Sentenza n. 443 del 2007

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SENTENZA N. 443

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco               BILE                                                Presidente

- Giovanni Maria FLICK                                               Giudice

- Francesco          AMIRANTE                                            ”

- Ugo                   DE SIERVO                                            ”

- Paolo                 MADDALENA                                        ”

- Alfio                 FINOCCHIARO                                      ”

- Alfonso             QUARANTA                                           ”

- Franco               GALLO                                                   ”

- Luigi                 MAZZELLA                                            ”

- Gaetano             SILVESTRI                                             ”

- Sabino               CASSESE                                               ”

- Maria Rita         SAULLE                                                 ”

- Giuseppe           TESAURO                                              ”

- Paolo Maria       NAPOLITANO                                       ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promossi con due ricorsi della Regione Veneto e con un ricorso della Regione Siciliana, notificati il 31 agosto, il 5 e il 9 ottobre 2006, depositati in cancelleria l’11 settembre, l’11 e il 12 ottobre 2006 ed iscritti ai numeri 96, 103 e 104 del registro ricorsi 2006.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 novembre 2007 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto, Francesco Castaldi e Giovanni Pitruzzella per la Regione Siciliana e l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Regione Veneto ha promosso, con ricorso notificato il 31 agosto 2006 e depositato il successivo 11 settembre (reg. ric. n. 96 del 2006), questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), e, tra queste, dell’art. 2, commi 1 e 3, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

1.1. – Il decreto-legge n. 223 del 2006, successivamente convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, nel testo originario dell’art. 2, comma 1, prevedeva che «In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:

a) la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;

b) il divieto, anche parziale, di pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto e il prezzo delle prestazioni;

c) il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità».

Il comma 3 del citato art. 2, rimasto inalterato a seguito della conversione del decreto, dispone che «Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle».

1.2. – La Regione censura i commi 1 e 3 dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, ritenendo che si tratti di «norme di minuto dettaglio ed autoapplicative», in una materia – quella delle «professioni» − attribuita alla potestà legislativa concorrente, relativamente alla quale è riservata allo Stato soltanto la determinazione dei principi fondamentali.

1.3. – La ricorrente esclude che le norme censurate costituiscano principi fondamentali e ritiene che l’intervento statale, espressamente finalizzato alla tutela della concorrenza ed all’attuazione del principio comunitario di libera circolazione delle persone e dei servizi, sia il prodotto di una interpretazione troppo ampia della competenza esclusiva in tema di «tutela della concorrenza». È richiamata a tal proposito la sentenza n. 14 del 2004 della Corte costituzionale, nella quale si afferma che una dilatazione eccessiva della competenza statale in tema di tutela della concorrenza rischia di vanificare lo schema di riparto dell’art. 117 Cost., «che vede attribuite alla potestà legislativa residuale e concorrente delle Regioni materie la cui disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico».

Dunque, a parere della difesa regionale, la competenza in tema di tutela della concorrenza «non può essere utilizzata quale fondamento di legittimazione del potere normativo statale esercitato in modo da non lasciare, irragionevolmente, il minimo spazio non solo per un’ipotetica legislazione ulteriore, ma persino per una normazione secondaria di mera esecuzione».

2. – La stessa Regione Veneto ha promosso, con ricorso notificato il 5 ottobre 2006 e depositato il successivo 11 ottobre (reg. ric. n. 103 del 2006), questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge n. 223 del 2006, come risultanti a seguito delle modificazioni apportate in sede di conversione dalla legge n. 248 del 2006, e, tra queste, dell’art. 2, commi 1, 2-bis e 3, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.

2.1. – Il comma 1 dell’art. 2, oggetto di modifiche in sede di conversione del decreto n. 223 del 2006, nel testo definitivo recita: «In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:

a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;

b) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine;

c) il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità».

Il comma 2-bis, introdotto in sede di conversione del decreto-legge, stabilisce che «All’articolo 2233 del codice civile, il terzo comma è sostituito dal seguente: “Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”».

Infine, il comma 3 risulta inalterato rispetto all’originario testo del decreto n. 223, sopra riportato al punto 1.1.

