SENTENZA N. 218
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114, promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 20 ottobre 2014, depositato in cancelleria il 27 ottobre 2014 ed iscritto al n. 84 del registro ricorsi 2014.
Visto l’atto di costituzione di Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 settembre 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi l’avvocato Luigi Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso, notificato il 20 ottobre 2014, depositato il successivo 27 ottobre, la Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, della Costituzione.
1.1.– La Regione ricorrente premette che la norma impugnata, che ha abrogato l’art. 76, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, in tema di spese di personale per gli enti locali, ha disposto che «[n]egli anni 2014 e 2015 le regioni e gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno procedono ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente. Resta fermo quanto disposto dall’articolo 16, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135. La predetta facoltà ad assumere è fissata nella misura dell’80 per cento negli anni 2016 e 2017 e del 100 per cento a decorrere dall’anno 2018. Restano ferme le disposizioni previste dall’articolo 1, commi 557, 557-bis e 557-ter, della legge 27 dicembre 2006, n. 296».
Essa stabilisce, inoltre, che «[a] decorrere dall’anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile[...]. L’art. 76, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, è abrogato. Le amministrazioni di cui al presente comma coordinano le politiche assunzionali dei soggetti di cui all’articolo 18, comma 2-bis, del citato decreto-legge n. 112 del 2008, al fine di garantire anche per i medesimi soggetti una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti, fermo restando quanto previsto dal medesimo articolo 18, comma 2-bis, come da ultimo modificato dal comma 5-quinquies del presente articolo».
1.2.– Tale disposizione, nella parte in cui abroga la precedente disciplina contenuta nell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, sostituendo alla stessa una nuova dettagliata disciplina, sarebbe costituzionalmente illegittima, anzitutto, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
La ricorrente ritiene, infatti, che il citato art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, riconducibile all’ambito materiale del «coordinamento della finanza pubblica», non si limiti ad abrogare una norma “vincolistica”, già di per sé di dubbia costituzionalità, ma sostituisca ad essa una disciplina di dettaglio sicuramente non conforme alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale.
L’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, sarebbe costituzionalmente illegittimo anche per violazione degli artt. 3 e 97 Cost. ed in specie dei canoni di eguaglianza, ragionevolezza e buon andamento ivi previsti.
Esso, infatti, eliminando il divieto di assumere previsto dalla norma abrogata (il citato art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito) nei confronti dei soli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale sia pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti, ed imponendo a tutti gli enti gli stessi limiti alle assunzioni di personale, creerebbe un’ingiustificata discriminazione tra enti locali che abbiano coerentemente ed efficientemente perseguito il contenimento della spesa pubblica e quelli che invece abbiano, intenzionalmente o meno, sforato tale limite percentuale, in contrasto con i canoni di eguaglianza, ragionevolezza e buon andamento dell’amministrazione.
2.– Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato.
2.1.– In linea preliminare il ricorso sarebbe inammissibile per assoluta genericità. Esso, infatti, non indicherebbe in alcun modo quali aspetti della disciplina introdotta dalla norma impugnata – che si compone di ben sette diversi periodi, ciascuno contenente una disposizione diversa – avrebbe le caratteristiche di dettaglio non consentite dall’art. 117, terzo comma, Cost., omettendo di precisare quale delle diverse disposizioni della predetta norma sarebbero costituzionalmente illegittime.
Esso, inoltre, sarebbe inammissibile anche per carenza di interesse. La disciplina introdotta dalla norma impugnata, sostituendo quella dettata dall’abrogato art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito (che, peraltro, conteneva norme non meno dettagliate), avrebbe ampliato le possibilità di assunzione in capo agli enti sottoposti al patto di stabilità. Pertanto, un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale che venisse a colpire la citata norma abrogatrice del predetto art. 76, comma 7, comporterebbe il ripristino della norma abrogata (sentenza n. 108 del 1986), espressione di una legislazione maggiormente limitativa dei poteri di assunzione degli enti, con la conseguente carenza di interesse della Regione ricorrente ad ottenere un simile risultato.
Inammissibili sarebbero, inoltre, le censure promosse in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., in linea con la giurisprudenza costituzionale secondo cui le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenze legislative solo se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali, «senza che possano avere rilievo denunce di illogicità o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale» (sentenza n. 116 del 2006).
2.2.– Nel merito il ricorso sarebbe, comunque, infondato.
La norma – ad avviso della difesa statale – si limiterebbe a semplificare e rimodulare le limitazioni al turn over nelle pubbliche amministrazioni per il quinquennio 2014-2018 e sostituirebbe al criterio basato sui risparmi di spesa, connessi alle cessazioni dell’anno precedente, limiti corrispondenti ad una percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente.
