SENTENZA N.
265
ANNO 2010
Commento alla decisione di
Annalisa D’Urbano
(per gentile concessione della Rivista telematica Federalismi.it)
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
-
-
-
-
-
-
- Luigi MAZZELLA ”
-
-
- Maria
-
-
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 275,
comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del
decreto-legge 23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di
contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla
legge 23 aprile 2009, n. 38, promossi dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno con ordinanze del
28 e 30 settembre 2009, dal Tribunale di Torino, sezione per il riesame, con
ordinanza del 28 maggio 2009 e dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Venezia con ordinanza del 4 novembre 2009, rispettivamente
iscritte ai nn. 310 e 311 del registro ordinanze 2009
e ai nn. 14 e 66 del registro ordinanze 2010 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
1, 6 e 11, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti
l’atto di costituzione di C. A. nonché gli atti di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 e nella camera di consiglio del 26
maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi
l’avvocato Sandro De Vecchi per C. A. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.
– Con due ordinanze di contenuto analogo, depositate il 28 e il 30 settembre
2009 (r.o. n. 310 e n. 311 del 2009), il Giudice per
le indagini preliminari del Tribunale di Belluno ha sollevato, in riferimento
agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di
atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009,
n. 38, nella parte in cui, in presenza di esigenze cautelari, impone di
applicare la misura della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi
indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 609-quater (ordinanza n. 310
del 2009) e 609-bis del codice
penale (ordinanza
n. 311 del 2009).
Nei procedimenti principali, il
giudice a quo è chiamato a
pronunciarsi sulle istanze formulate dai difensori di persone indagate,
rispettivamente, per il delitto di atti sessuali con minorenne aggravati
continuati (artt. 81, 609-ter e 609-quater cod. pen.)
e per il delitto di violenza sessuale aggravata continuata (artt. 81, 61,
numeri 1, 5, e 11, e 609-bis cod. pen.): istanze volte ad ottenere la revoca o la sostituzione
con altra di minore gravità (la sola sostituzione, nel caso dell’ordinanza r.o. n. 311 del 2009) della misura della custodia cautelare
in carcere, cui l’indagato si trova sottoposto. Ad avviso del rimettente,
mentre l’istanza di revoca non sarebbe accoglibile,
stante la persistenza delle esigenze cautelari, queste ultime potrebbero essere
fronteggiate con una misura meno gravosa di quella in atto e, in particolare –
nel caso dell’ordinanza r.o. n. 311 del 2009 – con la
misura degli arresti domiciliari.
All’accoglimento delle istanze di
sostituzione osterebbe, nondimeno, il vigente testo dell’art. 275, comma 3,
cod. proc. pen., che, a seguito della modifica
operata dall’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, non consente di applicare una misura
diversa dalla custodia cautelare in carcere alla persona nei cui confronti sono
riconoscibili gravi indizi di colpevolezza per un’ampia serie di reati, tra cui
quelli previsti dagli artt. 609-bis e
609-quater cod. pen.,
salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono
esigenze cautelari.
In accoglimento delle eccezioni dei
difensori, il rimettente ritiene, peraltro, di dover sollevare questione di
legittimità costituzionale della citata disposizione.
Al riguardo, il giudice a quo rileva come molti dei delitti
richiamati nel comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen.,
pur nella loro indubbia gravità, siano comunque meno gravi di altri reati non
richiamati, sulla base del raffronto delle relative pene edittali (così, ad
esempio, i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis cod. pen., inclusi nell’elenco, sono
puniti meno severamente della cessione di sostanze stupefacenti o della rapina
aggravata, viceversa esclusi). Risulterebbe, dunque, evidente come la scelta
legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la misura «estrema»
della custodia in carcere non dipenda da una valutazione «quantitativa» della
gravità dei delitti, ma da una valutazione di tipo essenzialmente «qualitativo».
Anteriormente alla novella del 2009,
la norma impugnata sanciva la presunzione di adeguatezza della sola custodia
cautelare in carcere esclusivamente in rapporto al delitto di associazione di tipo
mafioso e ai delitti posti in essere con metodi o per finalità mafiose. Per tale verso, la disposizione rispondeva
– secondo il giudice a quo – alla ratio di
sollevare il giudice penale dall’onere di motivare la scelta della misura
carceraria in particolari situazioni di pressione ambientale, determinate dalla
presenza dell’associazione di stampo mafioso, e soprattutto per questa ragione
aveva superato il vaglio della Corte costituzionale, sotto il profilo del
rispetto dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, stante il
coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della
sicurezza collettiva connaturato agli illeciti di quel genere (ordinanza n. 450 del
1995).
La medesima ratio sarebbe ravvisabile anche
in rapporto ad altre fattispecie criminose attualmente richiamate dall’art.
275, comma 3, cod. proc. pen., quali, segnatamente, i
delitti di tipo associativo di cui all’art. 416, sesto comma, cod. pen. e all’art. 74 del d.P.R. 9
ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei
relativi stati di tossicodipendenza); non, invece, in relazione ai reati
sessuali cui il legislatore del
Sotto tale profilo, la norma novellata
si porrebbe dunque in contrasto con l’art. 3 Cost., avendo introdotto, con
riferimento ai reati in questione, un trattamento, da un lato,
ingiustificatamente identico a quello previsto per i delitti già in precedenza
elencati dallo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,
e, dall’altro, ingiustificatamente più severo di quello stabilito per altri
reati.
Risulterebbero violati, di
conseguenza, anche gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.,
giacché, ove venga a cadere la «giustificazione cautelare della detenzione»,
l’indagato o imputato si troverebbe a subire una immotivata compressione della
propria libertà personale e un trattamento riservato al colpevole, prima della
sentenza di condanna.
2.
– Con ordinanza depositata il 28 maggio 2009 (r.o. n.
