SENTENZA N. 233
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 25, 26, 27, 207 e 208 della legge
della Regione Toscana 10 novembre 2014, n. 65 (Norme per il governo del
territorio), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 9-15 gennaio 2015, depositato in cancelleria il 13 gennaio 2015
ed iscritto
al n. 3 del registro ricorsi 2015.
Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;
udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2015 il
Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il
Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Silvia Fantappiè
per la Regione Toscana.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso spedito per la notifica
il 9 gennaio 2015 e depositato nella cancelleria di questa Corte il successivo
13 gennaio 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento
all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26 e 27 della legge
della Regione Toscana 10 novembre 2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio),
e, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma,
Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 207 e 208 della
medesima legge.
1.1.– Con il primo motivo di ricorso,
l’Avvocatura generale dello Stato osserva che gli artt. 25, 26 e 27 della legge
della Regione Toscana n. 65 del 2014, ponendosi in contrasto con le norme di
liberalizzazione contenute nell’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, e nell’art. 1, comma 1, del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza,
lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27,
violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che assegna allo
Stato «la tutela della concorrenza».
Il ricorrente lamenta che, in base alle
disposizioni impugnate, siano subordinate al parere favorevole della cosiddetta
conferenza di copianificazione le previsioni di
trasformazione che comportano impegno di suolo non edificato all’esterno del
perimetro del territorio urbanizzato (art. 25), e quelle relative alle
aggregazioni di medie strutture di vendita aventi effetti assimilabili a quelli
delle grandi strutture (art. 26, comma 1). Inoltre, ricorda che, secondo quanto
disposto dall’art. 27 della medesima legge, sono subordinate al parere della
predetta conferenza le previsioni di medie strutture di vendita che comportano
impegno di suolo non edificato al di fuori del perimetro del territorio
urbanizzato, sempre che «risultino: a) non inferiori a 2.000 metri quadrati di
superficie di vendita per i comuni di cui all’articolo 15, comma 1, lettera e),
numero 2), della legge regionale 7 febbraio 2005, n. 28 (Codice del Commercio.
Testo unico in materia di commercio in sede fissa, su aree pubbliche,
somministrazione di alimenti e bevande, vendita di stampa quotidiana e
periodica e distribuzione di carburanti); b) non inferiori a 1.000 metri
quadrati di superficie di vendita per i comuni diversi da quelli di cui
all’articolo 15, comma 1, lettera e), numero 2), della l.r. 28/2005» (art. 27).
Nell’esprimere il proprio parere –
sottolinea ancora l’Avvocatura generale dello Stato – la conferenza di copianificazione deve verificare dette previsioni, tenendo
conto dei seguenti criteri: «a) la capacità di assorbimento, da parte
dell’infrastrutturazione stradale e ferroviaria presente nel territorio del
comune e in quello dell’ambito di interesse sovracomunale, del carico di utenze
potenziali connesso al nuovo esercizio; b) il livello di emissioni inquinanti,
comprensivo dell’incremento dovuto alla movimentazione veicolare attesa dalla
nuova struttura di vendita; c) la sostenibilità rispetto alla tutela del valore
paesaggistico dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale
dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza e la
cultura (UNESCO) […]; d) le conseguenze attese sulla permanenza degli esercizi
commerciali di prossimità, al fine di garantire i servizi essenziali nelle aree
più scarsamente popolate; e) le conseguenze attese sui caratteri specifici e
sulle attività presenti nei centri storici compresi nell’ambito sovracomunale,
e le necessarie garanzie di permanenza delle attività commerciali d’interesse
storico, di tradizione e di tipicità» (art. 26, comma 2). All’esito della
propria verifica, la conferenza di copianificazione
«indica gli eventuali interventi compensativi degli effetti indotti sul
territorio» (art. 25, comma 5).
Così ricostruito il quadro normativo,
l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le disposizioni impugnate, pur se
relative a motivazioni di tipo urbanistico, aggraverebbero il procedimento autorizzatorio per le medie strutture di vendita in forma
aggregata, anche attraverso la previsione di interventi compensativi, «creando,
di fatto, ulteriori tipologie di strutture commerciali».
Osserva, inoltre, che, con tali
disposizioni, la Regione Toscana si proporrebbe di tutelare gli esercizi di
vicinato con strumenti non conformi al diritto dell’Unione europea. A tal fine,
richiama la sentenza
n. 165 del 2014 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 20 della legge della Regione Toscana 28 settembre
2012, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di commercio per l’attuazione del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 e del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.
1. Modifiche alla legge regionale n. 28 del 2005 e alla legge regionale n. 1
del 2005), per contrasto con le norme di liberalizzazione contenute nel già
citato d.l. n. 201 del 2011. Allega, in particolare, che le disposizioni
oggetto del presente giudizio non siano in linea con quanto affermato nella
pronuncia richiamata, poiché l’introduzione di requisiti ulteriori rispetto a
quelli previsti dalla legislazione vigente, in considerazione delle dimensioni
e della tipologia di esercizio commerciale, rappresenterebbero un ostacolo
effettivo alla libera concorrenza. Nel caso di specie, dette restrizioni
deriverebbero anche dalla distanza tra le varie strutture di vendita, ciò che
sarebbe insito nel richiamo al concetto di «aggregazione».
In conclusione, l’Avvocatura generale
dello Stato assume che le restrizioni contenute nella disciplina impugnata non
siano adeguate né proporzionate alle finalità perseguite, ponendosi in
contrasto con la direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno), e
con l’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, e violando, per queste
ragioni, l’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), Cost.
