n. 13 del 1997 tiene presente tali elementi quando, all’art. 1, comma 3, individua le ragioni e le finalità della pianificazione urbanistica.
Dopo aver riportato il contenuto integrale di tale
ultima disposizione,
L’art. 5 della legge n. 7 del 2012, esattamente come il non impugnato art. 4 della medesima legge, costituisce norma di governo di quel territorio destinato ad attività produttive ed al commercio all’ingrosso, che mira ad un razionale utilizzo delle limitate aree a ciò destinate e ad evitare il deterioramento dell’ambiente urbano anche in conseguenza di un più intenso traffico non connesso alla destinazione dell’area; si tratterebbe di una norma di governo del territorio del tutto coerente con l’intento di integrare il commercio al dettaglio nelle zone residenziali.
Ad avviso della resistente, dunque, la pretesa del Governo di contestare la legittimità costituzionale dell’art. 5, e non anche dell’art. 4, sembrerebbe scaturire dall’idea che le scelte di pianificazione territoriale operate dalla Provincia possano legittimamente riguardare soltanto le aree verdi e boschive, e non anche le zone produttive: sicché nelle une sarebbe consentito alla legge provinciale vietare il commercio al dettaglio, mentre nelle altre il consentirlo solo quale eccezione, costituirebbe indebita interferenza nella materia «tutela della concorrenza».
Inoltre, secondo la logica sottesa al ricorso, la «tutela della concorrenza» non verrebbe in rilievo a proposito del divieto relativo alle aree verdi, mentre sarebbe rilevante e decisiva a proposito delle aree produttive; ciò costituirebbe – ad avviso della Provincia – inequivoca prova della infondatezza del ricorso: «quasi che relativamente alle aree produttive la potestà della Provincia di dettare norme per il governo del territorio sia di rango inferiore».
Quanto affermato trasparirebbe dal ricorso là dove esso definisce «apodittico» il riferimento alla esigenza di tutelare l’ambiente urbano; sicché sarebbe evidente che, secondo il ricorrente, la «liberalizzazione dell’attività commerciale» può cedere il passo di fronte all’ambiente naturale, ma non di fronte ad un razionale utilizzo dell’ambiente urbano; in tal modo dimenticando che il citato art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 esplicitamente include la tutela dell’ambiente urbano tra i valori in ragione dei quali è consentito prevedere limiti o vincoli alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio.
Sotto tale aspetto rileverebbe anche una pronunzia della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza del 24 marzo 2011, in causa C-400) nella quale è stato ribadito che «le restrizioni alla libertà di stabilimento, che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza, possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale (punto n. 73) precisando che «fra tali motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente (sentenza dell’11 marzo 2010, in causa C/384/08) e la razionale gestione del territorio (sentenza 1 ottobre 2009, in causa C/567/07)» (punto n. 74).
Chiarito, dunque, che la legge provinciale n. 7 del 2012 è relativa alla materia «commercio» solo nella parte in cui, recependo i principi comunitari e nazionali, elimina ogni ostacolo al dispiegamento della capacità imprenditoriale e qualsiasi barriera all’accesso all’attività commerciale, la difesa della Provincia sottolinea che essa costituisce esercizio della potestà legislativa primaria, ai sensi dell’art. 8, nn. 3, 5, 6 e 9 dello statuto, nella residua parte volta a disciplinare la dislocazione del commercio al dettaglio in relazione alle caratteristiche del territorio ed alla destinazione che, in funzione di quelle caratteristiche, alle varie zone è stata assegnata. Pertanto, l’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, quando prevede che la tutela dell’ambiente urbano consente di introdurre limiti o vincoli alla pur fondamentale libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, farebbe riferimento proprio alla pianificazione urbanistica.
La difesa della Provincia, dunque, ritiene che non sarebbero pertinenti le considerazioni svolte nel ricorso, in quanto sviluppate con riguardo alla materia «commercio»; in particolare, non sarebbero pertinenti perché, fondandosi su tale materia, sarebbero a loro volta incentrate sui limiti in sé e per sé considerati, volutamente omettendo di tenere adeguato conto del fatto che si tratta, nella specie, di limiti disposti in relazione alla tutela della destinazione urbanistica di varie zone e funzionali ad un razionale assetto del territorio ispirato al principio per cui il commercio al dettaglio – con tutto ciò che è ad esso connesso (in particolare, il traffico) – deve avere la sua sede preminente nelle zone residenziali.
