SENTENZA N. 65
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo GROSSI Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO
”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt.
8, commi 4, 6 e 10, e 46, commi 6 e 7, del decreto-legge
24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia
sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23
giugno 2014, n. 89, nonché dell’art. 42, comma 1, del decreto-legge
12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la
semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, promossi
dalla Regione Veneto con ricorsi notificati il 18 agosto 2014 e il 9-14 gennaio
2015, rispettivamente depositati in
cancelleria il 22 agosto 2014 ed il 16 gennaio 2015 ed iscritti al n. 63 del
registro ricorsi 2014 ed al n. 10 del
registro ricorsi 2015.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2016 il Giudice
relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Luca Antonini e
Luigi Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
1.− La Regione Veneto, con ricorso
notificato il 18 agosto 2014 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e
il 13 agosto 2014 presso l’Avvocatura generale dello Stato, poi depositato il
22 agosto 2014 (reg. ric. n. 63 del 2014), ha impugnato, tra gli altri, gli
artt. 8, commi 4, 6 e 10, e 46, commi 6 e 7, del decreto-legge 24 aprile 2014,
n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89.
1.1.− L’art. 8 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, in
particolare, è censurato nella parte in cui impone, al comma 4, una riduzione
di spesa per acquisti di beni e di servizi, in ogni settore, alle pubbliche
amministrazioni indicate nell’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 14
marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni), per un ammontare di 700 milioni di euro per il 2014 e di pari
importo, in ragione d’anno, a decorrere dal 2015. Il comma 6 del medesimo art.
8 del d.l. n. 66 del 2014 rinvia alle modalità indicate nel successivo art. 46
per la determinazione degli obiettivi di riduzione di spesa e, al comma 10,
consente l’adozione di misure alternative di contenimento della spesa corrente,
al fine di conseguire risparmi comunque non inferiori agli importi indicati.
La ricorrente sottolinea che l’inciso «in ragione di anno», contenuto nel
comma 4, deve intendersi nel senso che l’obiettivo fissato per il 2014 e
riferito a otto mesi (considerata la data di entrata in vigore del d.l. n. 66
del 2014), deve essere rideterminato in aumento percentuale per gli anni
successivi, raggiungendo un importo quasi doppio.
L’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, richiamato dal comma 6
del citato art. 8, è impugnato, nella formulazione vigente al momento della
proposizione del ricorso, nella parte in cui, al comma 6, stabilisce che le
Regioni «assicurano un contributo alla finanza pubblica pari a 500 milioni di
euro per l’anno 2014 e di 750 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015
al 2017, in ambiti di spesa e per importi proposti in sede di autocoordinamento dalle regioni e province autonome
medesime, tenendo anche conto del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti
dalla direttiva 2011/7/UE, nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati,
da recepire con Intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra
lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro il 31
maggio 2014, con riferimento all’anno 2014 ed entro il 31 ottobre 2014, con
riferimento agli anni 2015 e seguenti. In assenza di tale Intesa entro i
predetti termini, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da
adottarsi, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, entro 20 giorni
dalla scadenza dei predetti termini, i richiamati importi sono assegnati ad
ambiti di spesa ed attribuiti alle singoli regioni e Province autonome di
Trento e Bolzano, tenendo anche conto del Pil e della popolazione residente, e
sono eventualmente rideterminati i livelli di finanziamento degli ambiti
individuati e le modalità di acquisizione delle risorse da parte dello Stato».
L’art. 46, comma 7, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, è impugnato
nella parte in cui prevede che il complesso delle spese finali, espresse in
termini di competenza eurocompatibile di ciascuna
Regione a statuto ordinario, di cui al comma 449-bis dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di
stabilità 2013), è ridotto per ciascuno degli anni dal 2014 al 2017, tenendo
conto degli importi determinati ai sensi del comma 6.
La ricorrente censura il sistema così delineato, sotto diversi profili.
In primo luogo, sostiene che il complesso delle citate disposizioni
imporrebbe un taglio «meramente lineare» alle spese per acquisti di beni e
servizi, in ogni settore e senza alcuna distinzione qualitativa, attraverso una
misura dal carattere assolutamente generico, come tale idonea a ricomprendere
sia la «spesa cattiva» sia la «spesa buona».
