Sentenza n. 326 del 2008

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 326

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                         BILE        Presidente

- Giovanni Maria              FLICK         Giudice

- Francesco                     AMIRANTE          "

- Ugo                             DE SIERVO          "

- Paolo                           MADDALENA       "

- Alfio                            FINOCCHIARO     "

- Alfonso                        QUARANTA          "

- Franco                         GALLO                 "

- Luigi                            MAZZELLA          "

- Gaetano                        SILVESTRI           "

- Sabino                          CASSESE             "

- Maria Rita                    SAULLE               "

- Giuseppe                      TESAURO             "

- Paolo Maria                  NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», promossi con ricorsi della Regione Veneto (nn. 2 ricorsi), della Regione siciliana, della Regione Friuli-Venezia Giulia e della Regione Valle d'Aosta, notificati il 31 agosto, il 5, il 9 e il 10 ottobre 2006, depositati in cancelleria l'11 settembre, l'11, il 12, il 14 e il 19 ottobre 2006 ed iscritti ai nn. 96, 103, 104, 105 e 107 del registro ricorsi 2006.

    Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese;

    uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto, Giovanni Pitruzzella per la Regione siciliana, Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta e l'avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - La Regione Veneto ha sollevato, con un primo ricorso (n. 96 del 2006), questione di legittimità costituzionale, oltre che di altre norme dello stesso decreto-legge, dell'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 del la Costituzione.

    L'articolo impugnato (che reca la rubrica «Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza») impone alcuni limiti alle società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza. È stabilito, in particolare, che esse operino esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non svolgano prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, non partecipino ad altre società o enti e abbiano oggetto sociale esclusivo. L'articolo contiene anche una disciplina transitoria, che definisce i termini e le modalità della cessazione delle attività non consentite, e commina la nullità ai contratti conclusi in violazione delle nuove norme.

    Ad avviso della Regione, il legislatore statale ha inteso, con le norme impugnate, evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e assicurare la parità degli operatori, impedendo che soggetti destinatari dei cosiddetti «obblighi di servizio pubblico», solo formalmente privatizzati ma soggetti a un'influenza dominante dei pubblici poteri, possano operare, avvantaggiandosi del regime speciale di cui godono, anche sul libero mercato. Date queste finalità della disciplina statale, reputa peraltro la Regione che la norma impugnata violi la sfera di autonomia regionale poiché, facendo valere ragioni di tutela della concorrenza, comprime irragionevolmente l'autonomia legislativa e amministrativa della Regione. Con le disposizioni impugnate, secondo la ricorrente, «si è posta in essere una disciplina puntuale che non lascia alcuno spazio alla Regione per dettare una normativa che tenga conto delle necessità locali e nemmeno dei tempi di attuazione dei principi statali secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità».

    2. - Con un secondo ricorso (n. 103 del 2006), la Regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale, oltre che di altre norme dello stesso decreto-legge, dell'art. 13 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione.

    Questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo, oltre che di altre norme dello stesso decreto-legge, è stata sollevata anche dalla Regione siciliana (r. ric. n. 104 del 2006), dalla Regione Friuli-Venezia Giulia (r. ric. n. 105 del 2006) e dalla Regione Valle d'Aosta (r. ric. n. 107 del 2006).

    L'articolo impugnato (che, anche a seguito della conversione, reca la rubrica «Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza») impone alcuni limiti alle società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza. È stabilito, in particolare, che esse operino esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non svolgano prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, non partecipino - con esclusione delle società che svolgono l'attività di intermediazione finanziaria prevista dal testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 - ad altre società o enti e abbiano oggetto sociale esclusivo. L'articolo contiene anche una disciplina transitoria, che definisce i termini e le modalità della cessazione delle attività non consentite, e commina la nullità ai contratti conclusi in violazione delle nuove norme.

    3. - Il ricorso della Regione Veneto lamenta la violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione. Secondo la Regione, la legge di conversione del decreto, lungi dall'eliminare le norme lesive dell'autonomia regionale, ne ha introdotto di nuove, viziate di illegittimità costituzionale sotto i medesimi profili. Permangono, pertanto, nell'art. 13 del decreto-legge, quale risulta dopo la conversione, le stesse violazioni dell'autonomia legislativa e amministrativa della Regione e degli enti locali, fatte valere con il precedente ricorso n. 96 del 2006.

    4. - Il ricorso della Regione siciliana lamenta la violazione degli artt. 41, primo e terzo comma, e 3 Cost., sotto il duplice profilo della violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché degli artt. 14, lettera p), e 17, lettera i), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello Statuto regionale della Regione siciliana). Premette la Regione che la disposizione censurata si riferisce esclusivamente alle cosiddette «società strumentali», costituite o partecipate dalle Regioni e dagli altri enti locali per la produzione di beni e servizi a favore di tali enti e che, a norma del suddetto articolo, esse debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti e affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici e privati, neppure a seguito di gara pubblica, e non possono partecipare ad altre società o enti.