1.2.– Con un secondo motivo di ricorso,
l’Avvocatura generale dello Stato lamenta che gli artt. 207 e 208 della legge
della Regione Toscana n. 65 del 2014, non risultando conformi alla normativa
statale di principio contenuta nella Parte I, Titolo IV, del decreto del
Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A),
violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento alla materia
«governo del territorio». Sarebbe inoltre violato l’art. 117, secondo comma,
lettera s) (rectius: lettera l), Cost.,
in quanto, incidendo sul sistema di sanzioni civili e penali previste dal testo
unico sull’edilizia, le disposizioni impugnate invaderebbero la potestà
legislativa esclusiva statale nella materia «ordinamento civile e penale».
In particolare, il ricorrente censura
l’art. 207, rubricato «Sanzioni per opere ed interventi edilizi abusivi
anteriori al 1° settembre 1967».
Il comma 1 di tale articolo – con riferimento
ad opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati in data anteriore al 1°
settembre 1967, in assenza di titolo abilitativo o in difformità dal medesimo,
e ricadenti, all’epoca, all’interno della perimetrazione dei centri abitati –
prevede che il Comune possa valutare la persistenza dell’interesse pubblico al
ripristino della legalità urbanistica mediante rimessione in pristino,
applicando, se tale scrutinio ha esito positivo, e a seconda dei casi, le
sanzioni ripristinatorie e pecuniarie previste dagli artt. 196, 199, 200 e 206
della stessa legge regionale.
Il successivo comma 2 disciplina,
invece, le ipotesi in cui il Comune ritenga insussistente l’interesse pubblico
alla rimessione in pristino, prevedendo che, oltre al versamento dei contributi
ordinariamente previsti per gli interventi edilizi, sia irrogata una sanzione
pecuniaria, la cui entità varia a seconda che le opere e gli interventi siano o
non in contrasto con i vigenti strumenti urbanistici comunali.
Il comma 3 specifica che la corresponsione
delle indicate somme non determina «la legittimazione dell’abuso».
Le opere e gli interventi, sempre
eseguiti ed ultimati in data anteriore al 1° settembre 1967 e in assenza di
titolo abilitativo o in difformità dal medesimo, ma ricadenti all’esterno della
perimetrazione dei centri abitati, sono poi considerati, dal comma 4,
«consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
Infine, il comma 7 prevede che, a mezzo
di apposito piano operativo, si possano assoggettare a specifica disciplina le
consistenze edilizie oggetto delle descritte sanzioni, onde consentire
interventi comportanti demolizione e ricostruzione, mutamento della
destinazione d’uso, aumento del numero delle unità immobiliari, incremento di
superficie o di volume.
Viene impugnato anche il successivo art.
208 della legge regionale n. 65 del 2014, rubricato «Sanzioni per opere ed
interventi edilizi abusivi anteriori al 17 marzo 1985». Esso prevede
disposizioni del tutto analoghe a quelle contenute nel precedente art. 207, ma
con riferimento alle opere ed agli interventi edilizi eseguiti ed ultimati in
data anteriore al 17 marzo 1985.
La norma, in questo caso, si limita a
differenziare le sanzioni pecuniarie a seconda che le opere o gli interventi
siano stati realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo,
escludendo distinzioni tra manufatti ricadenti o non all’interno della
perimetrazione dei centri abitati.
Così ricostruito il quadro normativo, l’Avvocatura
generale dello Stato ritiene che le disposizioni censurate – limitando
l’applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 196, 199, 200 e 206 della
medesima legge regionale alle sole opere per le quali sia ritenuto persistente
l’interesse pubblico alla rimessione in pristino e, se anteriori al 1°
settembre 1967, solo se ricadenti all’interno del perimetro del centro abitato
– si porrebbero in palese contrasto con gli artt. 27, 31, 33, 34 e 37 del testo
unico sull’edilizia, che configurano l’esercizio del potere comunale di
vigilanza e repressione degli abusi edilizi come un obbligo e non come una
facoltà, indipendentemente da ogni accertamento della ricorrenza attuale di
ragioni di pubblico interesse.
Evidenzia la difesa erariale che il
legislatore statale, con le indicate norme di principio, non ha previsto alcun
termine di decadenza o di prescrizione per l’esercizio dei poteri repressivi
comunali, poiché il sistema sanzionatorio descritto nel testo unico
sull’edilizia è volto a garantire il primario interesse di tutela del
territorio: per questo, eccederebbe dalla competenza legislativa concorrente
della Regione, nella materia «governo del territorio», la possibilità di porre
un limite all’esercizio di tale potere, tanto più che l’art. 31 del citato
testo unico prevede l’acquisizione gratuita, al patrimonio comunale, del bene e
dell’area di sedime su cui insiste l’opera non demolita, a prescindere da ogni
accertamento coinvolgente interessi pubblici.
Le norme regionali impugnate, invece,
attribuirebbero all’autorità amministrativa, sulla base di un accertamento del
tutto discrezionale sulla persistenza dell’interesse pubblico al ripristino
della legalità urbanistica violata, il potere di non disporre la demolizione né
l’acquisizione gratuita delle opere abusive al patrimonio comunale, addirittura
prevedendo la possibilità di introdurre (tramite «piani operativi») specifiche
discipline atte a consentire, sulle consistenze edilizie oggetto di mere
sanzioni pecuniarie, interventi comportanti demolizione e ricostruzione,
mutamento della destinazione d’uso, aumento del numero delle unità immobiliari
ed incrementi di superficie o di volume.
