SENTENZA N. 229
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
-
- Luigi MAZZELLA Giudice
-
-
-
-
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI
"
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4,
commi 1, 2, 3, 3-sexies, 4, 5, 6, 7,
8, 8-bis, 9, 10, 11, 12, 13 e 14 del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai
cittadini), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, promossi con ricorsi delle Regioni Lazio, Veneto,
Campania, delle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, della Regione
siciliana e della Regione Puglia, notificati il 12-17, il 12, il 13-17, il 15,
il 12, il 13 e il 16-24 ottobre 2012, depositati in cancelleria il 16, il 17,
il 18, il 19 e il 23 ottobre 2012 ed iscritti ai nn.
145, 151, 153, 159, 160, 170 e 171 del registro ricorsi 2012.
Visti
gli atti di
costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica
del 18 giugno 2013 il Giudice relatore
uditi
gli avvocati
Ritenuto in
fatto
1.–
Con ricorso notificato il 12-17 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria
di questa Corte il 16 ottobre 2012 (reg. ric. n. 145 del 2012),
1.1.–
La ricorrente premette che l’art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in
liquidazione e privatizzazione di società pubbliche», detta una disciplina che
interviene in via diretta ed immediata su aspetti organizzativi e di
funzionamento amministrativo regionale. In particolare, la ricorrente ricorda
che il predetto articolo, al comma 1, impone alla Regione l’obbligo di
procedere allo scioglimento o, in alternativa, alla privatizzazione delle società
controllate dalla stessa direttamente o indirettamente, le quali abbiano
conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi in favore
della pubblica amministrazione superiore al 90 per cento dell’intero fatturato;
al comma 3-sexies prevede che, entro
tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del
decreto, la Regione predisponga appositi piani di ristrutturazione e
razionalizzazione delle società controllate, la cui approvazione è subordinata
al previo parere favorevole del Commissario straordinario per la
razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi, al quale sono
riconosciuti pregnanti poteri decisionali in ordine alle scelte organizzative
dell’ente; infine, al comma 8, limita la possibilità di procedere
all’affidamento diretto dei servizi pubblici locali «solo a favore di società a
capitale interamente pubblico […] a condizione che il valore economico del
servizio o dei beni oggetto dell’affidamento sia complessivamente pari o
inferiore a 200.000 euro annui».
Così
disponendo, il citato art. 4 inciderebbe indebitamente sull’autonomia
organizzativa e di funzionamento della Regione, con conseguente lesione di
competenze regionali garantite da norme di rango costituzionale.
In
particolare, la disciplina dettata dal comma 1, che impone lo scioglimento
ovvero la privatizzazione di tutte le società direttamente o indirettamente
controllate dalla Regione, sarebbe costituzionalmente illegittima per
violazione della competenza statutaria in tema di determinazione dei principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione di cui all’art.
123 Cost. Inoltre, sia il comma 1 che il comma 3-sexies del medesimo art. 4, nella parte
in cui subordinano al previo parere positivo del Commissario straordinario per
la razionalizzazione della spesa per l’acquisto di beni e servizi
l’approvazione dei piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società
controllate predisposti dalla Regione, determinerebbero la lesione della
competenza regionale residuale in materia di "enti pubblici regionali” e
"organizzazione amministrativa” di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.; mentre il comma 8 dello stesso articolo, nella parte
in cui dispone che l’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica debba avvenire, previo rispetto dei requisiti richiesti
dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house, «a
condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto
dell’affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui»
determinerebbe, altresì, una menomazione della competenza legislativa residuale
regionale in materia di servizi pubblici, nonché la lesione della sfera di
autonomia incomprimibile di cui gli enti locali godono in virtù dell’art. 117,
sesto comma, Cost, ponendosi peraltro in contrasto
con la normativa comunitaria che consente la gestione diretta del servizio
pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di
concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione dell’ente
pubblico» (art. 106 TFUE). I predetti commi dell’art. 4 sarebbero, inoltre,
lesivi della competenza legislativa regionale concorrente in materia di
coordinamento della finanza pubblica, nonché del principio di leale collaborazione,
che trova fondamento diretto negli artt. 5 e 120 Cost.,
in quanto non lascerebbero alla Regione alcun margine di manovra in ordine alle
scelte volte all’individuazione degli strumenti e delle modalità per il
perseguimento degli indicati obiettivi di contenimento della spesa pubblica.
2.– Con ricorso
notificato il 12 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa
Corte il 17 ottobre 2012 (reg. ric. n. 151 del 2012),
La
Regione deduce, in particolare, che i commi 1, 3, 3-sexies, 4, 5, 6, 7,
8, 8-bis, 9, 10, 11, 12 e 14 violano: l’art. 117, quarto comma, Cost., che attribuisce alla Regione la competenza
legislativa residuale in materia di organizzazione amministrativa della
Regione, nonché, conseguentemente, gli artt.118 e 119 Cost.;
l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui,
eliminando il potere delle Regioni di procedere ad affidamenti in house, pacificamente ammessi, al ricorrere di
determinati presupposti, a livello di ordinamento comunitario, si porrebbero in
contrasto con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, nonché con la
Carta europea delle autonomie locali; gli artt. 3 e 97 Cost.,
posto che alle Regioni sarebbero impediti gli affidamenti in house a prescindere da qualsivoglia valutazione
discrezionale da svolgersi nel rispetto dei principi di ragionevolezza e buon
andamento dell’azione amministrativa; l’art. 118, secondo comma, Cost., per la parte in cui tali norme ledono le competenze
amministrative degli enti locali e ciò in ragione della stretta connessione di
queste con le attribuzioni regionali.
Inoltre,
con specifico riferimento ai commi 4, 5, 9, 10, 11 e 12 del medesimo art. 4, la
ricorrente deduce la violazione della competenza legislativa regionale
concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art.
117, terzo comma, Cost.; in relazione al comma 14
prospetta la violazione della potestà legislativa regionale residuale in
materia di "organizzazione amministrativa della Regione”, nonché degli artt. 3
e 97 Cost. nella parte in cui, pur vietando di
deferire in arbitrato le controversie tra le società a totale partecipazione
pubblica, diretta o indiretta, e le relative amministrazioni (anche regionali)
detentrici delle partecipazioni stesse, fa salve le clausole arbitrali
contenute nei contratti tra le amministrazioni e le società pubbliche quando si
siano già costituiti i relativi collegi arbitrali; in relazione ai commi 3 e
13, denuncia la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
nonché del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., in quanto, nell’individuazione delle società cui non
trova applicazione l’art. 4 non è previsto alcun coinvolgimento delle Regioni
neppure mediante l’intervento della Conferenza unificata Stato-Regioni.
3.– Con ricorso
notificato il 13-17 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa
Corte il 18 ottobre 2012 (reg. ric. n. 153 del 2012), anche
3.1.– Le predette
norme sono, in primo luogo, censurate in riferimento agli artt. 5, 75,
114, 117, 118 e 136 Cost., nella parte in cui,
delineando una procedura ad hoc per le società alle quali sia precluso
un utile ed efficace ricorso al mercato in ragione di peculiari
caratteristiche, nonché riducendo la possibilità di affidamenti diretti dei
servizi pubblici locali (commi 3 ed 8), con la più grave sanzione dello
scioglimento o della privatizzazione delle società controllate direttamente o
indirettamente dalle Regioni e dagli enti locali (comma 1), finisce di fatto
per riprodurre una disciplina già espunta dall’ordinamento, dapprima a seguito
del referendum del 12-13 giugno 2011 e poi con la sentenza n. 199 del
2012, ledendo la competenza legislativa regionale residuale in materia di
servizi pubblici locali, che si era riespansa
all’indomani della consultazione popolare e della decisione di questa Corte. Le
richiamate disposizioni lederebbero, altresì, la competenza legislativa
concorrente regionale in tema di coordinamento della finanza pubblica, non
recando principi di coordinamento, ma una disciplina minuziosa e dettagliata.