2.2. – La ricorrente, che dà atto di aver già proposto ricorso avverso il decreto-legge n. 223 del 2006, ritiene che con la legge di conversione n. 248 del 2006 siano state introdotte ulteriori norme viziate da illegittimità costituzionale sotto i medesimi profili già prospettati nel ricorso n. 96 del 2006.

In particolare, la Regione censura il comma 2-bis dell’art. 2, con il quale è stato sostituito il terzo comma dell’art. 2233 del codice civile, che prevede la forma scritta, a pena di nullità, dei patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti per stabilire i compensi professionali.

2.3. – Le censure prospettate e le relative motivazioni sono in tutto identiche a quelle contenute nel ricorso n. 96 del 2006, al quale si rinvia.

3. – La Regione Siciliana ha promosso, con ricorso notificato il 9 ottobre 2006 e depositato il successivo 12 ottobre (reg. ric. n. 104 del 2006), questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge n. 223 del 2006, come risultanti a seguito delle modificazioni apportate in sede di conversione dalla legge n. 248 del 2006, e, tra queste, dell’art. 2, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.

3.1. – La ricorrente censura l’art. 2, in quanto disciplinerebbe «in maniera estremamente dettagliata l’esercizio delle professioni, dettando una serie di prescrizioni che incidono pesantemente sull’esercizio delle stesse».

In proposito, la difesa regionale ricorda che la materia delle professioni rientra fra quelle di legislazione concorrente e pertanto la competenza statale è circoscritta alla determinazione dei soli «principi fondamentali», che sono stati oggetto di specifica ricognizione ad opera del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131).

4. − Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in tutti i giudizi, chiedendo il rigetto dei ricorsi e svolgendo considerazioni sostanzialmente coincidenti.

4.1. – In particolare, nell’atto di costituzione nel giudizio promosso con il ricorso n. 96 del 2006, il resistente rileva, in via preliminare, che il decreto-legge n. 223 del 2006 è stato convertito, con modificazioni, nella legge n. 248 del 2006, sicché potrebbe profilarsi l’inammissibilità sopravvenuta o la cessazione della materia del contendere con riferimento ad alcune delle censure prospettate.

4.2. – Nel merito, la difesa erariale osserva come le norme contenute nell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, in quanto finalizzate a garantire l’esercizio della libera concorrenza nei rispettivi ambiti di disciplina, rientrino nella competenza esclusiva riconosciuta allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

È richiamata in proposito la giurisprudenza costituzionale (sentenze numeri 14 e 272 del 2004, n. 29 del 2006) secondo cui la tutela della concorrenza costituisce una materia-funzione, caratterizzata da un’estensione «trasversale», in quanto «si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri interessi – alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni – connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese». Dalla natura trasversale della competenza in tema di tutela della concorrenza deriverebbe la legittimità dell’intervento statale anche in ambiti materiali di competenza delle Regioni.

4.3. – La difesa erariale osserva, inoltre, come le norme impugnate abbiano «natura ordinamentale incidente sulla disciplina civilistica del contratto d’opera intellettuale». Ciò sarebbe particolarmente evidente non solo con riferimento alla norma di cui al comma 2-bis, ma anche in relazione alle norme di cui ai commi 1 e 2 che, secondo il resistente, attengono alla disciplina del contratto d’opera professionale o «intervengono sulle forme negoziali associative di esercizio delle professioni».

4.4. – A parere della difesa erariale, le norme censurate troverebbero un ulteriore titolo giustificativo nella potestà legislativa dello Stato di fissare i principi fondamentali nella materia delle «professioni», di competenza legislativa concorrente, posto che, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, tali norme non conterrebbero previsioni di dettaglio. D’altra parte, la determinazione dei principi fondamentali in materia di professioni – osserva il resistente – non può considerarsi esaurita nella ricognizione operata con il d.lgs. n. 30 del 2006, come tale necessariamente limitata ai principi in quel momento esistenti.