Per gli interventi operati fuori dai
centri abitati, anteriormente al 1° settembre 1967, considerati «consistenze
legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio», sembrerebbe doversi
escludere, ad opinione dell’Avvocatura generale dello Stato, anche
l’applicazione delle sanzioni penali e civili previste dal testo unico
sull’edilizia, in palese invasione della competenza legislativa esclusiva
statale nella materia «ordinamento civile e penale» di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost.
La previsione dell’ultimo comma di
entrambi gli articoli impugnati, inoltre, si porrebbe in contrasto con le norme
di principio di cui all’art. 5, commi 9 e 10, del decreto-legge 13 maggio 2011,
n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 12 luglio 2011,
n. 106, che non consente interventi di demolizione, ricostruzione ed
ampliamento di edifici abusivi, ad esclusione di quelli per i quali sia stato
rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
In definitiva, nonostante la previsione
del comma 3 degli impugnati artt. 207 e 208, secondo cui la corresponsione
delle somme indicate nei commi precedenti delle medesime disposizioni non
determina «la legittimazione dell’abuso», sarebbe stata introdotta, a giudizio
della difesa statale, una «surrettizia forma di condono», con conseguente
invasione della competenza legislativa statale, essendo sottratta alla potestà
legislativa regionale, secondo la giurisprudenza costituzionale, qualsiasi
forma di sanatoria straordinaria delle opere abusive.
In tal modo, le norme censurate si
porrebbero in contrasto con i principi fondamentali dello Stato in materia di
governo del territorio (contenuti nel testo unico sull’edilizia e nel d.l. n.
70 del 2011, quest’ultimo in tema di interventi in deroga) e con le
disposizioni in materia di sanzioni civili e penali previste dal citato testo
unico in tema di reati edilizi, violando l’art. 117, secondo comma, lettera s)
(rectius: lettera l), e terzo comma, Cost.
2.– Con atto depositato nella
cancelleria di questa Corte il 18 febbraio 2015, si è costituita in giudizio la
Regione Toscana, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e,
comunque, infondato.
2.1.– In relazione al primo motivo di
ricorso, la difesa regionale premette che la legge della Regione Toscana n. 65
del 2014 si pone, tra gli altri, l’obiettivo di valorizzare il patrimonio
territoriale e paesaggistico, storico e culturale, evitando nuovo consumo di
territorio, promuovendo il riuso e la riqualificazione di aree degradate o
dismesse. Proprio al fine di rendere effettivo il principio per cui i nuovi
impegni di suolo sono ammessi soltanto se non sussistano possibilità di riuso
degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti, il legislatore regionale,
nell’ambito della propria potestà legislativa in materia di governo del
territorio, ha ritenuto necessaria una valutazione preventiva, da parte delle
amministrazioni competenti alla pianificazione (Comune, Provincia o Città
metropolitana, Regione), dell’impatto sul territorio derivante dalla previsione
di medie e grandi strutture di vendita, al fine di garantire, oltre la libertà
economica, anche altri interessi rilevanti, come la tutela del territorio,
dell’ambiente, della salute, dei beni culturali e storici, individuati anche
nell’identità dei centri storici, e dei lavoratori.
Ricorda, in proposito, la difesa
regionale che lo stesso art. 31 del citato d.l. n. 201 del 2011, come
convertito, stabilisce che costituisce principio generale dell’ordinamento
statale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio
senza contingenti, limiti territoriali o vincoli di qualsiasi altra natura,
«esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali». Proprio a
tali finalità risponderebbero gli impugnati artt. 25, 26 e 27 della legge della
Regione Toscana n. 65 del 2014.
Osserva, in secondo luogo, che non vi
sarebbe alcun aggravio del procedimento autorizzatorio,
poiché la valutazione preventiva, prevista dalle disposizioni censurate,
interviene in fase di pianificazione urbanistica.
Con particolare riferimento alla
previsione di aggregazioni di medie strutture di vendita, sottolinea che gli
artt. 25 e 26, comma 1, della legge della Regione Toscana n. 65 del 2014 non
introdurrebbero nuove tipologie di strutture commerciali, ma risponderebbero,
piuttosto, all’esigenza di equiparare le aggregazioni di medie strutture di
vendita alle grandi strutture a livello di pianificazione urbanistica, al fine
di valutare l’impatto che complessivamente esse determinano sulla viabilità,
sul consumo di territorio e sull’ambiente.
Non vi sarebbe, infine, alcun contrasto
con le disposizioni statali poste a tutela della concorrenza e della libertà di
accesso al mercato, in quanto le disposizioni censurate non porrebbero limiti
numerici (di cui all’art. 1, comma 1, lettera a, del citato d.l. n. 1 del 2012,
come convertito); né un contingente o un limite territoriale (di cui al citato
art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito); né l’imposizione
di una distanza minima tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio
di un’attività economica (di cui all’art. 34, comma 3, lettera b, del citato
d.l. n. 201 del 2011, come convertito); né, infine, un obbligo di rispetto di
distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla
medesima tipologia (di cui all’art. 3, comma 1, lettera b, del decreto-legge 4
luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica,
nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale»,
come convertito dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248).
2.2.– In relazione al secondo motivo di
ricorso, la difesa regionale sostiene che, nel corso degli ultimi anni, «la
rigidità della norma statale concernente la repressione edilizia è stata
attenuata dalle previsioni interpretative giurisprudenziali dei giudici
amministrativi».