    Secondo la Regione, la norma impone alle società strumentali limitazioni territoriali che non appaiono coerenti con l'art. 41 Cost., il quale, nell'affermare il principio della libera iniziativa economica privata (primo comma), «circoscrive l'intervento dello Stato alla funzione di indirizzo e coordinamento dell'attività economica pubblica e privata a fini sociali (terzo comma)». Aggiunge la Regione che il legislatore statale, ponendo il divieto in questione per le sole società a capitale interamente pubblico o misto (pubblico-privato), costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali, le ha penalizzate rispetto alle società costituite o partecipate dallo Stato o concessionarie di pubblici servizi, e ciò in violazione, oltre che del suindicato parametro costituzionale, anche del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. e senza attenersi ad alcun criterio di proporzionalità e adeguatezza (sentenza n. 14 del 2004), essenziale a definire l'ambito di operatività della competenza legislativa statale in materia di «tutela della concorrenza». Osserva ancora la Regione che la norma statale in esame, disciplinando l'attività di enti strumentali della Regione, appare lesiva della competenza legislativa esclusiva in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti regionali», prevista dall'art. 14, lettera p), dello statuto siciliano, e, in ogni caso, di quella prevista dall'art. 17, lettera i), dello statuto per «tutte le altre materie che implicano servizi di prevalente interesse regionale».

    5. - Il ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia lamenta la violazione degli artt. 3, 41, 117 e 119 Cost., nonché dell'art. 4, comma unico, nn. 1, 1-bis, e n. 6, dell'art. 8 e art. 48 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).

    Osserva preliminarmente la Regione che la legge di conversione ha aggiunto nell'art. 1 del decreto-legge il comma 1-bis, recante una «clausola di salvaguardia» in virtù della quale «le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Pertanto, ove si dovesse ritenere che, per effetto di tale clausola, le norme impugnate non si applichino nella Regione Friuli-Venezia Giulia, verrebbero meno le doglianze da essa avanzate.

    Il ricorso della Regione è articolato in sei motivi.

    5.1. - Con il primo motivo, la Regione eccepisce che i commi 1, 2 e 4, dell'art. 13 del decreto-legge, come convertito, sono lesivi dell'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione, in quanto sottopongono ad un regime giuridico restrittivo e discriminatorio le società pubbliche o miste, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali, «senza collegare le limitazioni al godimento di una condizione di esonero dalla concorrenza grazie ad un regime di affidamento diretto».

    Ricorda innanzitutto la Regione che essa è legittimata anche a far valere l'autonomia finanziaria degli enti locali, atteso che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto sussistente in via generale una tale legittimazione in capo alle Regioni, dal momento che «la stretta connessione, in particolare [...] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (sentenza n. 417 del 2005).

    La Regione osserva poi che le severe restrizioni imposte alle società contemplate si collegano «non a particolari condizioni di favore nelle quali le società in argomento svolgano la loro attività, ma alla stessa struttura soggettiva ed all'oggetto di tali società». Ad avviso della Regione, se per «società costituite o partecipate per la produzione di beni e servizi strumentali» si dovessero intendere le «società che svolgono tali servizi in regime di affidamento diretto», le restrizioni si collegherebbero alla condizione di affidamento privilegiato i n cui esse si trovano: «ed è ovvio che, se così fosse, basterebbe uscire da tale condizione per ritornare al regime generale delle società, senza restrizione alcuna». Questa interpretazione, prosegue la Regione, sarebbe senz'altro coerente con la finalità dichiarata della norma di «evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori». Tale interpretazione non è consentita, tuttavia, dalla formulazione letterale della norma, la quale, nel restringere la capacità contrattuale anche di società che non godono di alcun privilegio di affidamento diretto, viola in modo diretto le competenze statutarie della Regione, in quanto incide su materie regionali (cioè sull'organizzazione della Regione e degli enti locali e sull'industria e commercio: art. 4, nn. 1, 1-bis e 6, dello statuto; art. 117, quarto comma, Cost., in relazione all'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, dato che l'organizzazione regionale e l'industria e commercio ricadono nella competenza piena delle Regioni ordinarie) e interferisce con l'autonomia amministrativa (cui è funzionale quella organizzativa) e finanziaria della Regione e degli enti locali (artt. 8 e 48 e seguenti dello statuto).

    Le norme impugnate, secondo la ricorrente, violano inoltre: il principio di uguaglianza di cui all'art. 3, primo comma, Cost., dato che vengono trattate in modo diseguale situazioni uguali, nonché i principi di ragionevolezza e proporzionalità; l'art. 41 Cost., in quanto esse precludono l'esercizio del diritto di libera iniziativa economica, il quale, a condizione che non si alteri la concorrenza, vale ugualmente per i soggetti pubblici e privati (e comunque sarebbe leso il diritto di iniziativa dei privati nelle società miste); «il principio di ragionevolezza e di proporzionalità», in quanto le norme impugnate «pongono drastiche limitazioni di capacità dove basterebbe un limite connesso all'eventuale affidamento diretto dei compiti strumentali».