Con
specifico riferimento al comma 3, la Regione ne denuncia il contrasto con gli
artt. 41 e 114 Cost., nella parte in cui preclude in
radice alle Regioni la possibilità di esercitare attività di rilevanza
economica in precedenza svolte tramite società controllate.
Con
riferimento al comma 8, nella parte in cui dispone che, a decorrere dal 1°
gennaio 2014, l’affidamento diretto possa avvenire solo a favore di società a
capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dal diritto
comunitario in materia di in house providing purché il
valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento non superi
200.000 euro annui, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 117, primo
comma, Cost. per contrasto con i limiti posti dalla
configurazione comunitaria dell’in house.
4.– Con ricorso
notificato il 15 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa
Corte il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 159 del 2012),
4.1.– La Regione
premette che l’impugnazione dell’art.
4.2.– Ove,
infatti, si ritenesse che l’art. 4 sia applicabile anche nelle Regioni ad
autonomia speciale, le predette
norme sarebbero lesive della potestà legislativa regionale primaria in materia
di "ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione”, nonché dei
poteri legislativi riconosciuti dall’art. 117 Cost.,
in quanto la decisione della Regione di operare attraverso proprie strutture o
attraverso società in house costituirebbe una
scelta puramente organizzativa che non può essere compressa in nome di un
generico coordinamento finanziario, privo di uno specifico contenuto economico,
né in nome della tutela della concorrenza, in quanto la problematica della
concorrenza si porrebbe solo una volta che siano state operate le scelte
organizzative dell’ente e quest’ultimo, una volta organizzatosi (nell’ambito
della propria autonomia), ricorra al mercato.
5.– Con ricorso
notificato il 12 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa
Corte il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 160 del 2012), anche
5.1.– In via
preliminare, la ricorrente precisa che gli articoli della Costituzione che
riconoscono attribuzioni costituzionali alle Regioni ordinarie sono richiamati
ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
(Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che estende
alle Regioni ad autonomia speciale le disposizioni di maggior favore per le
Regioni ordinarie nelle more della revisione dei loro statuti.
5.2.– Nel merito,
la Regione censura, in particolare, i commi 1, 2, 5 ed
Con riguardo, poi, ai commi 1, 2, 3, 4, 5, 9, 10, 11, 12, 13 e 14, la ricorrente denuncia la
violazione delle competenze statutarie
e costituzionali della Regione Sardegna, attenendo dette norme all’organizzazione ed allo svolgimento, in
forma societaria, delle funzioni pubbliche demandate alla Regione, analogamente
al comma 3-sexies, il quale sottopone
al vaglio di un organo statale di nomina governativa procedimenti che attengono
allo svolgimento delle funzioni pubbliche regionali.
6.– Con ricorso,
notificato il 13 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa
Corte il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 170 del 2012), la Regione siciliana ha
promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del
più volte citato d.l. n. 95 del 2012, fra le quali,
in particolare, l’art. 4, comma 3–sexies, in riferimento agli artt. 14, lettere o) e p),
15 e 17 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione
dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale
dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, ed all’art. 118, primo e
secondo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della
legge cost. n. 3 del 2001.
6.1.– La Regione
impugna l’art. 4, comma 3-sexies,
nella parte in cui dispone che i piani di ristrutturazione e razionalizzazione
delle società controllate sono approvati «previo parere favorevole del Commissario
straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e
servizi di cui all’art. 2 del d.l. n. 52 del 2012,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 94 del 2012» e che il termine di
90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione può essere
prorogato «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto
con il Ministro dell’economia e delle finanze, adottato su proposta del
Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l’acquisto
di beni e servizi». Così disponendo, esso violerebbe le competenze legislative
regionali statutarie primarie di cui all’art. 14, lettera p) in tema di "ordinamento degli uffici e degli enti regionali”,
all’art. 14, lettera o), in tema di
"regime degli enti locali”, nonché all’art.
7.– Con ricorso
notificato il 16-24 ottobre 2012 e depositato presso la cancelleria di questa
Corte il 23 ottobre 2012 (reg. ric. n. 171 del 2012),
7.1.–
8.– In tutti i
giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che
i ricorsi siano dichiarati inammissibili e/o rigettati.
In
particolare, la difesa statale ha osservato che la disposizione censurata
(l’art. 4), nella parte in cui prescrive lo scioglimento o la privatizzazione
delle società a partecipazione pubblica, e quindi la riduzione del numero degli
enti a partecipazione pubblica che erogano servizi strumentali alla pubblica
amministrazione, rientrerebbe nel novero delle disposizioni che, in quanto
finalizzate al contenimento ed alla razionalizzazione della spesa pubblica,
costituiscono "principi di coordinamento in materia di finanza pubblica” ai
sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. Essa,
ponendosi in linea di continuità con i precedenti interventi legislativi in
materia di società pubbliche, risponderebbe, inoltre, all’esigenza di evitare
distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la par condicio
degli operatori. A suo avviso, la disciplina limitativa degli enti pubblici
strumentali non inciderebbe in materia di organizzazione amministrativa perché
non sarebbe rivolta a regolare una forma di svolgimento dell’attività amministrativa,
ma sarebbe riconducibile, da un lato, alla competenza legislativa esclusiva in
materia di ordinamento civile, in quanto volta a definire i confini tra
l’attività amministrativa e l’attività d’impresa, soggetta alle regole del
mercato e, dall’altro, alla competenza legislativa esclusiva in materia di
tutela della concorrenza, in quanto volta ad eliminare distorsioni della
concorrenza stessa.
La
difesa statale precisa, inoltre, che il comma 3 dell’art. 4 esclude dall’ambito
di applicazione una serie di società tra le quali quelle che svolgono servizi
di interesse generale, anche aventi rilevanza economica, categoria quest’ultima
alla quale sarebbe possibile ricondurre i servizi pubblici locali. Con le
richiamate disposizioni il legislatore avrebbe inteso fare riferimento solo
alle c.d. società strumentali della pubblica amministrazione e cioè a quelle
società che producono beni e servizi strumentali alle funzioni amministrative
di cui è titolare l’ente pubblico per il perseguimento dei suoi fini
istituzionali.
Secondo
il Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, l’impugnata disposizione,
lungi dall’esautorare le Regioni dal procedimento di razionalizzazione degli
enti ad esse strumentali, lascerebbe ampi margini di autonomia alla potestà organizzativa
regionale, in armonia con il principio di leale collaborazione di cui all’art.
117 Cost., prevedendosi anche meccanismi di
partecipazione delle Regioni al processo di privatizzazione delle società da
esse controllate, attraverso la possibilità loro riconosciuta di predisporre
appositi piani di ristrutturazione.
Le
disposizioni contenute nei commi 1, 2 e 3 del citato art. 4 sarebbero
riconducibili alla materia dell’ordinamento civile in quanto, inserendosi in un
contesto normativo volto a razionalizzare l’assetto organizzativo delle
pubbliche amministrazioni (in linea con l’art. 3, comma 27, della legge 24
dicembre 2007, n. 244 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008»), mirerebbero ad
assicurare una distinzione sempre più incisiva tra attività amministrativa in
forma privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica
amministrazione) ed attività di impresa di enti pubblici, incidendo sul regime
giuridico, delineato in termini necessariamente uniformi sul territorio
nazionale, di quelle realtà societarie direttamente o indirettamente
controllate dalla pubblica amministrazione. Esse mirerebbero altresì ad evitare
che l’attività d’impresa degli enti pubblici possa essere svolta beneficiando
dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica
amministrazione: conseguentemente sarebbero riconducibili anche alla materia di
competenza legislativa esclusiva statale della tutela della concorrenza.