Rileva, in tal senso, che
nell’ordinamento esisterebbe un principio generale secondo cui anche le
sanzioni edilizie devono essere applicate «previa comparazione e valutazione di
prevalenza fra l’interesse pubblico al ripristino della legittimità violata e
il principio dell’affidamento», sicché, qualora sia trascorso un lungo lasso di
tempo tra la realizzazione e l’accertamento dell’abuso, l’irrogazione delle
sanzioni sarebbe subordinata ad una motivazione specifica sulla sussistenza di
un pubblico interesse attuale alla eliminazione dell’opera.
Il legislatore regionale avrebbe,
appunto, dettato norme conformi a tale principio, discendente
dall’interpretazione giurisprudenziale della legge nazionale, ritenuta «ormai
pacifica».
La legge regionale impugnata, inoltre,
non produrrebbe effetti sostanzialmente analoghi a quelli di un condono, avendo
previsto espressamente che il pagamento della sanzione pecuniaria «non
determina la legittimazione dell’abuso» e, dunque, non ne rimuove, a differenza
di quanto accade con un condono, il carattere antigiuridico.
Infine, sarebbe da escludere che l’art.
5 del d.l. n. 70 del 2011, invocato come norma interposta, possa essere
considerata disposizione di principio, come tale idonea a limitare le scelte
compiute in sede di pianificazione urbanistica.
3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica
del 20 ottobre 2015 la difesa della Regione Toscana ha depositato una memoria
nella quale si insiste per il rigetto del ricorso, ribadendo in larga parte
quanto osservato nell’atto di costituzione.
In relazione al primo motivo di ricorso,
la difesa regionale rileva, anzitutto, che gli artt. 25, 26 e 27 della legge
della Regione Toscana n. 65 del 2014 intervengono nella fase di pianificazione
urbanistica e non in sede autorizzatoria: non
sarebbe, dunque, pertinente il richiamo operato dall’Avvocatura generale dello
Stato alla giurisprudenza costituzionale, e in particolare alla sentenza n. 165 del
2014, in quanto le disposizioni censurate nel presente giudizio non
determinerebbero alcun appesantimento delle procedure autorizzatorie.
Evidenzia, inoltre, come le disposizioni
in parola, approvate dal legislatore regionale in materia di governo del
territorio, presentino un’incidenza notevole sul territorio, l’ambiente e il
patrimonio storico-culturale. La tutela di tali beni, ai sensi del diritto
nazionale e dell’Unione europea, costituirebbe motivo imperativo di interesse
generale, suscettibile di integrare limiti alla concorrenza sia nel
procedimento autorizzatorio, sia in quello di
pianificazione territoriale. Le disposizioni regionali sarebbero dunque del
tutto coerenti con la normativa nazionale ed europea, in quanto la presenza di
medie e grandi strutture di vendita produce rilevanti conseguenze di carattere
urbanistico e sociale. Rileva, ancora, che il coinvolgimento, attraverso la
conferenza, di tutti gli enti della Regione nel procedimento di pianificazione
ha proprio l’obiettivo di trovare il giusto contemperamento tra l’iniziativa
economica e la tutela degli interessi costituzionalmente rilevanti.
Quanto, infine, alle disposizioni che
sottopongono al parere della conferenza la previsione di aggregazioni di medie
strutture di vendita, la resistente osserva che tali norme non introdurrebbero
nuove tipologie di strutture commerciali, prevedendo requisiti di accesso al
mercato ulteriori rispetto a quelli ordinari, ma risponderebbero solo
all’esigenza di equiparare, a livello di pianificazione territoriale, le
aggregazioni di medie strutture di vendita alle grandi strutture di vendita per
l’impatto che, complessivamente, le prime possono determinare sulla viabilità,
sul consumo di territorio e sull’ambiente.
In relazione al secondo motivo di
ricorso, la difesa regionale esclude che possa ritenersi violata la competenza
esclusiva dello Stato in materia penale: infatti, le norme impugnate
riguarderebbero condotte che, qualora integranti ipotesi di reato, sarebbero
ormai presumibilmente prescritte o "amnistiate”. Inoltre, sempre secondo la
difesa regionale, le sanzioni amministrative si porrebbero su un piano diverso
da quello penale, in quanto i due meccanismi sanzionatori formerebbero oggetto
di autonoma considerazione e le relative sanzioni sarebbero irrogate sulla base
di un separato giudizio di responsabilità.
Con specifico riferimento alle opere ed
agli interventi edilizi realizzati anteriormente al 1° settembre 1967 fuori dai
centri abitati, considerati dalla legge regionale «consistenze legittime dal
punto di vista urbanistico-edilizio», la difesa regionale ricorda che, in base
alla legge urbanistica del 1942 e fino alla cosiddetta "legge ponte”, «la
licenza edilizia era necessaria solo per gli interventi da realizzare nei
centri abitati e nelle zone di espansione del piano regolatore», salvo che tale
titolo abilitativo non fosse imposto dai regolamenti comunali.