    5.2. - Con un secondo motivo di ricorso, la Regione prospetta l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, in quanto lesivo dell'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione, laddove sottopone le società pubbliche o miste, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali, «ad un regime giuridico restrittivo e discriminatorio, rispetto alle altre società ed alle stesse società pubbliche o miste partecipate dallo Stato o da amministrazioni nazionali». Si tratta, secondo la Regione, di una ragione di illegittimità che, al contrario della precedente, non può essere superata da un'interpretazione adeguatrice. Invero, le disposizioni impugnate discriminano, rendendola deteriore, la condizione giuridica delle società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali rispetto alle società che, per scopi del tutto simili, sono costituite o partecipate dallo Stato o da altri enti pubblici nazionali.

    Argomenta la ricorrente che non solo le Regioni e gli enti locali, ma anche lo Stato ed enti pubblici nazionali hanno costituito società pubbliche o miste per l'esercizio di funzioni strumentali. Se pure nel merito fosse giustificata una disciplina restrittiva della capacità contrattuale di determinati tipi di società a partecipazione pubblica, non lo sarebbe una restrizione della capacità contrattuale ed operativa delle sole società costituite o partecipate dalle Regioni e dagli enti locali, «che vengono poste in una condizione di vera e propria minorità giuridica». Onde è evidente, prosegue la Regione, che la discriminazione così posta «contraddice il principio di uguaglianza e costituisce un abuso della stessa potestà legislativa statale in materia di ordinamento civilistico delle società: potestà che viene [.] esercitata non per porre una disciplina generale del fenomeno delle società a partecipazione pubblica, ma esclusivamente in danno delle società regionali e locali».

    5.3. - Un terzo motivo di ricorso è incentrato sull'illegittimità costituzionale dell'art. 13, commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, in quanto lesivo dell'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione nella parte in cui vieta «indiscriminatamente alle società pubbliche o miste, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali, di "operare" per soggetti diversi dagli enti costituenti, partecipanti o affidanti, di svolgere "prestazioni" a favore di altri soggetti pubblici o privati, nonché di partecipare ad altre società o enti».

    Con riguardo al divieto di partecipare ad altre società o enti, la Regione fa rilevare che le società regionali, al pari delle società statali, operano talora attraverso altre società, il cui capitale sociale è posseduto dalle prime al cento per cento, quindi le misure contestate priverebbero irragionevolmente le società in questione di ogni flessibilità operativa e, per quanto riguarda la partecipazione ad enti, di ogni capacità di collegamento con la stessa realtà di cui debbono occuparsi. Un discorso analogo riguarda, secondo la Regione, il limite r elativo all'«operare» solo con gli enti costituenti, partecipanti o affidanti e alle «prestazioni», escluse in relazione ad «altri soggetti pubblici o privati», che si risolverebbe nella violazione, oltre che dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, del principio di certezza del diritto.

    5.4. - Uno specifico motivo riguarda l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 3, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, che impone termini per cessare le attività non consentite e sanzioni per il mancato rispetto dei divieti. Secondo la Regione, tali disposizioni sarebbero costituzionalmente illegittime, in primo luogo, in quanto presuppongono e completano l'illegittima disciplina sopra censurata.

    In secondo luogo, il terzo periodo, che stabilisce l'inefficacia dei contratti relativi ad attività non cedute o scorporate, sarebbe illegittimo sotto il profilo della contraddittorietà e della irragionevolezza, in relazione a quanto disposto dai due periodi precedenti. Osserva la ricorrente che le società in questione possono «transitoriamente» - per dodici mesi - continuare a svolgere le loro attività; che a tali dodici mesi seguono, in base al secondo periodo, altri diciotto mesi, durante i quali le «attività non consentite» possono essere cedute a terzi o scorporate in una diversa società da cedere sul mercato. Senonché, prosegue la difesa della Regione, quel che dispone il terzo periodo - cioè la cessazione degli effetti dei contratti relativi alle attività non cedute o scorporate nel «termine indicato nel primo periodo» (cioè alla scadenza dei primi dodici mesi) - è del tutto assurdo, poiché le attività cedute o scorporate e, corrispondentemente, quelle non cedute o scorporate, risulteranno soltanto alla fine del periodo di diciotto mesi che le Regioni e gli enti locali hanno a disposizione per provvedere alla cessione o allo scorporo. La norma, dunque, sarebbe, prima ancora che costituzionalmente illegittima, di impossibile applicazione, se non «retroattivamente».