Quanto
ai successivi commi 7 ed 8 dell’art. 4, la difesa statale deduce che anch’essi
sarebbero finalizzati ad evitare distorsioni della concorrenza e del mercato e
costituirebbero disposizioni rientranti nella competenza legislativa esclusiva
statale in materia di tutela della concorrenza, mentre l’art. 4, comma 3-sexies, nella parte in cui prevede che
le società controllate da tutte le pubbliche amministrazioni possono avere come
oggetto sociale solo l’esercizio delle funzioni amministrative di cui all’art.
118 Cost. e dispone che esse rispondano ai requisiti
della legislazione comunitaria in materia di in house providing,
inciderebbe sia sulla materia dell’ "ordinamento civile”, in quanto delimita
l’oggetto sociale ed impone che le predette società rispondano ai requisiti
della legislazione comunitaria in tema di in house
providing; sia sulla la materia della "tutela
della concorrenza”, materie entrambe nelle quali lo Stato può dettare disposizioni
vincolanti anche per gli enti locali, competendo sempre allo Stato anche
verificare la corretta attuazione delle proprie disposizioni vincolanti in
concreto.
9.– All’udienza
pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni già
formulate nelle difese scritte.
Considerato
in diritto
1.–
Con sette distinti ricorsi, le Regioni Lazio (n. 145 del 2012), Veneto (n. 151
del 2012), Campania (n. 153 del 2012) e Puglia (n. 171 del 2012), nonché le
Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia (n. 159 del 2012), Sardegna (n. 160 del
2012) e la Regione siciliana (n. 170 del 2012) hanno promosso questioni di
legittimità costituzionale, in via principale, di numerose norme del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e, tra
queste, dell’art. 4 ed in specie di alcuni commi del medesimo articolo.
2.–
Le ricorrenti impugnano il citato art. 4 nella parte in cui: dispone lo
scioglimento, entro il 31 dicembre 2013, delle società controllate direttamente
o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2,
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e quindi anche
dalle Regioni e dagli enti locali, che, nel corso dell’anno 2011, abbiano
conseguito un fatturato da prestazione di servizi a favore delle pubbliche amministrazioni
stesse superiore al 90 per cento dell’intero fatturato (comma 1); prescrive, in
alternativa, l’alienazione, mediante procedure di evidenza pubblica, delle
relative partecipazioni entro il 30 giugno 2013 (comma 1), prevedendo, in caso
di mancato adeguamento, il divieto di nuovi affidamenti diretti di servizi e
del rinnovo degli affidamenti di cui le predette società siano titolari (comma
2); prevede che le predette disposizioni non si applichino, oltre che ad una
serie di società specificamente individuate (commi 3 e 13), solo «qualora per
le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche
del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per
l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al
mercato», sottoponendo, peraltro, gli esiti della predetta verifica
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’acquisizione del
parere vincolante, parere poi da comunicarsi alla Presidenza del Consiglio dei
ministri (comma 3); sottopone al «previo parere favorevole» di un organo
statale, e cioè del Commissario straordinario per la razionalizzazione della
spesa per l’acquisto di beni e servizi, l’approvazione degli eventuali piani
«di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate» che le
Regioni abbiano predisposto entro tre mesi dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del decreto (comma 3-sexies); impone alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1,
comma 2, del d.lgs. n. 165 del
Il
medesimo art. 4 è inoltre censurato nella parte in cui detta disposizioni
puntuali in ordine alla composizione ed al funzionamento dei consigli di
amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle
pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 e
quindi anche dalle Regioni e dagli enti locali (commi 4 e 5); impone
limitazioni in ordine all’assunzione di personale ed al relativo trattamento
economico (commi 9, 10, 11 e 12); vieta, a pena di nullità, di inserire clausole
arbitrali in sede di stipulazione di contratti di servizio ovvero di atti
convenzionali comunque denominati, intercorrenti tra società a totale
partecipazione pubblica, diretta o indiretta, e amministrazioni statali e
regionali (comma 14).
Le
ricorrenti sostengono che una simile dettagliata disciplina, considerata nel
suo complesso o anche solo con riguardo a specifici commi, impedendo o comunque condizionando la scelta
delle Regioni in ordine alla forma giuridica da adottare per organizzare ed
erogare i propri servizi, soprattutto con la previsione di una drastica
riduzione delle ipotesi di ricorso all’affidamento in house, determinerebbe la
violazione: della competenza legislativa regionale residuale in materia di
"organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici regionali”,
nonché in materia di "servizi pubblici locali”; della potestà legislativa
regionale primaria spettante, in materia di "ordinamento degli uffici e degli
enti dipendenti dalla Regione”, alle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia,
Sardegna ed alla Regione siciliana (nonché in materia di "stato giuridico ed
economico del personale”, "ordinamento degli enti locali”, "trasporti su linee
automobilistiche e tranviarie” per
Le
Regioni Campania, Sardegna e Puglia censurano il citato art. 4 anche nella
parte in cui, delineando una procedura ad
hoc per le società che esercitano servizi pubblici locali in ordine alle
quali sia precluso un utile ed efficace ricorso al mercato in ragione di
peculiari caratteristiche, nonché riducendo la possibilità di affidamenti diretti
dei medesimi servizi pubblici locali (commi 3 ed 8), con la più grave sanzione
dello scioglimento o della privatizzazione delle società controllate
direttamente o indirettamente dagli enti locali (comma 1), ed il divieto di
nuovi affidamenti diretti di servizi e del rinnovo degli affidamenti in essere
(comma 2), riprodurrebbe, di fatto, una disciplina già espunta
dall’ordinamento, dapprima a seguito del referendum del 12-13 giugno 2011 e poi
per effetto della sentenza
di questa Corte n. 199 del 2012, in violazione degli artt. 75 e 136 Cost. e con conseguente lesione delle competenze
costituzionali e statutarie delle Regioni nella materia dei servizi pubblici.
Secondo
3.–
In considerazione della sostanziale identità delle norme impugnate, sopra
indicate, e dell’analogia delle censure proposte con i suddetti ricorsi, i
relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un’unica
pronuncia: la valutazione delle restanti questioni sollevate, coi medesimi
ricorsi, dalle sopraindicate Regioni è riservata ad altre decisioni.
4.–
In via preliminare, occorre tener conto di alcune modifiche legislative
sopraggiunte alla proposizione dei ricorsi.
4.1.–
L’art. 34, comma 27, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori
misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla
legge 17 dicembre
Occorre,
dunque, valutare se tale modifica possa determinare la cessazione della materia
del contendere con riguardo alle censure concernenti il richiamato comma 8
dell’art. 4, la cui efficacia era comunque rinviata al 1° gennaio 2014 e che,
quindi, non ha avuto applicazione nella sua originaria formulazione.