Di tali regolamenti comunali, tuttavia,
viene contestata la legittimità, accedendo la Regione alla tesi – sostenuta in
alcune pronunce del Tribunale amministrativo regionale della Toscana – secondo
la quale, ai fini dell’accertamento della regolarità edilizia di opere
realizzate al di fuori dei centri abitati in epoca anteriore alla entrata in
vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), assumerebbe rilevanza esclusiva la
previsione dell’art. 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge
urbanistica), da considerarsi prevalente rispetto alla disciplina regolamentare
preesistente e successiva. Secondo tale disposizione, l’obbligo preventivo di
titolo abilitativo riguardava solo gli immobili ricadenti nei centri abitati.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, dubita, in
riferimento all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), della
Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 25, 26 e 27 della
legge della Regione Toscana 10 novembre 2014, n. 65 (Norme per il governo del
territorio), e, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s) (rectius: lettera l), e terzo comma, Cost., anche degli
artt. 207 e 208 della medesima legge regionale.
1.1.– Con il primo motivo di ricorso,
l’Avvocatura generale dello Stato censura gli artt. 25, 26 e 27 della legge
della Regione Toscana n. 65 del 2014, i quali, rispettivamente: istituiscono la
conferenza di copianificazione, determinandone la
composizione e il funzionamento; stabiliscono quando tale conferenza deve
esprimere parere in merito alla previsione di grandi strutture di vendita e di
aggregazioni di medie strutture di vendita aventi effetti assimilabili alle
grandi strutture di vendita, nonché i criteri in base ai quali il parere deve
essere espresso; individuano le ipotesi in cui il parere debba essere reso
anche in relazione alla previsione di medie strutture di vendita.
L’Avvocatura statale osserva che tali
disposizioni, congiuntamente e indistintamente censurate, si porrebbero in
contrasto con le norme di liberalizzazione contenute nell’art. 31, comma 2, del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, e
nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni
urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 24 marzo 2012, n. 27, e, perciò, violerebbero l’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost., che assegna allo Stato la tutela della concorrenza. Inoltre,
ponendosi in contrasto con la direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi del
mercato interno), esse risulterebbero lesive anche dell’art. 117, primo comma,
Cost.
A sostegno di tali censure, l’Avvocatura
generale rileva che le citate disposizioni, «pur se relative a motivazioni di
tipo urbanistico», aggraverebbero il «procedimento autorizzatorio
per le medie strutture di vendita in forma aggregata, anche attraverso la
previsione di interventi compensativi, creando, di fatto, ulteriori tipologie
di strutture commerciali».
Osserva inoltre che, con tali
disposizioni, la Regione Toscana si proporrebbe di tutelare gli esercizi di
vicinato con strumenti non conformi al diritto dell’Unione europea. Richiamando
a tal fine la sentenza
di questa Corte n. 165 del 2014, la difesa statale assume che le
disposizioni oggetto del presente giudizio non sarebbero in linea con quanto
affermato in quella pronuncia, poiché l’introduzione di requisiti ulteriori
rispetto a quelli previsti dalla legislazione vigente, in considerazione delle
dimensioni e della tipologia di esercizio commerciale, rappresenterebbe un
ostacolo effettivo alla libera concorrenza. Nel caso di specie, dette
restrizioni deriverebbero «anche» dalla distanza tra le varie strutture di
vendita, come sarebbe insito nel richiamo al concetto di «aggregazione».
1.2.– Con il secondo motivo di ricorso,
il Presidente del Consiglio dei ministri censura gli artt. 207 e 208 della
legge della Regione Toscana n. 65 del 2014.
Le norme censurate disciplinano le
conseguenze di opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati, in assenza di
titolo abilitativo o in difformità dal medesimo, rispettivamente in data
anteriore al 1° settembre 1967, ossia al momento dell’entrata in vigore della
legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17 agosto 1942, n. 1150), o in data anteriore al 17 marzo 1985, corrispondente
all’entrata in vigore della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di
controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere edilizie), sul primo condono edilizio.
In particolare, il citato art. 207
differenzia la disciplina a seconda della collocazione degli immobili. Se essi
ricadono all’interno della perimetrazione dei centri abitati (come definita
all’epoca della realizzazione della condotta), si prevede che il Comune possa
valutare la persistenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità
urbanistica violata mediante rimessione in pristino: in caso di esito positivo
di tale scrutinio, è disposta l’applicazione delle sanzioni, ripristinatorie e
pecuniarie, di cui agli artt. 196, 199, 200 e 206 della medesima legge
regionale; in caso di valutazione negativa in ordine alla persistenza
dell’interesse pubblico, si prevede esclusivamente l’irrogazione di una sanzione
pecuniaria, in misura ridotta per le opere e gli interventi conformi agli
strumenti urbanistici comunali attualmente vigenti, e con la possibilità di
consentire, con apposito piano operativo, ulteriori interventi su tali
immobili.
Se, invece, gli immobili ricadono
all’esterno della perimetrazione dei centri abitati (sempre come definita
all’epoca della realizzazione dell’opera), si prevede che siano considerati
«consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
L’art. 208, per le opere e gli
interventi edilizi anteriori al 17 marzo 1985, detta una disciplina analoga a
quella innanzi descritta, ma differenziando le sanzioni pecuniarie a seconda
che le opere o gli interventi siano stati realizzati in assenza o in difformità
dal titolo abilitativo, ed escludendo, questa volta, distinzioni tra manufatti
ricadenti o non all’interno della perimetrazione dei centri abitati.