    5.5. - Un altro profilo di illegittimità costituzionale investirebbe il secondo periodo del comma 3, ove «la facoltà data alle società strumentali di cedere le attività a terzi o di scorporarle costituendo una società da collocare sul mercato dovesse intendersi come preclusiva della possibilità di cedere o scorporare tali attività in favore di altra società regionale o locale, da costituire o esistente, che operi esclusivamente sul mercato, e non rientri nel campo di applicazione dell'art. 1 3». In effetti, osserva la Regione, «l'obbligo di cedere a terzi, o sul mercato (che è composto anch'esso, ovviamente, di «terzi») beni e patrimoni che, attraverso la società, costituiscono risorse economiche e nel caso imprenditoriali delle comunità locali ne viola l'autonomia finanziaria, in contraddizione aperta con l'art. 119 Cost. e con l'art. 48 e seguenti dello statuto regionale e realizza una sorta di esproprio di attività economiche, del tutto privo di fondamento costituzionale e del tutto privo di connessioni con l'obbiettivo di tutelare la concorrenza».

    5.6. - Un ulteriore, autonomo profilo di irragionevolezza dell'art. 13, comma 4, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, per le stesse ragioni di cui al punto precedente, emerge, secondo la Regione, in quanto si ritenga che la nullità dei contratti stipulati in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 colpisce tutti i contratti stipulati dalle società di cui al comma 1 che, al momento del contratto, conservino partecipazioni in altre società o enti. Osserva al riguardo la Regione che le partecipazioni non costituiscono «attività» e non rientrano, dunque, nel campo di applicazione del comma 3 e delle scadenze temporali ivi previste. Le partecipazioni sono, infatti, in primo luogo elementi patrimoniali, la cui cessione potrebbe essere facile o difficile, o anche giuridicamente impossibile ove non si trovasse alcun soggetto disposto ad acquistarle. D'altronde, una cosa è la nullità di contratti che direttamente si riferiscano ad attività vietate (ferme restando le censure sopra esposte su tali divieti e sulla loro formulazione); tutt'altra cosa sarebbe la nullità di contratti che si riferiscono ad attività consentite, e che nessun rapporto hanno con le ipotizzate partecipazioni in società o enti.

    6. - Il ricorso della Regione Valle d'Aosta lamenta la violazione degli artt. 3 e 117 Cost., nonché dell'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto della Regione Valle d'Aosta di cui alla legge costituzionale 26 gennaio 1948, n. 4 (Statuto regionale per la Valle d'Aosta).

    Osserva preliminarmente la Regione che, in virtù della «clausola di salvaguardia», contenuta nell'art. 1, comma 1-bis del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, questo si applica alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano «in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Tuttavia, il tenore letterale delle disposizioni impugnate non consente di escludere con certezza la loro efficacia nei riguardi delle Regioni ad autonomia speciale, trattandosi di prescrizioni che, se riferite anche alla Regione Valle d'Aosta, presentano molteplici profili di illegittimità costituzionale. Pertanto, l a possibilità che esse vadano interpretate in senso lesivo delle attribuzioni della Regione induce a farle oggetto di impugnazione, sulla scorta della giurisprudenza della Corte, per cui il giudizio in via principale può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni non implausibili prospettate dal ricorrente (sentenza n. 412 del 2004).

    6.1. - Con il primo motivo di ricorso, la Regione eccepisce la violazione del principio costituzionale di ragionevolezza, sub specie di vizio di irrazionalità, nonché dell'art. 117, secondo e quarto comma, Cost., e dell'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto speciale per la Valle d'Aosta.

    Secondo la Regione, «per quanto l'intervento normativo dichiari di voler perseguire la tutela della concorrenza, in realtà esso, lungi dal rimuovere elementi distorsivi del mercato o dal promuovere un ampliamento delle possibilità di accesso degli attori che vi operano, determina il ben diverso effetto di escludere dal mercato stesso una categoria di soggetti», vale a dire proprio «le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali», con i requisiti dianzi riferiti. L'effetto di limitazione della concorrenza sarebbe fatto palese, in particolare, dalla previsione in base alla quale le societagra ve; di cui s'è detto non possono svolgere prestazioni a favore di soggetti diversi dagli enti costituenti, partecipanti o affidanti, neppure a seguito dell'espletamento di una gara. Sostiene la Regione che, «poiché sono proprio le procedure di gara ad assicurare per eccellenza, e anzi ad esaltare la concorrenza tra i diversi operatori economici presenti sul mercato, l'esclusione della possibilità di competere a danno di taluno di essi - per giunta, per il mero fatto di essere costituiti o partecipati non da qualsivoglia ente pubblico, ma soltanto da enti regionali e locali - determina esattamente una forma di quella alterazione e distorsione della concorrenza e del mercato che la norma impugnata manifesta di voler evitare». Del resto, prosegue la Regione, a smentire qualunque relazione fra le disposizioni impugnate e presunte attuazioni di obblighi comunitari, è sufficiente rilevare come neppure la giurisprudenza comunitaria in tema di in house providing, particolarmente solerte nella garanzia della concorrenza, abbia mai richiesto che società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali «per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti» o «per lo svolgimento di funzioni amministrative di loro competenza», operino esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti. Né si comprende, secondo la Regione, come possa ragionevolmente perseguirsi la tutela della concorrenza imponendo i riferiti divieti esclusivamente alle società costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali, senza estendere le medesime proibizioni alle analoghe società costituite o partecipate dalle amministrazioni statali.