14 del 2010), il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 13, 27 e 117, primo comma, Cost., questione di
legittimità costituzionale del medesimo art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di applicare gli
arresti domiciliari o, comunque, misure cautelari diverse e meno afflittive
della custodia in carcere in relazione ai delitti previsti dagli artt. 600-bis [primo comma] e 609-bis cod. pen.
Il
Tribunale rimettente è investito dell’appello avverso l’ordinanza del 13
febbraio 2009, con la quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo
Tribunale ha respinto l’istanza di sostituzione con gli arresti domiciliari
della misura della custodia cautelare in carcere, applicata ad una persona
indagata, tra l’altro, per i delitti di induzione alla prostituzione minorile
(art. 600-bis, primo comma, cod. pen.) e di violenza sessuale aggravata dalle condizioni di
minorata difesa della vittima (artt. 609-bis
e 61, numero 5, cod. pen.).
In
via preliminare, il giudice a quo
esclude che possa accogliersi la richiesta di revoca della misura cautelare
formulata dal difensore in udienza, giacché – a prescindere dalla limitazione
dell’istanza iniziale alla sola sostituzione della misura – le esigenze
cautelari, legate al pericolo di reiterazione delle condotte criminose, non
sarebbero comunque venute integralmente meno. Nondimeno, l’assenza di elementi
circa l’esistenza di altre relazioni con ragazze minorenni, l’effetto
deterrente connesso al tempo trascorso in carcere e le particolari contingenze
in cui i delitti sarebbero maturati giustificherebbero una valutazione di
idoneità di misure meno gravose a fronteggiare il pericolo di ricaduta nel
reato: onde sussisterebbero le condizioni per sostituire, in accoglimento
dell’appello, la misura in atto con quella degli arresti domiciliari.
Tale
operazione risulterebbe, tuttavia, preclusa dalla norma impugnata, la quale,
nel testo vigente, stabilisce – a fianco di una presunzione relativa di sussistenza
delle esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti
che non sussistono esigenze cautelari»), non rilevante nella specie – una
presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia
in carcere, applicabile in rapporto ad un’ampia serie di reati, tra cui quelli
che interessano.
Ad
avviso del giudice a quo, tale disposizione non si sottrarrebbe a
dubbi di legittimità costituzionale.
Quanto
alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, alla luce di una
consolidata interpretazione giurisprudenziale, la disposizione impugnata, in
quanto norma processuale, deve ritenersi applicabile – in base al principio tempus regit actum – anche alle misure cautelari da adottare per
fatti delittuosi commessi, come nel caso di specie, anteriormente all’entrata
in vigore della legge novellatrice.
Con
riguardo, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come la disciplina delle misure cautelari personali
sia ispirata ai principi di proporzione, adeguatezza e graduazione,
espressamente enunciati dall’art. 2, numero 59, della legge di delegazione 16
febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per
l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), la quale prevede, altresì,
l’adeguamento del nuovo codice di rito ai principi della Costituzione e alla
normativa convenzionale internazionale. Nell’ambito di tale normativa verrebbe
in particolare rilievo l’art. 5, paragrafi 1, lettera c), e 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848: disposizione la
cui inosservanza porrebbe la norma interna in contrasto con l’art. 117, primo comma,
Cost., che impone al legislatore ordinario di rispettare i vincoli derivanti
dagli «obblighi internazionali».
In
applicazione dei ricordati principi di proporzionalità, adeguatezza e
graduazione, nel sistema del codice di procedura penale, una volta accertata
l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza e la sussistenza di esigenze
cautelari, il giudice è chiamato ad operare – motivandola – la scelta della
misura. Nell’ipotesi, poi, in cui venga applicata la misura «massima» della
custodia in carcere, egli è tenuto ad esporre, a pena di nullità, le «concrete
e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono
essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.).
La
norma impugnata derogherebbe chiaramente a tali principi, che pure trovano
riconoscimento negli artt. 13 e 27 Cost., discendendo – secondo quanto
affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 299 del
2005 – «direttamente dalla natura servente che
È
ben vero che, secondo un orientamento altrettanto costante della giurisprudenza
costituzionale, «mentre la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze
cautelari prefigurate dalla legge (l’an della cautela) comporta, per definizione, l’accertamento,
di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza, non può invece ritenersi
soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al
giudice l’apprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria
(il quomodo
della tutela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali
dal legislatore». La scelta legislativa dovrebbe essere, tuttavia, operata pur
sempre nel «rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto
bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti».
Nell’ipotesi
in esame, per converso, risulterebbe leso proprio il canone della
ragionevolezza, sotto il duplice profilo della disparità di trattamento
rispetto agli altri casi di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di
esigenze cautelari, e della disparità di trattamento «interna» tra le varie
forme di manifestazione concreta delle fattispecie criminose considerate.
Le
ipotesi nelle quali
Altrettanto
non potrebbe dirsi, invece, per le fattispecie in esame. Risulterebbero difatti
evidenti le differenze che intercorrono, ad esempio, tra i reati sessuali in
discorso e quello di cui all’art. 416-bis
cod. pen. L’appartenenza ad una associazione mafiosa
è un delitto di pericolo a carattere permanente, che implica un vincolo
«totalizzante» di adesione ad un sodalizio caratterizzato da una particolare
forza intimidatrice e da un elevato grado di «diffusività» nel contesto
ambientale, tali da porre a rischio, per comune sentire, primari beni
individuali e collettivi. Sarebbe, di conseguenza, pienamente giustificabile la
presunzione legislativa di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria,
la quale risulterebbe indispensabile per neutralizzare la pericolosità del soggetto,
determinandone il forzoso distacco dal sodalizio.