Siffatta
modifica, che ha eliminato la soglia massima dei 200.000 euro di valore
economico del servizio ai fini della possibilità di ricorrere all’affidamento in house dei
servizi, pur facendo venir meno uno degli elementi limitativi del ricorso
all’affidamento in house,
non risulta totalmente satisfattiva delle istanze delle Regioni ricorrenti,
poiché resta inserita in un contesto normativo, complessivamente censurato, che
risulta sostanzialmente immutato. In base a quest’ultimo, detti affidamenti
diretti possono essere effettuati in favore delle società pubbliche che abbiano
i requisiti di cui al comma 1 (siano controllate dalle pubbliche
amministrazioni in favore delle quali abbiano prestato servizi, conseguendo, in
riferimento ad essi, nell’anno 2011, un fatturato superiore al 90 per cento
dell’intero fatturato), o in quanto rientrino fra quelle espressamente escluse
dall’ambito di applicazione dell’art. 4 (commi 3 e 13), oppure in quanto
ricorra per esse la condizione di cui al comma 3 e cioè che «per le peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto,
anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione
pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato» (comma 3, secondo
periodo), secondo il parere vincolante dell’Autorità garante della concorrenza
e del mercato. Ove tali condizioni non siano soddisfatte e le predette società
non siano state sciolte o privatizzate, come previsto dal comma 1, esse non
possono, infatti, essere più destinatarie di affidamenti diretti (comma 2).
Pertanto,
posto che la sopravvenienza legislativa non modifica in modo significativo il
complessivo quadro normativo, e certamente non lo fa in modo satisfattivo delle
istanze delle Regioni ricorrenti, non è possibile dichiarare cessata la materia
del contendere. In considerazione della sostanziale identità del contenuto
precettivo della norma modificata, la questione, come proposta, si intende
trasferita sul testo attualmente vigente del comma 8 dell’art. 4.
4.2.–
L’art. 1, comma 148, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità
2013) ha modificato l’impugnato comma 10 del medesimo art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, aggiungendo, al testo già vigente, il
seguente periodo: «Le medesime società applicano le disposizioni di cui
all’articolo 7, commi 6 e 6-bis, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in
materia di presupposti, limiti e obblighi di trasparenza nel conferimento degli
incarichi»
Anche
in tal caso la sopravvenienza legislativa, intervenuta quando la norma
originaria non era stata ancora applicata, non costituisce una modifica
satisfattiva delle pretese delle ricorrenti, dal momento che introduce, in capo
alle società pubbliche oggetto dell’art. 4, ulteriori vincoli in materia di
rapporti di lavoro (contratti di collaborazione e conferimento di incarichi),
estendendo alle medesime società i limiti imposti, in materia, dal d.lgs. n.
165 del 2001 alle pubbliche amministrazioni "controllanti”. Tenuto conto,
quindi, che non è mutato il contenuto precettivo della norma modificata, la
questione, come proposta, si intende trasferita sul testo attualmente vigente
del comma 10 dell’art. 4.
5.
– Ancora in linea preliminare, va dichiarata l’inammissibilità delle questioni
promosse dalla Regione Veneto (ric. n. 151 del 2012), nei confronti del comma
8-bis dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012.
Tale
disposizione, sebbene sia evocata fra quelle impugnate dalla predetta Regione
con il citato ricorso congiuntamente ai commi 1, 3, 3-sexies, 9, 10, 11, 12 e 14 del citato articolo, non è fatta oggetto
di nessuna delle censure ivi prospettate.
6.–
Va, altresì, dichiarata l’inammissibilità delle questioni promosse dalla Regione
Puglia (ric. n. 171 del 2012) nei confronti dei commi 1 ed 8 del citato art.
6.1.–
Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni possono evocare parametri di
legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo
allorquando la violazione denunciata sia «potenzialmente idonea a determinare
una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali
delle Regioni» (sentenza
n. 199 del 2012) e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai
profili di una possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di
competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della
specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di
tale lesione (sentenza
n. 33 del 2011).
Nella specie, dette condizioni di ammissibilità delle censure non sono soddisfatte.
Analogamente,
7.–
Sono, invece, ammissibili le questioni proposte dalle Regioni Campania,
Sardegna e Puglia in riferimento agli artt. 75 e 136 Cost.
Le
Regioni ricorrenti assumono, infatti, che la normativa qui impugnata (in specie
i commi 1, 2, 3 ed 8) ha nuovamente innalzato una barriera nei confronti
dell’affidamento in house
dei servizi pubblici locali, reintroducendo una disciplina analoga, ed anzi
ancor più restrittiva, sia di quella già oggetto di abrogazione referendaria,
con la quale si riduceva la possibilità di affidamenti diretti dei servizi
pubblici locali, sia di quella dichiarata costituzionalmente illegittima per
violazione della volontà popolare espressa attraverso la consultazione
referendaria. Posto che, sia a seguito dell’abrogazione referendaria, che a
seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, le competenze
regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si erano riespanse, le ricorrenti impugnano dette norme, in quanto
lesive della sfera di competenza regionale (e degli enti locali) in materia di
servizi pubblici locali come "riespansa”. Le
ricorrenti hanno, quindi, fornito una sufficiente motivazione in ordine ai
profili della possibile ridondanza sul riparto di competenze della denunciata
violazione, evidenziando la potenziale lesione della potestà legislativa
regionale residuale in materia di servizi pubblici locali (e della relativa
competenza regolamentare degli enti locali) che deriverebbe dalla violazione
degli artt. 75 e 136 Cost.
8.–
Ad
avviso della ricorrente, tale norma, nella parte in cui stabilisce che «[…] le
disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province
autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle
relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle
autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale,
agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri
enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale», renderebbe
inapplicabili ad essa ed a tutte le Regioni ad autonomia speciale ed alle
Province autonome le disposizioni del decreto-legge, tranne quelle che, a loro
volta (come nel caso dell’art. 17), contengano specifiche indicazioni sulla
loro applicabilità alle autonomie speciali. Pertanto, poiché l’impugnato art. 4
non contiene alcuna specifica menzione, le disposizioni da esso recate non
sarebbero applicabili alle autonomie speciali.
8.1.–
La tesi della Regione Friuli-Venezia Giulia è corretta, in quanto dall’esame
dei lavori preparatori si desume che la clausola di cui all’art. 24-bis è stata introdotta, in sede di
conversione in legge, alla fine del testo del d.l. n.
95 del 2012, proprio per garantire che «il contributo delle Regioni a statuto
speciale all’azione di risanamento come fissata in questo provvedimento dallo
stesso Governo […] venga realizzato rispettando i rapporti e i vincoli che gli
statuti speciali stabiliscono tra livello nazionale e Regioni a statuto speciale».
La
predetta clausola è analoga ad altre sulle quali questa Corte si è già
pronunciata, affermando che esse sono volte ad escludere la diretta
applicazione agli enti ad autonomia speciale delle disposizioni dettate dal
legislatore statale che non siano compatibili con quanto stabilito negli
statuti speciali e nelle norme di attuazione degli stessi, al di fuori delle
particolari procedure previste dai rispettivi statuti (sentenza n. 193 del
2012). Tale tipo di clausole, lungi dall’essere mere clausole di stile,
hanno la «precisa funzione di rendere applicabile il decreto agli enti ad
autonomia differenziata solo a condizione che siano "rispettati” gli statuti
speciali» (sentenza
n. 241 del 2012): esse, in tal modo, prefigurano «un percorso procedurale,
dominato dal principio consensualistico, per la
modificazione delle norme di attuazione degli statuti speciali, con riguardo
all’eventualità in cui lo Stato voglia introdurre negli enti ad autonomia
differenziata, quanto alle materie trattate nel decreto-legge, una disciplina
non conforme alle norme di attuazione statutaria» (sentenza n. 241 del
2012; in senso analogo cfr. anche, fra le altre, sentenze n. 178 del 2012
e n. 64 del 2012).