4.5. – Ciò posto, la difesa erariale ribadisce che le norme censurate rientrano nel quadro della materia «tutela della concorrenza», e reputa non fondata l’argomentazione della Regione Veneto secondo la quale l’intervento legislativo censurato sarebbe frutto di una interpretazione eccessivamente ampia della competenza esclusiva prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

In proposito, l’Avvocatura generale richiama ancora la sentenza n. 14 del 2004 della Corte costituzionale, secondo la quale la verifica della legittimità dell’intervento statale in tema di tutela della concorrenza deve essere condotta alla stregua dei criteri di proporzionalità e di adeguatezza, ed osserva come, nel caso di specie, entrambi i criteri risultino rispettati.

Le norme censurate sarebbero, pertanto, idonee a perseguire il duplice obiettivo di garantire una maggiore concorrenza nel settore delle professioni e di assicurare la libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea.

4.6. – Infine, con specifico riguardo al ricorso promosso dalla Regione Siciliana, il Presidente del Consiglio dei ministri rileva che «la pretesa natura dettagliata delle disposizioni contenute nella norma è affermata dalla Regione in modo sostanzialmente apodittico, senza specificare minimamente le ragioni di tale affermazione».

5. – In prossimità dell’udienza, la Regione Veneto ha depositato due memorie, di contenuto sostanzialmente coincidente, nei giudizi promossi con i ricorsi n. 96 e n. 103 del 2006.

5.1. – Preliminarmente, la ricorrente evidenzia la genericità dell’eccezione, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui sarebbe venuta meno la materia del contendere per effetto della conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 223 del 2006. In particolare, la difesa della Regione ritiene che l’Avvocatura generale non abbia specificato le norme impugnate relativamente alle quali la materia del contendere sarebbe cessata.

Quanto poi all’inammissibilità e infondatezza del ricorso, pure dedotte dalla difesa erariale, la Regione rileva la genericità delle argomentazioni sviluppate a sostegno, in quanto il richiamo ai poteri statali in materia di tutela della concorrenza e la natura trasversale di tale materia non possono valere a giustificare interventi normativi dello Stato che comprimano la sfera di autonomia regionale senza rispettare i principi di razionalità, proporzionalità ed adeguatezza.

5.2. – Nel merito, la difesa regionale ribadisce che le norme impugnate contengono «norme di minuto dettaglio ed autoapplicative», tali da privare le Regioni di «qualsiasi potere in materia». In particolare, la ricorrente contesta l’affermazione dell’Avvocatura generale, secondo cui siffatte previsioni, risultando necessarie per garantire sull’intero territorio nazionale la rimozione di ostacoli all’esercizio della concorrenza ed alla libera prestazione dei servizi professionali, confermerebbero la proporzionalità e l’adeguatezza dell’intervento statale.

Secondo la ricorrente, l’intervento statale può dirsi legittimo solo ove introduca norme a garanzia della concorrenza che «ragionevolmente lascino alla Regione lo spazio per porre in essere disposizioni di dettaglio». Diversamente ragionando, conclude la difesa regionale, la materia «professioni» sarebbe svuotata di contenuto e finirebbe per sovrapporsi alla materia «formazione professionale», la quale però attiene all’ambito più ampio della competenza residuale delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.

6. – Anche la Regione Siciliana ha depositato memoria integrativa, con la quale sviluppa gli argomenti a sostegno del ricorso ed insiste nelle già rassegnate conclusioni.

La Regione evidenzia, in primo luogo, che lo scopo delle disposizioni in materia di esercizio delle attività libero-professionali ed intellettuali, introdotte con l’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, nella legge n. 248 del 2006, è individuabile nel «rilancio economico e sociale» del Paese.

Procede quindi ad illustrare, in sintesi, l’evoluzione della disciplina delle «professioni», a partire dalla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ricordando che nel 2002 è stata costituita presso il Ministero della giustizia una commissione tecnica per la predisposizione di uno schema di “legge quadro”, volta alla individuazione dei principi generali della materia. Tale progetto non ha avuto seguito e la difficile opera di demarcazione del confine tra intervento statale e interventi regionali nella materia è stata, di fatto, svolta dalla Corte costituzionale, in particolar modo con la sentenza n. 405 del 2005.

