SENTENZA
N. 141
ANNO
2016
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio
BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 1, commi 398, 414, 555, 556 e 557, della legge
23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015), promossi dalle Regioni
Veneto e Lombardia con ricorsi notificati, rispettivamente, il 24-25 febbraio
2015 e il 26 febbraio – 3 marzo 2015, depositati in cancelleria,
rispettivamente, il 4 e il 5 marzo 2015 ed iscritti ai nn. 31
e 33 del
registro ricorsi 2015.
Visti gli atti di costituzione del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 maggio
2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Luca Antonini e Luigi
Manzi per la Regione Veneto, Francesco Saverio Marini per la Regione Lombardia,
e l’avvocato dello Stato Stefano Varone per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
1.— La Regione Veneto, con ricorso
notificato il 25 febbraio 2015 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri
e il 24 febbraio 2015 presso l’Avvocatura generale dello Stato, poi depositato
il 4 marzo 2015 (reg. ric. n. 31 del 2015), ha impugnato, tra gli altri, l’art.
1, commi 398, lettere a), b) e c), 414 e 556, della legge 23 dicembre 2014, n.
190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato – legge di stabilità 2015).
1.1.— L’art. 1, comma 398, lettere a) e
b), in particolare, è censurato nelle parti in cui, modificando l’art. 46,
comma 6, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la
competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89: sostituisce le parole «[l]e
regioni a statuto ordinario» alle parole «le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano»; estende di un anno (al 2018) l’orizzonte temporale del
contributo alla finanza pubblica ivi previsto; sopprime le parole «tenendo
anche conto del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva
2011/7/UE, nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati,»; espunge, dal
secondo periodo, la parola «eventualmente».
All’esito di tali modifiche, l’art. 46,
comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, stabilisce le modalità di
riparto del contributo alla finanza pubblica delle Regioni, di cui fissa gli
importi (pari a 500 milioni di euro per il 2014 ed a 750 milioni di euro per
ciascuno degli anni dal 2015 al 2018), rinviando ad un’intesa da sancire in
sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano per l’individuazione degli ambiti di
spesa e degli importi da proporre in sede di autocoordinamento dalle Regioni, e
da raggiungere entro il 31 maggio 2014, con riferimento all’anno 2014, ed entro
il 30 settembre 2014 (per effetto della modifica già introdotta dall’art. 42,
comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, recante «Misure urgenti
per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive», convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164)
con riferimento agli anni 2015 e seguenti. In mancanza d’intesa, si prevede che
i richiamati importi siano assegnati, con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri (da adottarsi, previa deliberazione del Consiglio dei ministri,
entro 20 giorni dalla scadenza dei predetti termini), ad ambiti di spesa
attribuiti alle singole Regioni, in base al PIL regionale ed alla popolazione
residente, con rideterminazione dei livelli di finanziamento degli ambiti
individuati e delle modalità di acquisizione delle risorse da parte dello
Stato.
Secondo la ricorrente, le modifiche alla
disposizione ricordata, apportate dalla legge n. 190 del 2014, violerebbero gli
artt. 3, 117, secondo, terzo e
quarto comma, 118
e 119 della
Costituzione, oltre al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
In primo luogo, sarebbe leso il
principio di leale collaborazione, in quanto l’originaria previsione dell’art.
46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sarebbe diventata «il
contenitore di una nuova manovra (realizzata includendo un’altra annualità di
taglio al periodo originariamente previsto)», rispetto alla quale sarebbe però
«preclusa completamente la possibilità dell’intesa, perché il termine previsto
dal comma 6 dell’art. 46 (peraltro appunto arbitrariamente anticipato) è
appunto da tempo decorso (31 settembre 2014)».
In altre parole, l’intervento
legislativo impugnato inserirebbe nuove misure finanziarie in un testo
normativo recante ancora la previsione di un’intesa, i termini per la cui
conclusione sono tuttavia da tempo spirati: in questo modo, il legislatore
utilizzerebbe il riferimento ad un’intesa, divenuta irrealizzabile, per imporre
nuovi risparmi di spesa, riducendo la leale collaborazione a mera apparenza.
Le disposizioni censurate, in secondo
luogo, eluderebbero i principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in
relazione alla funzione di coordinamento della finanza pubblica. Sostiene, in
particolare, la ricorrente che nelle sentenze n. 193 del
2012 e n. 79
del 2014 la Corte costituzionale avrebbe affermato l’obbligatorietà di un
termine finale di operatività delle misure finanziarie restrittive riguardanti
Regioni, Province e Comuni, e che, in relazione alle manovre di contenimento
della spesa pubblica a carico delle Regioni, tale limite temporale massimo
sarebbe stato fissato in un triennio. Risulterebbe perciò del tutto elusiva di
questa giurisprudenza la tecnica normativa di fissare inizialmente un termine
triennale ai «tagli», estendendolo poi, con successivi interventi normativi, ad
annualità ulteriori, peraltro a intesa ormai «chiusa». In tal modo verrebbe
vanificato il limite temporale, che costituirebbe la condizione di legittimità
costituzionale dell’intervento statale di coordinamento della finanza pubblica.
Da ciò, per la ricorrente, la violazione sia dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
sia dell’art. 119 Cost., sull’autonomia di spesa della Regione.
Infine, le disposizioni impugnate,
aggiungendo un’ulteriore annualità a quanto originariamente previsto dagli
artt. 8 e 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, perpetuerebbero
l’illegittimità costituzionale del meccanismo così congegnato, già censurato
con il ricorso iscritto al n. 63 reg. ric. del 2014, con particolare
riferimento al «carattere meramente lineare del taglio» imposto alle spese per
acquisti di beni e servizi, in ogni settore e senza alcuna distinzione qualitativa,
attraverso una misura dal carattere assolutamente generico, come tale idonea a
ricomprendere sia la cosiddetta «spesa cattiva» sia la cosiddetta «spesa buona»
(identificata dalla ricorrente, quale esempio, nella spesa in conto capitale,
che dal 2010 al 2013 in Italia, per l’effetto di manovre di taglio lineare
analoghe a quella in oggetto, si sarebbe ridotta di circa 20 miliardi di euro).
Tale ulteriore riduzione sarebbe potenzialmente idonea ad interferire in ambiti
inerenti a fondamentali diritti civili e sociali (ad esempio in materia di
assistenza sociale, assegnata costituzionalmente alla Regione), nei quali lo
Stato dovrebbe invece svolgere una funzione di coordinamento, attraverso la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, al fine di evitare la
messa a repentaglio dell’uniforme livello dei servizi da garantire su tutto il
territorio nazionale (vengono richiamate le sentenze n. 320 del
2004 e n.
273 del 2013 della Corte costituzionale). Non essendo stati previamente
determinati i livelli essenziali nelle materie (quale, ad esempio, l’assistenza
sociale) interessate dalla misura di restrizione finanziaria, lo Stato non
avrebbe effettuato alcuna verifica circa la sostenibilità della riduzione di
spesa rispetto alla erogazione dei relativi servizi, anche in considerazione
della mancanza di alcun riferimento a livelli standard di spesa efficiente,
considerato che tale disciplina si applica alla totalità delle Regioni, senza
che abbiano rilievo i livelli di spesa storica (e della relativa
appropriatezza) sostenuti dai singoli enti. Ne deriverebbe la penalizzazione di
quelle «realtà regionali che hanno adottato da tempo misure di contenimento
della spesa riducendola a livelli difficilmente ulteriormente comprimibili
senza un vulnus al sistema dei servizi sociali».
Secondo la ricorrente, le disposizioni
impugnate travalicherebbero la funzione del «coordinamento» della finanza
pubblica, concretizzandosi in misure di indiscriminato «contenimento» prive,
tuttavia, degli indispensabili elementi di razionalità, di efficacia e di
sostenibilità. Sicché, «la mancata individuazione dei livelli essenziali delle
prestazioni (la cui determinazione era stata prevista in Costituzione per
garantirne una tutela a livello centrale), è quindi paradossalmente divenuta
un’occasione per introdurre misure di contenimento finanziario in grado di
compromettere quegli stessi livelli».
Per la ricorrente, in definitiva, sotto
questo profilo sarebbero violati: il principio di ragionevolezza di cui
all’art. 3 Cost., «con una diretta ricaduta sull’autonomia regionale che
risulta limitata nella propria capacità organizzativa e finanziaria»; l’art.
117, secondo e terzo comma, Cost. essendo indebitamente travalicata la funzione
di coordinamento della finanza pubblica; gli artt. 117, terzo e quarto comma,
118 e 119 Cost., essendo «indebitamente incisa l’autonomia di spesa della
Regione e conseguentemente anche la funzione legislativa della stessa che si
deve svolgere nel rispetto degli equilibri di un quadro finanziario che viene
illegittimamente alterato».
1.2.— La Regione Veneto impugna
unitariamente anche i commi 398, lettera c), 414 e 556 dell’art. 1 della legge
n. 190 del 2014.
In particolare, il comma 398, lettera
c), ha aggiunto, alla fine del comma 6 dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014,
come convertito, i seguenti periodi: «Per gli anni 2015-2018 il contributo
delle regioni a statuto ordinario, di cui al primo periodo, è incrementato di
3.452 milioni di euro annui in ambiti di spesa e per importi complessivamente
proposti, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza, in sede di autocoordinamento
dalle regioni da recepire con intesa sancita dalla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano, entro il 31 gennaio 2015. A seguito della predetta intesa sono
rideterminati i livelli di finanziamento degli ambiti individuati e le modalità
di acquisizione delle risorse da parte dello Stato. In assenza di tale intesa
entro il predetto termine del 31 gennaio 2015, si applica quanto previsto al
secondo periodo, considerando anche le risorse destinate al finanziamento
corrente del Servizio sanitario nazionale».
I successivi commi 414 e 556 prevedono,
rispettivamente, che le Regioni debbono assicurare «il finanziamento dei
livelli essenziali di assistenza come eventualmente rideterminato ai sensi dei
commi da 398 a 417»; e che il livello del finanziamento del Servizio sanitario
nazionale a cui concorre lo Stato è stabilito in certi importi (112.062.000.000
euro per l’anno 2015 e 115.444.000.000 euro per l’anno 2016), salve eventuali
rideterminazioni proprio in attuazione dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66
del 2014, come convertito e come modificato dal comma 398 dell’art. 1 della
legge n. 190 del 2014, in attuazione di quanto previsto dall’art. 1, comma 1,
dell’intesa sancita, in data 10 luglio 2014, dalla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
(di seguito denominata «Patto per la salute»).
La Regione Veneto articola le proprie
censure distinguendo diversi profili.
In primo luogo, quanto al primo periodo
della lettera c) del comma 398, la ricorrente richiama – ritenendole
estensibili anche all’ulteriore contributo introdotto dalla disposizione in
esame – tutte le censure incentrate sul «carattere meramente lineare del taglio»,
già avanzate con riferimento al contributo originario disciplinato dall’art.
46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito (ed illustrate al
precedente punto 1.1., in relazione all’impugnativa della dilatazione
temporale, al 2018, di tale misura finanziaria), evidenziando il contrasto
della disposizione con gli artt. 3, 117, secondo, terzo e
quarto comma, 118
e 119 Cost.,
nonché con il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
In secondo luogo, sul presupposto che
«solo qualora venga raggiunta l’intesa, il taglio non riguardi anche le risorse
destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale», la
ricorrente lamenta che le Regioni, al fine del raggiungimento dell’intesa, e
dunque per scongiurare la riduzione della spesa sanitaria, sarebbero obbligate
a comprimere ulteriormente la spesa extra-sanitaria, ossia proprio quella che
avrebbe maggiormente subito l’impatto delle manovre di finanza pubblica,
essendosi ridotta – come risulterebbe dal rapporto del 16 gennaio 2014 della
Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale
(COPAFF), approvato in data 14 febbraio dalla Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica – del 38,7% dal 2008 al 2013 (contro il
13,4% per la spesa dello Stato, il 14,3% per quella dei Comuni e il 27,8% per
quella delle Province). A detta della ricorrente, la riduzione sarebbe giunta
ad un livello tale che l’importo di 3.452 milioni di euro, stabilito
dall’impugnato comma 398, lettera c), non troverebbe «capienza all’interno
dell’ammontare della spesa primaria (extra sanitaria) per beni e servizi delle
Regioni».
