SENTENZA N. 57
ANNO 2013
Commenti alla decisione di
I. Guglielmo Leo, Illegittima
la previsione della custodia "obbligatoria” in carcere per i reati di contesto
mafioso (ma non per le condotte di partecipazione o concorso nell’associazione
di tipo mafioso), per g.c. della Rivista
telematica Diritto penale
contemporaneo)
II. Silvia Paladino , Reati
di mafia e presunzione di necessità della custodia cautelare in carcere. Gli
orientamenti della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 25-29/3/2013,
n. 57, per g.c. della Rivista telematica Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Gaetano SILVESTRI Giudice
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
-
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato
dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché
in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23
aprile 2009, n. 38, promossi dal Tribunale di Lecce con ordinanze del 16 maggio
e del 7 giugno 2012 e dalla Corte di cassazione con due ordinanze del 10
settembre 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 131,
175, 269 e 270 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 27, 36 e 48, prima
serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di P.A.C., di L.M., nonché
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 12 febbraio 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati
Ladislao Massari per P.A.C., Giuliano Dominici e Fabio Calderone per L.M. e
l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 16 maggio 2012 (r.o.
n. 131 del 2012), il Tribunale di Lecce, sezione riesame, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice
di procedura penale nella parte in cui, prescrivendo che «quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle
condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. è applicata la misura cautelare della
custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che
non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Il rimettente riferisce di essere investito degli
appelli presentati dal pubblico ministero e dalla difesa avverso l’ordinanza
del 6 dicembre 2012 con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Lecce aveva disposto la sostituzione con gli arresti domiciliari
della custodia cautelare in carcere applicata all’imputato, già condannato con
rito abbreviato per un episodio di estorsione con l’aggravante dell’art. 7 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta
alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività
amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n.
203.
Il pubblico ministero ha impugnato l’ordinanza
lamentando la violazione del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., in forza del quale, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater,
cod. proc. pen., è applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari.
Anche la difesa ha impugnato l’ordinanza deducendo
il ruolo marginale rivestito dall’imputato in un unico episodio di estorsione
risalente nel tempo e l’ingiustificata sperequazione rispetto al trattamento
riservato ad altri coimputati. Nell’ipotesi di accoglimento dell’appello del
pubblico ministero, la difesa, con un’articolata serie di considerazioni, ha
eccepito l’illegittimità costituzionale della presunzione di adeguatezza posta
dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. La norma
censurata costituirebbe irragionevole esercizio della discrezionalità del
legislatore, violando gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.: verrebbe, infatti, sottratto al giudice il potere di
adeguare la misura al caso concreto, sicché, in violazione del principio di
uguaglianza, la norma si risolverebbe nell’«appiattire» situazioni
oggettivamente e soggettivamente diverse, con una uguale risposta cautelare.
Inoltre, dalla lettura combinata degli artt. 13 e 27 Cost. emergerebbe
l’esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative
della libertà personale, attribuendo alla custodia in carcere il connotato del
rimedio estremo, laddove la norma censurata stabilirebbe un automatismo
applicativo tale da rendere inoperanti i criteri di proporzionalità e di
adeguatezza.
Posto che l’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991
prevede due articolazioni della circostanza aggravante, quella del "metodo
mafioso” e quella dell’"agevolazione mafiosa”, per la prima verrebbe in
evidenza il carattere di preponderante autonomia rispetto al reato associativo mafioso:
il ricorso al metodo mafioso potrebbe essere addebitato tanto come generale
connotato di struttura del reato associativo e/o dei suoi delitti-scopo, quanto
come concreta modalità di esecuzione di taluno dei delitti previsti dalla legge
penale che nulla condividono con il fenomeno associativo mafioso; soggetti
attivi dei delitti aggravati dal metodo mafioso potrebbero essere tanto gli intranei, quanto gli estranei al sodalizio mafioso.
Richiamati alcuni orientamenti dottrinali e
l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’aggravante in
esame prescinde di per sé dall’appartenenza all’associazione criminale, la cui
compresenza resta comunque con essa compatibile, la difesa ha osservato ancora
che, al di là della coincidenza letterale, l’elemento costitutivo previsto
dall’art. 416-bis cod. pen. e la circostanza
aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 si collocherebbero in
ordini di grandezza incommensurabili, tali da imporne una ricostruzione in
termini di reciproca autonomia. Mentre la previsione legale di una presunzione iuris et de iure di adeguatezza della custodia carceraria
per i delitti aggravati dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa e
per quelli aggravati dal metodo mafioso commessi dagli intranei
al sodalizio potrebbe apparire ragionevole, in quanto giustificata dalla
effettiva esigenza di stroncare il vincolo particolarmente qualificato tra
l’associazione mafiosa radicata in un certo ambito territoriale e il proprio
affiliato, altrettanto non potrebbe dirsi nel caso dei reati commessi con il
metodo mafioso da persone prive di qualsiasi legame con un sodalizio mafioso,
come nel caso dell’imputato nel giudizio principale.
Richiamata la più recente giurisprudenza
costituzionale sulla norma censurata, la difesa ha osservato che l’aggravante
del metodo mafioso potrebbe ricomprendere fattispecie concrete marcatamente
differenziate tra loro per quanto concerne il coefficiente di pericolosità e,
pertanto, sarebbe indubbio il carattere accentuatamente discriminatorio della
presunzione in materia di misure cautelari: il carattere assoluto di tale
presunzione negherebbe rilevanza al principio del "minor sacrificio
necessario”, laddove la previsione di una presunzione solo relativa non
eccederebbe i limiti di compatibilità costituzionale.