Da
ciò si desume che, anche qualora si accertasse che le norme dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 impugnate rechino disposizioni
incompatibili con gli statuti speciali, esse non sarebbero di per sé
applicabili alle Regioni ad autonomia speciale, ma richiederebbero il
recepimento tramite le apposite procedure (consensuali) prescritte dalla
normativa statutaria e di attuazione statutaria.
9.–
Procedendo all’esame del merito delle questioni proposte, occorre, in primo
luogo, esaminare le censure delle Regioni Campania, Sardegna e Puglia
concernenti il citato art. 4, nella parte in cui delinea una procedura ad hoc per le società che esercitano
servizi pubblici locali in ordine alle quali sia precluso un utile ed efficace
ricorso al mercato in ragione di peculiari caratteristiche, nonché riduce la
possibilità di affidamenti diretti dei medesimi servizi pubblici locali (commi
3 ed 8), con la più grave sanzione dello scioglimento o della privatizzazione
delle società controllate direttamente o indirettamente dagli enti locali
(comma 1) ed il divieto di nuovi affidamenti diretti di servizi e del rinnovo
degli affidamenti in essere (comma 2), nonché con la previsione dell’obbligo,
posto a carico delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2,
d.lgs. n. 165 del 2001, di acquisire sul mercato i beni e i servizi con le
procedure ad evidenza pubblica (comma 7). Così disponendo, l’art. 4
riprodurrebbe una disciplina già espunta dall’ordinamento, dapprima, a seguito
del referendum del 12-13 giugno 2011 e, poi, per effetto della sentenza n. 199 del
2012, in violazione degli artt. 75 e 136 Cost.,
con conseguente lesione delle competenze costituzionali e statutarie delle Regioni
nella materia dei servizi pubblici, nonché delle competenze regolamentari ed
amministrative degli enti locali nella medesima materia.
9.1.–
Le questioni non sono fondate.
Occorre
premettere che con il d.l. n. 95 del 2012,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, il legislatore
statale ha introdotto disposizioni urgenti finalizzate a «razionalizzare la
spesa pubblica attraverso la riduzione delle spese per beni e servizi,
garantendo al contempo l’invarianza dei servizi ai cittadini». In questo ambito
si colloca l’art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in liquidazione e
privatizzazione di società pubbliche», il quale contiene una serie di
disposizioni volte primariamente a realizzare lo scioglimento o, in
alternativa, la privatizzazione delle società, controllate direttamente o
indirettamente dalle pubbliche amministrazioni, titolari di affidamenti diretti di servizi in favore delle
pubbliche amministrazioni, ed in specie di quelle, fra di esse, che abbiano
conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore delle
pubbliche amministrazioni stesse superiore al 90 per cento dell’intero
fatturato, mirando a ridurne il numero. A tale scopo, si prevede che le
predette società (di cui al comma 1) possono continuare ad operare, senza
essere sciolte o privatizzate, solo «qualora per le peculiari caratteristiche
economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche
territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica
controllante un efficace e utile ricorso al mercato» e a condizione che tale
verifica venga sottoposta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato
per l’acquisizione del parere vincolante, da rendere entro sessanta giorni
dalla ricezione della relazione, parere poi da comunicarsi alla Presidenza del
Consiglio dei ministri (comma 3). Si delimita, poi, ulteriormente, a partire
dal 1° gennaio 2014, il ricorso agli affidamenti diretti solo a favore di
società a capitale interamente pubblico (comma 8), imponendosi, viceversa, alle
pubbliche amministrazioni, come regola, l’obbligo di acquisire i servizi
strumentali alle proprie attività sul mercato secondo le procedure
concorrenziali (comma 7) .
L’ambito
di applicazione di tali disposizioni è definito in negativo dai commi 3 e 13, i
quali espressamente individuano una serie di società controllate dalle
pubbliche amministrazioni sottratte al regime dettato dall’art. 4, fra le quali
vi sono, in primo luogo, le società che svolgono servizi di interesse generale,
anche aventi rilevanza economica. Posto che la definizione dei servizi di
interesse generale trova nella normativa dell’Unione europea i suoi fondamenti,
e che, alla luce di essa, tali servizi corrispondono ad attività (anche
commerciali) orientate al bene della collettività e pertanto vincolate a
specifici obblighi di servizio pubblico da parte delle autorità, tra le quali
si annoverano, ad esempio, i trasporti, i servizi postali, le
telecomunicazioni, è agevole desumere che i servizi pubblici locali rientrano
fra i servizi di interesse generale.
Le
censure muovono, perciò, da un presupposto interpretativo erroneo, che è quello
dell’applicabilità delle norme qui in esame in riferimento ai servizi pubblici
locali. Tale presupposto non solo è contraddetto espressamente dal citato comma
3, ma viene anche smentito da una lettura sistematica delle disposizioni
dell’art. 4, le quali più volte fanno riferimento a società controllate che
svolgono servizi in favore delle pubbliche amministrazioni (già nel comma 1), che
sono "strumentali” all’attività delle medesime (ad esempio, al comma 7).
Considerato che le disposizioni censurate hanno un
ambito di applicazione diverso da quello delle disposizioni oggetto del
referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011 e della declaratoria di
illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 199 del
2012 e, dunque, non sono riproduttive né delle disposizioni abrogate con il
referendum, né delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime con
la citata
sentenza n. 199 del 2012, non sussiste alcuna lesione né del giudicato
costituzionale, né della volontà popolare espressa tramite il referendum.
10.–
L’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 è, inoltre,
censurato nella parte in cui, impedendo
o comunque condizionando la scelta delle Regioni in ordine alla forma giuridica
da adottare per organizzare ed erogare i propri servizi, in specie con
l’imposizione dello scioglimento o della privatizzazione delle società in house,
nonché, comunque, con la previsione di
una drastica riduzione delle ipotesi di ricorso all’affidamento in house, determinerebbe
la violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di
organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici regionali, nonché
delle competenze legislative primarie in materia di "ordinamento degli uffici e
degli enti dipendenti dalla Regione” per
L’esame
della questione impone di verificare quale sia la materia alla quale va
ricondotta la normativa censurata. A tal fine, questa Corte ha più volte
affermato che «per la identificazione della materia in cui si colloca la
disposizione impugnata, questa va individuata avendo riguardo all’oggetto o
alla disciplina da essa stabilita, sulla base della sua ratio, senza tenere conto degli aspetti marginali e riflessi» (sentenza n. 235 del
2010; in tal senso anche le sentenze n. 368 del 2008
e n. 165 del
2007).