Nel comma 1 dell’art. 5 della legge in esame, pertanto, si espliciterebbe la scelta urbanistica, indiscutibilmente spettante alla Provincia, circa il carattere di eccezione dell’attività commerciale al dettaglio nelle zone produttive; tale disposizione, quindi, non interferirebbe con la materia «tutela della concorrenza» se non nei limiti esplicitamente consentiti dall’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, oppure verrebbe ad interferire come i requisiti igienico–sanitari dei locali di cui all’art. 2 o la normativa edilizia di cui all’art. 3. Ciò posto, nessun limite alla concorrenza potrebbe a fortiori ravvisarsi nei commi 2 e 3 che descrivono le "eccezionali” attività di commercio al dettaglio ammesse nelle zone produttive.
Proprio perché si tratta di attività consentite in deroga al generale divieto sancito, per ragioni urbanistiche, dal comma 1 dell’art. 5 della legge provinciale, le disposizioni in questione non introdurrebbero limiti, ma "allenterebbero” detto divieto; ciò avverrebbe sulla base di una caratteristica oggettiva: il volume e l’ingombro delle merci che renderebbe urbanisticamente consigliabile «per la difficoltà connessa alla loro movimentazione e ad eventuali limitazioni del traffico» che il loro commercio avvenga nelle zone produttive.
L’integrazione del commercio al dettaglio nelle zone residenziali, perseguita nel governo del territorio dal legislatore provinciale, subisce per le dette esigenze oggettive («volume ed ingombro delle merci e difficoltà connessa alla loro movimentazione»), una deroga mirante ad agevolare proprio tale attività al dettaglio; il riferimento ad «eventuali limitazioni del traffico» (al riguardo si indica, quale esempio, una bisarca per il trasporto di auto, o autoarticolati per il trasporto di macchinari per l’agricoltura o l’edilizia o ancora autocisterne e così via) chiarisce che le eccezioni previste dalla norma non mirano ad introdurre surrettiziamente tabelle merceologiche, ma al contrario a favorire nuove attività commerciali che, per ragioni oggettive, di regola troverebbero non poche difficoltà ad insediarsi in zone residenziali.
Si tratterebbe, dunque, di una tipica norma pro–concorrenziale, mirante ad agevolare peculiari attività commerciali che incontrerebbero, se l’unico insediamento consentito fosse nelle zone residenziali, gravi difficoltà; così come al medesimo fine il comma 3, consente l’attività di commercio al dettaglio degli accessori di quelle peculiari merci, ammessi con determinazione della Giunta provinciale (determinazione che risponde all’evidente fine di evitare che, per tale via, sia aggirata la norma generale che tende a riservare il commercio al dettaglio alle zone residenziali).
Inoltre, il comma 3, come anche il comma 2, non introdurrebbe alcun limite all’assortimento merceologico, sicché sarebbe del tutto ingiustificato e forzato il richiamo al parametro di cui all’art. 3, comma 1, lettera c), del d.l. n. 223 del 2006: l’intervento della Giunta provinciale avrebbe – secondo la difesa provinciale – la medesima funzione antielusiva della pianificazione urbanistica, che nel medesimo art. 5 esso ha a proposito dei prodotti vendibili presso le loro sedi dalle imprese artigiane ed industriali (comma 5) o vendibili nei cinema o presso cooperative agricole (comma 6). Detti interventi della Giunta, peraltro, non sono stati oggetto di censura.
La difesa della Provincia autonoma osserva, ancora, come non abbia maggior fondamento il ricorso là dove si impugnano i commi 4 e 7; al riguardo, si rileva come si tratti di una «lettura rovesciata» di dette disposizioni, la quale trascura la circostanza secondo cui – consentendo che continuino a svolgersi nelle zone produttive attività che il comma 1 riserva alle zone residenziali – in realtà si favorirebbe l’attività commerciale, sacrificando la pianificazione urbanistica.
Ad avviso della difesa provinciale, infatti, risulterebbe evidente che tale pianificazione sarebbe totalmente sacrificata se fossero consentiti l’espansione o il trasferimento o la concentrazione delle attività esistenti: la zona produttiva non sarebbe quella dedicata alle attività produttive e al commercio all’ingrosso, ma il commercio al dettaglio già esistente potrebbe svilupparsi attraverso ampliamenti, trasferimenti o concentrazioni di attività che, quindi, vanificherebbero la pianificazione urbanistica disegnata dalla legge.