Per dimostrare tale assunto, la
ricorrente ricorda che – stando ai dati elaborati dal Centro interregionale
studi e documentazione (CINSEDO) – per assolvere al maggiore contributo
richiesto dalla disposizione impugnata, le Regioni dovrebbero ridurre del 91%
la spesa (extra-sanitaria) per l’acquisto di beni e servizi, ed azzerarla
totalmente per provvedere agli ulteriori tagli strutturali previsti, per gli
anni 2014 e 2015, dall’art. 16 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95
(Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese
del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 7 agosto 2012, n. 135, nonché dall’art. 8 del d.l. n. 66 del 2014,
come convertito.
Da tutto ciò discenderebbe la palese
irragionevolezza della disposizione impugnata, la cui attuazione comporterebbe,
di fatto, «la compromissione della stessa potestà legislativa e amministrativa
regionale nelle materie, extra sanità, di propria competenza, ridondando
pertanto sull’autonomia regionale».
Solo qualora si intendesse – contro il
dettato asseritamente letterale del testo di legge – che la riduzione di spesa,
prevista dal primo periodo della lettera c) del comma 398, debba riguardare,
già in occasione della proposta formulata in sede di autocoordinamento
regionale, anche quella relativa al comparto sanitario, varrebbero i profili di
incostituzionalità – per irragionevolezza, violazione dei criteri di
determinazione e finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni e
mancata considerazione dei costi standard – che affliggerebbero le disposizioni
di cui al «secondo periodo della lettera c) del comma 398».
Il terzo motivo di censura enucleato
dalla ricorrente riguarda proprio tale secondo (rectius: terzo) periodo della
lettera c) del comma 398. Esso è ritenuto lesivo degli artt. 3, 32 e 97 Cost.,
e tale violazione ridonderebbe in una lesione delle competenze riconosciute
alle Regioni, le quali, peraltro, sarebbero anche direttamente incise
attraverso la violazione degli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e
119 Cost., nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120
Cost.
I profili di incostituzionalità sono
indicati con riferimento a distinti aspetti, variamente collegati anche alle
disposizioni di cui ai successivi commi 414 e 556 del medesimo art. 1 della legge
n. 190 del 2014.
Il primo profilo attiene all’intervento
dello Stato, previsto, in mancanza di intesa tra le Regioni, per stabilire
importi ed ambiti di spesa cui imputare l’imposta riduzione, in quanto il
relativo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri viene emanato anche
tenendo conto del PIL regionale e della popolazione residente.
Secondo la ricorrente, tali due criteri,
non solo – in violazione dell’art. 117, terzo comma Cost. – non avrebbero «una
attinenza costituzionalmente corretta con lo scopo della norma che è quello del
coordinamento (rectius: contenimento) della spesa regionale», ma soprattutto
addosserebbero «un maggiore onere alle Regioni con un Pil più elevato»,
travalicando l’ambito fissato dall’art. 119 Cost., in particolare ai commi
terzo e quinto.
Viene richiamata la sentenza n. 79 del
2014 della Corte costituzionale, la quale ha precisato che una riduzione
delle risorse regionali, applicata in proporzione alle spese sostenute per
consumi intermedi, realizza un effetto perequativo implicito, ma evidente, in
contrasto con i requisiti fissati dal terzo e dal quinto comma dell’art. 119
Cost.
Lo stesso vizio, secondo la ricorrente,
inficerebbe una previsione di riduzione di risorse in cui il riferimento ai
consumi intermedi sia sostituito, come nella disposizione impugnata, con quello
al PIL regionale (ed alla popolazione residente). Anche in tal caso si
addosserebbe un maggiore onere a carico di Regioni con un PIL più elevato, con
alterazione dei corretti criteri costituzionali della perequazione. Infatti, il
dato relativo al PIL sarebbe cosa ben diversa dalla capacità fiscale cui fa
riferimento l’art. 119 Cost., poiché elementi che concorrono a determinare il PIL
non rientrerebbero – necessariamente o nello stesso modo – nella dinamica
impositiva.
Sotto altro aspetto, la disposizione
impugnata prevede che lo Stato possa considerare «anche le risorse destinate al
finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale». Anche in questo caso,
per la ricorrente, si paleserebbe il «carattere meramente lineare del taglio»,
che in questa fattispecie risulterebbe ancora più grave, se solo si considera
che, per il riparto del fondo sanitario nazionale, gli articoli da 25 a 32 del
decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia
di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario),
prevedono il riferimento ai costi ed ai fabbisogni standard regionali: un
criterio del tutto trascurato dalla disposizione impugnata, nonostante la
proposta di emendamento avanzata in tal senso dalle Regioni nel corso dei
lavori parlamentari. La disposizione impugnata, dunque, non prevederebbe alcun
adeguato criterio di razionalizzazione della distribuzione della riduzione di
spesa, destinata, perciò, ad incidere in modo indiscriminato tanto sulle realtà
efficienti, dove minimo è il livello di spreco (e quindi la possibilità di
razionalizzazione della spesa), quanto su quelle inefficienti, dove invece
elevato è il livello di spreco e, dunque, alta la possibilità di
razionalizzazione.
Infine, il comma 414 dispone che,
comunque, le Regioni assicurino il finanziamento dei livelli essenziali di
assistenza e il comma 556 prevede la rideterminazione, in conseguenza della
riduzione di spesa, del livello del finanziamento del Servizio sanitario
nazionale a cui concorre lo Stato. Secondo la ricorrente, quindi, tali
disposizioni, nel loro complesso, mantengono a carico delle Regioni l’obbligo
di garantire il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza, la cui
determinazione risale però al 2001 – in forza del d.P.C.m. 29 novembre 2001
(recante, appunto, la «Definizione dei livelli essenziali di assistenza»), poi
modificato dal d.P.C.m. 5 marzo 2007 (Modifica del decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 29 novembre 2001, recante: «Definizione dei livelli
essenziali di assistenza») – senza che, ad oggi, sia stata ancora attuata la
previsione dell’art. 5 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158
(Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto
livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, che di tali livelli essenziali
aveva previsto la revisione entro il 31 dicembre 2012.
Di qui, a giudizio della ricorrente,
l’evidenza dello «scollamento che si realizza tra un livello di finanziamento
che viene pesantemente ridotto e una determinazione dei livelli essenziali che
non è stata rivista da parte dello Stato», con conseguente arbitraria
violazione, per irragionevolezza e difetto di proporzionalità, anche degli
artt. 117, secondo comma, e 32 Cost., essendo in questo modo compromessa la
possibilità di garantire i livelli essenziali in materia di diritto alla
salute.
A parere della ricorrente, nella
dinamica di questo sviluppo normativo della legislazione statale, sarebbe
«evidente un fenomeno di abnorme deresponsabilizzazione dello Stato, che,
chiamato ad assumersi la responsabilità di una riduzione dei Lea a seguito del
venir meno delle risorse disponibili, ha scelto invece la strada di lasciare,
da un lato, invariati i Lea, e dall’altro di perpetrare un sistema di tagli lineari,
in ciò venendo meno […] ad un corretto esercizio di quella funzione di
coordinamento della finanza pubblica che è invece richiesto dall’art. 117, III
comma».
La Regione Veneto ha, in conclusione,
lamentato la violazione del principio di leale collaborazione di cui all’art.
120 Cost. e, a dimostrazione di tale asserita lesione, ha evidenziato l’assenza
di qualsiasi coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento
della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge 5 maggio
2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione), e dell’art. 33 del d. lgs. n. 68 del
2011.
La ricorrente ha presentato, nel
contesto del medesimo ricorso, un’istanza di sospensione, ai sensi dell’art. 35
della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), come sostituito dall’art. 9, comma 4, della legge
5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), per il pregiudizio grave e
irreparabile che sarebbe derivato dall’immediata operatività delle disposizioni
impugnate.
1.3.— Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è
intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, con memoria depositata
il 3 aprile 2015, chiedendo che il ricorso sia dichiarato non fondato.
Quanto all’art. 1, comma 398, lettere a)
e b), della legge n. 190 del 2014, la difesa statale ha sostenuto che tali
disposizioni sono riconducibili al coordinamento della finanza pubblica di cui
all’art. 117, terzo comma, Cost., il quale, più che un ambito materiale,
costituisce una finalità assegnata alla legislazione statale, funzionale anche
al perseguimento degli impegni finanziari assunti in sede europea, ivi inclusi
gli obiettivi quantitativi collegati al rispetto del patto di stabilità e
crescita a livello europeo. Le disposizioni censurate, dunque, si porrebbero in
linea con l’obiettivo del pareggio di bilancio fissato per il rispetto del
patto di stabilità interno (ai commi da 460 a 466 e da 468 a 478 del medesimo
art. 1 della legge n. 190 del 2014 in esame), in coerenza con gli impegni
assunti in sede europea, anticipando l’introduzione dell’obbligo, per le
Regioni a statuto ordinario, di assicurare l’equilibrio tra entrate e spese del
bilancio. La norma, in particolare, privilegerebbe «le fasi dialogiche, le
quali, per quanto riguarda l’intesa, devono assumere una dimensione collegiale
improntata alla leale collaborazione, laddove la determinazione unilaterale dei
criteri è concepita come rimedio ultimo per assicurare il rispetto dei vincoli
europei connessi alla manovra di bilancio». Tutto questo in piena conformità con
le statuizioni della giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 39 del
2014 e n. 3
del 2013), secondo cui il rispetto dei vincoli europei impone al complesso
delle pubbliche amministrazioni di assicurare l’equilibrio dei bilanci e la
sostenibilità del debito pubblico, con inevitabile compressione degli spazi
entro i quali possono esercitarsi le competenze legislative ed amministrative
di Regioni e Provincie autonome, nonché della stessa autonomia di spesa.
Nessuna argomentazione viene articolata,
invece, per contrastare le censure mosse alle disposizioni di cui alla lettera
c) del comma 398 ed ai commi 414 e 556 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014.
1.4.— Con memoria depositata in data 12
aprile 2016, la Regione Veneto ha ulteriormente argomentato i motivi di
censura, alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale.
Ha, in particolare, richiamato le sentenze n. 43
e n. 64 del 2016,
che avrebbero confermato la legittimità di interventi statali di contenimento
della spesa pubblica regionale, purché limitati nell’arco di un triennio,
corrispondente all’orizzonte temporale usuale delle manovre di bilancio
contenute nelle leggi di stabilità.
Ha, ancora, sottolineato che
l’abolizione dell’avverbio «eventualmente», in relazione alla rideterminazione
dei livelli di finanziamento degli ambiti individuati e delle modalità di
acquisizione delle risorse da parte dello Stato, determinerebbe una sostanziale
identità con la normativa scrutinata nella sentenza n. 79 del
2014, e da quest’ultima dichiarata incostituzionale per l’effetto
perequativo realizzato al di fuori dei meccanismi disegnati dall’art. 119 Cost.
Si produrrebbe, infatti, proprio quella relazione «diretta e certa» tra
l’ammontare della spesa e la misura della riduzione dei trasferimenti statali
che, in quella occasione, era stata considerata sussistente e stigmatizzata, e
che sarebbe stata, invece, esclusa nella sentenza n. 65 del
2016 (la quale ha vagliato il meccanismo disegnato dall’art. 46, comma 6,
del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, prima della modifica impugnata col
presente ricorso) in considerazione del carattere meramente eventuale della
riduzione dei trasferimenti statali.
La ricorrente ha, inoltre, richiamato le
sentenze n. 10
del 2016 e n.
188 del 2015 della Corte costituzionale, per sottolineare
l’irragionevolezza di interventi di riduzione delle risorse a disposizione, in
misura tale da impedire lo svolgimento delle funzioni regionali. Proprio la
necessità di ricorrere alla riduzione della spesa sanitaria, in sede di intesa
raggiunta in data 26 febbraio 2015 (alla quale comunque la Regione Veneto non
ha partecipato), consentirebbe di ritenere assolto l’onere di dimostrare
l’impossibilità di esercitare le funzioni collegate alle spese extra-sanitarie,
che sarebbero state del tutto azzerate se i «tagli» fossero stati concentrati
tutti in tali ambiti, come asseritamente imposto dalle disposizioni impugnate.