    Data, dunque, la palese contraddittorietà tra il fine che l'art. 13 del decreto legge n. 223 del 2006 si propone di perseguire (la tutela della concorrenza) ed i risultati cui esso approda, la norma impugnata viene ad incidere sine titulo in un ambito di competenza normativa che risulta assegnato alla Regione Valle d'Aosta sia dalle previsioni di cui all'art. 2, comma 1, lettera a) e b), dello statuto speciale (che rimettono alla potestà legislativa regionale, rispettivamente, le materie «ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale» e «ordinamento de gli enti locali e delle relative circoscrizioni»), sia dal combinato disposto dei commi secondo e quarto dell'art. 117 Cost., a norma dei quali spetta alla potestà legislativa statale soltanto la disciplina dell'«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato».

    6.2. - Un secondo motivo di ricorso assume che le norme recate dall'art. 13 del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, violino i principi di proporzionalità e di leale collaborazione e, ancora, l'art. 117, secondo e quarto comma, Cost. e l'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto speciale della Regione Valle d'Aosta.

    Osserva la Regione che la legislazione statale, che invada gli ambiti di materia di pertinenza delle Regioni fondando il suo intervento sull'esigenza di porre norme in una delle materie - quale la tutela della concorrenza - finalistiche o trasversali, deve comunque rispettare requisiti ineludibili, ulteriori rispetto a quello della sua razionalità. Essa, per potersi dire legittima, deve essere «giustificata» e «proporzionata» rispetto all'obiettivo perseguito (sentenze n. 214 del 2006, n. 175 del 2005 e nn. 272 e 14 del 2004). Inoltre, la Corte ha precisato (a partire dalla sentenza n. 407 del 2002) che l'esercizio della potestà legislativa statale in una materia «finalistica» è subordinato all'esigenza di curare un interesse «unitario e infrazionabile».

    Secondo la ricorrente, l'invasione operata dalle norme contestate risulta del tutto sproporzionata rispetto alle modalità attraverso cui viene perseguita la finalità di tutela della concorrenza. La normativa statale censurata, infatti, sacrifica integralmente la competenza regionale a legiferare sulle società costituite o partecipate dalla Regione o dagli enti locali, non lasciando alcuno spazio per l'intervento regolativo della Regione. La violazione del principio di proporzionalità deriverebbe anche da quella del principio di leale collaborazione: a fronte della compressione della competenza normativa in ambiti di loro spettanza, l'intervento legislativo statale non è stato preceduto da meccanismi e procedi menti che mettessero le Regioni in condizione di svolgere qualche forma di partecipazione e di offrire il loro contributo all'elaborazione della disciplina statale. Ciò vale tanto più, secondo la ricorrente, con riferimento alle Regioni ad autonomia speciale.

    La Regione osserva poi che, a fronte del sacrificio integrale della competenza regionale, tanto poco era pressante l'«interesse unitario e infrazionabile» che il legislatore statale ha omesso di estendere i divieti previsti nell'art. 13 alle società costituite o partecipate dalle amministrazioni statali. Se davvero si fosse inteso perseguire un interesse unitario, secondo la ricorrente, i rigidi criteri di esclusione avrebbero dovuto trovare applicazione innanzitutto nei confronti delle società in cui sono coinvolte le amministrazioni dello Stato, dal momento che è proprio lo Stato l'ente territoriale che rappresenta la massima istanza unitaria.

    7. - In tutti i giudizi si è costituita, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato. Essa rileva, preliminarmente, che la legge di conversione n. 248 del 2006 del d.l. n. 223 del 2006 ha introdotto una serie di modifiche ad alcune disposizioni del decreto impugnate con il primo ricorso della Regione Veneto (retro, sub 1). Donde, con riguardo a tali disposizioni, la configurabilità di un'ipotesi di inammissibilità sopravvenuta o di cessazione della materia del contendere.

    Nel merito di tutti i ricorsi, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che le disposizioni impugnate dalle Regioni sono finalizzate a garantire l'esercizio della libera concorrenza, talché esse rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» (art. 117, comma secondo, lettera e, Cost.). Inoltre, la natura «trasversale» di tale competenza comporta la legittimità dell'intervento del legislatore statale anche su ambiti materiali astrattamente rientranti nella competenza legislativa regionale, sia concorrente sia residuale.