La difesa statale sostiene che la disposizione impugnata si inserisce nel quadro complessivo di interventi finalizzati ad assicurare il contenimento della spesa di personale nelle pubbliche amministrazioni regionali e locali, in coerenza con il principio di coordinamento della finanza pubblica, senza eccedere dal carattere di norma di principio, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., in linea con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale. La predetta norma, infatti, creerebbe un sistema virtuoso di gestione che mira ad un risparmio di spesa sul piano dell’organizzazione amministrativa e politica, obiettivo, quest’ultimo, per il conseguimento del quale il contributo delle autonomie territoriali sarebbe necessario, pur nel rispetto degli ambiti di autonomia costituzionalmente garantiti, anche alla luce del primo comma dell’art. 119 Cost. che prevede che tutti gli enti ivi indicati sono tenuti a concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.
Con particolare riferimento ai limiti alle assunzioni di personale, la difesa statale ricorda, inoltre, che la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 173 del 2012 in tema di limiti alle assunzioni a tempo determinato e contratti di lavoro flessibile di cui all’art. 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) come convertito, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2012, n. 122, ha precisato che tali norme sono state legittimamente emanate dallo Stato nell’esercizio della sua competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, tramite la previsione della percentuale di riduzione del 50 per cento della spesa complessiva rispetto a quella sostenuta nel 2009, ferma restando la facoltà delle Regioni di riallocare le risorse entro il tetto previsto.
3.– All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle difese svolte nelle memorie scritte.
Considerato in diritto
1.– La Regione Veneto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, della Costituzione.
1.1.– Tale norma, nella parte in cui stabilisce che «[n]egli anni 2014 e 2015 le regioni e gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno procedono ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente», disponendo l’abrogazione dell’art. 76, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, sarebbe costituzionalmente illegittima in quanto sostituirebbe alla precedente normativa, già di dubbia costituzionalità, una disciplina di dettaglio in materia di «coordinamento della finanza pubblica», sicuramente non conforme alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale e quindi in contrasto con l’art.117, terzo comma, Cost.
Essa, inoltre, eliminando il divieto di assumere previsto dalla norma abrogata (il citato art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito), nei confronti dei soli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale sia pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti, ed imponendo a tutti gli enti gli stessi limiti alle assunzioni di personale, creerebbe un’ingiustificata discriminazione tra enti locali che abbiano coerentemente ed efficientemente perseguito il contenimento della spesa pubblica e quelli che invece abbiano, intenzionalmente o meno, sforato tale limite percentuale, in contrasto con i canoni di eguaglianza, ragionevolezza e buon andamento dell’amministrazione.
2.– In via preliminare, occorre valutare l’eccezione, sollevata dalla difesa statale, di inammissibilità del ricorso per genericità dello stesso.
Quest’ultimo non indicherebbe in alcun modo quali aspetti della disciplina introdotta dalla norma impugnata – che si compone di ben sette diversi periodi, ciascuno contenente una disposizione diversa – avrebbero le caratteristiche di dettaglio non consentite dall’art. 117, terzo comma, Cost., omettendo di precisare quali delle diverse disposizioni della predetta norma sarebbero costituzionalmente illegittime.
2.1.– L’eccezione è priva di fondamento.
Questa Corte ha più volte affermato che «il ricorso in via principale deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi, indicando le norme costituzionali e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione e che, inoltre, deve contenere una argomentazione di merito a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale, giacché l’esigenza di una adeguata motivazione a supporto della impugnativa si pone in termini perfino più pregnanti nei giudizi diretti rispetto a quelli incidentali (ex plurimis, sentenza n. 259 del 2014)» (sentenza n. 82 del 2015).
Nella specie, tali requisiti sono soddisfatti.
Il ricorso, sebbene molto conciso, rende «ben identificabili i termini delle questioni proposte, individuando le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale (sentenza n. 241 del 2012)» (sentenza n. 176 del 2015). In esso è riportato l’intero contenuto della norma impugnata che, pur componendosi di sette diversi periodi, delinea una disciplina unitaria dei limiti entro i quali gli enti territoriali possono procedere ad assunzioni di personale a far data dall’anno 2014. Ed è chiaramente l’intera disciplina dettata dall’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che, secondo l’assunto del ricorrente, non sarebbe riconducibile ai «principi di coordinamento della finanza pubblica» in ragione della sua natura estremamente dettagliata, con conseguente invasione della competenza regionale concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost.
3.– Ancora in linea preliminare, deve essere esaminata l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dall’Avvocatura generale dello Stato e inerente alla pretesa carenza di interesse della ricorrente a ottenere una declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina introdotta dalla norma impugnata.
Secondo la difesa statale, l’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, sostituendo la disciplina dettata dall’abrogato art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, avrebbe ampliato le possibilità di assunzione in capo agli enti sottoposti al patto di stabilità, rispetto a quanto precedentemente disposto. Pertanto, un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della norma impugnata comporterebbe il ripristino della norma abrogata (il citato art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008), espressione di una legislazione maggiormente limitativa dei poteri di assunzione degli enti.