L’ordinanza n. 450 del
1995 della Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. proprio in relazione al reato aggravato ex art. 7 del
decreto-legge n. 152 del 1991 nella differente forma dell’agevolazione mafiosa,
ma la più recente evoluzione della giurisprudenza costituzionale porrebbe nuovi
problemi di interpretazione della norma in questione, soprattutto nel peculiare
caso del reato aggravato dal metodo mafioso; nemmeno dirimente, al riguardo,
sarebbe la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza
6 novembre 2003, Pantano contro Italia), relativa al solo reato di
associazione di tipo mafioso.
Ripercorse le argomentazioni difensive, l’ordinanza
di rimessione mette in luce la potenziale fondatezza dell’appello del pubblico
ministero, perché l’imputato è stato condannato per estorsione aggravata dal
metodo mafioso e, in applicazione della presunzione di adeguatezza posta dalla
norma censurata, si dovrebbe ripristinare la misura della custodia in carcere,
data l’impossibilità di pervenire a un giudizio di assenza del pericolo di
reiterazione di reati della stessa specie di quelli per i quali si procede.
La questione di legittimità costituzionale proposta
dal difensore perciò sarebbe rilevante e anche non manifestamente infondata.
L’orientamento espresso dalla giurisprudenza
costituzionale sulla non riconducibilità dei delitti contro la libertà
sessuale, del reato dell’art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9
ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza) e del reato dell’art. 575 cod. pen. tra quelli «espressione dell’appartenenza ad associazioni di
tipo mafioso, o della condivisione dei disvalori da queste fatti propri»
potrebbe essere agevolmente ribadito anche per «quella particolare
manifestazione della condotta criminosa consistente nell’avvalersi delle
condizioni di assoggettamento indicate dall’art. 416 bis c.p.». Anche questi
delitti avrebbero o potrebbero avere una struttura individuale e, per le loro
connotazioni, sarebbero tali da non postulare necessariamente esigenze
cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere.
Consistendo in una peculiare manifestazione
dell’azione antigiuridica, l’aggravante in questione, osserva ancora il
rimettente, può accompagnare la commissione di qualsiasi fattispecie
delittuosa. La locuzione "delitti di mafia” richiamata dalla giurisprudenza
costituzionale finirebbe con «il parificare nella sua genericità, sotto il
profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto
differenti tra loro sia con riferimento alla loro portata criminale che con
riferimento alla pericolosità dell’agente». Per integrare l’aggravante sarebbe
sufficiente «la mera evocazione, al fine di accrescere la portata intimidatoria
della condotta posta in essere, di un’organizzazione criminale reale o supposta
ma con la quale in realtà l’agente non abbia alcun collegamento».
La giurisprudenza di legittimità sarebbe costante
nel ritenere che la circostanza aggravante in esame qualifica l’uso del metodo
mafioso, fondato sull’esistenza in una data zona di associazioni mafiose, anche
riguardo alla condotta di un soggetto non appartenente a tali associazioni e la
fattispecie oggetto del giudizio principale sarebbe esemplificativa di tale
orientamento, posto che all’imputato è contestato di avere prospettato alla
vittima, in caso di mancato pagamento dei debiti, gravi ritorsioni con l’intervento
di "amici” appartenenti alla criminalità organizzata.
Alla posizione dell’imputato, al quale in nessun
modo sarebbe attribuita l’appartenenza o la contiguità a un sodalizio mafioso,
non si attaglierebbero le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale e
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per giustificare la presunzione
assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere: «non si vede,
infatti, quali legami con l’associazione di tipo mafioso l’appellante debba
recidere posto che essi non sono stati in alcun modo ritenuti esistenti». Se la
presunzione assoluta è stata ritenuta ingiustificata nei confronti di
appartenenti ad associazioni dedite al traffico di stupefacenti, «non si vede
come essa possa operare nei confronti di chi in ipotesi agisca individualmente
e si "limiti” ad evocare – a meri fini funzionali al successo dell’azione
delittuosa – un’entità della quale non fa parte». Ad avviso del rimettente,
tale sola manifestazione di una condotta che altrimenti sarebbe sfuggita alla
presunzione in esame non potrebbe far ritenere una pericolosità sociale del suo
autore così elevata da richiedere inevitabilmente l’applicazione della custodia
in carcere, sicché la possibilità di formulare un’ipotesi concreta idonea a
smentire la generalizzazione posta a base della presunzione stessa renderebbe
conto della sua irragionevolezza.
Se la legittimità costituzionale dell’art. 275,
comma 3, cod. proc. pen. è stata ravvisata solo per la
peculiarità della fattispecie e delle sue connotazioni criminologiche (l’una e
le altre connesse alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo
mafioso implicherebbe un’adesione permanente a un sodalizio criminoso di norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti
personali e dotato di particolare forza intimidatrice) e per l’esistenza di una
regola di esperienza sufficientemente condivisa circa l’insufficienza delle
misure "minori” a recidere i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale
di appartenenza, dovrebbe concludersi che questa ratio non è riscontrabile nel
caso in cui tali condizioni mancano. Ne conseguirebbe un’ingiustificata
parificazione tra chi abbia aderito ad associazioni di tipo mafioso o intenda
agevolarle e chi, invece, «senza appartenere ad esse intenda approfittare della
condizione di assoggettamento dalle medesime creato per portare più
efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso».
L’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,
conclude il rimettente, nell’imporre necessariamente l’applicazione della
custodia cautelare in carcere all’autore di un delitto commesso avvalendosi
delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., impedirebbe al giudice
di valutare se nel caso concreto risultino elementi specifici che facciano ritenere
altrettanto idonee misure meno afflittive. La norma censurata sarebbe quindi in
contrasto con l’art. 3 Cost., «sia per l’irragionevole parificazione di
situazioni tra loro diverse (all’interno delle ipotesi per le quali la
presunzione assoluta opera) che per l’altrettanto irragionevole disparità di
trattamento tra soggetti che esprimano il medesimo grado di pericolosità
sociale»; con l’art. 13 Cost., «per la lesione dell’affermato principio del
minor sacrificio possibile al bene della libertà personale»; con l’art. 27,
secondo comma, Cost., «in quanto l’applicazione della custodia in carcere in
mancanza di una effettiva e concreta esigenza cautelare costituisce una
indebita anticipazione di una pena prima ancora di un giudiziale definitivo
accertamento della responsabilità penale».