Al riguardo, la Regione osserva che non tutto quello che riguarda l’ordinamento delle professioni regolamentate e l’ambito delle professioni non regolamentate può ritenersi ascrivibile alla materia «professioni», di potestà concorrente. Rimangono, infatti, di sicura attribuzione statale la disciplina dell’accesso alle professioni, per il quale l’art. 33, quinto comma, Cost. impone l’esame di Stato, e quella dell’esercizio della professione forense, la cui principale funzione è costituita dall’assistenza in giudizio, e che perciò rientra nella materia della giurisdizione.

Quanto all’esigenza di tracciare il limite tra competenze statali e regionali in tale materia, la difesa regionale richiama quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 353 del 2003.

Ciò posto, il nodo problematico ancora da sciogliere, secondo la ricorrente, riguarderebbe la collocazione degli ordini e dei collegi professionali, cioè se essi rientrino nella nozione costituzionale di enti pubblici nazionali, da cui discenderebbero la riserva statale prevista all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., ed i conseguenti limiti alla potestà legislativa regionale.

A parere della Regione, non è del tutto condivisibile la tesi della natura pubblicistica nazionale – e non già territoriale – degli ordini e dei collegi professionali, in ragione della particolare funzione dagli stessi esercitata, connessa all’interesse pubblico sotteso all’istituzione di un ordine, non frazionabile ma necessariamente unitario.

In particolare, la Regione osserva come non sussistano ostacoli a considerare gli ordini e i collegi professionali «enti pubblici locali» (in funzione della localizzazione della sede, del carattere esponenziale rispetto alla comunità locale di professionisti e del necessario possesso di determinati requisiti soggettivi ai fini dell’appartenenza all’ente), ritenendo che la diversa impostazione assunta dalla Corte costituzionale abbia finito per creare una ingiustificata sovrapposizione tra ambiti materiali diversi, quali le «professioni», l’«ordinamento e organizzazione amministrativa», la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», l’«esame di Stato […] per l’abilitazione all’esercizio professionale».

Nel contesto così delineato, prosegue la Regione, deve essere collocata la recente iniziativa in materia di «professioni» assunta con il d.lgs. n. 30 del 2006, il quale prevede, all’art. 2, commi 1 e 4, che «Le Regioni non possono adottare provvedimenti che ostacolino l’esercizio della professione. […] Le associazioni rappresentative di professionisti che non esercitano attività regolamentate o tipiche di professioni disciplinate ai sensi dell’articolo 2229 del codice civile, se in possesso dei requisiti e nel rispetto delle condizioni prescritte dalla legge per il conseguimento della personalità giuridica, possono essere riconosciute dalla regione nel cui àmbito territoriale si esauriscono le relative finalità statutarie»; all’art. 3, commi 1 e 2, che «L’esercizio della professione si svolge nel rispetto della disciplina statale della tutela della concorrenza, ivi compresa quella delle deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti o per ragioni imperative di interesse generale, della riserva di attività professionale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale. […] L’attività professionale esercitata in forma di lavoro autonomo è equiparata all’attività di impresa ai fini della concorrenza di cui agli articoli 81, 82 e 86 (ex articoli 85, 86 e 90) del Trattato CE, salvo quanto previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali»; e all’art. 6, che «Per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano resta fermo quanto previsto dall’art. 11 della legge 5 giugno 2003, n. 131».

A parere della Regione Siciliana, proprio dal raffronto tra tali norme, la giurisprudenza costituzionale richiamata e le norme impugnate, emergerebbero le ragioni e i profili di illegittimità di queste ultime, trattandosi, all’evidenza, di normazione di dettaglio, non riconducibile alla categoria dei «principi generali della materia»; di qui il dedotto contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., e indirettamente con gli artt. 114 e 120 Cost.

Le attività libero-professionali sarebbero, infatti, regolate in modo particolareggiato, quanto al rapporto contrattuale tra professionista e cliente, senza che residui il minimo spazio per l’intervento regionale, risultando così eluso anche il precetto stabilito all’art. 11 della legge n. 131 del 2003.

Peraltro, osserva la difesa regionale, se anche si dovesse ritenere che le norme statali impugnate costituiscono principi fondamentali della materia «professioni», risulterebbe comunque pretermesso qualsiasi coinvolgimento delle Regioni, in violazione del canone della leale collaborazione. La natura interdisciplinare della materia e la particolare rilevanza socio-economica della stessa, a livello sia centrale sia locale, tali da realizzare «una concorrenza di competenze», avrebbero reso necessario il coinvolgimento degli enti territoriali.