Infine, la ricorrente ha sostenuto che l’incisione
della riduzione di spesa anche in ambito sanitario comproverebbe
l’irragionevolezza delle disposizioni impugnate, che continuano a legare
l’intervento statale, in caso di mancata intesa, ai criteri del PIL regionale e
delle popolazione residente, senza alcun riferimento ai costi ed ai fabbisogni
standard nel settore sanitario, con conseguente intervento in misura
potenzialmente maggiore sulle Regioni virtuose, che abbiano già ottimizzato e
razionalizzato la spesa in tale ambito.
2.— La Regione Lombardia, con ricorso
notificato il 26 febbraio 2015 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri
e, in pari data, presso l’Avvocatura generale dello Stato, poi depositato il 5
marzo 2015 (reg. ric. n. 33 del 2015), ha impugnato, tra gli altri, l’art. 1,
commi 398, 555, 556 e 557, della legge n. 190 del 2014.
2.1.― La ricorrente richiama il
contenuto normativo del comma 398 (già illustrato ai precedenti punti 1.1. e
1.2., con riferimento al ricorso proposto dalla Regione Veneto), aggiungendo
che i successivi commi da 555 a 557, rispettivamente, dispongono che, per
garantire il rispetto degli obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione
europea e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio
2014-2016 e in attuazione del Patto per la salute per gli anni 2014-2016, si
applicano le disposizioni di cui ai commi da 556 a 588 del medesimo articolo;
il livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo
Stato viene fissato in determinati importi (112.062.000.000 euro per l’anno
2015 e 115.444.000.000 euro per l’anno 2016), salve eventuali rideterminazioni
in attuazione dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito e
come modificato dal citato comma 398, ancora in attuazione di quanto previsto dall’art.
1, comma 1, del patto per la salute; con espressa modifica del terzo periodo
del comma 1 dell’art. 30 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118
(Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi
di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma
degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), e fermo restando quanto
previsto dall’art. 2, comma 80, della legge 23 dicembre 2009, n. 191
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge finanziaria 2010), eventuali risparmi nella gestione del Servizio
sanitario nazionale effettuati dalle Regioni rimangono nella loro disponibilità
per finalità sanitarie.
Il complesso di disposizioni appena
illustrate è censurato per violazione del principio di ragionevolezza di cui
all’art. 3 Cost., nonché per violazione degli artt. 117, sesto comma, e 119
Cost.
Il comma 398, in primo luogo, violerebbe
l’art. 117, sesto comma, Cost. che, nelle materie concorrenti, quale è il
«coordinamento della finanza pubblica», assegna alle Regioni la potestà
regolamentare. La disposizione impugnata attribuirebbe, infatti, ad una fonte
normativa secondaria dello Stato – nel caso di mancato raggiungimento
dell’intesa da sancire in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano – sia
l’individuazione degli importi e dei relativi ambiti di destinazione delle
riduzioni di spesa, sia la rideterminazione dei «livelli di finanziamento degli
ambiti individuati e [del]le modalità di acquisizione delle risorse da parte
dello Stato». Secondo la ricorrente, non potrebbe revocarsi in dubbio che il
d.P.C.m. «cui la disposizione censurata rinvia sia atto sostanzialmente
normativo, in quanto preordinato a disciplinare in via generale e astratta sia
i livelli di finanziamento degli ambiti di spesa che le regole di acquisizione
delle risorse da parte dello Stato». Del resto, a suo giudizio, l’assenza di
criteri stringenti per effettuare la scelta degli importi e degli ambiti di
assegnazione – fatta eccezione per i riferimenti al PIL, alla popolazione
residente e alle risorse per il Servizio sanitario nazionale, definiti «vaghi»
– rivelerebbe la natura squisitamente "politica”, e non meramente "tecnica”,
del decreto in parola, proprio perché lascerebbe allo Stato amplissimi margini
di discrezionalità. Di qui la violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., in
quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, «nelle materie concorrenti gli
atti statali sub-legislativi in tanto sono legittimi e vincolanti per le
Regioni, in quanto abbiano carattere amministrativo e contenuto esclusivamente
tecnico, ponendosi come immediatamente attuativi dei principi fondamentali
della materia; viceversa, ove l’atto abbia contenuto normativo ed implichi ampi
margini discrezionali, la sua previsione è illegittima alla luce dell’evocato
parametro, comportando una violazione del riparto costituzionale della potestà
regolamentare» (vengono citate le sentenze n. 39 del
2014 e n.
278 del 2010).
Secondo la ricorrente, inoltre, il comma
398, prevedendo – per l’ipotesi di mancato raggiungimento dell’intesa tra le
Regioni – l’applicazione dei criteri del PIL regionale, della popolazione
residente e delle risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio
sanitario nazionale, come orientativi delle scelte effettuabili dallo Stato in
via sostitutiva, violerebbe gli artt. 3 e 119 Cost.
Infatti, il PIL e la popolazione
residente non potrebbero in alcun modo essere assunti a parametro per tagli ai
fondi che finanziano i livelli essenziali delle prestazioni: «un’operazione di
spending review in questo settore non potrebbe che poggiare sul costo del
fabbisogno standard. Adottando, invece, i criteri censurati di cui al comma
398, il legislatore statale ha ritenuto – per dirla con una frase – che "se il
territorio produce tanto PIL ed è molto popolato allora produce tanti
sprechi”», con un’equazione reputata «assolutamente irragionevole, se non
addirittura risibile».
Aggraverebbe l’irragionevole
penalizzazione delle Regioni più virtuose, inoltre, anche l’eliminazione dei
criteri del «rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva
2011/7/UE, nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati», che renderebbe
«aggredibili» anche le Regioni più attente al contenimento degli sprechi ed al
corretto impiego delle risorse pubbliche, e disincentiverebbe le gestioni
virtuose.
Secondo la ricorrente, i vizi di
incostituzionalità non potrebbero considerarsi superati neppure se si volesse
attribuire al contributo imposto alle Regioni, in contrasto però con la lettera
e la ratio dell’intervento legislativo, una finalità perequativa: il PIL e la
popolazione residente non potrebbero, infatti, ritenersi indici sintomatici
oggettivi e inequivoci della capacità fiscale degli abitanti, la quale è il
parametro centrale del sistema di perequazione disegnato dall’art. 119 Cost.
Viene, poi, reputato «[a]ncor più
irragionevole e distorsivo» il riferimento alla spesa corrente per il Servizio
sanitario nazionale, in quanto l’applicazione di tale indice porterebbe
inevitabilmente a premiare, attraverso l’assegnazione dei fondi, le Regioni con
una più ingente spesa sanitaria, senza distinguere tuttavia, e paradossalmente,
«fra Regioni che spendono di più a causa di una più ingente mole di servizi
erogati, e Regioni che spendono di più a causa di diseconomie e inefficienze
organizzative e funzionali».
La ricorrente riscontra, infine, una
contraddizione – lesiva degli artt. 3 e 119 Cost. – tra la disposizione del
comma 398 e quelle contenute nei successivi commi da 555 a 557 dell’art. 1
della legge n. 190 del 2014, in forza dei quali gli eventuali risparmi nella
gestione del Servizio sanitario nazionale conseguiti dalle Regioni rimangono
nella disponibilità di queste ultime per scopi sanitari. Da un lato, infatti,
il d.P.C.m. di cui al citato comma 398 individua importi e ambiti di
destinazione del contributo aggiuntivo delle Regioni «considerando anche le
risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale»;
dall’altro lato, il successivo comma 557, nel sostituire, come detto, il terzo periodo
del comma 1 dell’art. 30 del d. lgs. n. 118 del 2011, dispone che eventuali
risparmi nella gestione del Servizio sanitario nazionale effettuati dalle
Regioni rimangono nella loro disponibilità per finalità sanitarie. Sicché,
mentre il comma 557 esclude il trasferimento allo Stato dei risparmi conseguiti
nella gestione del Servizio sanitario nazionale, il comma 398, invece, non solo
li ricomprenderebbe «fra le risorse allocabili» dal d.P.C.m. nell’ambito del
contributo regionale alla finanza pubblica, ma rimetterebbe, altresì, allo
Stato la scelta circa la finalità cui destinarli.
Tale contraddizione determinerebbe «una
irragionevolezza interna che inficia sia il comma 398, sia i commi 555-557, e
produce una grave lesione all’autonomia finanziaria regionale, dal momento che
si rende del tutto nebuloso e incerto il quadro delle risorse su cui impostare
la programmazione finanziaria».
Infine, nella «denegata ipotesi» in cui
si ritenesse che il comma 398 abbia introdotto un contributo perequativo, la
disposizione sarebbe contrastante con l’art. 119, sesto comma, Cost., poiché
imporrebbe alle Regioni «di riversare allo Stato fondi, ma al di fuori delle
forme e delle modalità prescritte dalla Costituzione» (vengono citate le sentenze n. 79 del
2014, n. 254
del 2013 e n.
176 del 2012 della Corte costituzionale).
2.2.— Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è
intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale con memoria depositata il
13 aprile 2015, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o,
comunque, non fondato.
La difesa statale ha replicato le
argomentazioni spese per contrastare il ricorso iscritto al n. 31 reg. ric.
2015, proposto dalla Regione Veneto, ed illustrate al precedente punto 1.3.
Ha, altresì, rappresentato che in data
26 febbraio 2015, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,
le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, è stata raggiunta la
prevista intesa in merito all’attuazione della legge n. 190 del 2014, con
riferimento all’art. 1, commi 398, 465 e 484, sicché cesserebbero «di avere
rilievo le censure sollevate dalla ricorrente in relazione alle disposizioni
sopra richiamate».
Considerato in diritto
1.— La Regione Veneto ha promosso, tra
le altre, questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui
all’art. 1, commi 398, lettere a), b) e c), 414 e 556, della legge 23 dicembre
2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – legge di stabilità 2015).
L’art. 1, comma 398, lettere a) e b),
della legge n. 190 del 2014 apporta modifiche all’art. 46, comma 6, del
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la
giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 23 giugno 2014, n. 89. Quest’ultima disposizione prevede un contributo
alla finanza pubblica a carico delle Regioni, e stabilisce le modalità e il
periodo di riferimento della riduzione di spesa per beni e servizi disposta
dall’art. 8, comma 4, dello stesso d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
Intervenendo sul citato art. 46, comma
6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, la disposizione impugnata elimina
il riferimento alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome di
Trento e di Bolzano; estende di un anno (al 2018) l’originario orizzonte
temporale del contributo alla finanza pubblica previsto; sopprime le parole
«tenendo anche conto del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla
direttiva 2011/7/UE, nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati,»;
espunge, dal secondo periodo del comma in esame, la parola «eventualmente»,
rendendo così certa, e non più eventuale, la rideterminazione dei livelli di
finanziamento, da parte statale, dei settori sui quali la riduzione di spesa
incide e delle modalità di acquisizione delle risorse.
Così modificato dalle disposizioni
impugnate, l’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito,
dunque, stabilisce le modalità di riparto del contributo alla finanza pubblica
delle Regioni, di cui fissa gli importi (pari a 500 milioni di euro per il 2014
ed a 750 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018). Rinvia ad
un’intesa – da sancire in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano –
l’individuazione degli ambiti di spesa e degli importi, che vanno inizialmente
identificati, «in sede di autocoordinamento», dalle stesse Regioni. Tali
intese, si prevede, vanno raggiunte entro il 31 maggio 2014, con riferimento
all’anno 2014, ed entro il 30 settembre 2014, con riferimento agli anni 2015 e
seguenti. In mancanza di intesa, gli importi richiamati sono assegnati, con
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ad ambiti di spesa
attribuiti alle singole Regioni, in base al PIL regionale ed alla popolazione
residente, con rideterminazione certa (non più eventuale) dei livelli di
finanziamento degli ambiti individuati e delle modalità di acquisizione delle
risorse da parte dello Stato.
Secondo la ricorrente, le innovazioni
contenute nell’art. 1, comma 398, lettere a) e b), della legge n. 190 del 2014,
violerebbero gli artt. 3, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 della
Costituzione, oltre al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120
Cost.