2.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato; anche l’imputato nel giudizio principale
si è costituito con atto depositato dal proprio difensore.
2.1.– L’Avvocatura dello Stato ha chiesto che la
questione sia dichiarata infondata. Richiamata l’ordinanza della
Corte costituzionale n. 450 del 1995, l’Avvocatura dello Stato osserva che
la sentenza n.
265 del 2010 ha ritenuto l’impossibilità di estendere alle figure criminose
interessate da quel giudizio la ratio
già considerata idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria
stabilita per i procedimenti relativi ai delitti di mafia in senso stretto:
secondo l’Avvocatura, tale ratio sarebbe riferibile anche ai procedimenti
relativi ai delitti connotati dalla contestazione della circostanza aggravante
dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, essendo ragionevolmente
sostenibile che la mera evocazione di un’associazione criminale, reale o
supposta, al fine di accrescere la portata intimidatoria della condotta renda
la disposizione censurata conforme allo standard di legittimità costituzionale
della scelta legislativa sul tipo di misura cautelare da adottare.
2.2.– La difesa dell’imputato nel giudizio principale ha
chiesto che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale
di Lecce sia accolta. Ribadite le argomentazioni diffusamente riportate
nell’ordinanza di rimessione e aderendo a quelle prospettate dal giudice
rimettente, la medesima difesa ha osservato che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, affinché la circostanza aggravante de qua possa dirsi integrata è
sufficiente il riferimento a un’organizzazione criminale, reale o supposta, con
la quale, in realtà, l’agente non abbia alcun collegamento e ha messo in luce
il contrasto della norma censurata: con l’art. 3 Cost., sussistendo
l’ingiustificata parificazione – denunciata dal giudice rimettente – tra
persona appartenente e persona non appartenente a un’associazione di tipo
mafioso; con l’art. 13 Cost., che imporrebbe di circoscrivere allo strettamente
necessario le misure limitative della libertà personale, attribuendo alla
custodia in carcere il connotato di estremo rimedio; con l’art. 27, secondo
comma, Cost., in quanto l’applicazione della custodia in carcere, in mancanza di
una effettiva e concreta esigenza cautelare, rappresenterebbe un’indebita
anticipazione della pena prima del definitivo accertamento giudiziale della
responsabilità penale.
3.– Con ordinanza depositata il 7 giugno 2012 (r.o. n.
175 del 2012), il Tribunale di Lecce, sezione del riesame, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 13 e 27, secondo comma, Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. «nella parte in cui prescrivendo che quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi delle
condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. è applicata la misura cautelare della
custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che
non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Il rimettente riferisce di essere investito
dell’appello presentato dalla difesa avverso l’ordinanza del 27 giugno 2011,
con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce aveva
rigettato l’istanza di revoca della custodia cautelare in carcere o di
sostituzione con gli arresti domiciliari. Su appello dell’indagato, il
tribunale del riesame aveva sostituito la misura originariamente applicata con
quella degli arresti domiciliari, ma non aveva accolto l’istanza di revoca
della prima. La decisione del tribunale del riesame era stata impugnata con
ricorso per cassazione sia dal pubblico ministero, lamentando la violazione
dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., sia dalla
difesa, che aveva denunciato il vizio di motivazione sull’attualità delle
esigenze cautelari. La Corte di cassazione aveva accolto entrambi i ricorsi e
aveva censurato l’ordinanza impugnata per aver «disatteso la presunzione iuris et de iure di adeguatezza della coercizione
intramuraria», ritenendo irrilevante, nel caso di specie, l’eccezione di
illegittimità costituzionale proposta dalla difesa, dato il carattere
preliminare della decisione sulla sussistenza delle esigenze cautelari.
Il giudice rimettente afferma di dover procedere a
un nuovo scrutinio dell’impugnazione dell’ordinanza reiettiva
dell’istanza di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere,
precisando, per un verso, che l’indagato aveva sostenuto la sopravvenuta
insussistenza di qualsiasi esigenza cautelare, e, per altro verso, che la Corte
di cassazione aveva disatteso la tesi difensiva dell’applicabilità degli arresti
domiciliari nella fase successiva all’adozione della misura cautelare
carceraria. Dovendosi uniformare alla sentenza di annullamento, il Tribunale
del riesame di Lecce afferma di non potere, «in presenza di residue esigenze
cautelari anche di minimo grado, adottare in relazione ai delitti di cui
all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., misure cautelari diverse da quella
della custodia in carcere».
Il rimettente ritiene poi che debba essere
confermato il giudizio già espresso dall’ordinanza annullata circa la
perdurante esistenza di esigenze cautelari e che, tuttavia, tenuto conto del
ruolo marginale dell’imputato e dell’assenza di precedenti penali, le esigenze
cautelari potrebbero essere fronteggiate con misure meno afflittive della
custodia cautelare in carcere. Perciò la questione di legittimità
costituzionale prospettata dalla difesa sarebbe rilevante e, a sostegno della
ritenuta non manifesta infondatezza della questione, il rimettente ripropone le
medesime argomentazioni già svolte nell’ordinanza del 16 maggio 2012 (r.o. n.
131 del 2012).
4.– È intervenuto nel giudizio di legittimità
costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
manifestamente infondata. La scelta legislativa di imporre, in presenza di
esigenze cautelari, il ricorso alla custodia cautelare, non sarebbe
irragionevole e non determinerebbe un’ingiustificata parificazione del
trattamento stabilito per chi fa parte di un’associazione di tipo mafioso con
quello di chi si limiti ad approfittare della condizione di assoggettamento
creata da un’associazione di tale tipo. La norma censurata, inoltre, non
sarebbe in contrasto né con l’art. 13, primo comma, Cost.,
essendo rispettata la riserva di giurisdizione in materia di provvedimenti
limitativi della libertà personale, né con l’art. 27, secondo comma, Cost.,
data l’estraneità di tale parametro all’assetto e alla conformazione delle
misure operanti sul piano cautelare.