    Quanto alla censura delle Regioni circa il carattere puntuale e di dettaglio della disciplina contenuta nell'art. 13, l'Avvocatura generale dello Stato rileva che la disciplina contenuta nella norma impugnata attiene essenzialmente alla materia dell'ordinamento civile, pur essa rientrante nella competenza esclusiva del legislatore statale (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.), «siccome attinente all'attività negoziale di società operanti in regime privatistico». Per la stessa ragione, sarebbero infondate, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, le censure delle Regioni in ordine alla disposizione che prevede la nullità dei contratti conclusi in violazione della disciplina recata dall'art. 13.

    Quanto al ricorso della Regione siciliana, l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce: la genericità e, quindi, l'inammissibilità della censura circa il mancato rispetto dei criteri di proporzionalità e adeguatezza; la conformità delle disposizioni impugnate ai principi comunitari in materia di appalti in house e di aiuti di Stato; l'insussistenza della violazione della competenza legislativa esclusiva della Regione in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti regionali», nonché di «servizi di prevalente interesse regionale» (artt. 14, lettera p, e 17, lettera i, dello stat utosiciliano); l'inammissibilità delle censure attinenti alla pretesa violazione dell'art. 3, sotto il profilo del principio di uguaglianza, e dell'art. 41 Cost., attesa la costante giurisprudenza della Corte, sia anteriore alla legge costituzionale n. 3 del 2001 (sentenze nn. 373 e 126 del 1997 e n. 29 del 1995), sia posteriore (sentenza n. 274 del 2003), per cui «le Regioni sono legittimate a denunciare la violazione di norme costituzionali, non relative al riparto di competenze con lo Stato, solo quando tale violazione comporti un'incisione, diretta o indiretta, delle competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni stesse»; incisione che, all'evidenza, nel caso di specie non ricorrerebbe affatto.

    Quanto al ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia, l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce: l'infondatezza delle censure fondate sulla supposta violazione della competenza legislativa regionale, esclusiva o concorrente, in materia di organizzazione della Regione e degli enti locali, di industria e di commercio; l'infondatezza o l'inammissibilità delle censure che la Regione muove alla norma statale con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 41 Cost., nonché ai principi di ragionevolezza, proporzionalità, tutela dell'affidamento e buona fede; l'inammissibilità della censura relativa all'art. 13, comma 3, secondo periodo, del decreto-legge con vertito, poiché la ricorrente, nel ritenere illegittima la facoltà delle società strumentali di cedere o scorporare le attività, fonda la censura sulla mera ipotesi interpretativa che tale previsione sia preclusiva della possibilità di cedere o scorporare tali attività in favore di altra società regionale o locale, operante esclusivamente sul mercato, senza prendere posizione sulla esattezza o meno di tale interpretazione.

    8. - In prossimità dell'udienza, le Regioni ricorrenti hanno depositato memorie insistendo sui motivi del ricorso. L'Avvocatura generale dello Stato ha, a sua volta, depositato una memoria unica, ribadendo le precedenti argomentazioni.

Considerato in diritto

    1. - La Regione Veneto ha promosso numerose questioni di legittimità costituzionale in via principale del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale) e, tra queste, dell'art. 13 del testo originario del decreto, per violazione degli artt. 3, 97, 11 4, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione.

    Le Regioni Veneto, siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, con quattro distinti ricorsi, hanno promosso numerose questioni di legittimità costituzionale in via principale del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), e, tra queste, dell'art. 13, per violazione dei seguenti parametri costituzionali: art. 3 (tutte le ricorrenti), art. 41 (Regione siciliana e Regione Friuli-Venezia Giulia), art. 97 (Regione Veneto), art. 114 (Regione Veneto), art. 117 (Regione Veneto, Regione Friuli-Venezia Giulia, Regione Valle d'Aosta), art. 118 (Regione Veneto), art. 119 (Regione Veneto e Regione Friuli-Venezia Giulia) e art. 120 (Regione Veneto) della Costituzione, artt. 14, lettera p), e 17, lettera i), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello Statuto regionale della Regione siciliana) (Regione siciliana), artt. 4, n. 1, n. 1-bis e n. 6, 8 e 48 e seguenti della legg e costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) (Regione Friuli-Venezia Giulia), art. 2, primo comma, lettere a) e b), della legge costituzionale 26 gennaio 1948, n. 4 (Statuto regionale per la Valle d'Aosta) (Valle d'Aosta).

    L'articolo censurato impone alcune limitazioni alle società partecipate da Regioni ed enti locali per lo svolgimento di funzioni amministrative o attività strumentali alle stesse.

    A norma del comma 1, al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società a capitale interamente pubblico o misto - costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza - devono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti

    A norma del comma 2, le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1.

    Il comma 3 detta una disciplina transitoria, per la cessazione delle attività non consentite.

    Il comma 4 dispone per i contratti conclusi dopo l'entrata in vigore del decreto-legge, prevedendo la nullità dei contratti conclusi in violazione dei commi 1 e 2.