3.1.– Anche tale eccezione risulta destituita di fondamento.
Come già affermato, «il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate […] non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate» (sentenza n. 13 del 2012). Fra di esse è stata individuata «l’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale», che costituisce «caso a sé» (sentenza n. 13 del 2012) in quanto riguarda la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che sia meramente abrogativa di una norma precedente, la quale torna per ciò stesso a rivivere.
Nella specie, la norma impugnata interviene in tema di limiti alle assunzioni di personale da parte degli enti territoriali, dettando una disciplina che modifica la precedente, contenuta nell’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito. Quest’ultima norma è espressamente abrogata al fine di escludere ogni dubbio circa la perdurante vigenza della precedente disciplina. La norma di cui si chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale non è, pertanto, norma il cui contenuto essenziale è quello abrogativo; né di essa si chiede l’annullamento in quanto dispone l’abrogazione della vecchia disciplina. Si deve, dunque, escludere che, nella specie, l’eventuale accoglimento del ricorso possa produrre l’effetto di far rivivere la precedente disciplina, con conseguente riconoscimento della sussistenza dell’interesse del ricorrente all’annullamento dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito. Questo si può affermare indipendentemente da ogni valutazione in ordine alla fondatezza o meno dell’assunto, da cui muove il ricorrente, del carattere maggiormente limitativo per le Regioni della disciplina previgente rispetto a quella ora in esame.
4.– La difesa statale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità delle censure promosse nei confronti dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., in quanto attinenti a parametri non inerenti al riparto di attribuzione delle competenze e per il fatto che dalla loro pretesa lesione non sarebbe desunta alcuna compressione delle sfere di attribuzione regionale.
4.1.– L’eccezione è fondata.
Secondo l’indirizzo ormai costante di questa Corte, «le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo quando la violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni (sentenze n. 8 del 2013 e n. 199 del 2012) e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di tale lesione (sentenze n. 229 del 2013 e n. 33 del 2011)» (sentenza n. 89 del 2015).
Nella specie le richiamate condizioni non sussistono.
La Regione ricorrente, infatti, lamenta l’ingiustificata discriminazione che deriverebbe dalla normativa impugnata a carico degli enti territoriali che abbiano efficacemente perseguito il contenimento della spesa pubblica. Questi enti sarebbero trattati allo stesso modo di quelli che, con o senza una precisa intenzione di farlo, si trovino a non aver raggiunto un simile obiettivo, in violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza e buon andamento dell’amministrazione. Essa, tuttavia, non svolge alcun argomento per spiegare in quali termini tale vizio «comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o ridondi sul riparto di competenze legislative (ex plurimis, sentenze n. 128 e n. 33 del 2011, n. 156 e n. 52 del 2010)» (sentenza n. 236 del 2013).
Deve, pertanto, dichiararsi l’inammissibilità della questione promossa in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.
5.– Resta da valutare nel merito la questione di legittimità costituzionale promossa nei confronti del medesimo art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., sull’assunto che la norma impugnata sostituisca alla precedente normativa, già di dubbia costituzionalità perché dettagliata, una nuova disciplina di dettaglio in materia di «coordinamento della finanza pubblica», non conforme alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale.
5.1.– La questione non è fondata.
L’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, si inserisce nel quadro complessivo dei numerosi interventi che il legislatore statale, ormai da tempo, ha effettuato in vista dell’obiettivo di assicurare il contenimento della spesa di personale nelle pubbliche amministrazioni regionali e locali.
Sin dalle prime decisioni rese all’indomani della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, questa Corte ha ricondotto le disposizioni dettate dal legislatore statale in vista del contenimento della spesa corrente degli enti territoriali alle finalità di coordinamento della finanza pubblica, sull’assunto che «[n]on è contestabile il potere del legislatore statale di imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti» (sentenza n. 36 del 2004). E ciò in quanto «il contenimento del tasso di crescita della spesa corrente rispetto agli anni precedenti costituisce pur sempre uno degli strumenti principali per la realizzazione degli obiettivi di riequilibrio finanziario», essendo «indicato fin dall’inizio fra le azioni attraverso le quali deve perseguirsi la riduzione del disavanzo annuo» (sentenza n.36 del 2004).
Si è, tuttavia, precisato che, perché norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possano qualificarsi princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, occorre, in primo luogo, «che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della [stessa], intesi anche nel senso di un transitorio contenimento complessivo, sebbene non generale, della spesa corrente»; in secondo luogo, che «non prevedano strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (sentenza n. 169 del 2007).