La violazione di quest’ultimo principio
verrebbe in immediata considerazione. Infatti, tramite le modifiche illustrate,
l’originaria previsione dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, sarebbe diventata «il contenitore di una nuova manovra (realizzata
includendo un’altra annualità di taglio al periodo originariamente previsto)»,
rispetto alla quale sarebbe però «preclusa completamente la possibilità
dell’intesa», perché il termine previsto dal comma 6 dell’art. 46 (30 settembre
2014) è da tempo decorso. Il legislatore statale utilizzerebbe così il
riferimento ad un’intesa, ormai irrealizzabile, per imporre nuovi risparmi di
spesa, riducendo la leale collaborazione a mera apparenza.
Le modifiche contenute nelle
disposizioni censurate, in secondo luogo, provocherebbero il mancato rispetto
dei principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale in relazione
all’esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica, con
particolare riferimento al limite cronologico, asseritamente triennale, imposto
alle manovre di contenimento della spesa pubblica a carico delle Regioni.
Risulterebbe, infatti, del tutto elusiva di questa giurisprudenza la tecnica
normativa di fissare, inizialmente, un termine triennale ai tagli, estendendolo
poi, con successivi interventi normativi, ad annualità ulteriori, quando
l’intesa, pur formalmente prevista, non è (tra l’altro) più raggiungibile. La
conseguente vanificazione del limite temporale triennale, che la ricorrente
considera condizione di legittimità costituzionale dell’intervento statale di
«coordinamento della finanza pubblica», determinerebbe la violazione sia
dell’art. 117, terzo comma, Cost., sia dell’art. 119 Cost., sull’autonomia di
spesa della Regione.
Infine, le disposizioni qui in
considerazione violerebbero: il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3
Cost., con una diretta ricaduta sull’autonomia organizzativa e finanziaria regionale;
l’art. 117, secondo e terzo comma, essendo indebitamente travalicata la
funzione di «coordinamento della finanza pubblica»; gli artt. 117, terzo e
quarto comma, 118 e 119 Cost., per l’indebita incisione dell’autonomia di spesa
della Regione e, conseguentemente, della relativa funzione legislativa.
I commi censurati dell’art. 1 della
legge n. 190 del 2014, infatti, aggiungendo un’ulteriore annualità a quanto
originariamente previsto dagli artt. 8 e 46 del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, perpetuerebbero l’illegittimità costituzionale del meccanismo così
congegnato, con particolare riferimento al «carattere meramente lineare del
taglio» imposto alle spese per acquisti di beni e servizi, in ogni settore e
senza alcuna distinzione qualitativa. Le riduzioni di spesa verrebbero,
infatti, imposte alle Regioni attraverso una misura dal carattere assolutamente
generico, che non solo ricomprenderebbe, indiscriminatamente, sia la cosiddetta
«spesa cattiva» sia la cosiddetta «spesa buona», ma che sarebbe anche
potenzialmente idonea ad interferire in ambiti inerenti a fondamentali diritti
civili e sociali (è fatto l’esempio dell’assistenza sociale, costituzionalmente
attribuita alla competenza regionale). Tutto ciò avverrebbe senza che lo Stato
abbia provveduto a determinare i livelli essenziali delle prestazioni, sicché
sarebbe impossibile verificare la sostenibilità della riduzione di spesa in
relazione alla necessità di erogare i relativi servizi.
Per la ricorrente, aggraverebbe, infine,
la complessiva irrazionalità del sistema la mancanza di alcun riferimento a
livelli standard di spesa efficiente, con conseguente penalizzazione di quelle
«realtà regionali che hanno adottato da tempo misure di contenimento della
spesa riducendola a livelli difficilmente ulteriormente comprimibili senza un
vulnus al sistema dei servizi sociali».
Con la censura che coinvolge
unitariamente i commi 398, lettera c), 414 e 556 dell’art. 1 della legge n. 190
del 2014, la ricorrente espone che, per ciascuno degli anni dal 2015 al 2018,
la riduzione di spesa per beni e servizi (già fissata in 750 milioni di euro
annui) viene incrementata, a carico delle Regioni a statuto ordinario, di
ulteriori 3.452 milioni di euro annui. La disciplina impugnata, ricorda la
ricorrente, prevede che il relativo riparto tra le Regioni avvenga per importi
complessivamente proposti, «nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza»,
a seguito di intesa da sancire entro il 31 gennaio 2015 in sede di Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano. Nell’ipotesi in cui tale intesa non venga raggiunta, si
dispone (per effetto del rinvio operato al secondo periodo del medesimo comma 6
dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito) che tale ulteriore
contributo sia ripartito dallo Stato tra le Regioni, tenendo anche conto del
PIL e della popolazione residente.
Sottolinea la ricorrente che i commi 414
e 556 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014, pure impugnati, prevedono,
rispettivamente, che le Regioni debbono assicurare il finanziamento dei livelli
essenziali di assistenza e che il livello del finanziamento del Servizio
sanitario nazionale cui concorre lo Stato è stabilito in certi importi
(112.062.000.000 euro per l’anno 2015 e 115.444.000.000 euro per l’anno 2016),
salve eventuali rideterminazioni proprio in attuazione dell’art. 46, comma 6,
del d.l. n. 66 del 2014, come convertito e come modificato dal comma 398 della
legge n. 190 del 2014 (in attuazione di quanto previsto dall’art. 1, comma 1,
dell’intesa sancita, in data 10 luglio 2014, dalla Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano, di seguito denominata «Patto per la salute»).
Orbene, espone la ricorrente che il complesso
di disposizioni appena illustrate sarebbe, in primo luogo, in contrasto con gli
artt. 3, 117, secondo, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché con il
principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost. Dovrebbero infatti
estendersi all’ulteriore contributo annuo le censure incentrate sul «carattere
meramente lineare» dei tagli, già avanzate in relazione al contributo
originariamente imposto alle Regioni dall’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del
2014, come convertito.
Un secondo profilo di censura si basa su
un preciso presupposto interpretativo, asseritamente imposto dal complesso
delle disposizioni impugnate. La ricorrente muove dalla tesi per cui da tali
disposizioni deriverebbe che «solo qualora venga raggiunta l’intesa, il taglio non
riguardi anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio
sanitario nazionale». E ne deduce che, per scongiurare la riduzione della spesa
sanitaria, le Regioni sarebbero obbligate a comprimere ulteriormente la spesa
extra-sanitaria, in misura tale da azzerarla, come dimostrerebbero dati, indici
e riferimenti analiticamente illustrati nel ricorso. Ne discenderebbe la palese
irragionevolezza della disposizione impugnata, la cui attuazione comporterebbe,
di fatto, «la compromissione della stessa potestà legislativa e amministrativa
regionale nelle materie, extra sanità, di propria competenza, ridondando
pertanto sull’autonomia regionale».
L’intervento statale in assenza di
intesa in sede di autocoordinamento regionale è, inoltre, ritenuto lesivo degli
artt. 3, 32 e 97 Cost., con una violazione ridondante in una lesione delle
competenze riconosciute alle Regioni, anche direttamente lese per contrasto
delle disposizioni in questione con gli artt. 117, secondo, terzo e quarto
comma, 118 e 119 Cost., nonché col principio di leale collaborazione di cui
all’art. 120 Cost.
In particolare, i criteri del PIL
regionale e della popolazione residente, previsti per stabilire importi ed
ambiti di spesa cui imputare l’imposta riduzione, in mancanza di intesa tra le
Regioni, non solo – in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. – non
avrebbero «una attinenza costituzionalmente corretta con lo scopo della norma
che è quello del coordinamento (rectius: contenimento) della spesa regionale»,
ma soprattutto addosserebbero «un maggiore onere alle Regioni con un Pil più
elevato», travalicando l’ambito fissato dall’art. 119 Cost., in particolare ai
commi terzo e quinto, i quali dettano i corretti criteri della perequazione,
incentrati sul diverso parametro della capacità fiscale.
Sotto altro aspetto, dovendo
l’intervento statale tenere conto anche delle risorse destinate al
finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale, il «carattere
meramente lineare del taglio» sarebbe ancora più lesivo, poiché le disposizioni
impugnate avrebbero del tutto ignorato il criterio del riferimento ai costi ed
ai fabbisogni standard regionali, che invece gli articoli da 25 a 32 del
decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia
di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario)
impongono di considerare per il riparto del fondo sanitario nazionale. Ne
deriverebbe l’impossibilità di razionalizzare la distribuzione della riduzione
di spesa imposta alle Regioni, destinata, perciò, ad incidere, in modo
indiscriminato, tanto sulle realtà efficienti, dove minimo è il livello di
spreco, quanto su quelle inefficienti.
Inoltre, i commi 414 e 556 dell’art. 1
della legge n. 190 del 2014, nel mantenere a carico delle Regioni l’obbligo di
garantire il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza, lasciati
immutati nonostante la pesante riduzione del livello di finanziamento,
determinerebbero la violazione, per irragionevolezza e difetto di
proporzionalità, anche degli artt. 117, secondo comma, e 32 Cost., essendo in
questo modo compromessa la possibilità di garantire i livelli essenziali in
materia di diritto alla salute.
Infine, il principio di leale collaborazione
di cui all’art. 120 Cost. risulterebbe leso per l’assenza di qualsiasi
coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza
pubblica.
2.— La Regione Lombardia ha promosso,
tra le altre, questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui
all’art. 1, commi 398, 555, 556 e 557, della legge n. 190 del 2014.
La ricorrente, in particolare, premesso
il già illustrato contenuto normativo dei citati commi 398 e 556 (in tema di
finanziamento del Servizio sanitario nazionale cui concorre lo Stato), ricorda
che il comma 557 prevede che eventuali risparmi nella gestione del Servizio
sanitario nazionale effettuati dalle Regioni rimangano nella loro disponibilità
per finalità sanitarie.
Il complesso delle disposizioni citate è
censurato per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3
Cost., nonché per violazione degli artt. 117, sesto comma, e 119 Cost.
Il citato comma 398, in primo luogo,
violerebbe l’art. 117, sesto comma, Cost., il quale attribuisce allo Stato la
potestà regolamentare nelle sole materie di competenza esclusiva statale,
riservandola alle Regioni in ogni altra materia. La disposizione censurata
avrebbe infatti attribuito ad una fonte normativa secondaria dello Stato – in
una materia di legislazione concorrente, sebbene nel solo caso di mancato
raggiungimento dell’intesa da sancire in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
– sia l’individuazione degli importi e dei relativi ambiti di destinazione
delle riduzioni di spesa, sia la rideterminazione dei «livelli di finanziamento
degli ambiti individuati e [del]le modalità di acquisizione delle risorse da
parte dello Stato».
Ad avviso della Regione ricorrente,
deporrebbero per la natura normativa del previsto d.P.C.m. diversi indici,
quali la preordinazione «a disciplinare in via generale e astratta sia i
livelli di finanziamento degli ambiti di spesa che le regole di acquisizione
delle risorse da parte dello Stato», e l’assenza di criteri stringenti per
effettuare la relativa scelta, fatta eccezione per i riferimenti al PIL, alla
popolazione residente e alle risorse per il Servizio sanitario nazionale,
definiti eccessivamente «vaghi» e tali da lasciare allo Stato amplissimi
margini di discrezionalità.
Secondo la ricorrente, inoltre, i
parametri del PIL e della popolazione residente non potrebbero in alcun modo
orientare le riduzioni dei fondi che finanziano i livelli essenziali delle
prestazioni, anche in considerazione dell’eliminazione dei criteri del
«rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE, nonché
dell’incidenza degli acquisti centralizzati», che renderebbe «aggredibili»
anche le Regioni più attente al contenimento degli sprechi ed al corretto
impiego delle risorse pubbliche, disincentivando le gestioni virtuose.
Vi sarebbe, infine, un’interna
contraddizione – di nuovo lesiva degli artt. 3 e 119 Cost. – tra la
disposizione del comma 398 e quelle contenute nei successivi commi da 555 a 557
dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014: mentre il comma 557 escluderebbe il
trasferimento allo Stato dei risparmi conseguiti nella gestione del Servizio
sanitario nazionale, il comma 398, invece, non solo li ricomprenderebbe «fra le
risorse allocabili» dal d.P.C.m. nell’ambito del contributo regionale alla
finanza pubblica, ma rimetterebbe, altresì, allo Stato la scelta circa la
finalità cui destinarli.