    2. - Riservata a separate pronunce la decisione sulle altre disposizioni contenute nel decreto-legge n. 223 del 2006, sia nel testo originario sia in quello risultante dalle modifiche apportate in sede di conversione dalla legge n. 246 del 2006, vengono all'esame della presente pronuncia le questioni relative all'art. 13.

    3. - I ricorsi pongono questioni analoghe; deve, quindi, essere disposta la riunione dei relativi giudizi ai fini di una trattazione unitaria e di un'unica decisione.

    4. - Non sono ammissibili le questioni sollevate con riferimento agli artt. 114, 118, 119 e 120 Cost., perché non autonomamente argomentate, quindi generiche.

    5. - Non sono ammissibili neanche le questioni sollevate con riferimento ai soli artt. 3 e 41 Cost. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, anche successiva alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), non sono ammissibili le censure prospettate dalle Regioni rispetto a parametri costituzionali diversi dalle norme che operano il riparto di competenze con lo Stato, qualora queste non si risolvano in lesioni delle competenze regionali stabilite dalla Costituzione (sentenze n. 190 del 2008 e, con particolare riferimento all'art. 41 Cost., n. 272 del 2005).

    6. - Le censure sollevate dalla Regione Veneto con il ricorso n. 96 del 2006, proposto prima della conversione del decreto-legge, devono intendersi assorbite in quelle, di identico tenore, sollevate con il ricorso n. 103 del 2006.

    7. - Successivamente alla proposizione dei ricorsi, i commi 3 e 4 dell'articolo impugnato sono stati modificati dall'art. 1, comma 720, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Le relative modifiche, pur incidendo sui termini di alcune delle censure formulate dalle ricorrenti, non sono tali da determinare la cessazione della materia del contendere.

    8. - Le ulteriori questioni, sollevate dalle Regioni in ordine ad altri parametri costituzionali, non sono fondate.

    8.1. - Dette questioni riguardano la lesione, da parte delle disposizioni impugnate, della potestà legislativa regionale in materia di organizzazione degli uffici regionali e degli enti locali, fondata sull'art. 117 Cost. e, per quanto riguarda le Regioni siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, sulle norme degli statuti speciali (artt. 14, lettera p) e 17, lettera i), del regio decreto legislativo n. 455 del 1946; artt. 4, n. 1, n. 1-bis e n. 6, 8 e 48 e seguenti, della legge costituzionale n. 1 del 1963; art. 2, comma 1, lettere a) e b), della legge costituzionale n. 4 del 1948).

    Il parametro costituzionale e le norme statutarie comprendono l'organizzazione dei servizi regionali e i rapporti tra le Regioni e le società, attraverso le quali le Regioni stesse svolgono le loro funzioni. A norma dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, le disposizioni della stessa legge costituzionale, che prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite, si applicano anche alle Regioni a statuto speciale. Ora, mentre la potestà legislativa regionale disciplinata dall'art. 117, quarto comma, è sottoposta solo ai limiti dettati dal primo comma dello stesso articolo, la potestà legislativa delle Regioni a statuto speciale in materia di organizzazione delle società dipendenti, esercenti l'industria o i servizi, deve sottostare agli ulteriori e più severi limiti derivanti dagli artt. 14 e 17 dello statuto della Regione siciliana (rispettivamente, riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente e principi e interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato), dall'art. 4 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia (principi generali dell'ordinamento giuridico della Repubblica, norme fondamentali delle riforme economico-sociali, interessi nazionali e delle altre regioni) e dall'art. 2 dello statuto della Regione Valle d'Aosta (principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica, interessi nazionali, norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica).

    Di conseguenza, si può fare esclusivo riferimento all'art. 117 Cost., in quanto la potestà legislativa da esso conferita assicura una autonomia più ampia di quella prevista dagli statuti speciali. La questione può dunque essere affrontata in termini unitari.

    8.2. - Va premesso che non è idonea a escludere un'eventuale lesione della potestà legislativa regionale la previsione contenuta nell'art. 1, comma 1-bis, del decreto-legge n. 223, in base alla quale «le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Secondo la giurisprudenza di questa Corte, simili clausole, formulate in termini generici, non hanno l'effetto di escludere una lesione della potestà legislativa regionale (sentenze nn. 165 e 162 del 2007 e nn. 234, 118 e 88 del 2006).

    8.3. - Le disposizioni impugnate definiscono il proprio ambito di applicazione non secondo il titolo giuridico in base al quale le società operano, ma in relazione all'oggetto sociale di queste ultime. Tali disposizioni sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza.

    Le disposizioni impugnate mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza.

    Ciò premesso, occorre valutare sia l'oggetto della disciplina, sia la sua finalità.

    8.4. - Dal primo punto di vista, le disposizioni in esame riguardano l'attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali. Si tratta di un oggetto che può rientrare nella materia dell'organizzazione amministrativa, di competenza legislativa regionale, o, al pari delle previsioni in materia di contratti, pure contenute nell'articolo impugnato, nella materia dell'«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato.