Inoltre, la Regione contesta che il fondamento della legittimità delle disposizioni impugnate possa rinvenirsi nella tutela della concorrenza e della libera circolazione di persone e servizi, atteso che la Corte costituzionale (sentenza n. 14 del 2004) ha escluso che la «tutela della concorrenza», la quale «non presenta i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti», possa vanificare lo schema di riparto delle competenze. La tutela della concorrenza potrebbe valere, semmai, quale principio generale della materia «professioni», al rispetto del quale sarebbe tenuto il legislatore regionale nell’attività di integrazione della disciplina.

Infine, la ricorrente rileva l’incongruità delle previsioni impugnate rispetto alla normativa comunitaria. È in proposito richiamata la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 5 dicembre 2006 in cause C-94/04 e C-202/04, per evidenziare come il giudice comunitario abbia ritenuto congruo il sistema tariffario rispetto al principio di libera prestazione dei servizi.

Alla luce di tale rilievo, la Regione ritiene che le norme impugnate violino anche gli artt. 117, primo comma, e 3 Cost.: rispettivamente, per il contrasto con la normativa sopranazionale e per la conseguente irragionevole limitazione che pongono in capo ai professionisti nonché per gli altrettanto irragionevoli vincoli di cui gravano gli ordini professionali.

7. – L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria di replica nella quale espone ulteriori argomentazioni a difesa delle norme censurate.

Preliminarmente, la parte resistente eccepisce l’inammissibilità del ricorso promosso dalla Regione Siciliana (reg. ric. n. 104 del 2006), «per insussistenza ab origine della materia del contendere»; a suo dire, infatti, le norme impugnate non si applicherebbero alle Regioni speciali in virtù della clausola di salvaguardia di cui all’art. 1, comma 1-bis, del decreto-legge n. 223 del 2006, comma aggiunto dalla legge di conversione n. 248 del 2006.

Sulla premessa che l’intervento di cui al decreto-legge n. 223 del 2006 debba essere ricondotto alla materia della «tutela della concorrenza», di potestà esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., la difesa erariale evidenzia come rispetto a taluni ambiti professionali ed a specifiche tipologie di prestazioni di servizi, volte all’assistenza e alla garanzia in materia di diritti civili e sociali (la professione di medico e di avvocato), subentri anche il profilo della garanzia dei livelli essenziali, anch’esso di spettanza esclusiva statale.

La difesa erariale ricorda, poi, che la Corte costituzionale ha riconosciuto da tempo l’esistenza di alcune materie di competenza esclusiva statale di tipo trasversale, quali appunto la tutela della concorrenza e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, le quali enunciano finalità, piuttosto che circoscrivere un determinato settore dell’ordinamento, e, proprio in quanto espressione di valori e obiettivi generali, presentano un’attitudine ad interferire con ambiti materiali affidati alla potestà legislativa regionale. In particolare, osserva il resistente, dalla sentenza n. 14 del 2004 in poi la Corte ha riconosciuto allo Stato la potestà di intervenire direttamente sul mercato, a tutela della concorrenza, alla condizione che gli strumenti prescelti abbiano una dimensione macroeconomica, mentre al di sotto di tale limite gli interventi di politica economica spettano alle Regioni. Le misure adottate dal decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, rientrano, secondo la difesa erariale, in questo ambito materiale, in quanto rispondono all’esigenza di «liberalizzazione dei mercati» e di «apertura alla concorrenza».

L’Avvocatura generale rileva che quanto detto vale con specifico riferimento all’intervento statale nel settore delle professioni, nel quale la normativa impugnata è finalizzata all’apertura del mercato alla libera concorrenza e nel contempo, rispetto ad alcune prestazioni professionali, alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni.

In materia di professioni, inoltre, è riservata allo Stato la determinazione dei principi generali, allo scopo evidente di garantire l’unità dell’ordinamento giuridico, mentre alle Regioni è affidata «la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale» (sentenza n. 153 del 2006).