Alla medesima logica si ispirerebbe il comma 7, là dove esclude che alla cessazione di una attività consentita come eccezione possa seguire una nuova; il che non significa avvantaggiare la chiusura degli esercizi in essere, come sostiene il ricorrente, ma piuttosto impedire che sia frustrato il disegno urbanistico che vuole il commercio al dettaglio tendenzialmente concentrato nelle zone residenziali.
Neppure sussisterebbe la lamentata violazione dell’art.
117, secondo comma, lettera e),
Cost., da parte dell’art. 6 della legge provinciale. Al riguardo, si osserva
come sia lo stesso ricorrente a ricordare che la sentenza di questa
Corte, n. 150 del 2011, ha ribadito la consolidata giurisprudenza (sentenze n. 288 del
2010; n. 283
del 2009, nn. 431 e 430 del 2007)
secondo la quale gli orari di apertura degli esercizi commerciali non rientrano
nella materia della tutela della concorrenza: sicché occorrerebbe valutare in
concreto la loro eventuale indiretta incidenza su quella materia. Ne
discenderebbe che la facoltà della Giunta di emanare indirizzi in materia non
soltanto escluderebbe che si tratti – come assume il ricorrente – di
disposizioni vincolanti o di prescrizioni, ma escluderebbe anche,
conseguentemente, che possa parlarsi di contrasto con il disposto dell’art. 3,
comma 1, lettera d-bis, del d.l. n. 223 del 2006:
l’impugnazione del ricorrente dovrebbe, dunque, ritenersi inammissibile per
carenza di interesse. Inoltre, si aggiunge che gli indirizzi che in futuro
Alla luce delle esposte considerazioni la difesa della Provincia autonoma di Bolzano chiede che il ricorso sia dichiarato non fondato e, in relazione al terzo motivo, inammissibile.
6.— In prossimità dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie, nelle quali sono ribadite ed ulteriormente argomentate le tematiche esposte nei precedenti scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con il ricorso indicato in epigrafe ha promosso, in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell’articolo 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 marzo 2012, n. 7 (Liberalizzazione dell’attività commerciale), in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera e) e 41 della Costituzione, nonché agli articoli 4, 5, 8 e 9 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).
Il ricorrente ritiene che le disposizioni di cui all’art. 5, commi 1, 2 e 3, della citata legge provinciale n. 7 del 2012, «singolarmente considerate e in combinato disposto» – nel prevedere che il commercio al dettaglio nelle zone produttive sia ammesso soltanto come eccezione (comma 1), per le categorie merceologiche indicate (comma 2) e per i relativi accessori determinati ed ammessi da una successiva deliberazione della Giunta provinciale (comma 3) – siano in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in relazione all’articolo 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Detta norma sancisce il principio della libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali, senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura, ad eccezione di quelli attinenti alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente (incluso l’ambiente urbano) e dei beni culturali, sicché le norme provinciali, traducendosi nell’introduzione di limitazioni all’apertura di nuovi esercizi di commercio al dettaglio nelle zone produttive, determinerebbero restrizioni alla concorrenza, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in tale materia. Inoltre, la disposizione di cui al comma 3, rinviando ad un provvedimento della Giunta provinciale la determinazione degli accessori delle categorie merceologiche di cui è ammessa la vendita, opererebbe una delegificazione della materia stessa, in contrasto con la potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Le stesse norme, poi, si porrebbero in violazione: a) dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in relazione all’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, secondo cui le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonché quelle di somministrazione di alimenti e bevande, si svolgono senza limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi; b) degli artt. 4, 5, 8 e 9 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, in quanto le suddette disposizioni provinciali andrebbero oltre le competenze statutarie in materia di commercio. Ciò sia se alla Provincia autonoma di Bolzano si riconosca, in virtù della clausola di equiparazione di cui all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), competenza legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 8 dello statuto speciale, in quanto la violazione dell’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, (poi convertito), determinerebbe il contrasto con l’art. 4 del detto statuto; sia se si riconosca competenza legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 9 dello statuto speciale, in quanto la violazione dei citati principi stabiliti dalle leggi dello Stato si porrebbe in contrasto con l’art. 5 dello statuto stesso.