    L'ambito di tale ultima materia è stato precisato da questa Corte. Essa ha affermato che la potestà legislativa dello Stato comprende gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un'esigenza di uniformità a livello nazionale; che essa non è esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche; che essa comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato; che in essa sono inclusi istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica (sentenze nn. 159 e 51 del 2008, nn. 438 e 401 del 2007 e n. 29 del 2006).

    La disciplina censurata non rientra nella materia dell'organizzazione amministrativa perché non è rivolta a regolare una forma di svolgimento dell'attività amministrativa. Essa rientra, invece, nella materia - definita prevalentemente in base all'oggetto - «ordinamento civile», perché mira a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private.

    8.5. - Dal secondo punto di vista, le disposizioni impugnate hanno il dichiarato scopo di tutelare la concorrenza.

    Questa Corte ha così delimitato la «tutela della concorrenza»: la titolarità della relativa potestà legislativa consente allo Stato di adottare misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e misure di liberalizzazione dei mercati stessi; queste misure possono anche essere volte a evitare che un operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati; l'intervento statale può consistere nell'emanazione di una disciplina analitica, la quale può influire su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni; spetta alla Corte effettuare un rigoroso scrutinio delle relative norme statali, volto ad accertare se l'intervento normativo sia coerente con i principi della concorrenza, e se esso sia proporzionato rispetto a questo fine (sentenze nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38 del 2007).

    L'obiettivo delle disposizioni impugnate è quello di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali. Dunque, la disciplina delle società con partecipazione pubblica dettata dalla norma statale è rivolta ad impedire che dette società costituiscano fattori di distorsione della concorrenza. Essa rientra, quindi, nella materia - definita prevalentemente in base al fine - della «tutela della concorrenza».

    8.6. - Si può riassuntivamente affermare che le disposizioni impugnate sono riconducibili alla competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile, in quanto volte a definire i confini tra l'attività amministrativa e l'attività d'impresa, soggetta alle regole del mercato, e alla competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, in quanto volte a eliminare distorsioni della concorrenza stessa.

    8.7. - Ai fini della riconducibilità della disciplina contestata alla tutela della concorrenza, resta da valutare, indipendentemente da valutazioni di merito sul suo contenuto, la proporzionalità di tale disciplina e, quindi, la sua idoneità a perseguire finalità inerenti alla tutela della concorrenza (sentenze nn. 452 e 401 del 2007). Questo scrutinio va operato distintamente per le varie previsioni dell'articolo impugnato.

    Vengono in considerazione, in primo luogo, quelle che impediscono alle società in questione di operare per soggetti diversi dagli enti territoriali soci o affidanti, imponendo di fatto una separazione societaria, e obbligandole ad avere un oggetto sociale esclusivo. Esse mirano ad assicurare la parità nella competizione, che potrebbe essere alterata dall'accesso di soggetti con posizioni di privilegio in determinati mercati. Da questo punto di vista, esse non appaiono irragionevoli, né sproporzionate rispetto alle esigenze indicate.

    Va valutato, in secondo luogo, il divieto di detenere partecipazioni in altre società o enti. Esso è complementare rispetto alle altre disposizioni considerate. É volto, infatti, a evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse. La disposizione impugnata vieta loro non di detenere qualsiasi partecipazione o di aderire a qualsiasi ente, ma solo di detenere partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse. Intesa in questi termini, la norma appare  proporzionata rispetto al fine di tutela della concorrenza.

    Infine, le ulteriori disposizioni, che dettano una disciplina transitoria e dispongono in ordine ai contratti conclusi successivamente all'entrata in vigore del decreto-legge, costituiscono sanzione e complemento delle disposizioni finora considerate e, a loro volta, regolano non irragionevolmente la fase di adeguamento alla nuova disciplina da parte delle società destinatarie di essa.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

    1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», convertito, c on modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevata dalle Regioni Veneto, siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con i ricorsi in epigrafe;

    2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa norma sollevata dalle Regioni siciliana e Friuli-Venezia Giulia, in riferimento all'art. 41 Cost., con i ricorsi in epigrafe;

    3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa norma sollevata dalle Regioni Veneto e Friuli-Venezia Gi ulia, in riferimento all'art. 119 Cost., con i ricorsi in epigrafe;

    4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa norma sollevata dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 114, 118 e 120 Cost., con i ricorsi in epigrafe;

    5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, sollevata dalle Regioni Veneto, siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, con i ricorsi in epigrafe, con riferimento all'art. 117 Cost.; agli artt. 14, lettera p), e 17, lettera i), dello statuto della Regione siciliana; agli artt. 4, n. 1, n. 1-bis e n. 6, 8 e 48 e seguenti dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia; e all'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto della Regione Valle d'Aosta.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008.