Fra le misure di contenimento della spesa di Regioni ed enti locali si sono da tempo ravvisate quelle inerenti alle spese per il personale, alle quali devono ricondursi quelle oggetto della norma impugnata. Esse perseguono «l’obiettivo di contenere entro limiti prefissati una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico, costituita dalla spesa complessiva per il personale (sentenza n. 4 del 2004)» (sentenza n. 169 del 2007). Tale obiettivo, pur non riguardando la generalità della spesa corrente, ha tuttavia «rilevanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interno, e concerne non una minuta voce di spesa, bensì un rilevante aggregato della spesa di parte corrente, nel quale confluisce il complesso degli oneri relativi al personale» (sentenza n. 169 del 2007), cosicché, sempre che siano rispettate le predette condizioni, esso legittima l’intervento limitativo del legislatore statale.
Su queste basi, è stata riconosciuta (sentenza n. 148 del 2012) natura di principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica all’art. 76, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, come successivamente modificato, nella parte in cui poneva – prima dell’abrogazione disposta con la norma ora in esame – il divieto di procedere ad assunzioni di qualsiasi tipo per gli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale fosse pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti e imponeva ai restanti enti di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente (fra le altre, sentenze n. 181 del 2014, n. 287 del 2013, n. 217 del 2012, n. 161 del 2012).
Sulla richiamata disposizione è intervenuto l’art. 3 del d.l. n. 90 del 2014, convertito dalla legge n. 114 del 2014, che, in particolare, ai commi 5, 5-quater e 5-quinquies, ha modificato la disciplina in essa contenuta prescrivendo che, «[n]egli anni 2014 e 2015 le regioni e gli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno procedono ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente» (comma 5, primo periodo), mentre per gli anni 2016 e 2017 le assunzioni sono fissate nella misura dell’80 per cento e, a decorrere dall’anno 2018, nella misura del 100 per cento (comma 5, terzo periodo). Al comma 5-quater, si è inoltre precisato che «gli enti indicati al comma 5, la cui incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25 per cento, possono procedere ad assunzioni a tempo indeterminato a decorrere dal 1° gennaio 2014, nel limite dell’80 per cento della spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente e nel limite del 100 per cento a decorrere dall’anno 2015».
Alla luce di quanto detto, risulta evidente che anche la norma ora sottoposta a scrutinio (l’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito) è norma recante princìpi di coordinamento della finanza pubblica. Essa, infatti, nella parte in cui reca la previsione del contenimento delle spese correnti inerenti alle assunzioni del personale a tempo indeterminato, imponendo il «limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 60 per cento di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente», incide sulla spesa inerente ad un vasto settore del personale (sentenza n. 173 del 2012), che può costituire «una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico» (sentenza n. 169 del 2007), concernendo «non una minuta voce di spesa, bensì un rilevante aggregato della spesa di parte corrente», in un’ottica di contenimento complessivo, sebbene non generale, della spesa corrente in vista del riequilibrio della finanza pubblica (sent. n. 169 del 2007). Si tratta, in altri termini, di una norma volta a «realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario – che per sua natura eccede le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – […] e, proprio perché viene “incontro alle esigenze di contenimento della spesa pubblica e di rispetto del patto di stabilità interno”, è idonea a realizzare l’ulteriore finalità del buon andamento delle pubbliche amministrazioni (sentenza n. 64 del 2005)» (sentenza n. 417 del 2005; anche sentenza n. 52 del 2010).
Serve soprattutto sottolineare che la norma soddisfa i requisiti necessariamente prescritti al fine di escludere l’illegittimità costituzionale delle misure limitative da essa introdotte, escludendo che le stesse determinino la lesione delle sfere di competenza regionale e degli enti locali e in particolare il sacrificio della loro autonomia di spesa.
Infatti, fissando il limite alle assunzioni di personale a tempo indeterminato in termini percentuali rispetto al contingente di personale di ruolo cessato nell’anno precedente, l’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, soddisfa il requisito di non prevedere «in modo esaustivo strumenti e modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» di contenimento della spesa (sentenza n. 236 del 2013), lasciando alle Regioni la possibilità di provvedere esse stesse, in piena autonomia, a differenziare le misure necessarie al raggiungimento dell’indicato obiettivo, tenendo conto delle diverse esigenze dei vari settori dell’amministrazione regionale. Occorre, inoltre, rilevare che la citata disposizione risponde alla necessità che le misure di intervento del legislatore statale siano adottate in via transitoria ed in vista di specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, come è dimostrato dalla circostanza che il limite alle assunzioni da parte di Regioni ed enti locali opera per gli anni 2014 e 2015 e, in maniera meno stringente, per gli anni 2016 e 2017, per cessare improrogabilmente a decorrere dal 2018.
Deve, pertanto, dichiararsi priva di fondamento la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, promossa dalla Regione Veneto in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe.
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 114 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 2015
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2015.