Ancora, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, l’art. 5, comma 4, della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2012, nel prevedere che sono fatte salve dall’applicazione dei primi tre commi le strutture di vendita al dettaglio già autorizzate o già in esercizio (alla data di entrata in vigore della legge) nelle aree produttive, nelle quali sono vendute merci diverse da quelle elencate nel comma 2, e nello stabilire che esse, pur potendo continuare l’attività, non possono essere ampliate, trasferite o concentrate, nonché l’art. 5, comma 7, della medesima legge, nel disporre che la possibilità di esercitare l’attività di commercio al dettaglio, di cui al comma 4, decade, se l’attività stessa viene a cessare, incorrerebbero in violazione: 1) dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in relazione all’art. 31, comma 2, del citato d.l. n. 201 del 2011. Infatti, le suddette disposizioni comporterebbero una ingiustificata restrizione al libero svolgimento dell’attività di commercio al dettaglio delle merci differenti da quelle ammesse, risolvendosi in una sorta di "congelamento” delle attività in corso, le quali non potrebbero essere modificate nelle loro modalità di svolgimento fino al loro esaurimento, rendendo così impossibile che le attività medesime possano adattarsi alle mutate esigenze del mercato, con evidenti riflessi anticoncorrenziali; 2) dell’art. 41 Cost., sotto il profilo della violazione della libertà d’iniziativa economica, perché i vincoli in questione costituirebbero un evidente ostacolo alla possibilità di adottare strategie differenziate da parte degli esercenti e, quindi, un ostacolo all’ampliamento dell’offerta a beneficio dei consumatori ed al potenziale aumento, o mantenimento, del proprio giro di affari, e, inoltre, impedirebbero che, nel momento in cui quelle attività vengano a cessare, possano essere avviate negli stessi esercizi nuove attività; 3) degli artt. 4, 5, 8 e 9 del d.P.R. n. 670 del 1972, per le stesse motivazioni sopra esposte.
Infine, sempre secondo il ricorrente, l’art. 6 della
legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2012, nel prevedere che
2.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2012 è fondata.
Le norme ora citate dispongono:
«1. Stante la scarsità di aree idonee all’esercizio di attività produttive e di commercio all’ingrosso e in considerazione del prevalente interesse generale di salvaguardia delle esigenze dell’ambiente urbano, della pianificazione ambientale e del traffico, e di quelle culturali e sociali, finalizzato all’integrazione del commercio al dettaglio nelle zone residenziali, il commercio al dettaglio nelle zone produttive è ammesso solo quale eccezione nei casi di seguito elencati.
2. Le merci che per il loro volume ed ingombro e per la difficoltà connessa alla loro movimentazione, nonché a causa di eventuali limitazioni al traffico, non possono essere offerte in misura sufficiente a soddisfare la richiesta e il fabbisogno nelle zone residenziali, possono essere vendute al dettaglio nelle zone produttive senza limitazioni di superficie.
Queste sono: a) autoveicoli a due o più ruote, incluse macchine edili; b) macchinari e prodotti per l’agricoltura; c) materiali edili, macchine utensili e combustibili; d) mobili; e) bevande in confezioni formato all’ingrosso.
3. Possono, altresì, essere venduti gli accessori alle
merci di cui al comma 2.
Ciò posto, si deve premettere che l’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, stabilisce che «Secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012».
Questa Corte, chiamata ad esaminare varie questioni di legittimità costituzionale relative al citato art. 31, sollevate da diverse Regioni (alcune delle quali a statuto speciale), con la recente sentenza n. 299 del 2012 le ha dichiarate inammissibili o non fondate, ponendo in luce, tra l’altro (e per quanto qui rileva) che: 1) per costante giurisprudenza costituzionale la nozione di concorrenza – di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. – «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis: sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)»; 2) la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere finalistico, non è una materia di estensione certa o delimitata, ma è configurabile come trasversale, «corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle regioni (sentenze n. 80 del 2006, n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004)».
Dalla natura trasversale della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza questa Corte ha tratto la conclusione «che il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio non è idoneo ad impedire il pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina statale della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza» (sentenza n. 299 del 2012 citata, punto 6.1. del Considerato in diritto).
In particolare, con riferimento all’art. 31, comma 2,
del d.l. n. 201 del 2011, (poi convertito),
Del resto, la stessa legge provinciale n. 7 del 2012, qui in esame, enunciando nell’art. 1 le finalità della disciplina con essa introdotta, chiarisce nel comma 2 di tale articolo di dare attuazione ai principi previsti dalla normativa comunitaria, dalle leggi quadro nazionali, dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011, disposizione alla quale è riconosciuta, dunque, la natura di "norma interposta” nella materia de qua.