10.1.–
Quanto all’oggetto, già dalla rubrica dell’art. 4 si desume che esso è
costituito dalla «messa in liquidazione e privatizzazione di società
pubbliche», volta a ridurne il numero in vista della riduzione delle spese. Il
comma 1 del predetto articolo chiarisce che oggetto della disciplina da esso
dettata sono le società pubbliche o, più precisamente, quelle società
controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, che siano titolari di
affidamenti diretti di servizi svolti a favore delle medesime pubbliche
amministrazioni e cioè di quelle società che producono beni o servizi
strumentali alle pubbliche amministrazioni. Con riguardo a tali società
pubbliche strumentali, il comma 1 dispone che esse siano sciolte entro il 31
dicembre 2013 o che siano privatizzate entro il 30 giugno dello stesso anno,
qualora abbiano conseguito nell’anno 2011 più del 90 per cento del fatturato da
prestazioni di servizi alla pubblica amministrazione; e stabilisce anche che,
nel caso di mancato adeguamento a tali indicazioni, le predette società non
possano più ottenere nuovi affidamenti diretti, né il rinnovo degli affidamenti
preesistenti (comma 2, al quale si collega il comma 8). Per ovviare ai predetti
esiti, alle amministrazioni pubbliche controllanti è solo consentito: a) di
predisporre un’analisi di mercato sulla base della quale risulti che, per le
peculiari caratteristiche economiche e sociali, ambientali e geo-morfologiche del
contesto, anche territoriale, di riferimento, non è possibile un efficace ed
utile ricorso al mercato, analisi tuttavia soggetta al parere vincolante
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (comma 3, ultimo
periodo); b) ovvero (entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di
conversione) di predisporre piani di razionalizzazione e ristrutturazione delle
predette società, i quali, tuttavia, sono assoggettati al previo parere
favorevole del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa
per l’acquisto di beni e servizi di cui all’articolo 2 del decreto-legge 7
maggio 2012, n. 52 (Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 luglio 2012, n. 94.
A
tali disposizioni, chiaramente finalizzate alla riduzione dell’uso delle
società pubbliche strumentali, si aggiunge, da un lato, la previsione secondo
cui, dal 1° gennaio 2014, le amministrazioni pubbliche acquisiscono i servizi
strumentali alla propria attività sul mercato nel rispetto delle regole
concorrenziali stabilite dal d.lgs. n. 163 del 2006 (comma 7); dall’altro, una
serie di norme che disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle
predette società, che siano rimaste operative in base all’applicazione della
predetta normativa, sia imponendo limiti al numero dei componenti dei consigli
di amministrazione (commi 4 e 5), nonché alle spese per il personale delle
medesime società e per il relativo trattamento economico (commi 9, 10 ed 11),
sia, infine ponendo in capo agli amministratori e dirigenti delle medesime
società la responsabilità contabile in
caso di violazione dei vincoli di spesa (comma 12).
Tale
essendo il contenuto delle norme in esame, emerge chiaramente che le stesse
dettano una disciplina puntuale delle società pubbliche strumentali, che si
aggiunge ai numerosi interventi del legislatore statale sulle medesime società,
i quali, negli anni più recenti, ne hanno accentuato i profili di specialità
rispetto al regime generale delle società di diritto comune.
Fra
tali interventi si colloca la disciplina restrittiva stabilita, dapprima, con
il decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio
economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa
pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione
fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248; e,
poi, con la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008). In
particolare, con l’art. 13 del d.l. n. 223 del 2006,
si è disposto che le società interamente pubbliche o miste, costituite o
partecipate da amministrazioni pubbliche regionali e locali per lo svolgimento
di attività strumentali ovvero per lo svolgimento esternalizzato delle funzioni
amministrative dell’ente (fatta eccezione per i servizi pubblici locali e i
servizi e centrali di committenza), a decorrere dal 4 gennaio 2010, devono
operare esclusivamente a favore degli enti costituenti o partecipanti o
affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici
o privati e non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel
territorio nazionale. Con l’art. 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007, si
è, inoltre, stabilito il divieto per le amministrazioni pubbliche di cui al
citato articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 165 del 2001 di costituire società
aventi ad oggetto la produzione di beni e servizi non strettamente necessari al
perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero il divieto di
assumere o mantenere – direttamente – partecipazioni, anche di minoranza, in
tali società.
Sulla richiamata disciplina restrittiva
delle società pubbliche strumentali questa Corte ha già avuto occasione di
pronunciarsi, rilevando come sia il divieto per le predette società strumentali
di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, in
affidamento diretto o con gara, e di partecipare ad altre società o enti (art.
13 del d.l. n. 223 del 2006), sia il divieto per le
pubbliche amministrazioni di costituire società aventi per oggetto la
produzione di beni e servizi, non strettamente necessari al perseguimento delle
proprie finalità istituzionali, e di assumere e mantenere le partecipazioni in
tali società (art. 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007), «mirano, da un
canto, a rafforzare la distinzione tra attività amministrativa in forma
privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione)
ed attività di impresa di enti pubblici, dall’altro, ad evitare che
quest’ultima possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei quali un
soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione» (sentenza n. 148 del
2009).
Esse sono, quindi, dirette ad evitare
che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei
casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie
finalità istituzionali, anche al fine di eliminare eventuali distorsioni della
concorrenza (sentenza
n. 326 del 2008).
In altri termini, in tali previsioni
restrittive si è ravvisata la finalità di assicurare che le società pubbliche
che svolgono servizi strumentali per le pubbliche amministrazioni non
approfittino del vantaggio che ad esse deriva dal particolare rapporto con le
predette pubbliche amministrazioni operando sul mercato, al fine di evitare distorsioni
della concorrenza, ma concentrino il proprio operato esclusivamente
nell’"attività amministrativa svolta in forma privatistica” per le medesime
amministrazioni pubbliche. E ciò in linea con la normativa dell’Unione europea,
il cui primario obiettivo è quello di evitare che l’impresa pubblica goda di
regimi privilegiati e di assicurare – ai fini dell’ammissibilità degli
affidamenti diretti di servizi a società pubbliche – che l’ente affidante
eserciti sull’affidatario un controllo analogo a quello che esso esercita sui
propri servizi e che l’affidatario realizzi la parte più importante della
propria attività con l’ente controllante (per tutte, sentenza
Corte di giustizia, sez. V, 18 novembre 1999, n. C-107/98, Teckal
c. Comune di Viano).
La disciplina dettata dai commi 1 e 2
dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012, tuttavia, lungi
dal perseguire l’obiettivo di garantire che le società pubbliche che svolgono servizi
strumentali per le pubbliche amministrazioni concentrino il proprio operato
esclusivamente nell’"attività amministrativa svolta in forma privatistica” per
le predette amministrazioni pubbliche e non operino sul mercato «beneficiando
dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica
amministrazione» (sentenza
n. 326 del 2008), colpisce proprio le società pubbliche che hanno
realizzato tale obiettivo. Essa, infatti, impone a tutte le amministrazioni,
quindi anche a quelle regionali, di sciogliere o privatizzare proprio le
società pubbliche strumentali che, nell’anno 2011, abbiano conseguito più del
90 per cento del proprio fatturato da prestazioni di servizi alla pubblica
amministrazione controllante (comma 1), sanzionandole, in caso di mancato
adeguamento agli obblighi di scioglimento o privatizzazione, con il divieto del
rinnovo di affidamenti in essere e di nuovi affidamenti diretti in favore delle
predette società (comma 2, cui si congiunge il comma 8).
In tal modo, è sottratta alle medesime
amministrazioni, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, la
scelta in ordine alle modalità organizzative di svolgimento delle attività di
produzione di beni o servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali,
in quanto si esclude la possibilità che, pur ricorrendo le condizioni
prescritte dall’ordinamento dell’Unione europea, le medesime amministrazioni
continuino ad avvalersi di società in house. Di queste ultime, infatti, si
impone lo scioglimento o la privatizzazione, consentendosi che le stesse
sopravvivano e continuino ad essere titolari di affidamenti diretti (comma 8)
solo nelle rare ipotesi nelle quali «per le peculiari caratteristiche
economiche e sociali, ambientali e geo-morfologiche del contesto, anche
territoriale, di riferimento non è possibile un efficace ed utile ricorso al
mercato», soggette comunque alla valutazione dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato (comma 3, secondo periodo), o negli ancor più ridotti
casi nei quali siano stati predisposti dei piani di razionalizzazione e di
ristrutturazione delle medesime società, i quali devono peraltro aver avuto il
parere favorevole (vincolante) del Commissario straordinario per la razionalizzazione
della spesa per l’acquisto di beni e servizi di cui all’articolo 2 del d.l. n. 52 del 2012 (comma 3-sexies).