Il Presidente del Consiglio dei ministri
ritiene, in primo luogo, che tali disposizioni, in quanto limitanti l’applicazione
delle sanzioni previste dagli artt. 196, 199, 200 e 206 della legge regionale
impugnata alle sole opere per le quali sia ritenuto persistente l’interesse
pubblico alla rimessione in pristino e, se anteriori al 1° settembre 1967, solo
se ricadenti all’interno del perimetro del centro abitato, si porrebbero in
contrasto con gli artt. 27, 31, 33, 34 e 37 del decreto del Presidente della
Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di edilizia – Testo A), che configurano l’esercizio
del potere comunale di vigilanza e repressione degli abusi edilizi come un
obbligo e non come una facoltà, senza che sia necessario accertare la
ricorrenza attuale di ragioni di pubblico interesse e senza prevedere alcun termine
di decadenza o di prescrizione per l’esercizio dei poteri repressivi comunali.
Di qui la prospettata violazione
dell’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei
principi fondamentali nella materia del governo del territorio.
Considerati i descritti effetti
conservativi legati all’irrogazione di mere sanzioni pecuniarie, la medesima
norma costituzionale sarebbe stata violata, a giudizio dell’Avvocatura generale
dello Stato, anche per l’introduzione di una «surrettizia forma di condono»,
con conseguente invasione della competenza legislativa statale, essendo
sottratta alla potestà legislativa regionale qualsiasi forma di sanatoria
straordinaria delle opere abusive.
Per tale ragione, le norme censurate
interferirebbero con le disposizioni in materia di sanzioni civili e penali
previste dal testo unico sull’edilizia in tema di reati edilizi, e violerebbero
così anche l’art. 117, secondo comma, lettera s) (rectius:
lettera l), Cost., che riserva alla potestà
legislativa esclusiva statale la materia «ordinamento civile e penale».
2.– Le questioni di legittimità
costituzionale sollevate con il primo motivo di ricorso avverso gli artt. 25,
26 e 27 della legge della Regione Toscana n. 65 del 2014 sono inammissibili.
2.1.– Va innanzitutto rilevato che
l’Avvocatura generale dello Stato – lungo tutto il ricorso, così come nelle sue
conclusioni − coinvolge indistintamente nelle censure prospettate le tre
disposizioni della legge regionale, senza specificare quali parti di esse
presentino profili di contrasto rispetto alle norme statali evocate a parametro
interposto e al diritto dell’Unione europea.
L’indistinta impugnazione di tre
disposizioni dal contenuto assai eterogeneo determina una inevitabile
genericità ed oscurità delle censure. Ciò impedisce, già da questo punto di
vista, la corretta identificazione del petitum (ex plurimis, sentenze n. 82 del 2015
e n. 22 del 2013).
Nel giudizio in via principale la
necessaria delimitazione del thema decidendum spetta al ricorrente, che ha
l’onere di precisare l’oggetto del ricorso anche per consentire alla
controparte di svolgere adeguatamente le proprie difese (sentenza n. 213 del
2003).
2.2.– In ogni caso, anche a volerla
considerare isolatamente, la censura proposta avverso l’art. 25 della legge
regionale è inammissibile per carenza assoluta di argomenti a sostegno
dell’impugnazione (ex plurimis, sentenze n. 8 del 2014, n. 272, n. 22 e n. 8 del 2013).
Come ricordato, la legge della Regione
Toscana n. 65 del 2014, nel riscrivere la disciplina regionale in materia di
governo del territorio, con il citato art. 25 istituisce la conferenza di copianificazione – in cui sono rappresentati tutti gli enti
territoriali della Regione –, ne regola il funzionamento, e assegna a tale
organo il compito di esprimere un parere, fatte salve alcune eccezioni, in
merito a tutte le previsioni di trasformazione del territorio che comportino
impegno di suolo non edificato all’esterno del territorio urbanizzato. Si
tratta, dunque, di una norma che detta la disciplina generale della conferenza
di copianificazione, com’è confermato dalla
circostanza che ad essa fanno espresso rinvio molte disposizioni (non
impugnate) della medesima legge regionale.
L’Avvocatura generale dello Stato si
limita a riprodurre il testo dell’art. 25, senza esplicitare,
nell’illustrazione dei motivi di ricorso, alcuna ragione che induca a dubitare
della legittimità della disposizione rispetto ai parametri evocati, i quali
assegnano allo Stato la tutela della concorrenza e obbligano le Regioni ad
introdurre discipline conformi al diritto dell’Unione europea.
2.3.– Parimenti inammissibili sono le
censure avverso gli artt. 26 e 27 della legge regionale, per carenza di
adeguata motivazione.
Tali disposizioni stabiliscono che la
conferenza di copianificazione esprime un parere
anche in caso di previsioni di grandi strutture di vendita, di aggregazioni di
medie strutture di vendita aventi effetti assimilabili alle grandi strutture, e
di medie strutture di vendita, individuando i criteri in base ai quali tale
valutazione deve essere espressa.
L’Avvocatura generale dello Stato si
limita ad affermare che le disposizioni censurate, «pur se relative a
motivazioni di tipo urbanistico, aggravano il procedimento autorizzatorio
per le medie strutture di vendita in forma aggregata, […], creando, di fatto,
ulteriori tipologie di strutture commerciali».
In tal modo, in primo luogo, il
ricorrente non tiene in alcun rilievo la necessaria distinzione tra le
valutazioni svolte in sede di pianificazione urbanistica e quelle compiute in
fase di autorizzazione all’apertura delle strutture commerciali.
In secondo luogo, non chiarisce in che
cosa consisterebbe l’aggravamento procedurale cui sarebbero soggette le
previsioni di aggregazioni di medie strutture di vendita.