I
delitti sessuali che vengono in rilievo costituiscono, di contro, reati di
evento, a carattere non necessariamente permanente, che abbracciano un’ampia
gamma di condotte, tra loro estremamente diversificate, in quanto frutto di
vari contesti ambientali e relazioni interpersonali, talora meramente
contingenti. In questa prospettiva, se rientra nella discrezionalità del
legislatore la scelta di inasprire la repressione di fatti avvertiti come
particolarmente riprovevoli, quali quelli che aggrediscono la libertà sessuale,
risulterebbe, di contro, censurabile l’indissolubile collegamento a tali fatti
di una presunzione di pericolosità dell’autore.
Non consentendo di
tener conto delle possibili varianti, la norma impugnata determinerebbe,
dunque, la totale equiparazione nel trattamento cautelare di situazioni diverse
sul piano oggettivo e soggettivo. Essa genererebbe, in pari tempo, rischi di
confusione fra trattamento cautelare, improntato al principio del sacrificio
minimo della libertà personale, e trattamento punitivo, avente connotazioni più
propriamente retributive, con possibile attribuzione alla cautela di una
funzione di anticipazione della pena, in contrasto con l’art. 27 Cost.
Né
varrebbe far leva, in senso contrario, sulla prevista esclusione della
presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nelle
ipotesi attenuate contemplate dalle stesse norme incriminatrici
dei reati sessuali, trattandosi di ipotesi «comunque estremamente circoscritte,
secondo l’interpretazione ormai consolidata di esse».
3.
– Il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è
sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt.
3 e 13 Cost., anche dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Venezia con ordinanza depositata il 4 novembre 2009 (r.o.
n. 66 del 2010), nella parte in cui non consente la sostituzione della misura
della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari in relazione al
delitto previsto dall’art. 609-quater,
primo comma, numero 1), cod. pen.
Il
giudice a quo premette di essere
investito dell’istanza di revoca o di sostituzione della misura della custodia
cautelare in carcere, applicata ad una persona indagata per il delitto
continuato di cui all’articolo ora citato, avendo indotto ad atti sessuali un
minore di atti quattordici; fatto commesso nei giorni 10 e 11 dicembre 2008.
Ad
avviso del rimettente, non sussisterebbero le condizioni per la revoca della
misura, permanendo le esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.,
che, tuttavia – tenuto conto dell’«evoluzione migliorativa» del quadro sulla
cui base era stata disposta la custodia in carcere – potrebbero essere
adeguatamente soddisfatte con la misura meno afflittiva degli arresti
domiciliari.
Anche
in questo caso, l’accoglimento dell’istanza di sostituzione risulterebbe,
peraltro, impedito dal nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che, per la sua natura processuale, dovrebbe
ritenersi applicabile, in forza del principio tempus regit actum,
anche in relazione ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.
La
nuova disciplina si porrebbe, tuttavia, in contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost.
Essa metterebbe, difatti, in «crisi» i principi di adeguatezza e graduazione
che, in via generale, regolano l’esercizio del potere cautelare, rovesciando la
logica del «minore sacrificio necessario» sottostante alla formulazione
originaria dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,
in forza della quale è conferito ordinariamente al giudice della cautela il
potere-dovere di distinguere i diversi fatti riconducibili alla medesima figura
di reato e la differente intensità delle esigenze di tutela, ai fini della
scelta della misura meglio rispondente al caso concreto.
È
ben vero che
Mai,
peraltro, la giurisprudenza costituzionale avrebbe autorizzato il legislatore a
trasformare la regola dell’«adeguatezza» e della «graduazione» in eccezione,
precludendo, in base ad ampie generalizzazioni, la possibilità di un
trattamento individualizzante rispetto al grado delle esigenze cautelari e
sancendo, in via astratta, l’irrilevanza di qualsiasi forma di evoluzione
migliorativa delle medesime.
L’estensione
della presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare
in carcere al «troppo ampio e mutevole» catalogo di delitti oggi richiamati
dalla norma censurata sarebbe avvenuta, in effetti, secondo logiche diverse e
del tutto incompatibili rispetto a quelle passate positivamente al vaglio del
Giudice delle leggi.
Con
particolare riguardo alla tutela penale della libertà sessuale, si sarebbe
infatti al cospetto di fenomeni di devianza individuale che si manifestano
attraverso condotte della più diversa gravità, spesso conseguenti a patologie,
le quali possono, in un non trascurabile numero di casi, risultare contenibili,
sul piano cautelare, con misure diverse dalla custodia in carcere: donde un
insopprimibile bisogno di differenziare, sulla base di un apprezzamento in
concreto, i vari fatti riconducibili al paradigma legale astratto.
È
del resto costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione per
cui, in ossequio al favor libertatis che ispira l’art. 13 Cost., la
discrezionalità legislativa nella disciplina della materia considerata deve
orientarsi verso scelte che implichino il «minore sacrificio necessario». Con
la conseguenza che ove la compressione dei principi di «adeguatezza» e
«graduazione» non trovi coerente ragione giustificatrice nel corretto
bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, essa costituirebbe lesione
dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza, attraverso un uso
distorto della discrezionalità legislativa.
È
quanto si sarebbe appunto verificato con la norma censurata, la quale, tramite
la ricordata presunzione assoluta, avrebbe ingiustamente parificato situazioni
uguali, bensì, quanto a requisiti legali di fattispecie, ma diverse quanto a
specifici connotati di fatto: realizzando, così, un inaccettabile «eccesso di
mezzi» rispetto al fine della prevenzione di nuovi delitti.
4. – È intervenuto, in tutti i
giudizi di costituzionalità, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
La difesa dello Stato osserva come
Nella specie, la scelta legislativa
di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la custodia in carcere non
potrebbe essere ritenuta irragionevole solo perché i reati sessuali
presenterebbero una meno spiccata caratterizzazione pubblicistica rispetto ai
delitti associativi di stampo mafioso, trattandosi di reati che comunque
offendono il bene fondamentale, di rilevanza costituzionale, della libertà
personale.
Le fattispecie criminose in
questione costituiscono, inoltre, reati di evento, dei quali non potrebbe
essere apoditticamente sostenuta la minore gravità
rispetto ai delitti associativi, che sono pur sempre dei reati di pericolo.