In
sostanza, le richiamate disposizioni (in specie i commi 1 e 2, ai quali sono
strettamente collegati il comma 3, secondo periodo, il comma 3-sexies, ed il comma 8) precludono anche
alle Regioni, titolari di competenza legislativa residuale e primaria in
materia di organizzazione, costituzionalmente e statutariamente riconosciuta e
garantita, la scelta di una delle possibili modalità di svolgimento dei servizi
strumentali alle proprie finalità istituzionali. Siffatta scelta costituisce un
modo di esercizio dell’autonomia organizzativa delle Regioni, e cioè quello di
continuare ad avvalersi di quelle società che, svolgendo esclusivamente
"attività amministrativa in forma privatistica” nei confronti delle pubbliche
amministrazioni, sono in armonia sia con i vincoli "costitutivi” imposti
dall’art. 3, comma 27, della legge n. 244 del 2007, sia con i limiti di
attività delineati dall’art. 13 del d.l. n. 223 del
2006 e sono, peraltro, contraddistinte da un legame con le medesime, basato
sulla sussistenza delle condizioni prescritte dalla giurisprudenza comunitaria
del "controllo analogo” e dell’"attività prevalente”, tale da configurarle quali
«longa manus
delle amministrazioni pubbliche, operanti per queste ultime e non per il
pubblico», come da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa (per
tutte, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 4 agosto 2011, n. 17).
Le
predette norme (commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies, 8) incidono, pertanto, sulla materia dell’organizzazione e
funzionamento della Regione, affidata dall’art. 117, quarto comma, Cost., alla competenza legislativa regionale residuale
delle Regioni ad autonomia ordinaria ed alla competenza legislativa regionale
primaria delle Regioni ad autonomia speciale dai rispettivi statuti, tenuto
conto che esse inibiscono in radice una delle possibili declinazioni
dell’autonomia organizzativa regionale.
Tale
collocazione per materia delle norme impugnate qui in esame non risulta,
tuttavia, totalmente assorbente.
Occorre,
infatti, tener conto del fatto che l’impugnato art. 4 si inserisce fra le
disposizioni recate dal d.l. n. 95 del 2012,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, con le quali il
legislatore statale ha inteso «razionalizzare la spesa pubblica attraverso la
riduzione delle spese per beni e servizi, garantendo al contempo l’invarianza
dei servizi ai cittadini». È, quindi, indiscutibile che la disciplina impugnata
obbedisce anche alla finalità del contenimento della spesa pubblica. Poiché la
giurisprudenza costituzionale ha espressamente riconosciuto che disposizioni
statali di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica, ove
costituzionalmente legittime, possono «incidere su una materia di competenza
della Regione e delle Province autonome (sentenze n. 188 del 2007,
n. 2 del 2004
e n. 274 del
2003), come l’organizzazione ed il funzionamento dell’amministrazione
regionale e provinciale» (sentenza n. 159 del
2008), si tratta di verificare se le singole disposizioni impugnate dalle
Regioni siano riconducibili a principi di coordinamento della finanza pubblica.
Questa
Corte ha ripetutamente ribadito al riguardo che è consentito imporre limiti
alla spesa di enti pubblici regionali alla duplice condizione: a) di porre
obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio
contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; b) di
non prevedere in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei
suddetti obiettivi (sentenza n. 289 del
2008). Può essere, in altri termini, imposto alle Regioni un «limite
globale, complessivo, al punto che ciascuna Regione deve ritenersi libera di
darvi attuazione, nelle varie leggi di spesa, relativamente ai diversi
comparti, in modo graduato e differenziato, purché il risultato complessivo sia
pari a quello indicato nella legge statale» (sentenza n. 36 del
2013; sentenza
n. 211 del 2012).
Nella specie, le disposizioni di cui ai
commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies
ed 8, delineano, invece, una disciplina puntuale e dettagliata che vincola
totalmente anche le amministrazioni regionali, senza lasciare alcun margine di
adeguamento, anche a Regioni e Province autonome, con conseguente lesione
dell’autonomia organizzativa della Regione, nonché della competenza regionale
concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica.
10.1.1.–
Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2, 3,
secondo periodo, 3-sexies, ed 8
dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 nella parte in
cui si riferiscono anche alle Regioni ad autonomia ordinaria.
Restano
assorbite le censure riferite all’art. 123 Cost. ed
agli artt. 118 e 119 Cost. (per violazione
dell’autonomia amministrativa e finanziaria regionale).
10.1.2.– Quanto
alle Regioni ad autonomia speciale deve, invece, dichiararsi la non fondatezza
delle questioni proposte, posto che le disposizioni censurate, come si è già
detto, non si applicano alle medesime, in virtù dell’operatività della clausola
di salvaguardia di cui all’art. 24-bis (punto
8.1).
10.2.–
Non fondate devono dichiararsi le censure di violazione delle attribuzioni
costituzionali e statutarie degli enti locali prospettate (in particolare nei
ricorsi n. 145, n. 151, n. 160, n. 170 e n. 171 del 2012) nei confronti dei
suddetti commi dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012
dalle Regioni ricorrenti, in quanto ritenute strettamente connesse alle proprie
competenze regionali (per tutte, sentenza n. 311 del
2012).
Le
norme impugnate hanno, infatti, evidente attinenza con i profili organizzativi
degli enti locali, posto che esse coinvolgono le modalità con cui tali enti
perseguono, quand’anche nelle forme del diritto privato, le proprie finalità
istituzionali.
Con
riferimento alle Regioni a statuto ordinario, tuttavia, questa Corte ha già
affermato che «spetta al legislatore statale […] disciplinare i profili organizzativi
concernenti l’ordinamento degli enti locali (art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.)»:
pertanto, posto che le società controllate sulle quali incide la normativa
impugnata svolgono attività strumentali alle finalità istituzionali delle amministrazioni
degli enti locali, strettamente connesse con le previsioni contenute nel testo
unico degli enti locali, legittimamente su di esse è intervenuto il legislatore
statale (sentenza
n. 159 del 2008).
Diverso
ragionamento deve farsi con riguardo alle Regioni ad autonomia speciale,
titolari di competenza legislativa primaria in materia di "ordinamento degli
enti locali”. Tenuto conto dell’inerenza della disciplina censurata alla materia
dell’organizzazione delle amministrazioni controllanti le società pubbliche
oggetto dell’impugnato art. 4, e del rilievo che i vincoli da essa imposti a
fini di contenimento della spesa pubblica sono legittimi solo ove corrispondano
a principi di coordinamento della finanza pubblica, deve ravvisarsi, nella
specie, un contrasto con la normativa statutaria e di attuazione statutaria.
Tuttavia, stante la clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis, deve ritenersi che le disposizioni
censurate siano inoperanti nell’ambito delle predette Regioni.
Devono,
pertanto, dichiararsi non fondate le censure proposte dalle Regioni ad
autonomia speciale (Regione Sardegna con il ricorso n. 160 e Regione siciliana,
con il ricorso n. 170) in relazione alla pretesa violazione della competenza
regionale in tema di ordinamento degli enti locali in riferimento ai commi 1,
2, 3, secondo periodo, 3–sexies
ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012.
10.3.–
Le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto i commi 4 e 5
dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 non sono fondate.