5.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (r.o.
n. 269 del 2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo
periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine
di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod.
pen., è applicata la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi
dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva,
altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al
caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure.
La Corte rimettente riferisce che il Tribunale di
Palermo, in sede di appello cautelare, aveva accolto, con ordinanza del 14 ottobre
2011, l’impugnazione del pubblico ministero avverso la decisione del giudice
per le indagini preliminari dello stesso tribunale che aveva sostituito con la
misura degli arresti domiciliari quella della custodia cautelare in carcere
inizialmente disposta nei confronti dell’imputato. Questi, all’esito del
giudizio abbreviato, era stato condannato per il delitto di favoreggiamento
personale aggravato dal fine di agevolare le attività delle associazioni
previste dall’art. 416-bis cod. pen., così riqualificata
l’originaria imputazione di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso.
Riferisce ancora la Corte di cassazione che avverso
l’ordinanza del 14 ottobre 2011 è stato proposto ricorso per cassazione.
Deducendo violazione di legge e difetto di motivazione, il ricorso, dopo aver
ricordato la riqualificazione del fatto operata dalla sentenza di condanna, che
aveva messo in evidenza l’assenza di significativi contatti tra l’imputato e
l’associazione mafiosa, ha richiamato la recente giurisprudenza costituzionale
sull’illegittimità di presunzioni di adeguatezza non rispondenti a dati di
esperienza generalizzabili, sottolineando l’irragionevolezza della presunzione
nel caso di specie, data l’assenza di collegamenti con la criminalità
organizzata di tipo mafioso. Con successive note la difesa ha eccepito in via
subordinata, l’illegittimità costituzionale degli artt. 275, comma 3, e 299,
comma 2, cod. proc. pen., sia nella parte in cui è
prevista l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per ogni delitto
aggravato dall’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 203 del 1991 ovvero, in più ristretta relazione
al caso di specie, per il delitto commesso al fine di agevolare l’attività
delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. sia
nella parte in cui non è previsto che l’obbligatorietà della custodia cautelare
in carcere operi solo in occasione del provvedimento genetico della misura
cautelare e non già quando siano successivamente acquisiti elementi specifici
dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con
altre misure.
Il ricorso è stato assegnato alle sezioni unite
della Corte di cassazione in relazione al tema controverso dell’operatività
della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere ex art.
275, comma 3, cod. proc. pen. solo
in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva
ovvero anche in rapporto alle vicende successive afferenti alla permanenza
delle esigenze cautelari. Ricostruiti i diversi orientamenti della
giurisprudenza di legittimità sul punto, le sezioni unite confermano
l’indirizzo prevalente, affermando il principio di diritto in forza del quale
la presunzione deve operare «non solo in occasione dell’adozione del
provvedimento genetico della misura coercitiva, ma anche nelle vicende
successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari».
Muovendo dal principio di diritto così enunciato, la
Corte rimettente ritiene non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale prospettata dalla difesa dell’imputato, in
considerazione dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sulla
presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Ripercorsa tale evoluzione, le sezioni unite della Corte di cassazione
individuano un duplice ordine di ragioni a sostegno della non manifesta
infondatezza della questione. Per un verso richiamano gli argomenti posti a
fondamento delle pronunce di illegittimità costituzionale sulla disciplina in
questione, intervenute in relazione ad alcuni reati – come quelli previsti
dall’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 e
dall’art. 416 cod. pen., realizzato allo scopo di
commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. – caratterizzati
da un vincolo di appartenenza ad organizzazioni malavitose, ritenuto, di per sé
solo, «inidoneo a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della più
afflittiva misura cautelare, in assenza delle altre connotazioni specifiche del
legame che caratterizza gli appartenenti ad un’associazione di tipo mafioso».
Per altro verso, le sezioni unite rilevano che anche i delitti aggravati
dall’art. 7 del citato decreto-legge n. 152 del 1991 – avendo, o potendo avere,
una struttura individuale – «potrebbero per le loro caratteristiche, non
postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la
custodia in carcere». La circostanza aggravante in esame, infatti, potrebbe
accompagnare qualsiasi fattispecie delittuosa, sicché, ove si volessero
ricomprendere anche i reati così aggravati nella locuzione "delitti di mafia”
contenuta nelle pronunce della Corte costituzionale, «si finirebbe con
l’assimilare, sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico,
manifestazioni delittuose del tutto differenti, sia con riferimento alla loro
portata criminale sia con riferimento alla pericolosità dell’agente».
La presunzione di adeguatezza della misura della
custodia in carcere per delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle
associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. comporterebbe, secondo le
sezioni unite, «una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e
chi invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le attività delle
associazioni stesse» e tale parificazione sarebbe ingiustificata, alla luce
della giurisprudenza costituzionale che ritiene legittima la presunzione in
argomento solo in presenza di un legame associativo connotato da specifiche
caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo e la
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Siffatte
caratteristiche non sarebbero riscontrabili in una condotta delittuosa pur
aggravata a norma dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, condotta grave
e indice di pericolosità, ma non necessariamente e in ogni caso maggiore di
quella del partecipe ad un’associazione dedita al traffico di sostanze
stupefacenti, posto che «in relazione all’aggravante contestata sotto il
profilo dell’agevolazione delle attività delle associazioni previste dall’art.
416 bis cod. pen. – situazione corrispondente alla concreta fattispecie (…) – è
escluso un vincolo o un legame con l’associazione».