La norma denunciata non violerebbe
neppure l’art. 13, primo comma, Cost., essendo stato rispettato il principio
della riserva di legge in materia di provvedimenti restrittivi della libertà
personale; né l’art. 27, secondo comma, Cost., stante l’estraneità della
presunzione di non colpevolezza all’assetto e alla conformazione delle misure
restrittive della libertà personale che operano sul piano cautelare, del tutto
distinto rispetto a quello concernente la condanna e l’irrogazione della pena,
così come puntualizzato dalla citata ordinanza n. 450 del
1995.
Insussistente
sarebbe, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. denunciata dal
Tribunale di Torino, tenuto conto del fatto che, pure in presenza di
disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo volte
a salvaguardare i diritti dei detenuti,
5. – Nel giudizio relativo
all’ordinanza r.o. n. 310 del 2009 si è costituito C.
A., persona sottoposta alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo che la norma impugnata sia dichiarata
costituzionalmente illegittima, nella parte in cui include i reati «a sfondo
sessuale» tra quelli per i quali è obbligatoriamente prevista la custodia in
carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari.
Il difensore della parte privata
rileva come, tramite l’estensione ai reati sessuali della disciplina
anteriormente prevista per i soli delitti di associazione mafiosa o a questa
collegati, il legislatore del 2009 abbia inteso rispondere, con un «segnale
forte», ad un «diffuso quanto generico "bisogno di giustizia”», suscitato da
vicende concrete che hanno avuto ampia risonanza nei mass media.
Il legislatore non avrebbe,
tuttavia, tenuto conto del diverso spirito della norma originaria, dando vita
ad una disciplina di più che dubbia compatibilità costituzionale, secondo
quanto rilevato dal Consiglio superiore della magistratura già in sede di
espressione del parere sul decreto-legge n. 11 del
Sarebbe, in effetti, evidente la
disparità di trattamento fra colui che si trova indagato per un reato a sfondo
sessuale, il quale, in presenza di esigenze cautelari, viene obbligatoriamente
sottoposto a custodia carceraria, senza possibilità di attenuazione della
stessa, e chi, indagato per reati diversi – magari ben più gravi, non soltanto
dal punto di vista della pena edittale, ma anche per la sicurezza collettiva
(quale, ad esempio, la cessione di sostanze stupefacenti a minori) – può invece
fruire di misure meno gravose.
Conformemente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la norma censurata violerebbe,
dunque, tanto l’art. 3 Cost., per equiparazione nel trattamento cautelare di
situazioni oggettivamente e soggettivamente diverse, sia in astratto che in
concreto; quanto gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., giacché
l’automatismo applicativo della custodia in carcere per i reati in questione
renderebbe inoperanti i criteri di adeguatezza e proporzionalità, da cui deriva
la necessità che sia sempre affidata al giudice la determinazione della misura
più consona al caso concreto, trasformando indebitamente lo strumento cautelare
in una anticipazione della pena.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno, il Tribunale
di Torino, sezione per il riesame, e il Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Venezia dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 275,
comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare
misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere alla
persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a taluni reati,
oggetto dei procedimenti a quibus: vale a dire per i delitti di violenza sessuale
(art. 609-bis del codice penale:
ordinanze r.o. n. 311 del 2009 e n. 14 del 2010),
atti sessuali con minorenne (art. 609-quater
del medesimo codice: ordinanze n. 310 del 2009
e n. 66 del 2010,
la seconda delle quali riferisce, peraltro, più specificamente la censura alla
fattispecie degli atti sessuali con minore di anni quattordici, prevista dal
numero 1 del primo comma di detto articolo), induzione o sfruttamento della
prostituzione minorile (art. 600-bis,
primo comma, cod. pen.: ordinanza r.o.
n. 14 del 2010).
Ad avviso dei giudici rimettenti, la norma censurata violerebbe l’art. 3
della Costituzione sotto plurimi profili.
In primo luogo – secondo il Giudice veneziano – per la irrazionale deroga
da essa apportata ai principi di adeguatezza, proporzionalità e graduazione,
che regolano, in via generale, l’esercizio del potere cautelare: deroga che non
risulterebbe sorretta, quanto ai delitti a sfondo sessuale, da ragioni
giustificatrici analoghe a quelle che hanno indotto questa Corte a ritenere
costituzionalmente legittimo lo speciale regime cautelare in discussione
rispetto alla criminalità di tipo mafioso, cui esso era in precedenza
circoscritto.
In secondo luogo – a parere del Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Belluno – per la ingiustificata equiparazione dei reati
considerati, i quali, pur nella loro gravità e «odiosità», offendono un bene
individuale, ai delitti di stampo mafioso, che mettono invece in pericolo le
condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva.
In terzo luogo – tanto secondo il Giudice bellunese che secondo il
Tribunale di Torino – per la sottoposizione di detti reati ad un trattamento
cautelare ingiustificatamente più severo di quello stabilito per altre
fattispecie criminose, cui la disciplina censurata non è estesa, ancorché
punite con pene più gravi.
Da ultimo – a parere dei Giudici per le indagini preliminari bellunese e
veneziano – per l’irragionevole equiparazione, sul piano cautelare, delle varie
condotte integrative dei delitti cui attengono le censure dei rimettenti
(violenza sessuale e atti sessuali con minorenne), le quali potrebbero
risultare, in concreto, marcatamente differenziate tra loro sul piano oggettivo
e soggettivo.
I giudici a quibus
denunciano altresì, concordemente, la violazione dell’art. 13 Cost., rilevando
come la norma impugnata venga ad imporre un sacrificio della libertà personale
dell’indagato o dell’imputato superiore a quello minimo che, nelle circostanze
concrete, può risultare necessario e sufficiente al fine di soddisfare le
esigenze cautelari.