Tali
commi sono impugnati nella parte in cui determinano il numero massimo dei
componenti dei consigli di amministrazione delle società pubbliche di cui al
comma 1 (comma 4) e delle società a totale partecipazione pubblica (comma 5),
individuando anche le modalità di composizione dei predetti consigli e le
funzioni dei componenti. Essi vanno ricondotti ad una materia diversa da quelle
sopra individuate in relazione agli altri commi.
Una volta, infatti, che la Regione abbia
esercitato la sua autonomia organizzativa, operando la scelta fra i vari moduli
organizzativi possibili per lo svolgimento dei servizi strumentali alle proprie
finalità istituzionali in favore dell’affidamento diretto a società pubbliche,
essa ha anche accettato di rispettare lo speciale statuto che contraddistingue
tali società, il quale, pur connotato da rilevanti profili di matrice
pubblicistica, è comunque riconducibile, in termini generali, al modello
societario privatistico che ha radice nel codice civile. La disciplina puntuale
delle modalità di composizione dei consigli di amministrazione di tali società,
nonché l’individuazione del numero e delle funzioni dei componenti deve,
pertanto, essere ricondotta alla materia dell’ "ordinamento civile”, di
competenza esclusiva del legislatore statale. Quest’ultima «comprende gli
aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista
un’esigenza di uniformità a livello nazionale; […] non è esclusa dalla presenza
di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche;
[…] comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato»,
nonché «istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che
conservano natura privatistica (sentenze n. 159 e n. 51 del 2008,
n. 438 e n. 401 del 2007
e n. 29 del 2006)»
(sentenza n. 326
del 2008). Di qui la non fondatezza delle censure.
10.4.–
Le questioni promosse nei confronti dei commi 9, 10, 11 e 12 dell’art. 4 non
sono fondate.
Considerazioni
analoghe a quelle sopra svolte, vanno effettuate, infatti, con riguardo a tali
commi, i quali stabiliscono, rispettivamente, che: alle società di cui al comma
1 si applicano le disposizioni limitative delle assunzioni previste per
l’amministrazione controllante fino al 31 dicembre 2015 (comma 9); a decorrere
dall’anno 2013, le società di cui al comma 1 possono avvalersi di personale a
tempo determinato ovvero con contratti di collaborazione coordinata e
continuativa nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le
rispettive finalità nell’anno 2009 (comma 10); a decorrere dal 1° gennaio 2013
e fino al 31 dicembre 2014, il trattamento economico complessivo dei singoli
dipendenti delle società di cui al comma 1, ivi compreso quello accessorio, non
può superare quello ordinariamente spettante per l’anno 2011 (comma 11); in
caso di violazione dei vincoli di spesa, gli amministratori esecutivi ed i
dirigenti responsabili della società rispondono a titolo di danno erariale per
le retribuzioni ed i compensi erogati in virtù dei contratti stipulati (comma
12).
Tali norme disciplinano aspetti
rilevanti del regime speciale che contraddistingue le predette società
pubbliche, inerenti al rapporto di lavoro dei dipendenti ed al loro trattamento
economico, nonché alle forme di responsabilità degli amministratori e
dirigenti. Esse – che peraltro perseguono evidentemente l’obiettivo del
contenimento della spesa in ordine ad un rilevante aggregato della stessa, qual
è quello relativo al comparto del personale, recando, pertanto, principi di
coordinamento della finanza pubblica (sentenza n. 130 del
2012; sentenza
n. 169 del 2007) – devono, dal punto di vista dell’oggetto, ricondursi, sulla
base degli argomenti svolti con riferimento ai commi 4 e 5, alla materia dell’
"ordinamento civile”, di competenza esclusiva del legislatore statale. Da ciò
consegue la non fondatezza delle censure.
10.5.–
Le censure di violazione dell’autonomia organizzativa regionale proposte nei
confronti del comma 7 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del
2012 non sono fondate.
Tale
norma, disponendo che, dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni di cui
all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, nel rispetto dell’art. 2,
comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici)
«acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività
mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo»,
obbedisce alla finalità, dichiarata dallo stesso legislatore, «di evitare
distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli
operatori sul territorio nazionale» e va quindi ricondotta alla materia della
"tutela della concorrenza” di competenza esclusiva del legislatore statale.
Essa infatti, in primo luogo, stabilisce
che le amministrazioni, anche regionali, decidono l’affidamento di servizi
strumentali alla propria attività in modo che esso garantisca la qualità delle
prestazioni e si svolga «nel rispetto dei principi di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza», nonché dei «principi di libera concorrenza, parità
di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità», e di
pubblicità con le modalità indicate nel presente codice (art. 2, comma 1, del
d.lgs. n. 163 del 2006). Una volta che, nel rispetto dei predetti principi,
l’amministrazione decida di acquisire detti servizi strumentali da soggetti
operanti sul mercato, ivi comprese società pubbliche che svolgono attività
d’impresa, la norma in esame impone loro di seguire le regole concorrenziali
dell’affidamento mediante gara, secondo quanto stabilito dal predetto Codice
dei contratti pubblici ed in armonia con la normativa dell’Unione europea.
Pertanto,
anche le altre censure promosse nei confronti del comma
11.–
Non sono fondate, infine, le censure promosse, in riferimento all’art. 117,
terzo comma, Cost. ed al principio di leale
collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., nei
confronti dei commi 3 e 13 dell’art.
Ed,
infatti, da un lato, il parametro di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. si rivela inconferente in relazione alle censure
proposte, dall’altro, riguardo alla pretesa lesione del principio di leale
collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost., più
volte questa Corte ha affermato che tale principio non può essere invocato con
riguardo alla funzione legislativa, non essendo l’esercizio della predetta
funzione soggetto alle procedure di leale collaborazione (sentenze n. 63 del 2013,
n. 100 del 2010,
n. 225 del 2009).
Per questi
motivi
riuniti i giudizi,
riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi indicati in epigrafe:
1)
dichiara l’illegittimità
costituzionale dei commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies ed 8 dell’art. 4 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95
(Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012,
n. 135, nella parte in cui si applicano alle Regioni ad autonomia ordinaria;
2)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale promosse dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, con il
ricorso n. 159 del 2012, dalla Regione Sardegna, con il ricorso n. 160 del
2012, e dalla Regione siciliana, con il ricorso n. 171 del 2012, nei confronti
dei commi 1, 2, 3, 3-sexies, 8
dell’art. 4 del d.l. n. 95 del
3)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale, promosse dalle Regioni Campania, Sardegna e Puglia,
con i ricorsi n. 153, n. 160 e n. 171 del
4)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale del comma 7 dell’art. 4 del d.l.
n. 95 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, con ricorso n. 151 del
5)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale, promosse dalle Regioni Lazio, Veneto e Puglia, con
i ricorsi n. 145, n.151 e n. 171 del
6)
dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dei commi 4, 5, 7, 9, 10, 11, 12 e 14 dell’art. 4
del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalla Regione
Veneto, con ricorso n. 151 del
7)
dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale promossa dalla Regione Veneto, con il ricorso n. 151
del 2012, dei commi 3 e 13 dell’art. 4 del d.l. n. 95
del
8)
dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Veneto, con il ricorso n.
151 del 2012, nei confronti del comma 8-bis
dell’art. 4 del d.l. n. 95 del
9)
dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Puglia, con il ricorso n.
171 del 2012, nei confronti dei commi 1 ed 8 dell’art. 4 del d.l. n. 95 del
10)
dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Veneto, con il ricorso n.
151 del 2012, nei confronti del comma 14 dell’art. 4 del d.l.
n. 95 del
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2013.
F.to:
Depositata in