In terzo luogo, non spiega per quale
motivo la scelta normativa di considerare, in fase di pianificazione
urbanistica, l’«aggregazione» di più strutture commerciali si tradurrebbe in
una limitazione della concorrenza tra operatori.
La difesa statale osserva, inoltre, che
la disciplina impugnata «tutela gli esercizi di vicinato» con sistemi analoghi
a quelli già censurati da questa Corte, nella sentenza n. 165 del 2014, nella
parte in cui dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 20 della legge
della Regione Toscana 28 settembre 2012, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia
di commercio per l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 e del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1. Modifiche alla legge regionale n. 28 del
2005 e alla legge regionale n. 1 del 2005). Ciò, tuttavia, è asserito senza
individuare quale specifica disposizione tutelerebbe gli esercizi di vicinato,
senza operare alcun raffronto tra la disposizione regionale dichiarata
incostituzionale e la nuova disciplina regionale, e senza illustrare le ragioni
per le quali i principi espressi in quella decisione dovrebbero trovare
applicazione anche nel presente giudizio, in relazione alle disposizioni ora
impugnate.
Questa Corte ha più volte sottolineato
che, nel giudizio in via principale, si pone l’esigenza di un’adeguata
motivazione a supporto della impugnativa, in termini perfino più pregnanti che
in quello incidentale (ex plurimis, sentenze n. 82 del
2015, n. 259
del 2014, n.
309, n. 272
e n. 162 del
2013, n. 114
del 2011, n.
251 del 2009; ordinanza n. 123 del 2012), e che la mancata illustrazione
delle argomentazioni atte a suffragare le censure proposte è causa di
inammissibilità delle questioni di costituzionalità sollevate.
3.– Il secondo motivo di ricorso è
fondato, poiché gli impugnati artt. 207 e 208 della legge regionale n. 65 del
2014 sono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.– È opportuno sottolineare
preliminarmente che il tenore letterale delle disposizioni impugnate consente
agevolmente di definire l’oggetto dell’intervento legislativo regionale e
l’ambito materiale cui questo risulta ascrivibile. Infatti, le rubriche delle
due disposizioni, e, in particolare, i commi 1 e 4 dell’art. 207 ed il comma 1
dell’art. 208 fanno esplicito riferimento a «sanzioni ed opere per interventi
edilizi abusivi», e ad opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati «in
assenza di titolo abilitativo o in difformità dal medesimo».
Si è in presenza di una normativa
riferibile ad opere e interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla
stessa legge regionale, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente
alla materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
(ex plurimis e da ultimo, sentenze n. 272 e n. 102 del 2013),
nel cui ambito alle Regioni spetta l’adozione di una disciplina legislativa di
dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato (sentenze n.
167 del 2014 e n. 401 del 2007).
In particolare, per tali opere ed
interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli
artt. 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale (delineata sulla
falsariga di quella prevista in generale dalle norme statali del testo unico
sull’edilizia), l’applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie, per
le ipotesi in cui la valutazione discrezionale dell’autorità comunale
competente per territorio conduca ad escludere la persistenza di un interesse
attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle
somme corrispondenti alle sanzioni amministrative pecuniarie – differenziate a
seconda dell’epoca di realizzazione ed ultimazione delle opere e degli
interventi edilizi, con esclusione di quelli anteriori al 1° settembre 1967 e
ricadenti all’esterno della perimetrazione dei centri abitati – «non determina
la legittimazione dell’abuso» (comma 3 di entrambi gli articoli), le norme
impugnate producono due evidenti effetti sostanziali.
Il primo di essi consiste − in
considerazione dell’esclusione della sanzione demolitoria (e della succedanea
acquisizione gratuita delle aree al patrimonio comunale, in caso di
inadempimento dell’ordine di demolizione), in generale prevista per gli
immobili abusivi dal testo unico sull’edilizia e dalle corrispondenti norme
della stessa legge della Regione Toscana − nella conservazione, in mano
privata, del patrimonio edilizio esistente.
Il secondo effetto, di non minore
portata, consiste nella possibilità di eseguire ulteriori interventi edilizi –
sotto forma di «demolizione e ricostruzione, mutamento della destinazione
d’uso, aumento del numero delle unità immobiliari, incremento di superficie
utile lorda o di volume» (attività rispettivamente previste dai commi 7 e 6
degli artt. 207 e 208) – previa emanazione di appositi piani operativi, che diventano
addirittura superflui per gli immobili ultimati al di fuori dei centri urbani e
prima del 1° settembre 1967. Anzi, il comma 4 dell’art. 207 si spinge a
definire tali ultimi manufatti quali «consistenze legittime dal punto di vista
urbanistico-edilizio».
La combinazione di queste due
conseguenze produce, per tutti gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti
tipici di un «condono edilizio straordinario», che si differenzia, in quanto
tale, dall’istituto a carattere generale e permanente del «permesso di
costruire in sanatoria», disciplinato dagli artt. 36 e 45 del testo unico
sull’edilizia.
In tema di condono edilizio
"straordinario”, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che spettano
alla legislazione statale, oltre ai profili penalistici (integralmente
sottratti al legislatore regionale: sentenze n. 49 del
2006, n. 70
del 2005 e n.
196 del 2004), le scelte di principio sul versante della sanatoria
amministrativa, in particolare quelle relative all’an,
al quando e al quantum: la decisione sul se disporre, nell’intero territorio
nazionale, un condono straordinario, e quindi la previsione di un titolo
abilitativo edilizio straordinario; quella relativa all’ambito temporale di
efficacia della sanatoria; infine l’individuazione delle volumetrie massime
condonabili (nello stesso senso, sentenze n. 225 del
2012 e n. 70
del 2005).