Risulterebbe leso, ancora – secondo il Giudice bellunese e il Tribunale
di Torino – l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto la previsione normativa
sottoposta a scrutinio finirebbe per attribuire al trattamento cautelare una
funzione di anticipazione della pena, contrastante con la presunzione di non
colpevolezza.
Il solo Tribunale di Torino prospetta, infine, la violazione dell’art.
117, primo comma, Cost., per asserito contrasto della norma censurata con
l’art. 5, paragrafi 1, lettera c), e
4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali.
2. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative
alla medesima norma, sicché i giudizi vanno riuniti per essere definiti con
unica decisione.
3. – In via preliminare, va osservato che si presenta del tutto
plausibile la soluzione interpretativa sulla cui base anche il Tribunale di
Torino e il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia
affermano la rilevanza delle questioni nei procedimenti a quibus, benché questi abbiano ad oggetto
imputazioni di fatti commessi prima della vigenza della norma censurata.
La giurisprudenza di legittimità risulta, infatti, concorde nel ritenere
che il nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.,
introdotto dalla novella del 2009, sia destinato a trovare applicazione – in
forza del principio tempus regit actum, che disciplina la successione delle norme
processuali – anche nei procedimenti in corso, relativi appunto a fatti
commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della novella suddetta:
ciò, quantomeno allorché si discuta, come nei casi di specie, di istanze di
sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, precedentemente
applicata, con altra misura meno gravosa (oscillazioni giurisprudenziali si
riscontrano solo in rapporto all’ipotesi inversa).
4. – Nel merito, la questione è fondata in riferimento agli artt. 3, 13,
primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei limiti di seguito specificati.
5. – La disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nell’ambito
della disciplina codicistica delle misure cautelari
personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione
– in varie qualità, modalità e tempi – della libertà personale dell’indagato o
dell’imputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio definitivo
sulla sua responsabilità.
In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimità costituzionale di
dette misure, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale
(art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi – oltre che dalla riserva di legge,
che esige la tipizzazione dei casi e dei modi, nonché dei tempi di limitazione
di tale libertà, e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto
motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) – anche e
soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art.
27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva.
L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della
stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13, quinto comma) è,
in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo,
i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà
personale dell’indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili
con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano
connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo
dopo l’accertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti
di misure – nella loro specie più gravi – ad essa corrispondenti sul piano del
contenuto afflittivo. Il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost.
rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di
assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del
diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano.
Da ciò consegue – come questa Corte ebbe a rilevare sin dalla sentenza n. 64 del
1970 – che l’applicazione delle misure cautelari non può essere legittimata
in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né
corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della
sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un
preciso scopo (cosiddetto "vuoto dei fini”). Il legislatore ordinario è infatti
tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della libertà, ad
individuare – soprattutto all’interno del procedimento e talora anche
all’esterno (sentenza
n. 1 del 1980) – esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e
che debbano essere soddisfatte – entro tempi predeterminati (art. 13, quinto
comma, Cost.) – durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare,
nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio
della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via
definitiva.
Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di
riferimento è che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio
del "minore sacrificio necessario” (sentenza n. 299 del
2005): la compressione della libertà personale dell’indagato o
dell’imputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a
soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto.
Sul versante della "qualità” delle misure, ne consegue che il ricorso
alle forme di restrizione più intense – e particolarmente a quella "massima”
della custodia carceraria – deve ritenersi consentito solo quando le esigenze
processuali o extraprocessuali, cui il trattamento cautelare è servente, non
possano essere soddisfatte tramite misure di minore incisività. Questo
principio è stato affermato in termini netti anche dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell’art.
5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva «deve apparire
come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorché tutte le altre
opzioni disponibili si rivelino insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007, Lelièvre contro Belgio).
Il criterio del "minore sacrificio necessario” impegna, dunque, in linea
di massima, il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare
secondo il modello della "pluralità graduata”, predisponendo una gamma
alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà
personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi "individualizzati” di selezione
del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze
configurabili nelle singole fattispecie concrete.
6. – Il complesso di indicazioni costituzionali dianzi evidenziate trova
puntuale eco nella disciplina dettata dal codice di procedura penale, in
attuazione della direttiva n. 59 della legge di delegazione 16 febbraio 1987,
n. 81.
Nella cornice di
tale disciplina, la gravità in astratto dei reati oggetto del procedimento
rileva, difatti – in linea di principio – solo come limite generale di
applicazione delle misure cautelari (art. 280, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) o come quantum
del limite temporale massimo di durata (ai fini della cosiddetta scarcerazione
automatica: art. 303 cod. proc. pen.), non come
criterio di scelta sul "se” e sulla "specie” della misura.
Un giudizio di
gravità può essere legittimato, in determinate prospettive, solo sul fatto
concreto oggetto del procedimento (ad esempio, artt. 274, comma 1, lettera c, e 275, comma 2, cod. proc. pen.) e in via generale è richiesto, come condizione di
applicazione delle misure, sugli indizi a carico: è la cosiddetta gravità
indiziaria prevista dall’art. 273, comma 1, dello stesso codice.
Si tratta,
peraltro, di condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo la gravità
indiziaria sempre accompagnarsi ad esigenze cautelari, specificamente
individuate dalla legge, legate alla tutela dell’acquisizione o della genuinità
della prova, al pericolo di fuga dell’imputato ovvero al rischio di commissione
di gravi reati o di reati della stessa specie di quello per cui si procede
(art. 274 cod. proc. pen.).
In accordo con il
modello sopra indicato, viene altresì tipizzato un "ventaglio” di misure, di
gravità crescente in relazione all’incidenza sulla libertà personale: divieto
di espatrio (art. 281), obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art.
282), allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), divieto e obbligo di dimora (variamente modulabile quanto ai
tempi e ai limiti territoriali: art. 283), arresti domiciliari (variamente
modulabili anche in luoghi diversi dall’abitazione propria del soggetto, vale a
dire in altri luoghi privati o in luoghi pubblici di cura o di assistenza: art.