Le disposizioni censurate, infine, a parere della difesa erariale, non presentano i caratteri della normativa di dettaglio, come sostenuto dalle Regioni ricorrenti, in quanto si limitano a definire principi di ordine generale in materia di abolizione di tariffe minime, pattuizioni di compensi professionali, pubblicità di titoli, specializzazioni e servizio offerto anche in forma associata. Si tratterebbe, in definitiva, di statuizioni di principio che necessariamente debbono essere adottate a livello statale, a garanzia dell’unità dell’ordinamento giuridico, nell’ambito del quale alle Regioni è riservata la produzione di norme attuative e di dettaglio.

In particolare, secondo la difesa dello Stato, la regolamentazione dettata ai commi 2-bis e 3 dell’art. 2 attiene chiaramente alla disciplina del contratto d’opera professionale, o comunque interviene sulle forme negoziali di esercizio delle professioni, e quindi trova il proprio fondamento nella competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile.

Considerato in diritto

1. – La Regione Veneto e la Regione Siciliana hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), e, tra queste, dell’art. 2, nel testo originario ed in quello risultante dalle modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

2. – Riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, vengono in esame in questa sede le questioni relative all’art. 2.

I giudizi possono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza per la coincidenza dell’oggetto delle singole questioni e del parametro evocato.

3. – Preliminarmente, deve essere dichiarata l’inammissibilità delle questioni relative all’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, per violazione degli artt. 3, 114, 117, primo comma, e 120 Cost., sollevate dalla Regione Siciliana nella memoria integrativa depositata in prossimità dell’udienza pubblica. Tali censure, infatti, sono state formulate per la prima volta nella memoria sopra citata, risultando pertanto inammissibili perché tardivamente proposte (da ultimo, sentenza n. 246 del 2006).

4. – Non può essere accolta l’eccezione di inammissibilità, sollevata dall’Avvocatura dello Stato, delle questioni, promosse dalla Regione Veneto con il ric. n. 96 del 2006, riguardanti le norme del decreto-legge successivamente modificate dalla legge di conversione. Secondo la difesa erariale, la conversione del decreto in legge avrebbe determinato l’«inammissibilità sopravvenuta» delle suddette questioni o la «cessazione della materia del contendere». A prescindere dalla genericità dell’eccezione, che non indica le norme modificate e l’entità delle relative modifiche, questa Corte ritiene debbano considerarsi assorbite le censure al testo originario di un decreto-legge quando le stesse vengano rivolte alle corrispondenti disposizioni della legge di conversione, nell’ipotesi che vi sia identità testuale tra di esse (sentenza n. 417 del 2005).

Nella fattispecie, le disposizioni contenute nella legge di conversione apportano al testo originario alcune varianti stilistiche ed aggiungono allo stesso nuove determinazioni normative, che lo integrano e lo specificano, senza alterarne la sostanza prescrittiva. Ne segue che le questioni sollevate nei confronti delle norme originarie del decreto-legge si attagliano anche alle norme corrispondenti della legge di conversione.

5. – La Regione Siciliana censura le norme impugnate per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., senza fornire alcuna motivazione sull’applicabilità di tale disposizione costituzionale ad una Regione a statuto speciale come la Sicilia. Tuttavia, in considerazione dell’assenza nello statuto siciliano della materia «professioni», si deve ritenere implicita l’operatività dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che rende utilizzabile nel presente giudizio il parametro costituzionale evocato dalla ricorrente.

Si deve inoltre disattendere l’eccezione della difesa erariale circa l’inammissibilità del ricorso della Regione Siciliana, fondata sulla presunta inapplicabilità della normativa impugnata ad una Regione a statuto speciale, per effetto della clausola di salvaguardia contenuta nel comma 1-bis dell’art. 1 del decreto-legge n. 223 del 2006, introdotto dalla legge di conversione n. 248 del 2006. Tale clausola, per la sua genericità e per il suo riferirsi ad una serie eterogenea di disposizioni comprese nello stesso atto legislativo, non è idonea ad escludere il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme oggetto di impugnazione, ritenute dalla Regione ricorrente pienamente applicabili nel proprio territorio (ex plurimis, tra le più recenti, sentenze n. 179, n. 165 e n. 162 del 2007).