Tale interna contraddizione, oltre a
presentarsi in violazione del criterio della ragionevolezza, determinerebbe
«una grave lesione all’autonomia finanziaria regionale, dal momento che si
rende del tutto nebuloso e incerto il quadro delle risorse su cui impostare la
programmazione finanziaria».
3.— I due ricorsi vertono su
disposizioni parzialmente coincidenti ed avanzano censure in parte omogenee. Ai
fini di una decisione congiunta, è perciò opportuna la riunione dei relativi
giudizi, mentre resta riservata a separate pronunce la decisione delle
questioni relative alle altre disposizioni impugnate con i medesimi ricorsi.
4.— Priorità logica riveste la decisione
su alcune questioni preliminari oggetto di eccezione di parte o, comunque,
rilevabili di ufficio.
4.1.— In primo luogo, con riferimento al
ricorso proposto dalla Regione Lombardia, va dichiarata non fondata l’eccezione
di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, e basata
sugli effetti dell’intesa raggiunta in data 26 febbraio 2015, in sede di
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, in merito all’attuazione della legge n. 190
del 2014 e al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica da essa
previsti per l’anno 2015. Per costante giurisprudenza costituzionale, infatti,
concludere un accordo imposto da una norma di legge mentre la si impugna non
comporta alcuna acquiescenza nel giudizio in via principale (così, da ultimo, sentenze n. 77 del
2015 e n. 98
del 2007).
4.2.— Sempre in via preliminare, va dato
atto che l’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito – ossia
la disposizione sulla quale ha inciso l’intervento normativo oggetto
dell’odierna impugnativa – è stato modificato dall’art. 1, comma 681, della
legge 28 dicembre 2015, n. 208 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2016), che ha esteso al
2019 l’orizzonte temporale del contributo alla finanza pubblica di cui si
discute.
Tale modifica è oggetto di ricorso
proposto dalla Regione Veneto, distinto e successivo a quello ora in esame,
sicché lo scrutinio di questa Corte deve ora limitarsi al contenuto precettivo
dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito e come
modificato dall’impugnato comma 398 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014,
senza valutare la necessità del trasferimento delle attuali questioni di
legittimità costituzionale alla modifica normativa sopravvenuta (in tal senso, sentenze n. 40 del
2016, n. 239
e n. 77 del 2015).
La modifica normativa non risulta,
invece, impugnata autonomamente dalla Regione Lombardia. Rispetto al ricorso
proposto da quest’ultima, s’impone quindi la verifica della necessità di tale
trasferimento.
Questa Corte ha ripetutamente affermato
che, in caso di ius superveniens, la questione di legittimità costituzionale
deve essere trasferita quando la disposizione impugnata sia stata modificata
marginalmente (sentenza
n. 30 del 2012), senza che ne sia conseguita l’alterazione della sua
portata precettiva (sentenza n. 193 del
2012) e la modifica risulti comunque orientata in senso non satisfattivo
alle richieste della ricorrente (da ultimo, sentenze n. 40 del
2016, n. 155
e n. 46 del 2015).
In definitiva, se dalla disposizione
legislativa sopravvenuta sia desumibile una norma sostanzialmente coincidente
con quella impugnata, la questione – in forza del principio di effettività
della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via d’azione – deve
intendersi trasferita sulla nuova norma (sentenza n. 326 del
2010 e, nello stesso senso, da ultimo, sentenze n. 40 del
2016, n. 155,
n. 77 e n. 46 del 2015).
Se, invece, a seguito della modifica, la
disposizione appaia dotata «di un contenuto radicalmente innovativo rispetto
alla norma originaria» (sentenza n. 219 del
2013), si deve concludere per la portata innovativa della modifica stessa,
che va impugnata con autonomo ricorso, poiché il trasferimento «supplirebbe
impropriamente all’onere di impugnazione» (sentenze n. 40 del
2016, n. 17
del 2015, n.
138 del 2014, n.
300 e n. 32
del 2012).
Come già statuito con la sentenza n. 65 del
2016, con riferimento proprio alla modifica normativa di cui si discute, la
novella non è certamente satisfattiva per la ricorrente, ma non presenta
carattere marginale, determinando sia una diversa portata precettiva della
disposizione modificata, sia un’autonoma incisione sugli interessi della
ricorrente.
Non può, infatti, dubitarsi che in tal
senso sia da valutare l’estensione di un anno del concorso alla finanza
pubblica imposto con il comma 6 dell’art. 46 di cui si discute.
L’autonomia precettiva di una
disposizione che estende il confine temporale di misure finanziarie comporta
l’onere di separata impugnativa. A tale onere, gravante sulle parti,
supplirebbe invece impropriamente il trasferimento delle questioni, che,
perciò, devono restare limitate al contenuto precettivo originario del comma 6
dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito e come modificato
dall’impugnato comma 398 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014.
4.3.— Ancora in via preliminare, va
verificata l’ammissibilità delle censure fondate su parametri estranei al
Titolo V della Parte II della Costituzione, avanzate in entrambi i ricorsi.
Secondo il costante indirizzo di questa
Corte (tra le ultime, ex plurimis, sentenze n. 65 del
2016 e n.
218 del 2015), «le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi
da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo quando la
violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle
attribuzioni costituzionali delle Regioni (sentenze n. 8 del
2013 e n.
199 del 2012) e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai
profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di
competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della
specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di
tale lesione» (nello stesso senso, le sentenze n. 117,
n. 110 e n. 29 del 2016,
n. 251, n. 189, n. 153, n. 140, n. 89 e n. 13 del 2015).
Quanto al ricorso proposto dalla Regione
Veneto, le censure avanzate contro l’art. 1, comma 398, lettere a) e b), della
legge n. 190 del 2014, si fondano anche sulla prospettata violazione dell’art.
3 Cost., così come, del resto, le censure avanzate contro la successiva lettera
c), le quali vengono arricchite, anche in rapporto ai commi 414 e 556 del
medesimo art. 1, dalla prospettata violazione degli artt. 32 e 97 Cost.
Orbene, in ordine alla lamentata lesione
dell’art. 3 Cost., la Regione Veneto ha sostenuto l’irragionevolezza delle
misure restrittive impugnate, deducendone «una diretta ricaduta sull’autonomia
regionale», che risulterebbe «limitata nella propria capacità organizzativa e
finanziaria». Ed ha anche indicato una propria specifica funzione,
asseritamente ostacolata dai «tagli lineari», individuata nell’assistenza
sociale: come già ritenuto nella sentenza n. 65 del
2016 – che ha scrutinato proprio il meccanismo introdotto dall’art. 46,
comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, considerato irragionevole
dalla medesima Regione Veneto sulla base di censure sostanzialmente omogenee –
può, pertanto, ritenersi assolto l’onere di necessaria indicazione, non solo
della specifica competenza regionale asseritamente offesa, ma anche delle
ragioni della lesione lamentata.
Non altrettanto è a dirsi con
riferimento alla prospettata lesione degli artt. 32 e 97 Cost. La ricorrente
non spiega le ragioni per le quali la violazione di tali due parametri
(peraltro neppure adeguatamente motivata) ridonderebbe in una lesione delle
proprie attribuzioni costituzionali. Resta, dunque, preclusa a questa Corte
qualunque possibilità di vagliare nel merito le relative censure, che vanno
dichiarate inammissibili.
Quanto al ricorso proposto dalla Regione
Lombardia, l’unica censura fondata su un parametro estraneo al Titolo V della
Parte II della Costituzione concerne l’asserita violazione del principio di
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. A giudizio della ricorrente, infatti,
l’effetto derivante dall’applicazione dei criteri fissati per l’intervento
statale dall’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito,
sarebbe «irragionevole e distorsivo» e determinerebbe – unitamente alla
contraddittorietà intrinseca, segnalata in ordine al rapporto tra le previsioni
contenute nel comma 398 e quelle dettate dai successivi commi da 555 a 557 del
medesimo art. 1 della legge n. 190 del 2014 – una lesione dell’autonomia
finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost., rendendo «del tutto nebuloso e
incerto il quadro delle risorse su cui impostare la programmazione
finanziaria». Quest’ultimo riferimento all’incisione delle disposizioni
impugnate sulla autonomia finanziaria regionale induce a ritenere che anche la
Regione Lombardia abbia assolto, rispetto all’invocata lesione dell’art. 3
Cost., gli oneri di allegazione incombenti sulla parte ricorrente.
4.4.— Per esaurire le questioni
preliminari, sempre con riferimento al ricorso proposto dalla Regione Veneto,
va dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
promosse con riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost., in
relazione all’impugnativa di tutte le disposizioni oggetto di ricorso. La
ricorrente non sviluppa, infatti, alcuna autonoma argomentazione a sostegno
dell’evocazione di tali parametri, limitandosi a richiamarli e svolgendo in
proposito riferimenti assolutamente generici.
Per la medesima ragione, va dichiarata
l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale promossa, per
violazione dell’art. 117, secondo comma, Cost., da parte dell’art. 1, comma
398, lettere a) e b), della legge n. 190 del 2014. Argomentazioni sufficienti,
a sostegno dell’asserita lesione del citato parametro, vengono sviluppate solo
con riferimento all’impugnativa della lettera c) del medesimo comma 398, in
rapporto ai successivi commi 414 e 556, pure impugnati.
Secondo la costante giurisprudenza della
Corte, i termini delle questioni di legittimità costituzionale debbono essere
ben identificati, dovendo il ricorrente individuare le disposizioni impugnate,
i parametri evocati e le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale (ex
multis, tra le più recenti, sentenze n. 65,
n. 40 e n. 3 del 2016, n. 273, n. 176 e n. 131 del 2015).
Si è, infatti, più volte chiarito che l’esigenza di un’adeguata motivazione a
fondamento della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale si pone
in termini perfino più pregnanti nei giudizi proposti in via principale
rispetto a quelli instaurati in via incidentale (ex plurimis, sentenze n. 251,
n. 233, n. 218, n. 142, n. 82 e n. 32 del 2015).
5.— Nel merito, vanno innanzitutto
decise, sulla base dell’ordine di prospettazione seguito dalla ricorrente
Regione Veneto, le residue questioni promosse, in relazione all’art. 1, comma
398, della legge n. 190 del 2014, per violazione degli artt. 3, 117, secondo e
terzo comma, e 119 Cost. e al principio di leale collaborazione di cui all’art.
120 Cost.
5.1.— Con riferimento all’art. 1, comma
398, lettere a) e b), la ricorrente invoca, in primo luogo, la lesione del
principio di leale collaborazione, di cui all’art. 120 Cost. A suo dire,
l’originaria previsione dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, sarebbe diventata «il contenitore di una nuova manovra (realizzata
includendo un’altra annualità di taglio al periodo originariamente previsto)»,
rispetto alla quale sarebbe però «preclusa completamente la possibilità
dell’intesa». Il legislatore avrebbe infatti esteso al 2018 il confine
temporale delle misure di contenimento della spesa, quando però era già decorso
il termine (30 settembre 2014) per formulare, in sede di autocoordinamento
regionale, una proposta concordata di allocazione del contributo alla finanza
pubblica: in questo modo, il riferimento all’intesa, in realtà incongruo perché
quest’ultima non sarebbe più raggiungibile, sarebbe stato utilizzato per
imporre nuove riduzioni di spesa solo apparentemente oggetto di leale
collaborazione.
La decisione sul merito di tale censura
impone di valutare la sopravvenuta (rispetto alla proposizione del ricorso)
modifica del complessivo quadro normativo, nella cui cornice le disposizioni
impugnate sono destinate ad operare.
Infatti, i commi 682 e 680 dell’art. 1
della sopravvenuta legge n. 208 del 2015 (legge di stabilità per il 2016) hanno
inciso profondamente sulle modalità temporali del raggiungimento dell’intesa –
in ordine al complessivo contributo alla finanza pubblica imposto dall’art. 46,
comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito – per gli anni dal 2016 in
poi.