284), custodia cautelare in carcere (art. 285).
Di particolare
rilievo, ai presenti fini, sono poi i criteri di scelta delle misure nel novero
di quelle tipizzate. Il primo e fondamentale è quello di adeguatezza (art. 275,
comma 1), secondo il quale, «nel disporre le misure, il giudice tiene conto
della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle
esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto». A questo precetto fa
riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto, sancito a pena di
nullità (art. 292, comma 2, lettera c,
cod. proc. pen.).
È di tutta
evidenza come proprio nel criterio di adeguatezza, correlato alla "gamma” graduata
delle misure, trovi espressione il principio – implicato dal quadro
costituzionale di riferimento – del "minore sacrificio necessario”: entro il
"ventaglio” delle alternative prefigurate dalla legge, il giudice deve infatti
prescegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a
tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da ridurre al minimo
indispensabile la lesività determinata dalla
coercizione endoprocedimentale.
A completamento e
specificazione del criterio in parola è, poi, previsto che la più gravosa delle
misure cautelari personali coercitive, vale a dire la custodia cautelare
carceraria, «può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti
inadeguata» (art. 275, comma 3, primo periodo, cod. proc. pen.).
Su ciò il giudice che la applica è tenuto a dare, a pena di nullità, una
motivazione appropriata, mediante «l’esposizione delle concrete e specifiche
ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere
soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.). Si tratta della
natura cosiddetta residuale-eccezionale, o di extrema ratio, di
questa misura.
È inoltre
enunciato il criterio di proporzionalità, secondo il quale «ogni misura deve
essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si
ritiene possa essere irrogata» (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.).
7. – Tratto saliente complessivo del regime ora ricordato – conforme al
quadro costituzionale di riferimento – è quello di non prevedere automatismi né
presunzioni. Esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per
l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale
siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta,
alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor
sacrificio, così da realizzare una piena "individualizzazione” della
coercizione cautelare.
Da tali coordinate si discosta in modo vistoso – assumendo, con ciò,
carattere derogatorio ed eccezionale – la disciplina attualmente espressa dal
secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario del codice, ma in
esso inserita via via, con lo strumento della
decretazione d’urgenza, in un primo tempo tramite l’aggiunta del solo secondo
periodo al citato art. 275, comma 3, sulla spinta di una situazione apprezzata
come "emergenziale”, legata segnatamente alla rilevata recrudescenza del
fenomeno della criminalità mafiosa e di altri gravi o gravissimi reati (art. 5,
comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti
urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon
andamento dell’attività amministrativa», convertito, con modificazioni, dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203, e art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 settembre
1991, n. 292, recante «Disposizioni in materia di custodia cautelare, di
avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di
trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari
non richiesti», convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n.
356); successivamente (attraverso l’art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332,
recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei
procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») con un contenimento
di questa speciale disciplina, mediante una drastica riduzione dei reati a essa
assoggettati a quelli di cui all’art. 416-bis
cod. pen. ovvero
commessi avvalendosi delle condizioni previste da detto articolo o per
agevolare le associazioni ivi indicate; infine, nuovamente e notevolmente
ampliando il novero dei reati stessi, con le addizioni recate al vigente
secondo periodo e con quelle ulteriori incluse nel nuovo terzo periodo del
comma 3 dell’art. 275 (mediante gli interventi parimenti emergenziali dell’art.
2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009, n. 38).
In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni
delitti, analiticamente elencati, ove ricorra la condizione della gravità
indiziaria, il giudice dispone senz’altro l’applicazione della misura cautelare
della custodia carceraria, «salvo che siano acquisiti elementi dai quali
risulti che non sussistono esigenze cautelari».
Per comune opinione, la previsione ora ricordata racchiude una duplice
presunzione. La prima, a carattere relativo, attiene alle esigenze cautelari,
che il giudice deve considerare sussistenti, quante volte non consti la prova
della loro mancanza (prova di tipo negativo, dunque, che deve necessariamente
proiettarsi su ciascuna delle fattispecie identificate dall’art. 274 cod. proc.
pen.). La seconda, a carattere assoluto, concerne la
scelta della misura: ove la presunzione relativa non risulti vinta, subentra un
apprezzamento legale, vincolante e incontrovertibile, di adeguatezza della sola
custodia carceraria a fronteggiare le esigenze presupposte, con conseguente
esclusione di ogni soluzione "intermedia” tra questa e lo stato di piena
libertà dell’imputato.
Il modello ora evidenziato si traduce, sul piano pratico, in una marcata
attenuazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti applicativi della
custodia cautelare in carcere. Secondo un indirizzo consolidato della
giurisprudenza di legittimità, difatti, in presenza di gravi indizi di
colpevolezza per uno dei reati considerati, il giudice assolve il suddetto
obbligo dando semplicemente atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere
la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, senza dovere
specificamente motivare sul punto; mentre solo nel caso in cui l’indagato o la
sua difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, egli sarà tenuto a
giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare
Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime ordinario avevano
indotto il legislatore – nell’ambito di un più generale disegno di recupero
delle garanzie in materia di misure cautelari – a delimitare in senso
restrittivo il campo di applicazione della disciplina derogatoria, costituente
un vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai
suoi esordi, ad una nutrita e disparata serie di figure criminose, il regime
speciale era stato infatti circoscritto – a partire dal 1995, come dianzi
ricordato – ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (art. 5,
comma 1, della citata legge n. 332 del 1995).
In tali limiti, la previsione aveva superato il vaglio tanto di questa
Corte che della Corte europea dei diritti dell’uomo. Entrambe le Corti avevano,
infatti, in vario modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui
connotazione strutturale astratta (come reati associativi e, dunque, permanenti
entro un contesto di criminalità organizzata, o come reati a tale contesto
comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» – nei relativi procedimenti –
le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola
custodia carceraria, trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a
neutralizzare il periculum libertatis connesso
al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione.