La questione sarebbe, inoltre, rilevante, posto che
l’appello del pubblico ministero avverso l’ordinanza applicativa degli arresti
domiciliari è stato accolto, con il provvedimento oggetto del ricorso per
cassazione, proprio sulla base della presunzione di adeguatezza della custodia
cautelare in carcere per il reato di favoreggiamento personale aggravato dall’art.
7 del decreto-legge n. 152 del 1991.
La Corte rimettente ricorda poi il precedente delle
stesse sezioni unite (sentenza 28 marzo 2001, n. 10) che ha dato risposta
positiva al quesito relativo all’applicabilità della circostanza aggravante,
contestata per i reati-fine, ai partecipi di un’associazione di tipo mafioso.
La sentenza del 2001, ricorda ancora l’ordinanza di rimessione, ha chiarito che
il metodo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen. e quello di cui alla
circostanza aggravante ex art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 integrano
due distinte entità, in quanto, mentre il primo connota il fenomeno associativo
ed è, al pari del vincolo, un elemento che permane indipendentemente dalla
commissione dei vari reati, il secondo costituisce eventuale caratteristica di
un concreto episodio delittuoso, ben potendo accadere che un associato ponga in
essere una condotta penalmente rilevante, pur costituente reato-fine, senza
avvalersi del potere intimidatorio del gruppo. Il medesimo ragionamento è stato
sviluppato dalla sentenza del 2001 in riferimento alla forma soggettiva della
circostanza aggravante in esame: l’associato risponde di un contributo
permanente allo scopo sociale, che prescinde dalla commissione dei singoli
delitti, mentre, se concorre in essi con il dolo specifico di agevolare
l’attività dell’associazione, questo ulteriore elemento psicologico gli viene
addebitato in funzione di aggravamento della pena.
Sulla base delle argomentazioni svolte, la Corte di
cassazione dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nei termini sopra riportati. La norma censurata
sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei
procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del
decreto-legge n. 152 del 1991 a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché
per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse
ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; con l’art.
13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle
misure privative della libertà personale; con l’art. 27, secondo comma, Cost.,
per l’attribuzione alla coercizione cautelare di tratti funzionali tipici della
pena.
La Corte rimettente ritiene opportuno, per
completezza argomentativa, sottolineare che analoghe considerazioni potrebbero
valere anche con riferimento alla forma aggravatrice
del c.d. "metodo mafioso” (profilo non contestato all’imputato), posto che la
presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per un reato
così aggravato comporterebbe una parificazione tra chi abbia aderito ad
un’associazione prevista dall’art. 416-bis cod. pen. e
chi invece, senza appartenere ad essa, abbia inteso approfittare della
condizione di assoggettamento, dalla medesima creato, per portare più
efficacemente a compimento il proprio, specifico, proposito criminoso.
6.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato; anche l’imputato nel giudizio principale
si è costituito con atto depositato dai propri difensori.
6.1.– L’Avvocatura dello Stato ha chiesto che la
questione sia dichiarata non fondata e ha richiamato l’ordinanza di questa
Corte n. 450 del 1995. Questa ordinanza, infatti, ricorda l’Avvocatura, ha
escluso che la presunzione in questione violasse gli artt. 3, 13, primo comma,
e 27, secondo comma, Cost., sottolineando che a favore
della ragionevolezza della soluzione adottata deponeva la delimitazione della
norma all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, tenuto
conto del coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della
convivenza e della sicurezza collettiva connaturato a tali illeciti. La ratio decidendi dell’ordinanza n. 450 del
1995 sarebbe idonea a giustificare la presunzione di adeguatezza della
misura della custodia cautelare anche per i delitti caratterizzati
dall’evocazione dell’esistenza di un’associazione di tipo mafioso, reale o
supposta, ovvero connotati dal fine di agevolare le attività delle associazioni
previste dall’art. 416-bis cod. pen.
6.2.– La difesa dell’imputato nel giudizio principale ha
chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata
dalla Corte di cassazione. Le cadenze procedimentali della specifica vicenda,
nella quale l’originaria imputazione di partecipazione ad associazione mafiosa,
formulata nei confronti dell’imputato, era stata "derubricata” in
favoreggiamento aggravato a norma dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del
1991, si presterebbero bene allo scrutinio di costituzionalità dello
sfavorevole automatismo cautelare in questione perché, a seguito della sentenza
di primo grado, l’imputato doveva essere considerato a tutti gli effetti
«estraneo alla compagine associativa mafiosa, con radicale ridimensionamento
dell’ipotesi accusatoria iniziale e delle relative esigenze cautelari, sicché
la "presunzione assoluta di adeguatezza” della più grave misura cautelare – nel
caso di specie – è rimasta affidata esclusivamente alla finalità della condotta
enunciata nell’aggravante ritenuta in sentenza».
Richiamate alcune decisioni della giurisprudenza
costituzionale, la difesa dell’imputato sottolinea le condizioni che, in
materia, consentono l’estrinsecarsi in termini non irragionevoli della
discrezionalità legislativa e rileva che «la presunzione non deve lasciare
spazio a facili confutazioni della "generalizzazione” su cui si fonda», mentre
ciò si verificherebbe «nei casi in cui il fine di agevolare l’associazione
mafiosa (formalizzata o meno nell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del
1991) caratterizzi condotte di assai modesto rilievo criminale».
La giustificazione dell’eccezione alla regola
individuata dalla giurisprudenza costituzionale per i "delitti di mafia”
riguarderebbe specificamente "l’appartenenza” ovvero "l’adesione permanente”
del soggetto al sodalizio mafioso, in considerazione dei collegamenti che ne
derivano, e non sarebbe adattabile ad ipotesi in cui «un soggetto invece
estraneo all’associazione, cui è addebitato un qualsiasi – eventualmente neppur
grave – delitto», di natura anche meramente individuale, abbia agito al fine di
agevolare l’attività dell’associazione prevista dall’art. 416-bis cod. pen.