La riduzione di spesa così imposta sarebbe potenzialmente idonea ad
interferire in ambiti inerenti a fondamentali diritti civili e sociali (ad
esempio, in materia di assistenza sociale, assegnata costituzionalmente alla
Regione) – settori nei quali lo Stato dovrebbe invece svolgere la propria
funzione di coordinamento attraverso la determinazione, uniforme su tutto il
territorio nazionale, dei livelli essenziali delle prestazioni – anche a causa
della mancata indicazione di parametri idonei a consentire una verifica della sostenibilità
della riduzione, rispetto alla erogazione dei relativi servizi. In assenza, in
particolare, di un riferimento a livelli standard
di spesa efficiente, le disposizioni si applicherebbero alla totalità delle
Regioni, senza alcuna considerazione dei livelli di spesa storica (e della
relativa appropriatezza) sostenuti dai singoli enti.
Secondo la ricorrente, inoltre, la previsione (art. 46, comma 6) in base
alla quale la distribuzione della riduzione è rimessa ad un’intesa – per
l’individuazione sia dell’importo che degli ambiti sui quali la riduzione
incide – non varrebbe a superare tali censure, in quanto le disposizioni
impugnate, più che un "coordinamento” della finanza pubblica,
concretizzerebbero misure di "contenimento” prive, tuttavia, degli indispensabili
elementi di razionalità, efficacia e sostenibilità, con conseguente violazione:
del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della
Costituzione, determinandosi una diretta ricaduta sull’autonomia
organizzativa finanziaria regionale; dell’art. 117, terzo comma,
Cost., essendo indebitamente travalicata la funzione di coordinamento della
finanza pubblica; degli artt. 117, terzo e
quarto comma, e 119
Cost., essendo incisa l’autonomia di spesa della Regione e, dunque, la relativa
funzione legislativa, da esercitare nel rispetto degli equilibri di un quadro
finanziario che verrebbe, invece, illegittimamente alterato.
Un secondo profilo di censura concerne la natura asseritamente permanente
della riduzione di spesa, in quanto i risparmi contemplati dal comma 4
dell’art. 8 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sono imposti anche per il
futuro, annualmente, a decorrere dal 2015.
Tale previsione si porrebbe in contrasto con i principi espressi dalla
giurisprudenza costituzionale, che ha censurato analoghe misure restrittive
imposte senza termine finale, per violazione dell’art. 119 Cost. (sub specie di compressione
dell’autonomia di spesa regionale) e dell’art. 117, terzo comma,
Cost. (per esorbitanza rispetto alla fissazione di principi fondamentali in
materia di coordinamento della finanza pubblica).
La ricorrente rileva, sul punto, anche un difetto di coordinamento tra il
comma 4 del citato art. 8, che prevede il carattere permanente dei tagli, e il
successivo art. 46 del medesimo d.l. n. 66 del 2014, come convertito, che, ai
commi 6 e 7, fissa obiettivi di risparmio per gli enti territoriali solo fino
al 2017. Non potrebbe infatti attribuirsi, essa sostiene, a queste ultime
disposizioni, di carattere meramente esecutivo, «la forza di stabilire un
termine all’applicabilità dello stesso comma 4 dell’art. 8».
Un terzo profilo di censura colpisce in particolare la disciplina, dettata
dal comma 6 dell’art. 46, relativa all’intesa da raggiungere in sede di autocoordinamento regionale, in ordine alla definizione del
riparto degli importi e dei relativi ambiti di spesa.
Dando atto che, per il 2014, tale intesa è stata raggiunta in data 29
maggio 2014, la ricorrente lamenta che, mentre tra i criteri da assumere in
sede di autocoordinamento tra le Regioni vengono in
considerazione i tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 16 febbraio 2011,
n. 2011/7/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla
lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali - rifusione),
e l’incidenza degli acquisti centralizzati, in caso di mancato raggiungimento
dell’accordo, invece, il riparto dei tagli e i relativi ambiti sono definiti
con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, tenendo conto anche del
PIL regionale e della popolazione residente.