In particolare, con l’ordinanza n. 450 del
1995, questa Corte aveva escluso che la presunzione in parola violasse gli
artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., rilevando che se la
verifica della sussistenza delle esigenze cautelari («l’an della cautela») non può
prescindere da un accertamento in concreto, l’individuazione della misura da
applicare («il quomodo»)
non comporta indefettibilmente l’affidamento al
giudice di analogo potere di apprezzamento, potendo la scelta essere effettuata
anche in termini generali dal legislatore, purché «nel rispetto del limite
della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali
coinvolti» (in senso analogo, sul punto, ordinanze n. 130 del 2003
e n. 40 del 2002).
Nella specie, deponeva nel senso della ragionevolezza della soluzione adottata
«la delimitazione della norma all’area dei delitti di criminalità organizzata
di tipo mafioso», tenuto conto del «coefficiente di pericolosità per le
condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli
illeciti di quel genere è connaturato».
A sua volta,
8. – È su questo quadro che si innesta l’ulteriore intervento
novellistico che dà origine agli odierni quesiti di costituzionalità, operato
con il decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 38 del 2009.
Compiendo un "salto di qualità” a ritroso, rispetto alla novella del
1995, l’art. 2, comma 1, lettere a) e
a-bis), del citato provvedimento
d’urgenza riespande l’ambito di applicazione della
disciplina eccezionale ai procedimenti aventi ad oggetto numerosi altri reati,
individuati in parte mediante diretto richiamo agli articoli di legge che
descrivono le relative fattispecie e per il resto tramite rinvio "mediato” alle
norme processuali di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod.
proc. pen.; reati tra i quali si annoverano quelli
considerati dalle ordinanze di rimessione, e cioè l’induzione o sfruttamento
della prostituzione minorile (art. 600-bis,
primo comma, cod. pen.); la violenza sessuale (art.
609-bis cod. pen.),
salvo che ricorra l’attenuante di cui al terzo comma («casi di minore
gravità»); gli atti sessuali con minorenne (art. 609-quater cod. pen.), salvo che ricorra
l’attenuante di cui al quarto comma («casi di minore gravità»).
È agevole constatare come le estensioni operate – successivamente
implementate da modifiche legislative che non hanno interessato direttamente la
norma impugnata (ad esempio, art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il «Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero», aggiunto dalla legge 15 luglio 2009, n. 94,
recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica») – riguardino
fattispecie penali in larga misura eterogenee fra loro (fatta eccezione per i
delitti "a sfondo sessuale”), e cioè poste a tutela di differenti beni
giuridici, assai diversamente strutturate e con trattamenti sanzionatori anche
notevolmente differenti (si pensi all’omicidio volontario, al sequestro di
persona a scopo di estorsione, all’associazione finalizzata al contrabbando di
tabacchi lavorati esteri, ai delitti commessi con finalità di terrorismo o di
eversione) e accomunate unicamente dall’essere i relativi procedimenti
assoggettati al regime cautelare speciale in questione.
9. – Tutte le ordinanze di rimessione censurano la norma impugnata
limitatamente al fatto che non consente di applicare una misura cautelare meno
afflittiva nei procedimenti a quibus, aventi ad oggetto i delitti sessuali dianzi
citati. È, dunque, sottoposta allo scrutinio di costituzionalità esclusivamente
la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare
carceraria, mentre resta fuori del devoluto la presunzione relativa di
sussistenza delle esigenze cautelari: dandosi per scontata questa sussistenza,
ciò che rileva, secondo i rimettenti, e determina l’illegittimità
costituzionale è la lesione del principio del "minore sacrificio necessario”.
10. – La lesione denunciata è effettivamente riscontrabile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «le presunzioni assolute,
specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il
principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non
rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». In
particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le
volte in cui sia "agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del
2010).
Per questo verso, alle figure criminose che interessano non può
estendersi la ratio
già ritenuta, sia da questa Corte che dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai
procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto: vale a dire che
dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni
criminologiche – connesse alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni
di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di
norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di
collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva,
nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di
esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui
soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le
misure "minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito
delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).
Con riguardo ai delitti sessuali in considerazione non è consentito
pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza, in questo caso, è
ben diversa: ed è che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in
questione (pur a prescindere dalle ipotesi attenuate e considerando quelle
ordinarie) non solo presentano disvalori nettamente differenziabili, ma anche e
soprattutto possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere
soddisfatte con diverse misure.
Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in
questione ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali, e
tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari
affrontabili solo e rigidamente con la massima misura.
Altrettanto può dirsi per quei fatti che si manifestano all’interno di
specifici contesti (ad esempio, quello familiare o scolastico o di particolari
comunità), in relazione ai quali le esigenze cautelari possono trovare risposta
in misure diverse dalla custodia carceraria e che già il legislatore ha
previsto, proprio in via specifica, costituite dall’esclusione coatta in vario
modo e misura dal contesto medesimo: gli arresti domiciliari in luogo diverso
dalla abitazione del soggetto (art. 284 cod. proc. pen.),
eventualmente accompagnati anche da particolari strumenti di controllo (quale
il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis), l’obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in
determinati luoghi (art. 283), l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis, ove al comma 6 sono specificamente
evocati anche i casi in cui si proceda per taluno dei delitti a sfondo sessuale
qui in esame).
A riprova conclusiva della molteplicità e varietà dei fatti punibili per
i titoli in esame si può notare che il delitto di violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.)
già in astratto comprende – pur tenendo conto della sottrazione al regime
cautelare speciale delle ipotesi attenuate – condotte nettamente differenti
quanto a modalità lesive del bene protetto, quali quelle corrispondenti alle
previgenti fattispecie criminose della violenza carnale e degli atti di
libidine violenti. Ciò rende anche più debole la "base statistica” della presunzione
assoluta considerata.