Tale finalità, osserva ancora la difesa dell’imputato, «può contraddistinguere,
così come l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 può qualificare,
qualsiasi delitto, anche della più modesta entità: tanto basta a far scattare
l’automatismo cautelare previsto dalla norma denunciata». La presunzione in
questione, dunque, finirebbe irragionevolmente per operare anche qualora il
reato non sia connotato dal necessario dato empirico-sociologico – l’esistenza
di una "solida e permanente adesione” tra l’imputato ed altri soggetti dediti
al crimine in forma organizzata – a fronte di condotte di limitato rilievo
criminale; ciò benché la razionalità della presunzione stessa sia stata esclusa
per fattispecie assai più gravi.
Come ha rilevato l’ordinanza di rimessione, agire al
fine di agevolare le attività di un’associazione mafiosa può costituire
comportamento grave e indice di pericolosità, ma la peculiare finalità che nel
caso in esame rappresenta soltanto un elemento accidentale del reato, non
potrebbe, ad avviso della difesa dell’imputato, connotare, di per sé stessa e
in astratto, qualsiasi condotta in termini tali da far ritenere che la
pericolosità dell’agente possa essere fronteggiata solo con la più grave misura
coercitiva.
Nella fattispecie delittuosa caratterizzata dalla
finalità di agevolare l’associazione mafiosa, ovvero aggravata ai sensi
dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, sarebbe possibile (certa, nel
caso di specie, in quanto giudizialmente accertata) l’insussistenza di quei
profili di "intraneità” nell’associazione criminale a
fronte dei quali è stata ribadita la ragionevolezza della presunzione
d’insufficienza delle misure "minori” a troncare i rapporti tra
l’indiziato/imputato e l’ambito delinquenziale di appartenenza e a
neutralizzarne così la pericolosità.
Contestualmente al deposito dell’atto di
costituzione, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha depositato
istanza di riunione al procedimento relativo all’ordinanza r.o. n. 131 del
2012.
7.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (r.o.
n. 270 del 2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo
periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui – nel
prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai
delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod.
pen. ovvero al fine di agevolare le attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
La Corte rimettente riferisce che il Tribunale di
Napoli, in sede di appello cautelare, aveva accolto, con ordinanza del 16
febbraio 2012, l’impugnazione del pubblico ministero avverso la decisione del
giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale che, all’esito del
giudizio abbreviato, aveva sostituito la misura della custodia cautelare in
carcere con quella degli arresti domiciliari, disposta nei confronti
dell’imputato per vari reati di illecita detenzione e porto in luogo pubblico
di arma comune da sparo clandestina, di ricettazione e di estorsione, con le
aggravanti dell’uso del metodo mafioso e della finalità di agevolazione
mafiosa.
Avverso l’ordinanza del 16 febbraio 2012, l’imputato
aveva proposto un ricorso per cassazione, che era stato assegnato alle sezioni
unite in relazione al medesimo tema controverso affrontato dall’ordinanza r.o.
n. 269 del 2012.
L’ordinanza r.o. n. 270 del 2012 conferma il
principio di diritto in forza del quale la presunzione ex art. 275, comma 3,
cod. proc. pen. opera non
solo in occasione dell’adozione del provvedimento genetico della misura
coercitiva, ma anche nelle vicende successive attinenti alla permanenza delle
esigenze cautelari. Enunciato tale principio la Corte rimettente esamina i
profili di non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
in relazione ai delitti aggravati dalla circostanza di
cui all’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 e prospetta argomentazioni
analoghe a quelle svolte dall’ordinanza r.o. n. 269 del 2012: la presunzione di
adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni
previste da tale articolo comporterebbe una parificazione tra chi a dette
associazioni abbia aderito e chi, invece, senza appartenere ad esse, abbia
inteso agevolare le attività delle associazioni stesse oppure approfittare delle
condizioni di assoggettamento dalle medesime creato per portare più
efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso.
La questione, inoltre, sarebbe rilevante in quanto
l’appello del pubblico ministero era stato accolto dal tribunale del riesame,
con il provvedimento oggetto del ricorso per cassazione, sul presupposto della
presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per i reati
aggravati a norma dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991.
Ciò posto, la Corte di cassazione dichiara rilevante
e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen.,
nei termini sopra riportati. La norma censurata sarebbe in contrasto: con
l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai
delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 a
quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento
a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai
paradigmi punitivi considerati; con l’art. 13, primo comma, Cost., quale
referente fondamentale del regime ordinario delle misure privative della
libertà personale; con l’art. 27, secondo comma, Cost., per l’attribuzione alla
coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena.
8.– È intervenuto nel giudizio di legittimità
costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
non fondata sulla base delle medesime argomentazioni già proposte in
riferimento all’ordinanza r.o. n. 269 del 2012.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale di Lecce, sezione riesame, con due ordinanze
depositate, rispettivamente, il 16 maggio 2012 (r.o. n. 131 del 2012) e il 7
giugno 2012 (r.o. n. 175 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli articoli
3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale nella
parte in cui, prescrivendo che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza
in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.
416-bis del codice penale è applicata la misura cautelare della custodia in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (r.o.
n. 269 del 2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art.
275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. nella
parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività
delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., è applicata la
custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che
non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali
risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Infine, la Corte di cassazione, sezioni unite
penali, con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 (r.o. n. 270 del 2012), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art.
275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero
al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso
articolo del codice penale, è applicata la custodia in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari –
non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in
relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono
essere soddisfatte con altre misure.
2.– Poiché le questioni hanno ad oggetto in parte le
stesse norme, censurate con argomenti analoghi, va disposta la riunione dei
giudizi ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
3.– Le questioni sono fondate in riferimento agli artt.
3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei termini di seguito
specificati.