In questo quadro, risulta evidente come il censurato art. 5, commi 1, 2 e 3, della citata legge provinciale si ponga in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in relazione al menzionato art. 31, comma 2, il quale introduce il principio generale della libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio. Invero, nelle zone destinate all’esercizio di attività produttive il commercio al dettaglio viene ad essere, in concreto e in via generale, vietato, essendo ammesso soltanto come eccezione, per il ben circoscritto catalogo di merci elencate nel comma 2 (con i relativi accessori, la cui determinazione è demandata alla Giunta provinciale: comma 3). Il fatto stesso che al commercio al dettaglio nelle zone produttive sia attribuito carattere eccezionale rivela lo spessore della limitazione arrecata alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali, limitazione che incide direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolve in un vincolo per la libertà d’iniziativa di coloro che svolgono, o che intendano svolgere, attività di vendita al dettaglio nelle zone produttive.
Ad avviso della difesa della resistente, la normativa provinciale in esame sarebbe esplicazione della potestà legislativa della Provincia in tema di pianificazione urbanistica, sicché i limiti posti dalle disposizioni censurate sarebbero legittimi, in quanto rientranti nel novero delle eccezioni previste dall’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, poi convertito, (in particolare, limiti connessi alla tutela dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, avuto riguardo anche alla particolare conformazione del territorio provinciale).
Inoltre, la difesa della Provincia autonoma richiama il disposto dell’art. 1, comma 3, della legge provinciale n. 7 del 2012 (norma non impugnata dalla difesa statale), alla stregua del quale «La liberalizzazione delle attività commerciali e della struttura dell’offerta commerciale al dettaglio deve adeguarsi alle esigenze connesse alla tutela dell’ambiente, ivi compreso l’ambiente urbano, della natura e del paesaggio, alla tutela dei monumenti e dei beni culturali, alla tutela della salute e del diritto al riposo dei lavoratori e dei cittadini, alla tutela e allo sviluppo equilibrato dello spazio vitale urbano ed alla necessità di uno sviluppo organico del territorio e del traffico». Da tale norma la resistente trae spunto per affermare che la liberalizzazione dell’attività commerciale non può sacrificare le esigenze connesse ad un razionale ed ordinato assetto del territorio, né può significare piena libertà di apertura di nuovi esercizi sul territorio nazionale, ma «significa che la rimozione di ostacoli al dispiegamento di energie e capacità imprenditoriali e di barriere all’accesso all’attività commerciale deve coordinarsi con la "tutela e conservazione del patrimonio storico, artistico e popolare”, con l’urbanistica e i piani regolatori, con la tutela del paesaggio». In questo contesto, dunque, l’art. 5 della legge n. 7 del 2012 costituirebbe norma di governo delle zone destinate ad attività produttive e al commercio all’ingrosso, coerente alla finalità d’integrare il commercio al dettaglio nelle zone residenziali.
Questa tesi non può essere condivisa.
Invero, si deve replicare che la normativa in esame è diretta a disciplinare le zone idonee all’esercizio di attività produttive. Tali zone, ai sensi dell’art. 44, comma 2, della legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 (Legge urbanistica provinciale), sono destinate «all’insediamento d’imprese industriali, artigianali, di attività di prestazione di servizio e di commercio all’ingrosso per l’esercizio delle rispettive attività aziendali». Si tratta, cioè, di zone già in possesso di una vocazione commerciale, onde non si giustifica la compressione dell’assetto concorrenziale del mercato, realizzata attraverso la drastica riduzione della possibilità di esercitare in dette aree il commercio al dettaglio, la cui negativa incidenza sull’ambiente non è, peraltro, individuabile.
A questo rilievo si deve aggiungere la considerazione che il coordinamento, cui la difesa della Provincia autonoma si riferisce, non può realizzarsi introducendo un consistente vincolo al libero esplicarsi della libertà imprenditoriale nel settore commerciale, quale deve ritenersi quello introdotto dalla norma censurata, perché in tal modo detta norma viene a porsi in palese contrasto con il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011, che pure la legge provinciale in esame (art. 1, comma 2) dichiara di voler attuare.