11. – La ragionevolezza della
soluzione normativa scrutinata non potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro
verso, nella gravità astratta del reato, considerata sia in rapporto alla
misura della pena, sia – come mostra invece di ritenere l’Avvocatura generale
dello Stato – in rapporto alla natura (e, in particolare, all’elevato rango)
dell’interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo di rilievo, ma
neppure esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente per la
determinazione della sanzione, ma risultano, di per sé, inidonei a fungere da
elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza di esigenze
cautelari e – per quanto qui rileva – del loro grado, che condiziona
l’identificazione delle misure idonee a soddisfarle.
D’altra parte, l’interesse tutelato
penalmente è, nella generalità dei casi, un interesse primario, dotato di
diretto o indiretto aggancio costituzionale, invocando il quale si potrebbe
allargare indefinitamente il novero dei reati sottratti in modo assoluto al
principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di quest’ultimo facendo
leva sull’incensurabilità della discrezionalità legislativa.
Ove dovesse aversi riguardo, poi,
alla misura edittale della pena, la scelta del legislatore non potrebbe che
apparire palesemente scompensata e arbitraria. Procedimenti relativi a
gravissimi delitti – puniti con pene più severe di quelli che qui vengono in
rilievo (taluni addirittura con l’ergastolo) – restano, infatti, sottratti al
regime cautelare speciale: basti pensare alla strage (art. 422 cod. pen.), alla devastazione o saccheggio (art. 419 cod. pen.), alla rapina e all’estorsione aggravate (artt. 628,
terzo comma, e 629, secondo comma, cod. pen.), alla
produzione, traffico e detenzione illeciti di stupefacenti, anche con riguardo
all’ipotesi aggravata di cessione a minorenni (artt. 73 e 80, comma 1, lettera a, del d.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309).
12. – Tanto meno, infine, la
presunzione in esame potrebbe rinvenire la sua fonte di legittimazione
nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinate
dalla asserita crescita numerica di taluni delitti.
Proprio questa, per contro, è la convinzione che traspare dai lavori
parlamentari relativi alla novella del 2009 e che ha portato ad attribuire
carattere "emergenziale” all’esigenza di precludere l’applicazione di misure
cautelari "attenuate” nei confronti degli indiziati di delitti di tipo
sessuale.
La norma oggetto di scrutinio si colloca, infatti, nel corpo delle
disposizioni – racchiuse nel capo I del decreto-legge n. 11 del 2009 – volte ad
un generale inasprimento del regime cautelare, repressivo e penitenziario dei
delitti in questione: inasprimento che, nell’idea dei compilatori,
rappresenterebbe la necessaria risposta alla preoccupazione diffusasi
nell’opinione pubblica, di fronte alla – percepita – ingravescenza
di tale deplorevole forma di criminalità (esplicita, al riguardo, la relazione
al disegno di legge di conversione A.C. 2232).
La eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del
quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o
dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più
pericolosa, non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia
preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di
rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale
si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale
della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del
delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società.
Non è dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi
interprete dell’acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso
determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come
particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle
considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati,
costituiti dalla comminatoria di pene adeguate, da infliggere all’esito di
processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non
già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di
colpevolezza.
Nella specie, per converso, la totale vanificazione del principio di
adeguatezza, in difetto di una ratio correlata
alla struttura delle fattispecie criminose di riferimento, cumulandosi alla
presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, orienta
chiaramente lo "statuto custodiale” – in conformità
alle evidenziate risultanze dei lavori parlamentari – verso finalità "metacautelari”, che nel disegno costituzionale devono
essere riservate esclusivamente alla sanzione penale inflitta all’esito di un
giudizio definitivo di responsabilità.
13. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque
concludere che la norma impugnata viola, in
parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei
procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di
mafia nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare
delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati;
sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime
ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia,
infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione
processuale tratti funzionali tipici della pena.
Al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo e tenuto conto dei
limiti delle questioni devolute allo scrutinio di questa Corte, la
compatibilità costituzionale della norma censurata non è peraltro necessario
rimuovere integralmente la presunzione di cui discute.
Ciò che rende costituzionalmente inaccettabile la presunzione stessa è
per certo il suo carattere assoluto, che si risolve in una indiscriminata e
totale negazione di rilievo al principio del "minore sacrificio necessario”,
anche quando sussistano – come nei casi oggetto dei procedimenti a quibus,
secondo quanto riferiscono i giudici rimettenti – specifici elementi da cui
desumere, in positivo, la sufficienza di misure diverse e meno rigorose della
custodia in carcere.
La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza di
quest’ultima – atta a realizzare una semplificazione del procedimento
probatorio suggerita da taluni aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso
considerato, ma comunque superabile da elementi probatori di segno contrario –
non eccede, per contro, i limiti di compatibilità con i parametri evocati,
rimanendo per tale verso non censurabile
l’apprezzamento legislativo, in rapporto alle caratteristiche dei reati in
questione, della ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più
intenso (per una conclusione analoga, con riguardo alla fattispecie da essa
esaminata, sentenza
n. 139 del 2010). In tale modo, si evita comunque l’irrazionale
equiparazione dei procedimenti relativi a tali reati a quelli concernenti la
criminalità di tipo mafioso e si lascia spazio alla differenziazione delle
varie fattispecie concrete riconducibili ai paradigmi punitivi astratti.
I reati in questione restano assoggettati ad un regime cautelare
speciale, tuttavia attenuato dalla natura relativa – e quindi superabile –
della presunzione di adeguatezza della custodia carceraria e, perciò, non
incompatibile con il quadro costituzionale di riferimento.
L’art. 275, comma 3, secondo e terzo
periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli
articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
14.
– La censura formulata dal Tribunale di Torino in relazione all’art. 117, primo
comma, Cost. resta assorbita.
per questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo
periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli
articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.
F.to:
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
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