4.– Fin dalla sua introduzione, da parte dell’art. 5,
comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in
tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento
dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12
luglio 1991, n. 203, la presunzione di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria, contenuta nell’art. 275, comma 3,
cod. proc. pen., ha riguardato, oltre al delitto
dell’art. 416-bis cod. pen., i delitti commessi avvalendosi delle condizioni
previste da tale disposizione o al fine di agevolare le attività delle
associazioni ivi previste. Il riferimento alle fattispecie delittuose indicate
è rimasto costante nella pur complessa e non lineare evoluzione della normativa
in questione; attualmente, il delitto previsto dall’art. 416-bis cod. pen. e i delitti commessi avvalendosi del "metodo mafioso” o al
fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso sono
assoggettati al regime cautelare speciale per effetto del richiamo all’art. 51,
comma 3-bis, cod. proc. pen., operato dall’art. 275,
comma 3, secondo periodo, del codice di rito.
4.1.– A tali delitti ha fatto riferimento l’ordinanza n. 450 del
1995 di questa Corte, che ha dichiarato la manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc.
pen., sottolineando, tra l’altro, che «la delimitazione della norma all’area
dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso» − delimitazione
mantenuta dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura
penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di
diritto di difesa) – «rende manifesta la non irragionevolezza dell’esercizio
della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per
le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli
illeciti di quel genere è connaturato».
4.2.– Più di recente, questa Corte ha avuto occasione di
chiarire che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto
fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono
arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza
generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (così, ex plurimis,
la sentenza n.
139 del 2010). In particolare, secondo la Corte, l’irragionevolezza della
presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia "agevole”
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a
base della presunzione stessa (sentenza n. 41 del
1999), e una irragionevolezza del genere è stata riscontrata rispetto alla
presunzione assoluta dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in
cui era riferita ad alcuni delitti a sfondo sessuale (sentenza n. 265 del
2010), all’omicidio volontario (sentenza n. 164 del
2011), all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (sentenza n. 231 del
2011), all’associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere
i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del
2012) e anche rispetto alla presunzione assoluta dell’art. 12, comma 4-bis,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), relativa ad alcune figure di favoreggiamento delle immigrazioni
illegali (sentenza
n. 331 del 2011).
La sentenza n. 265 del
2010, in particolare, ha osservato che ai delitti a sfondo sessuale presi
in considerazione non è estensibile la ratio già ritenuta dall’ordinanza n. 450 del
1995 (nonché dalla sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)
«idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai
procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto». Tale ratio per
l’associazione di tipo mafioso si basa sulla constatazione che «dalla struttura
stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – connesse
alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica
un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato
nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e
dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi
concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente
condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo
la custodia in carcere (non essendo le misure "minori” sufficienti a troncare i
rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza,
neutralizzandone la pericolosità)».
Nella stessa prospettiva, la sentenza n. 164 del
2011 ha sottolineato che, nonostante la gravità del delitto di omicidio,
«la presunzione assoluta di cui si discute non può considerarsi, in effetti,
rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla
"struttura stessa” e alle "connotazioni criminologiche” della figura criminosa.
Non si è, difatti, al cospetto di un reato che implichi o presupponga
necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso
con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel
territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice –
vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi,
in grado di interrompere».
Neanche la natura associativa del reato è stata
considerata sufficiente, di per sé sola, a legittimare la presunzione contenuta
nella norma censurata, dato che nelle altre fattispecie associative considerate
dalla Corte non è stata riscontrata la peculiarità dell’associazione di tipo
mafioso «che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un
lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida
organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento
territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta
produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso»
(sentenza n. 231
del 2011).
Connotazioni analoghe non caratterizzano le figure
criminose che hanno formato oggetto delle diverse pronunce di illegittimità
costituzionale già ricordate e che abbracciano fatti marcatamente eterogenei
tra loro e suscettibili di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze
cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di
quella carceraria.
È per questa ragione che l’art. 275, comma 3, cod.
proc. pen. (così come l’art.
12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998), nella parte in cui si riferiva a
tali figure, è stato ritenuto in contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e
27, secondo comma, Cost. Il contrasto però non è risultato tale da far cadere
completamente la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, ma ne ha
determinato la trasformazione da assoluta in relativa, rendendola superabile
attraverso l’acquisizione di «elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure» (sentenze n. 110 del 2012;
n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011;
n. 265 del 2010).
5.– Alle indicazioni offerte dalle parziali
declaratorie di illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cod. proc.
pen. si sono ricollegati i
giudici rimettenti nel censurare il regime di presunzione assoluta relativo ai
delitti commessi avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso” e ai delitti
commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art.
416-bis cod. pen. La prospettazione delle censure è, inoltre, argomentata sulla
base degli indirizzi formatisi nella giurisprudenza comune a proposito
dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 203 del 1991, che configura come circostanze aggravanti le
medesime fattispecie cui l’art. 5 dello stesso decreto-legge n. 152 del 1991 ha
ricollegato la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in
carcere.
In linea con questa impostazione, particolarmente
significative, ai fini dello scrutinio delle questioni in esame, risultano due
indicazioni offerte dagli orientamenti della giurisprudenza comune. Per un
verso, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha fatto riferimento,
nell’individuazione della ratio dell’art. 7, a un intento legislativo «teso a
colpire qualsiasi manifestazione di attività mafiosa, dalla partecipazione
all’associazione, al favoreggiamento ed al semplice impiego di metodo mafioso o
di isolata e minima agevolazione» (sentenza della Corte di cassazione, sezioni
unite penali, 28 marzo 2001, n. 10); per altro verso, è consolidato l’indirizzo
secondo cui la circostanza aggravante in esame, in entrambe le forme in cui può
atteggiarsi, «è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli
estremi», sia che essi siano «partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia
che risultino ad esso estranei» (sentenza della Corte di cassazione, sezione
prima penale, 2 aprile 2012, n. 17532).