Nel rispetto di tali scelte di
principio, competono alla legislazione regionale l’articolazione e la
specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale (sentenze n. 225 del
2012, n. 49
del 2006 e n.
196 del 2004).
Ne consegue che le norme impugnate si
pongono in contrasto con i consolidati princìpi espressi dalla giurisprudenza
costituzionale in materia.
Esula, infatti, dalla potestà
legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti
applicativi della sanatoria» (sentenza n. 290 del
2009) oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a
quanto stabilito dalla legge dello Stato» (sentenza n. 117 del
2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il
potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo
territorio regionale.
Il che è appunto quanto si verifica in
applicazione delle norme impugnate.
Esse producono un effetto di sanatoria
amministrativa straordinaria di immobili abusivi, non solo senza alcuna limitazione
volumetrica, ma anche al di là delle modalità e, soprattutto, dei tempi
disciplinati dalle precedenti normative statali.
Il riferimento, in particolare, è alla
legge n. 47 del 1985, la cui efficacia è stata estesa dall’art. 39 della legge
23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica),
cui ha fatto seguito l’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269
(Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 novembre 2003, n. 326, pure contenente misure di
regolarizzazione di immobili abusivi.
In applicazione di tali norme statali,
ben sarebbe stato possibile procedere, nei tempi e nei modi da quelle previsti,
alla sanatoria delle stesse opere e degli stessi interventi edilizi oggetto
della disciplina censurata. Sicché, consentirlo invece ora, alla luce delle
disposizioni regionali impugnate, significa introdurre un nuovo condono extra ordinem, al di fuori di qualsiasi previa e necessaria
cornice di principio disciplinata dalla legge statale.
3.2.– Il contrasto delle norme impugnate
con i principi che governano il riparto di competenze in materia di condono
edilizio "straordinario” non è attenuato dalla subordinazione degli effetti
sostanziali, da queste prodotti, alla valutazione discrezionale, che le stesse
disposizioni demandano all’amministrazione comunale competente per territorio,
in ordine alla sussistenza di un perdurante interesse pubblico alla rimessione
in pristino.
La difesa regionale sostiene che, nel
corso degli ultimi anni, la rigidità della disciplina statale concernente la
repressione degli abusi edilizi sarebbe stata «attenuata dalle previsioni
interpretative giurisprudenziali dei giudici amministrativi». Questi ultimi
avrebbero seguito il principio secondo cui anche le sanzioni edilizie devono
essere applicate previa comparazione e valutazione di prevalenza dell’interesse
pubblico al ripristino della legalità violata rispetto all’affidamento del
privato. Sicché, qualora sia trascorso un lungo lasso di tempo tra
realizzazione e accertamento dell’abuso, l’irrogazione delle sanzioni sarebbe
subordinata ad una motivazione specifica sulla sussistenza di un pubblico
interesse attuale alla eliminazione dell’opera.
Il legislatore regionale, per parte sua,
avrebbe appunto dettato norme conformi a tale principio, discendente
dall’interpretazione giurisprudenziale ritenuta «ormai pacifica» della legge
nazionale.
Tale argomento è privo di pregio.
Innanzitutto, l’affermazione relativa
alla sussistenza di un "diritto vivente”, nei termini prospettati dalla difesa
regionale, è smentita dalla constatazione della coesistenza (se non proprio
della prevalenza), nella giurisprudenza amministrativa, di un opposto
orientamento, secondo cui l’interesse del privato al mantenimento dell’opera
abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico
all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del
territorio. Secondo tale indirizzo, non sussiste alcuna necessità di motivare
in modo particolare un provvedimento col quale sia ordinata la demolizione di
un manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca
della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di
demolizione. Ciò perché la repressione degli abusi edilizi è espressione di
attività strettamente vincolata, non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione (in questi termini, ex plurimis,
Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 5 gennaio 2015, n. 13; Consiglio di
Stato, sezione sesta, sentenza 30 dicembre 2014, n. 6423; Consiglio di Stato,
sezione sesta, sentenza 1° ottobre 2014, n. 4878; Consiglio di Stato, sezione
sesta, sentenza 28 gennaio 2013, n. 496).
Ma, quand’anche una diversa opzione
ermeneutica potesse considerarsi talmente affermata da costituire approdo
"pacifico” nella giurisprudenza amministrativa, è assorbente il rilievo per cui
un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe essere rimesso al
legislatore regionale, ma solo a quello statale. In relazione a scelte così
delicate in materia edilizia, valgono evidenti esigenze di uniforme trattamento
sull’intero territorio nazionale (analogamente, sentenza n. 164 del
2012), e solo la legge statale può ovviamente assicurarle.
Per queste ragioni, le questioni di
legittimità costituzionale promosse avverso gli artt. 207 e 208 della legge
della Regione Toscana n. 65 del 2014 sono fondate, per violazione dell’art.
117, terzo comma, Cost.
L’accoglimento del ricorso sotto il
profilo descritto determina l’assorbimento delle altre censure mosse alle norme
impugnate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale degli artt. 207 e 208 della legge della Regione
Toscana 10 novembre 2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio);
2) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26 e
27 della legge della Regione Toscana 10 novembre 2014, n. 65, promosse, in
riferimento all’art. 117, primo comma e secondo comma, lettera e), della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 novembre
2015.