Pur non modificando direttamente l’art.
46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, le previsioni della
legge n. 208 del 2015 hanno disciplinato ex novo, per gli anni successivi al
2015, i termini per la conclusione delle intese relative al riparto dei
contributi alla finanza pubblica ivi previsti (come progressivamente
incrementati). E che la nuova disciplina dei termini riguardi anche la misura
di contenimento estesa al 2018 dalla disposizione oggi impugnata è fatto palese
dal riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 682, della legge n. 208 del 2015,
al concorso agli obiettivi di finanza pubblica di cui all’art. 46, comma 6, del
d.l. n. 66 del 2014, come convertito, e «come modificato dal comma 681 del
presente articolo»: il citato comma 681, infatti, estende ulteriormente, al
2019, l’orizzonte temporale delle misure di contenimento oggetto del presente
giudizio, sommando una successiva annualità a quella già aggiunta con la
disposizione oggi impugnata.
La legge n. 208 del 2015, dunque, per
tutti i contributi alla finanza pubblica imposti dall’art. 46, comma 6, del
d.l. n. 66 del 2014, come convertito (oltre che per l’ulteriore contributo di
3.980 milioni di euro per l’anno 2017 e di 5.480 milioni di euro per ciascuno
degli anni 2018 e 2019, autonomamente introdotto), continua a prevedere che le Regioni,
in sede di autocoordinamento, raggiungano un’intesa, ma dispone che tale intesa
sia raggiunta anno per anno, entro il 31 gennaio di ciascuno degli anni dal
2016 al 2019.
La disposizione qui scrutinata, invece,
continua a riconoscere alle Regioni la sola possibilità di raggiungere un
accordo unico, in relazione ad una pluralità di anni («con riferimento agli
anni 2015 e seguenti»): si tratta, dunque, di una previsione da ritenersi ormai
implicitamente abrogata, limitatamente alla disciplina dei termini per gli anni
dal 2016 in poi, dalle norme sopravvenute.
Il mutamento del quadro normativo
sopravvenuto alla proposizione del ricorso produce effetti proprio sulla
disposizione impugnata, elidendo l’asserita lesione del principio di leale
collaborazione, che sarebbe consistito nell’impossibilità di raggiungere
un’intesa per il riparto del contributo per l’anno 2018. Limitatamente a tale
aspetto dell’impugnativa, può quindi essere dichiarata la sopravvenuta carenza
di interesse a coltivare il ricorso: infatti, la sopravvenienza di disposizioni
che restituiscono alle Regioni, compresa la Regione Veneto, la possibilità di
concordare l’allocazione delle misure di contenimento anche per l’anno 2018
soddisfa la pretesa della parte ricorrente, dal momento che priva di
effettività ed attualità la censura regionale. Ne consegue la declaratoria di
inammissibilità della questione di costituzionalità (in termini analoghi, sentenze n. 326 del
2010, n. 71
del 2005 e n.
197 del 2003) promossa con riferimento alla violazione del principio di
leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
5.2.— Sempre con riferimento all’art. 1,
comma 398, lettere a) e b), della legge n. 190 del 2014, la ricorrente
individua un contrasto con i principi fissati dalla giurisprudenza
costituzionale in relazione alla funzione di coordinamento della finanza
pubblica.
In particolare, ad avviso della Regione
Veneto, nelle sentenze
n. 193 del 2012 e n. 79 del 2014,
ed in ordine alle manovre di contenimento della spesa pubblica a carico delle
Regioni, delle Province e dei Comuni, sarebbe stata sancita l’obbligatorietà di
un termine finale di operatività, e il limite temporale massimo di durata
sarebbe stato fissato in un triennio. Sicché, risulterebbe del tutto elusiva di
questa giurisprudenza la tecnica normativa di prevedere un termine triennale
alle riduzioni di spesa, per poi estenderlo, con successivi interventi
normativi, ad annualità ulteriori. Sarebbe in tal modo violato, non solo l’art.
117, terzo comma, Cost., sul coordinamento della finanza pubblica, ma anche
l’art. 119 Cost., sull’autonomia di spesa della Regione.
Ad ulteriore conferma dell’assunto, la
ricorrente ha citato, nella memoria depositata nell’imminenza della pubblica
udienza, le recenti sentenze n. 43
e n. 64 del 2016,
che avrebbero ribadito il limite massimo triennale di durata per le misure
finanziarie restrittive imposte alle Regioni.
La questione non è fondata.
La censura della ricorrente si basa su
di una lettura parziale dei presupposti da cui è originata la ricordata
giurisprudenza di questa Corte, nonché delle conclusioni cui essa è pervenuta.
È affermazione costante di questa Corte
quella secondo cui norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e
degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica alla condizione, tra l’altro, che si limitino a porre
obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio
contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente (ex
multis, tra le più recenti, sentenze n. 65 del
2016, n. 218
e n. 189 del
2015; nello stesso senso, sentenze n. 44 del
2014, n. 236
e n. 229 del
2013, n. 217,
n. 193 e n. 148 del 2012,
n. 182 del 2011).
Le sentenze citate dalla ricorrente
hanno vagliato, appunto alla luce di tale incontestato presupposto, la
legittimità costituzionale di disposizioni finanziarie del tutto prive della
previsione di un termine finale. In esse, questa Corte, una volta esclusa la
possibilità di introdurre, con autonoma valutazione, l’arco temporale di
operatività delle misure di contenimento – scelta che non può che spettare alla
discrezionalità del legislatore – ha ritenuto necessario dedurre, dalla trama
normativa censurata, il termine finale che consente di assicurare la natura
transitoria delle misure previste e, al contempo, di non stravolgere gli
equilibri della finanza pubblica. Questo termine è stato fatto coincidere, del
tutto plausibilmente, con il ciclo triennale di programmazione del bilancio.
Del tutto diversa appare la situazione
sottoposta all’odierno scrutinio di costituzionalità.
È qui impugnata, infatti, una disposizione
che si è limitata ad estendere di una annualità il confine temporale di
operatività delle misure di contenimento della spesa, nel perdurante rispetto
del canone della transitorietà. E ciò dimostra l’inconsistenza della censura
sollevata.
Tuttavia, la declaratoria di non
fondatezza della questione, nei termini in cui è stata prospettata, non
impedisce a questa Corte di segnalare che il costante ricorso alla tecnica
normativa dell’estensione dell’ambito temporale di precedenti manovre, mediante
aggiunta di un’ulteriore annualità a quelle originariamente previste, finisce
per porsi in contrasto con il canone della transitorietà, se indefinitamente
ripetuto.
Il ricorso a tale tecnica normativa
potrebbe, infatti, prestare al canone della transitorietà un ossequio solo
formale, in assenza di plausibili e riconoscibili ragioni che impediscano in
concreto al legislatore di ridefinire e rinnovare complessivamente, secondo le
ordinarie scansioni temporali dei cicli di bilancio, il quadro delle relazioni finanziarie
tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, alla luce di mutamenti sopravvenuti
nella situazione economica del Paese.
5.3.— L’esame delle censure mosse dalla
Regione Veneto all’art. 1, comma 398, lettere a) e b), della legge n. 190 del
2014, ha da concludersi con la decisione sulla asserita violazione del
principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., che ridonderebbe
sull’autonomia organizzativa e finanziaria regionale, nonché, ancora una volta,
con la decisione sulle asserite violazioni dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
sia per indebito travalicamento della funzione di coordinamento della finanza
pubblica, sia in relazione all’art. 119 Cost., essendo stata «indebitamente
incisa l’autonomia di spesa della Regione e, conseguentemente, la relativa
funzione legislativa, da esercitare nel rispetto degli equilibri di un quadro
finanziario che viene illegittimamente alterato».
La Regione Veneto si duole, in
particolare, del «carattere meramente lineare del taglio» imposto alle spese
per acquisti di beni e servizi, in ogni settore e senza alcuna distinzione
qualitativa, realizzata attraverso una misura dal carattere assolutamente
generico, come tale idonea a ricomprendere sia la cosiddetta "spesa cattiva”
sia la cosiddetta "spesa buona” (quale ad esempio la spesa in conto capitale).
In particolare, l’ulteriore estensione
temporale della misura finanziaria così congegnata dallo Stato sarebbe
potenzialmente idonea ad interferire in ambiti inerenti a fondamentali diritti
civili e sociali (viene fatto l’esempio dell’assistenza sociale,
costituzionalmente attribuita alle competenze regionali), e cioè in ambiti nei
quali lo Stato dovrebbe, invece, svolgere la propria funzione di coordinamento
attraverso la determinazione, uniforme su tutto il territorio nazionale, dei
livelli essenziali delle prestazioni.
Proprio la mancata fissazione di questi
ultimi, anzi, impedirebbe qualsiasi verifica della sostenibilità della
riduzione di spesa rispetto alla erogazione dei relativi servizi, in mancanza,
peraltro, di alcun riferimento a livelli standard di spesa efficiente: ne
deriverebbe la penalizzazione di quelle «realtà regionali che hanno adottato da
tempo misure di contenimento della spesa, riducendola a livelli difficilmente
ulteriormente comprimibili senza un vulnus al sistema dei servizi sociali».
Si tratta della riproposizione delle
censure già avanzate dalla Regione Veneto contro l’originaria previsione
contenuta nei primi due periodi dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014,
come convertito, ed oggetto del ricorso n. 63 reg. ric. del 2014, deciso con la
sentenza n. 65
del 2016, nei sensi della non fondatezza.
Non resta allora che ribadire tali
conclusioni, nel solco delle argomentazioni contenute nella pronuncia da ultimo
citata.
Quanto alla prospettata esondazione
dagli argini di un corretto esercizio della funzione di coordinamento della
finanza pubblica, infatti, per costante giurisprudenza costituzionale,
l’imposizione di risparmi di spesa rientra a pieno titolo nell’esercizio di
tale fondamentale compito, attribuito alla competenza statale dall’art. 117,
terzo comma, Cost. (da ultimo, sentenze n. 65 del
2016 e n.
218 del 2015).
In secondo luogo, la sentenza n. 65 del
2016 ha già rilevato come la ricorrente imputi all’applicazione della
disposizione impugnata un risultato – il taglio «lineare», ossia di pari
importo, in ogni ambito di spesa – che la disposizione stessa, per il suo
tenore testuale, non impone in alcun modo.
La previsione normativa in questione,
infatti, letta unitamente all’art. 8 del medesimo d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, si limita a prescrivere una riduzione di spesa per acquisti di beni
e servizi, in ogni settore e per un ammontare complessivo, senza indicare
dettagliatamente la misura dei risparmi da conseguire in ciascun singolo
ambito.
Il meccanismo legislativo non impone, in
sostanza, di effettuare riduzioni di identica dimensione in tutti i settori, ma
semplicemente richiede di intervenire in ciascuno di questi, limitandosi ad
individuare un importo complessivo di risparmio, lasciando in primo luogo alle
Regioni il potere di decidere l’entità dell’intervento in ogni singolo ambito.
La disposizione censurata, dunque, non
esclude affatto che la riduzione avvenga prevedendo tagli maggiori proprio nei
settori in cui la spesa sia risultata improduttiva, eventualmente evitando di
coinvolgere in modo rilevante, e nella medesima misura, gli ambiti in cui la
spesa si sia rivelata, al contrario, efficiente. Risulta in tal modo smentito
l’asserito carattere irragionevole dell’intervento legislativo statale.
Quanto, infine, all’invocato contrasto
con l’art. 119 Cost., è appena il caso di riaffermare che non è contestabile il
potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche
dagli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, vincoli alle
politiche di bilancio, anche se questi si traducano, inevitabilmente, in
limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti. Di conseguenza, la
funzione di coordinamento finanziario prevale su tutte le altre competenze
regionali, anche esclusive, risultando legittima l’incidenza dei principi
statali di coordinamento, sia sull’autonomia di spesa delle Regioni, sia su
ogni tipo di potestà legislativa regionale.
5.4.— La ricorrente appunta le sue
censure anche nei confronti dell’art. 1, comma 398, lettera c), della legge n.