6.– Le indicazioni della giurisprudenza comune appena
richiamate mettono in luce come la presunzione assoluta sulla quale fa leva il
regime cautelare speciale non risponda, con riferimento ai delitti commessi
avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di agevolare le attività delle associazioni
previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo
"agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta a base della presunzione stessa. Infatti, la possibile estraneità
dell’autore di tali delitti a un’associazione di tipo mafioso fa escludere che
si sia sempre in presenza di un «reato che implichi o presupponga
necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso
con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel
territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice –
vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi,
in grado di interrompere» (sentenza n. 164 del
2011). Se, come si è visto, la congrua "base statistica” della presunzione
in questione è collegata all’«appartenenza ad associazioni di tipo mafioso» (sentenza n. 265 del
2010), una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non
presupponga necessariamente siffatta "appartenenza” non assicura alla
presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un
fondamento giustificativo costituzionalmente valido.
Il semplice impiego del cosiddetto "metodo mafioso”
o la finalizzazione della condotta criminosa all’agevolazione di
un’associazione mafiosa (la quale, secondo la giurisprudenza di legittimità,
«non richiede anche che il fine particolare, perseguito con la commissione del
delitto, debba in qualche modo essere realizzato»: sentenza della Corte di
cassazione, sezione sesta penale, 19 settembre 1996, n. 9691) non sono necessariamente
equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione
all’associazione, ed è a questa partecipazione che è collegato il dato
empirico, ripetutamente constatato, della inidoneità del processo, e delle
stesse misure cautelari, a recidere il vincolo associativo e a far venir meno
la connessa attività collaborativa, sicché, una volta riconosciuta la
perdurante pericolosità dell’indagato o dell’imputato del delitto previsto
dall’art. 416-bis cod. pen., è legittimo presumere che solo la custodia in
carcere sia idonea a contrastarla efficacemente.
Né in senso contrario può ritenersi, come sostiene
l’Avvocatura dello Stato, che la mera evocazione di un’associazione criminale,
reale o supposta, al fine di accrescere la portata intimidatoria della
condotta, renda costituzionalmente legittima la scelta legislativa della misura
cautelare carceraria: tale evocazione, infatti, si riflette sulla gravità del
fatto-reato e, coerentemente, integra la fattispecie circostanziale prevista
dall’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, ma, per quanto concerne
l’adeguatezza della misura cautelare, non può essere equiparata alla
commissione di un «reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo
di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate
caratteristiche di pericolosità» (sentenza n. 164 del
2011).
Sotto un altro aspetto – e con particolare
riferimento ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle
associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. – deve osservarsi che, mentre
le declaratorie di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma
3, cod. proc. pen. già
pronunciate hanno investito la presunzione de qua con riguardo a singole
fattispecie criminose, la disciplina oggi censurata è applicabile, per
riprendere l’espressione della difesa dell’imputato in uno dei giudizi
principali, con riferimento a «qualsiasi delitto, anche della più modesta
entità», purché connotato dalla finalità di "agevolazione mafiosa” (o dalla
realizzazione mediante il "metodo mafioso”). In altri termini, il regime
cautelare speciale è collegato, nei casi in esame, non già a singole
fattispecie incriminatrici, in rapporto alle quali possa valutarsi l’adeguatezza
della custodia cautelare in carcere, ma a circostanze aggravanti, riferibili a
più vari reati e correlativamente alle più diverse situazioni oggettive e
soggettive.
Oltre a mettere in luce le ricadute della disciplina
in esame sul criterio di proporzionalità, secondo il quale «ogni misura deve
essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si
ritiene possa essere irrogata» (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.), l’ampio numero dei reati-base suscettibili di
rientrare nell’ambito di applicazione del regime cautelare speciale segnala la
possibile diversità del "significato” di ciascuno di essi sul piano dei pericula libertatis, il che offre
un’ulteriore conferma dell’insussistenza di una congrua "base statistica” a
sostegno della presunzione censurata.
Anche sotto questo profilo, dunque, la posizione
dell’autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso” o
al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle
quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell’associato
o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione
delineata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
risponde, come si è detto, a dati di esperienza generalizzati.
Infine, ribadendo quanto è stato già affermato da
questa Corte, deve escludersi che l’inserimento dei delitti commessi
avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso”, o al fine di agevolare le attività
delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen.,
tra i reati indicati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.
sia idoneo, di per sé solo, a offrire legittimazione costituzionale alla norma
in esame: la disciplina stabilita da tale disposizione, infatti, risponde a
«una logica distinta ed eccentrica» rispetto a quella sottesa alle disposizioni
sottoposte a scrutinio, trattandosi di una normativa «ispirata da ragioni di
opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in
relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da
taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari,
tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali
quella deroga è stabilita» (sentenza n. 231 del
2011; in senso conforme, sentenza n. 110 del
2012).
7.– Deve, pertanto, concludersi che le norme censurate
sono in contrasto sia con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione
dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il
delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per
l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse
ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame; sia con l’art. 13, primo
comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure
cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l’art. 27,
secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti
funzionali tipici della pena.
Come è stato già precisato, ciò che vulnera i
parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé, ma il suo
carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di
rilevanza al principio del «minore sacrificio necessario». La previsione,
invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia
carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio,
suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque
superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di
compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile
l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari
nel grado più intenso (sentenze n. 110 del 2012,
n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011,
e n. 265 del
2010).
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38,
nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni
previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo del
codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari –
non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in
relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono
essere soddisfatte con altre misure. Nell’apprezzamento di queste ultime
risultanze, il giudice dovrà valutare gli elementi specifici del caso concreto,
tra i quali l’appartenenza dell’agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero
la sua estraneità ad esse.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275,
comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato
dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché
in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23
aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi
dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva,
altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al
caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2013.