Alla resistente non giova il richiamo all’art. 8, n. 3,
5, 6, dello statuto di autonomia, che attribuisce alla Provincia autonoma
competenza primaria in tema (tra l’altro) di tutela e conservazione del
patrimonio storico, artistico e popolare, di urbanistica e piani regolatori,
nonché di tutela del paesaggio. Infatti, come lo stesso art. 8, comma primo,
stabilisce, la potestà della Provincia di emanare norme legislative si esercita
entro i limiti indicati dall’art. 4 dello statuto medesimo, cioè «in armonia
con
Il richiamo – effettuato nella memoria depositata dalla difesa della Provincia autonoma il 22 gennaio 2013 – alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in data 24 marzo 2011 (in causa C-400/08) si rivela non pertinente. Detta pronuncia, infatti, riguarda, in riferimento a grandi esercizi commerciali, restrizioni alla libertà di stabilimento, che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza. Tali restrizioni possono essere giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio. Come si vede, si tratta di una fattispecie diversa da quella qui in esame, sia per la diversità del principio evocato (libertà di stabilimento e non tutela della concorrenza), sia per le caratteristiche di fatto delle due vicende.
Sulla base delle precedenti considerazioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1, 2 e 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2012.
3.— Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 4 e 7, di detta legge sono fondate.
Il citato comma 4 così dispone: «Sono fatte salve le strutture di vendita al dettaglio che all’entrata in vigore della presente legge sono già state autorizzate o hanno già iniziato la loro attività nelle aree produttive nelle quali vengono vendute merci diverse da quelle elencate al comma 2. Tali strutture possono continuare la loro attività, ma non possono essere ampliate, trasferite o concentrate».
Il successivo comma 7 stabilisce quanto segue: «La possibilità di esercitare l’attività di commercio al dettaglio di cui al comma 4 decade, se cessa l’attività di commercio al dettaglio».
La prima di tali disposizioni, dunque, pur consentendo
nelle zone produttive la prosecuzione delle attività di vendita al dettaglio
già autorizzate o già iniziate prima dell’entrata in vigore della legge
provinciale n. 7 del 2012, vieta che le relative strutture destinate alla
vendita al dettaglio possano essere ampliate, trasferite o concentrate. La
seconda prevede addirittura la decadenza dalla possibilità di esercitare
l’attività di cui al comma
Entrambi i precetti introducono consistenti vincoli al libero svolgimento dell’attività di commercio al dettaglio nelle zone produttive, andando ad incidere sulle prospettive di sviluppo delle imprese commerciali, che si vedono impedire la possibilità di adeguare le proprie aziende alle esigenze del mercato sia con il divieto di ampliare o trasferire la sede, sia con la decadenza comminata per il caso di cessazione dell’attività. Pertanto, richiamate le considerazioni svolte dianzi, va ribadito il contrasto della normativa censurata con il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e per il suo tramite con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Ne deriva l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, commi 4 e 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2012.
4.— La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 di tale legge è fondata.
Detta norma stabilisce che «
Al riguardo, si deve considerare che l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, (poi convertito), ha modificato l’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, (poi convertito). Nel testo attualmente vigente, la citata norma dispone che le attività commerciali, come individuate dal d.lgs. n. 114 del 1998, nonché quelle di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i limiti e le prescrizioni elencati nel medesimo art. 3, tra cui «il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio». Ciò «Ai sensi delle disposizioni dell’ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m) della Costituzione» (art. 3 citato comma 1, prima parte).
Nell’interpretazione della citata normativa, questa Corte ha ritenuto che essa attui un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle attività economiche, e ha così proseguito: «L’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore.
Si tratta, dunque, di misure coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale» (sentenza n. 299 del 2012 citata, punto 6.1. del Considerato in diritto).
In questo quadro il censurato art. 6 della legge della
Provincia autonoma di Bolzano n. 7 del 2012, autorizzando
La tesi della resistente, secondo cui l’impugnazione del Governo in parte qua dovrebbe essere dichiarata inammissibile per carenza d’interesse, essendo non valutabile in concreto l’eventuale incidenza sull’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. degli indirizzi ancora da emanare, non può essere condivisa.
Infatti, nel caso di specie, il vulnus al menzionato parametro costituzionale è già insito nell’attribuzione alla Giunta provinciale del potere di assumere «appositi indirizzi» in materia devoluta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, alla stregua delle considerazioni dianzi svolte.
Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche del citato art. 6.
Ogni altro profilo rimane assorbito.
per
questi motivi
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell’articolo 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 marzo 2012, n. 7 (Liberalizzazione dell’attività commerciale).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 marzo
2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2013.