6. – La questione di legittimità costituzionale della lettera a) del comma 1 dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, nel testo originario ed in quello modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006, non è fondata.

6.1. – La norma sopra richiamata, nell’abrogare le disposizioni che prevedono «l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti», tende a stimolare una maggiore concorrenzialità nell’ambito delle attività libero-professionali e intellettuali, offrendo all’utente una più ampia possibilità di scelta tra le diverse offerte, maggiormente differenziate tra loro, con la nuova normativa, sia per i costi che per le modalità di determinazione dei compensi.

Essa, pertanto, attiene alla materia «tutela della concorrenza», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

6.2. – Pur se il presente giudizio concerne in modo esclusivo la presunta lesione di competenze costituzionalmente garantite delle Regioni, giova notare che la conclusione di cui al paragrafo precedente trova conferma in sede comunitaria.

Con particolare riferimento alle restrizioni alla concorrenza nel settore delle professioni, si deve, infatti, segnalare la Relazione sulla concorrenza nei servizi professionali presentata dalla Commissione il 9 febbraio 2004 [Com(2004)83]. Il 5 settembre 2005, la Commissione ha presentato il seguito della suddetta Relazione [Com(2005)405], in cui si giunge alla conclusione, tra l’altro, che gli Stati membri dovrebbero avviare un processo di revisione delle restrizioni esistenti, con riferimento sia alle tariffe fisse, sia alle limitazioni di pubblicità.

In esito a tale relazione, il Parlamento europeo, il 12 ottobre 2006, ha approvato una risoluzione con la quale, tra l’altro, si invita la Commissione ad approfondire l’analisi delle differenze esistenti – in riferimento all’apertura del mercato – tra le diverse categorie professionali di ciascuno Stato membro, e, sul presupposto che l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime e il divieto di pattuire compensi legati al risultato raggiunto potrebbero costituire un ostacolo alla qualità dei servizi e alla concorrenza, si invitano gli Stati membri ad adottare misure meno restrittive e più adeguate rispetto ai principi di non discriminazione, necessità e proporzionalità.

Con specifico riguardo alle professioni legali ed all’interesse generale al funzionamento dei sistemi giuridici, il Parlamento europeo ha adottato, il 23 marzo 2006, una risoluzione, nella quale si riconosce che «le tabelle degli onorari o altre tariffe obbligatorie» non violano gli artt. 10 e 81 del Trattato, purché la loro adozione sia giustificata dal perseguimento di un legittimo interesse pubblico.

Il medesimo orientamento emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee. Quest’ultima, nella sentenza 5 dicembre 2006 (cause riunite Cipolla C-94/2004, Capodarte e Macrino, C-202/2004), ha statuito che «il divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari, come previsto dalla legislazione italiana, può rendere più difficile l’accesso degli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana al mercato italiano dei servizi legali, ed è in grado quindi di ostacolare l’esercizio delle loro attività di prestazione di servizi in quest’ultimo Stato membro. Tale divieto si rivela pertanto una restrizione ai sensi dell’art. 49 CE».

6.3. – Una volta chiarita l’appartenenza delle norme censurate alla materia «tutela della concorrenza», diventa superfluo soffermarsi sul quesito se le stesse abbiano carattere di principio o configurino una disciplina di dettaglio. Questa Corte ha già precisato che le competenze esclusive statali, che si presentino come trasversali, «incidono naturalmente, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse possano definirsi propri, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano» (sentenza n. 80 del 2006). Anche una disposizione particolare e specifica, purché orientata alla tutela della concorrenza, si pone come legittima esplicazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in subiecta materia. Se si ritenessero legittime le norme a tutela della concorrenza – o riguardanti altra materia di potestà legislativa esclusiva – a condizione che le stesse abbiano un carattere generale o di principio, si finirebbe con il confondere il secondo e il terzo comma dell’art. 117 Cost., ispirati viceversa ad un diverso criterio sistematico di riparto delle competenze. Ciò è ancor più evidente in materie, come la «tutela della concorrenza» o la «tutela dell’ambiente», contrassegnate più che da una omogeneità degli oggetti delle diverse discipline, dalla forza unificante della loro funzionalizzazione finalistica, con i limiti oggettivi di proporzionalità ed adeguatezza, più volte indicati da questa Corte (da ultimo, sentenze n. 430 e n. 401 del 2007).