190 del 2014, con il quale viene incrementata di 3.452 milioni di euro, sempre
a carico delle Regioni a statuto ordinario e per ciascuno degli anni dal 2015
al 2018, la riduzione sulla spesa per beni e servizi, di 750 milioni di euro,
già stabilita dalle precedenti disposizioni, delle quali viene replicata anche
la previsione del meccanismo di riparto, ma con due differenze: da un lato, si
dispone la necessità di assicurare il rispetto dei livelli essenziali di
assistenza; dall’altro, si prevede che l’eventuale intervento statale
sostitutivo debba prendere in considerazione anche le risorse destinate al
finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale.
La Regione Veneto dispiega le proprie
censure distinguendo, ancora una volta, tre diversi profili, l’ultimo dei quali
variamente articolato anche in rapporto ai successivi, e pure impugnati, commi
414 e 556 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014.
La ricorrente, in primo luogo, richiama
– ritenendole estensibili anche all’incremento di contributo introdotto dalla
disposizione in esame – tutte le censure incentrate sul «carattere meramente
lineare del taglio», già avanzate con riferimento al contributo originario
disciplinato dagli artt. 8 e 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, in quanto ritenuto in contrasto, per gli aspetti che hanno superato
il preventivo vaglio di ammissibilità, con gli artt. 3, 117, terzo comma, e 119
Cost., nonché con il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120
Cost.
Come già osservato al precedente punto
5.3., l’esclusione del «carattere meramente lineare del taglio» non può che
comportare la declaratoria di non fondatezza delle censure costruite sulla base
di tale errata premessa interpretativa.
5.5.— In secondo luogo, sul presupposto
che «solo qualora venga raggiunta l’intesa, il taglio non riguardi anche le
risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale»,
la ricorrente lamenta che le Regioni, al fine di raggiungere l’intesa, e dunque
per scongiurare la riduzione della spesa sanitaria, sarebbero obbligate a
comprimere ulteriormente la spesa extra-sanitaria, ossia proprio quella che
avrebbe maggiormente subito l’impatto delle manovre di finanza pubblica. Da ciò
discenderebbe la palese irragionevolezza della disposizione impugnata, la cui
attuazione comporterebbe, di fatto, «la compromissione della stessa potestà
legislativa e amministrativa regionale nelle materie, extra sanità, di propria
competenza, ridondando pertanto sull’autonomia regionale».
La questione non è fondata, in quanto la
prospettazione della ricorrente muove, anche in questo caso, da un erroneo
presupposto interpretativo.
La disposizione impugnata, nella
formulazione letterale oggetto di impugnativa (prescindendo, dunque, dalle
previsioni dettate dal sopravvenuto art. 1, comma 682, della legge n. 208 del
2015, oggetto di autonoma impugnativa, con distinto e successivo ricorso
proposto dalla medesima Regione Veneto), non esclude affatto che la riduzione
di spesa concordata in sede di autocoordinamento regionale possa riguardare
anche la spesa sanitaria, con conseguente rideterminazione in diminuzione delle
risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale.
Non a caso, il successivo comma 557
dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014 prevede che «eventuali risparmi nella
gestione del Servizio sanitario nazionale effettuati dalle Regioni rimangono
nella loro disponibilità per finalità sanitarie», con ciò smentendo l’assunto
regionale circa l’impossibilità di prevedere, già in sede di autocoordinamento,
anche riduzioni della spesa in ambito sanitario (riduzioni che, del resto,
risultano effettivamente previste dalle prime intese concluse, proprio in
attuazione delle disposizioni impugnate, in data 26 febbraio 2015 e in data 2
luglio 2015).
5.6.— Un ultimo motivo di censura, a sua
volta variamente articolato, è prospettato dalla ricorrente con riguardo
all’intervento "sostitutivo” dello Stato, che si ritiene violi – ancora una
volta e per i soli parametri ritenuti ammissibili – gli artt. 3, 117, secondo e
terzo comma, e 119 Cost., nonché il principio di leale collaborazione di cui
all’art. 120 Cost.
5.6.1.— Innanzitutto, secondo la
ricorrente, i criteri del PIL regionale e della popolazione residente, dettati
per orientare l’intervento eventuale dello Stato, non solo – in violazione
dell’art. 117, terzo comma, Cost. – non avrebbero «una attinenza
costituzionalmente corretta con lo scopo della norma che è quello del
coordinamento (rectius: contenimento) della spesa regionale», ma soprattutto
addosserebbero «un maggiore onere alle Regioni con un Pil più elevato»,
travalicando l’ambito fissato dall’art. 119 Cost., in particolare ai commi
terzo e quinto.
A sostegno dell’assunto viene richiamata
la sentenza n.
79 del 2014, con la quale questa Corte ha sancito che un taglio alle
risorse regionali, applicato in proporzione alle spese sostenute per consumi
intermedi, realizza un effetto perequativo implicito, ma evidente, in contrasto
con i requisiti fissati dal terzo e dal quinto comma dell’art. 119 Cost.
Lo stesso vizio, secondo la ricorrente,
inficerebbe una previsione di riduzione di risorse in cui il riferimento ai
consumi intermedi sia sostituito, come nella norma impugnata, con quello al PIL
regionale (ed alla popolazione residente).
La questione non è fondata, come già
ritenuto da questa Corte con la sentenza n. 65 del
2016.
È sufficiente ricordare che, nel caso
scrutinato dalla sentenza
n. 79 del 2014, l’effetto perequativo, implicito ma evidente, discendeva
dal collegamento, espresso ed esclusivo, della riduzione dei trasferimenti
statali all’ammontare delle spese per i consumi intermedi, intese quali
manifestazioni, pur indirette, di ricchezza delle Regioni.
Nel caso qui in esame, invece, le
disposizioni impugnate impongono alle Regioni semplicemente una riduzione di
spesa, sebbene con (non più eventuale, ma certa) riduzione dei livelli di
finanziamento statale degli ambiti nei quali si è deciso il taglio.
Nel giudizio definito con sentenza n. 79 del
2014 veniva in rilievo una relazione diretta e certa tra l’ammontare della
spesa per consumi intermedi e la misura della riduzione dei trasferimenti
statali (rapporto censurato anche nella recente sentenza n. 129 del
2016): a spesa più alta per consumi intermedi corrispondeva una maggiore
riduzione dei trasferimenti statali, fino al punto di costringere quelle
Regioni, che avessero registrato uscite superiori ai trasferimenti statali
dovuti, a restituire al bilancio dello Stato le somme residue, senza alcuna
precisazione circa la destinazione finale di queste. L’effetto complessivo
risultava indubbiamente perequativo, in quanto determinava una riduzione di
trasferimenti erariali per le Regioni considerate più "ricche”, con un
conseguente riequilibrio di risorse disponibili, al di fuori dei meccanismi
previsti dall’art. 119 Cost.
Nel caso oggetto del presente giudizio,
invece, l’intervento statale non comporta, neppure indirettamente, una
riduzione degli squilibri tra le Regioni, mirando a coinvolgere tutti gli enti
nell’opera di risanamento, secondo criteri di "progressività” dello sforzo,
proporzionati alla dimensione del PIL e della popolazione, senza alcun effetto
di livellamento: le "differenze di ricchezza” già esistenti, calcolate
applicando congiuntamente (anche) il criterio del PIL in rapporto alla
popolazione residente, non vengono ridotte, ma semplicemente assunte come base
di calcolo – peraltro eventuale, provvisoria e comunque non esclusiva,
rimanendo possibile operare determinazioni fondate su parametri diversi – per
riduzioni di spesa imposte a tutte le Regioni, appunto in proporzione ai
dislivelli già esistenti.
Nella memoria depositata il 12 aprile
2016, la Regione Veneto ha sostenuto che la situazione oggi al vaglio della
Corte sarebbe completamente diversa rispetto al quadro normativo scrutinato con
la sentenza n.
65 del 2016, in quanto l’eliminazione dell’avverbio «eventualmente», in
relazione alla rideterminazione dei livelli di finanziamento degli ambiti
individuati e delle modalità di acquisizione delle risorse da parte dello
Stato, determinerebbe una sostanziale identità con la normativa esaminata nella
sentenza n. 79
del 2014, e da quest’ultima dichiarata incostituzionale per l’appena
descritto effetto perequativo realizzato al di fuori dei meccanismi disegnati
dall’art. 119 Cost.
Tale assunto è privo di pregio.
È appena il caso di notare, infatti, che
la sentenza n.
65 del 2016 non ha affatto basato la declaratoria di non fondatezza sul
carattere "eventuale” della rideterminazione dei livelli di finanziamento
statale degli ambiti oggetto della riduzione di spesa, ma sulla circostanza che
l’intervento statale non comporta, neppure indirettamente, una riduzione degli
squilibri tra le Regioni, con esclusione, dunque, di qualsiasi effetto
perequativo implicito.
Vi è da aggiungere, piuttosto, che la sentenza n. 65 del
2016 ha ritenuto che la (allora eventuale) rideterminazione dei livelli di
finanziamento – evidentemente degli ambiti individuati come oggetto delle
riduzioni di spesa – appariva «conseguenza necessitata, oltre che del tutto
ragionevole». E ciò rafforza la valutazione di non fondatezza della censura, in
riferimento all’attuale tenore letterale della disposizione.
5.6.2.— Sotto altro profilo, la
ricorrente lamenta che, in forza della disposizione impugnata, lo Stato debba
considerare, in sede di eventuale intervento "sostitutivo”, «anche le risorse
destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale»,
prospettandosi «anche in questo caso un carattere meramente lineare del
taglio», senza alcuna considerazione dei costi e dei fabbisogni standard
regionali, assunti invece a principale parametro di riferimento dalle vigenti
norme che disciplinano il riparto del fondo sanitario nazionale. La conseguente
incisione indiscriminata, tanto sulle realtà efficienti, dove minimo è il
livello di spreco, quanto su quelle inefficienti, dove alta sarebbe la
possibilità di razionalizzazione, integrerebbe la prospettata violazione dei
principi desumibili dagli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.
Anche tale questione non è fondata.
Si è già riconosciuta alla disposizione
impugnata sicura natura di norma di coordinamento finanziario e si è rilevato
come essa non comporti alcun taglio necessariamente «lineare» (sentenza n. 65 del
2016).
Va opportunamente aggiunto che il
mancato inserimento, nella disposizione censurata, di un esplicito riferimento
ai costi ed ai fabbisogni standard regionali, non consente di desumere ostacoli
all’impiego anche di tali criteri per la distribuzione della riduzione di
spesa: anzi, proprio la necessaria considerazione delle risorse destinate al
finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale ben può consentire alle
Regioni, già in sede di autocoordinamento, ed eventualmente allo Stato, in sede
di intervento sussidiario, di tenere conto dei costi e dei fabbisogni standard
regionali, in modo da onerare maggiormente le Regioni caratterizzate da una
"spesa inefficiente”.
5.6.3.— La Regione Veneto ha impugnato
il comma 398, lettera c), dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014, anche in
rapporto ai successivi commi 414 e 556.
Il comma 414 prevede che le Regioni
assicurino comunque il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza; il
comma 556 prevede la rideterminazione, in conseguenza delle riduzioni di spesa,
del livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale al quale
concorre lo Stato.
Secondo la ricorrente, nel loro
complesso, tali disposizioni mantengono a carico delle Regioni l’obbligo di
garantire il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza, senza che
questi ultimi, tuttavia, dopo la prima fissazione, avvenuta con d.P.C.m. 29
novembre 2001 (recante, appunto, la «Definizione dei livelli essenziali di
assistenza») ed il loro unico aggiornamento, operato con d.P.C.m. 5 marzo 2007
(Modifica del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 novembre
2001, recante: «Definizione dei livelli essenziali di assistenza»), siano mai
stati rideterminati, nonostante la riduzione delle risorse disponibili da
destinare all’erogazione dei relativi servizi.
Di qui, a giudizio della ricorrente, la
violazione dei parametri di cui agli artt. 3 e 117, secondo e terzo comma,
Cost.
Le questioni non sono fondate.
Questa Corte ha già affermato che la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni costituisce uno
strumento attribuito alla competenza esclusiva statale, da utilizzare per
evitare che le Regioni possano fornire servizi inferiori a certi standard
minimi (in tal senso, le sentenze n. 125 del
2015, n. 111
del 2014 e n.