Una illegittima invasione della sfera di competenza legislativa costituzionalmente garantita alle Regioni, frutto di eventuale dilatazione oltre misura dell’interpretazione delle materie trasversali, può essere evitata non – come prospettato dalle ricorrenti – tramite la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, ma con la rigorosa verifica della effettiva funzionalità delle norme statali alla tutela della concorrenza. Quest’ultima infatti, per sua natura, non può tollerare differenziazioni territoriali, che finirebbero per limitare, o addirittura neutralizzare, gli effetti delle norme di garanzia.

Come si è visto prima, le due norme di cui alla lettera a) del comma 1 dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006 possono essere entrambe ricondotte alla materia in questione e quindi sono esenti dalle censure avanzate dalle ricorrenti.

7. – La questione relativa alla lettera b) del comma 1 dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, nel testo originario ed in quello sostituito dalla legge di conversione n. 248 del 2006, non è fondata.

7.1. – Anche la possibilità di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché i costi complessivi delle prestazioni, garantisce e promuove la concorrenza, purché, a tutela degli utenti – come precisato dalla norma impugnata – il messaggio pubblicitario sia caratterizzato da trasparenza e veridicità, controllate dall’ordine professionale.

Posto quanto sopra, valgono le medesime considerazioni svolte nel paragrafo 6.3, che sorreggono la dichiarazione di infondatezza della questione concernente la norma di cui alla lettera a) dello stesso comma 1, sotto il profilo del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.

8. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto-legge n. 223 del 2006, nel testo originario ed in quello sostituito dalla legge di conversione n. 248 del 2006, non è fondata.

8.1. – La possibilità di creare società di persone o associazioni tra professionisti, volte a fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare, aumenta e diversifica l’offerta sul mercato e consente una maggiore possibilità di scelta a chi ha necessità di avvalersi congiuntamente di determinate prestazioni professionali, anche se eterogenee, indirizzate a realizzare interessi convergenti o connessi. Pertanto, le norme in esame sono riconducibili alla materia «tutela della concorrenza», con le conseguenze di ordine giuridico che sono state in precedenza illustrate. Anche tale norma è quindi esente da censure di legittimità costituzionale sotto il profilo del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.

9. – La questione di legittimità costituzionale del comma 2-bis dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, inserito dalla legge di conversione n. 248 del 2006, non è fondata.

9.1. – La norma ora citata modifica il terzo comma dell’art. 2233 del codice civile, prescrivendo, a pena di nullità, che siano redatti in forma scritta i patti, conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti, che stabiliscono i compensi professionali.

Si tratta, con tutta evidenza, di una norma che attiene al contratto di prestazione d’opera professionale degli avvocati, rientrante come tale nella materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

10. – La questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, rimasto invariato a seguito della conversione in legge, non è fondata.

Il suddetto comma 3 prevede l’adeguamento delle disposizioni deontologiche e dei codici di autodisciplina a quanto stabilito dal comma 1 dello stesso art. 2 e, in caso di mancato adeguamento, la nullità delle norme in contrasto con lo stesso comma 1. La norma di cui al comma 3 si presenta, dunque, come strettamente consequenziale a quelle di cui al comma 1, per le quali si è ritenuto che le relative questioni non siano fondate, in quanto incidenti su un ambito materiale di competenza esclusiva dello Stato (la «tutela della concorrenza»). Deve, pertanto, ritenersi che valgano le medesime considerazioni svolte a sostegno della dichiarazione di infondatezza delle altre questioni concernenti l’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006 sotto il profilo del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione sulle impugnazioni delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, promosse dalla Regione Veneto e dalla Regione Siciliana con i ricorsi indicati in epigrafe;

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, nel testo risultante dalle modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge n. 248 del 2006, promosse dalla Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 3, 114, 117, primo comma, e 120 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, nel testo originario ed in quello risultante dalle modifiche apportate, in sede di conversione, dalla legge n. 248 del 2006, promosse dalla Regione Veneto e dalla Regione Siciliana, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 dicembre 2007.