207 del 2012). Ha, però, aggiunto che la determinazione, da parte dello
Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire
su tutto il territorio nazionale offre indubbiamente alle Regioni un
«significativo criterio di orientamento nell’individuazione degli obiettivi e
degli ambiti di riduzione delle risorse impiegate, segnando il limite al di
sotto del quale la spesa – sempreché resa efficiente – non sarebbe
ulteriormente comprimibile» (sentenza n. 65 del
2016).
Con riferimento, in particolare, ai
livelli essenziali di assistenza, esemplificativamente indicati dalla
ricorrente per dimostrare gli asseriti effetti distorsivi derivanti
dall’applicazione delle disposizioni impugnate, essi sono stati inizialmente
determinati con il d.P.C.m. 29 novembre 2001 (recante, appunto, la «Definizione
dei livelli essenziali di assistenza»), e successivamente modificati dal
d.P.C.m. 5 marzo 2007. In ordine ad essi, la Regione lamenta la mancata
attuazione dell’art. 5 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158
(Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto
livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, che di tali livelli essenziali
aveva previsto l’ulteriore aggiornamento entro il 31 dicembre 2012.
Questa Corte deve, allora, osservare che
anche l’aggiornamento dei LEA, da parte dello Stato, è certamente di estrema
utilità per orientare le scelte di bilancio delle Regioni, in presenza di
interventi statali di coordinamento della finanza pubblica. Ma tale aggiornamento
non può certo assurgere a condizione necessaria per la stessa legittimità
dell’intervento statale di «coordinamento della finanza pubblica» nella
corrispondente materia.
È appena il caso di evidenziare,
peraltro, che il procedimento di revisione dei LEA è stato avviato in forza
dell’art. 1, commi da 553 a 565, della legge n. 208 del 2015 (legge di
stabilità per il 2016), che – previa abrogazione dell’art. 5 del d.l. n. 158
del 2012, come convertito, invocato dalla Regione ricorrente – ha stabilito precise
scadenze temporali, prevedendo l’iniziale intesa con la Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano e il successivo parere della medesima Conferenza permanente in
occasione di ogni successivo aggiornamento, fissato con cadenza annuale.
5.6.4.— Infine, la Regione Veneto
lamenta la violazione del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120
Cost. e, a dimostrazione di tale asserita lesione, evidenzia che lo Stato non
ha promosso alcun coinvolgimento della Conferenza permanente per il
coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della
legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo
fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione) e dell’art. 33 del
decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia
di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario).
Neppure tale ultima questione è fondata.
Occorre, infatti, ribadire l’assunto
secondo cui, pur dovendosi riconoscere l’inevitabile incidenza sull’autonomia
finanziaria delle Regioni dell’obbligo ad esse imposto di concorrere alla
finanza pubblica, è necessario, ma anche sufficiente, «contemperare le ragioni
dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni
costituzionalmente attribuite» alle autonomie (sentenza n. 139 del
2012), garantendo il loro pieno coinvolgimento (sentenza n. 88 del
2014). E, come pure già rilevato da questa Corte (sentenza n. 65 del
2016), tale coinvolgimento è assicurato dalle disposizioni censurate, che
riconoscono, nella fase iniziale, un potere di determinazione autonoma, da
parte delle Regioni, in ordine alla modulazione delle necessarie riduzioni nei
diversi ambiti di spesa.
5.7.— L’istanza di sospensione
dell’efficacia dell’art. 1, commi 398, lettere a), b) e c), 414 e 556 della
legge n. 190 del 2014, avanzata dalla ricorrente Regione Veneto, unitamente
alla proposizione del ricorso, rimane assorbita dalla decisione di
inammissibilità e di non fondatezza nel merito delle censure proposte (ex
plurimis, sentenze
n. 44 del 2014, n. 273, n. 220 e n. 46 del 2013,
n. 299 del 2012,
n. 263, n. 190 e n. 189 del 2011).
6.— Venendo al merito delle censure
prospettate dalla Regione Lombardia, quest’ultima ha impugnato l’art. 1, commi
398, 555, 556 e 557, della legge n. 190 del 2014, promuovendo questioni di
legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 117, comma sesto, e 119
Cost.
6.1.— Il comma 398, in particolare,
violerebbe l’art. 117, sesto comma, Cost., che, nelle materie concorrenti,
quale è il coordinamento della finanza pubblica, assegna esclusivamente alle
Regioni la potestà regolamentare.
La disposizione impugnata, a giudizio
della ricorrente, attribuirebbe invece ad una fonte normativa secondaria dello
Stato – nel caso di mancato raggiungimento dell’intesa in sede di
autocoordinamento regionale – l’individuazione degli importi e degli ambiti in
cui effettuare le riduzioni di spesa, oltre alla rideterminazione dei livelli
di finanziamento di tali ambiti e delle modalità di acquisizione delle risorse
da parte dello Stato.
Sarebbe, in particolare, l’assenza di
criteri stringenti nella scelta degli importi e degli ambiti in cui ridurre la
spesa a dimostrare che il d.P.C.m., al quale la disposizione censurata rinvia,
avrebbe natura di atto sostanzialmente normativo, in violazione del parametro
costituzionale ricordato. I riferimenti al PIL, alla popolazione residente e
alle risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario
nazionale, pur presenti nella disposizione impugnata, risulterebbero infatti
«vaghi», con conseguente riconoscimento allo Stato di amplissimi margini di
discrezionalità, a conferma della natura squisitamente "politica”, e non
meramente "tecnica”, del decreto in parola.
La questione non è fondata.
Nel caso in esame, infatti, non
ricorrono «gli indici sostanziali che la giurisprudenza costante di questa
Corte assume a base della qualificazione degli atti come regolamenti» (sentenza n. 275 del
2011). In particolare, non ricorre di certo il requisito dell’astrattezza, intesa
quale indefinita ripetibilità, nel tempo, delle regole contenute nell’atto,
ovvero quale attitudine dell’atto stesso ad essere applicato tutte le volte in
cui si verifichino i presupposti da esso indicati (sentenza n. 139 del
2012).
È, infatti, da escludere che il
d.P.C.m., cui la disposizione impugnata rinvia, produca norme intese a
disciplinare stabilmente, nel tempo, rapporti giuridici. Al contrario, il
d.P.C.m. in questione non può che contenere determinazioni puntuali, di rilievo
essenzialmente tecnico (per la valorizzazione di tale carattere, ai fini
dell’esclusione della natura regolamentare dell’atto, sentenze n. 88 del
2014, n. 311
e n. 139 del
2012, n. 278
del 2010), volte ad individuare aspetti concreti non aventi portata
innovativa del sistema normativo, perché diretti a fissare, per una durata
temporanea, la ripartizione delle riduzioni di spesa già individuate, in via di
massima, nella disposizione di legge.
Si è perciò al di fuori del modulo
regolamentare (in senso analogo, sentenza n. 569 del
1988): la previsione del d.P.C.m., nel caso in esame, ha lo scopo di curare
un interesse pubblico concreto e puntuale (in coerenza, del resto, con il
carattere "finalistico” del coordinamento della finanza pubblica) e non quello
di regolare stabilmente, in via astratta, rapporti giuridici in funzione
integrativa della disciplina legislativa.
6.2.— Sempre con riferimento all’art. 1,
comma 398, della legge n. 190 del 2014, la ricorrente sostiene che violerebbe
gli artt. 3 e 119 Cost. l’applicazione – per l’ipotesi di mancato
raggiungimento dell’intesa in sede di autocoordinamento regionale – dei criteri
del PIL regionale, della popolazione residente e delle risorse destinate al
finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale, in senso orientativo
delle scelte che lo Stato può effettuare in via sostitutiva.
Si tratterebbe, infatti, di criteri che,
in assenza di qualsiasi riferimento ai costi ed ai fabbisogni standard
regionali, irrazionalmente porterebbero a premiare le Regioni con una più
ingente spesa sanitaria, senza distinguere tuttavia, e paradossalmente, «fra
Regioni che spendono di più a causa di una più ingente mole di servizi erogati,
e Regioni che spendono di più a causa di diseconomie e inefficienze
organizzative e funzionali».
Aggraverebbe l’irragionevole
penalizzazione delle Regioni più virtuose, inoltre, l’eliminazione dei criteri
del «rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE,
nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati».
Le questioni non sono fondate.
È sufficiente ribadire quanto già
sottolineato al precedente punto 5.6.2., laddove si è chiarito che il tenore
letterale della disposizione non vieta affatto né alle Regioni, in sede di
autocoordinamento, né allo Stato, in sede di intervento sussidiario, di tenere
conto dei costi e dei fabbisogni standard regionali, in modo da onerare maggiormente
le Regioni caratterizzate da una "spesa inefficiente”.
Occorre aggiungere che l’eliminazione
dei criteri del «rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva
2011/7/UE, nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati», risulta priva
di autonomo carattere lesivo, perché tale modifica normativa ha soppresso il
riferimento ad un criterio che risultava vincolante solo nella fase della
redazione della proposta rimessa all’accordo da raggiungere in sede di
autocoordinamento regionale. Dalla modifica risultano, anzi, margini di manovra
più ampi, per le Regioni, in sede di attività consensuale.
6.3.— La ricorrente riscontra, infine,
un’interna contraddizione – come tale lesiva degli artt. 3 e 119 Cost. – tra la
disposizione contenuta nel comma 398 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014 e
quelle contenute nei successivi commi da 555 a 557, in forza dei quali gli
eventuali risparmi nella gestione del Servizio sanitario nazionale conseguiti
dalle Regioni rimangono nella disponibilità di queste ultime per scopi
sanitari. Mentre il comma 557 esclude il trasferimento allo Stato dei risparmi
conseguiti nella gestione del Servizio sanitario nazionale, il comma 398,
invece, non solo li ricomprenderebbe «fra le risorse allocabili» dal d.P.C.m.
nell’ambito del contributo regionale alla finanza pubblica, ma rimetterebbe,
altresì, allo Stato la scelta circa la finalità cui destinarli, rendendo «del
tutto nebuloso e incerto il quadro delle risorse su cui impostare la
programmazione finanziaria».
Anche tali questioni non sono fondate.
Va premesso che la previsione del comma
557, laddove stabilisce che eventuali risparmi nella gestione del Servizio
sanitario nazionale, effettuati dalle Regioni, rimangano nella disponibilità
delle stesse per finalità sanitarie, costituisce pedissequa attuazione
dell’art. 1, comma 4, del cosiddetto Patto per la salute, di cui all’intesa
sancita, in data 10 luglio 2014, in sede di Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Va pertanto esclusa, non solo qualsiasi violazione dell’autonomia finanziaria
regionale tutelata dall’art. 119 Cost. – anche perché la disposizione appare
neutrale in termini di incidenza sul bilancio regionale – ma anche qualsiasi
imposizione statale unilaterale della finalità cui destinare i risparmi
conseguiti nel settore sanitario.
Quanto alla prospettata contraddizione
con la previsione di cui al comma 398, è appena il caso di precisare che
quest’ultimo non prevede affatto un trasferimento diretto allo Stato dei
risparmi conseguiti nei settori interessati dalla riduzione della spesa, ma
soltanto una rideterminazione dei livelli di finanziamento degli ambiti così
individuati, e delle modalità di acquisizione delle risorse da parte dello
Stato: conseguenza già considerata da questa Corte «necessitata, oltre che del
tutto ragionevole» (sentenza n. 65 del
2016).
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la
decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i
ricorsi indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, lettera c), 414 e 556,
della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015),
promosse, in riferimento agli artt. 32 e 97 della Costituzione, dalla Regione
Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, lettere a), b) e c), 414
e 556, della legge n. 190 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 117,
quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in
epigrafe;
3) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, lettere a) e b), della
legge n. 190 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma,
Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, lettere a), b) e c), 414 e
556, della legge n. 190 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 3, 117,
terzo comma, e 119 Cost., nonché al principio di leale collaborazione di cui
all’art. 120 Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, lettera c), 414 e 556, della
legge n. 190 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma,
Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 398, 555, 556 e 557, della legge
n. 190 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 3, 117, sesto comma, e 119
Cost., dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 giugno
2016.