Secondo la ricorrente, tali ultimi due criteri non sarebbero coerenti con
lo scopo della norma, che consiste nel contenimento della spesa regionale, con
conseguente violazione degli artt. 119 e 120 Cost.: sarebbe,
infatti, realizzato «un effetto perequativo implicito, ma evidente», in
contrasto, in particolare, con i requisiti fissati dal terzo e dal quinto comma
dell’art. 119 Cost. Si addosserebbe, infatti, un maggiore onere a carico di
Regioni che presentino un PIL più elevato, con alterazione dei corretti criteri
costituzionali della perequazione. Il dato relativo al PIL, tuttavia, sarebbe
cosa ben diversa dalla capacità fiscale cui fa riferimento l’art. 119 Cost., se
solo si considera che vi sono elementi che – pur concorrendo a determinare il
PIL – tuttavia non rientrano necessariamente, o nello stesso modo, nella
dinamica impositiva.
In asserita analogia con quanto stigmatizzato nella sentenza n. 79 del
2014 della Corte costituzionale, le disposizioni censurate, secondo la
ricorrente, non conterrebbero alcun indice da cui possa trarsi la conclusione
che le risorse in tal modo acquisite siano destinate ad un fondo perequativo
indirizzato ai soli «territori con minore capacità fiscale per abitante» (nel
rispetto dell’art. 119, terzo comma, Cost.), né che esse siano finalizzate a
fornire quelle «risorse aggiuntive» che lo Stato (dal quale, peraltro,
dovrebbero provenire) destina esclusivamente a «determinate» Regioni per «scopi
diversi dal normale esercizio delle loro funzioni», ai sensi dell’art. 119,
quinto comma, Cost.
1.2.− Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di
legittimità costituzionale, con memoria depositata il 18 settembre 2014,
chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, infondato.
L’Avvocatura erariale assume che la modifica del Titolo V della
Costituzione avrebbe innovato il quadro dei rapporti tra Stato ed autonomie
territoriali, determinando il passaggio, in materia di rapporti finanziari, da
una finanza "derivata”, basata su trasferimenti dal centro verso la periferia,
ad una finanza "originaria”, con il riconoscimento alle Regioni ed agli enti
locali di risorse autonome, secondo i principi di coordinamento della finanza
pubblica (e del sistema tributario), dettati dallo Stato, in attuazione delle
deleghe contenute nella legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della
Costituzione), in materia di federalismo fiscale.
Secondo la difesa statale, uno dei punti qualificanti della nuova
disciplina sarebbe costituito dal graduale superamento del criterio della spesa
"storica” (secondo il quale i trasferimenti statali sono proporzionali alla
spesa sostenuta nel passato dagli enti territoriali), sostituito da quello del
fabbisogno standard, diretto ad
identificare il costo efficiente di un servizio, da assumere come parametro al
quale rapportare le risorse finanziarie autonome.
Dopo aver sottolineato la necessaria osservanza, da parte delle autonomie
speciali, dei principi introdotti dal nuovo art. 119 Cost., l’Avvocatura erariale
ha sottolineato l’esistenza di istanze di coordinamento finanziario
inderogabili anche da parte delle autonomie speciali.
L’Avvocatura statale ha, infine, rilevato che l’art. 116, terzo comma,
Cost., nel prevedere la possibilità per le Regioni a statuto ordinario di
acquisire forme e condizioni ulteriori di autonomia, avrebbe individuato nel
successivo art. 119 Cost. un limite espresso a tale processo, proprio per
contenere la finanza delle autonomie regionali.
1.3.− Con memoria depositata in data 10 novembre 2015, la Regione
Veneto ha chiesto di valutare l’ammissibilità dell’atto di costituzione
dell’Avvocatura generale dello Stato, in quanto la relativa memoria, dopo aver
correttamente indicato in epigrafe il ricorso e le norme impugnate, conterrebbe
una motivazione non pertinente rispetto all’oggetto dell’impugnativa.
Secondo la difesa regionale, infatti, la memoria di costituzione sarebbe
incentrata esclusivamente sull’applicabilità alle Regioni ad autonomia speciale
dei principi di coordinamento della finanza pubblica, senza alcuna
argomentazione spesa per contrastare le censure mosse dalla Regione Veneto.
1.4.− Con memoria depositata in data 10 novembre 2015, l’Avvocatura
erariale ha integrato le difese spiegate nell’atto di costituzione, insistendo
per la declaratoria di inammissibilità o, comunque, di infondatezza del
ricorso.
Con riferimento agli impugnati artt. 8, commi 4, 6 e 10, e 46, commi 6 e
7, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, ha dedotto la genericità – e,
dunque, l’inammissibilità – delle censure avanzate contro i cosiddetti «tagli
lineari», richiamando la giurisprudenza costituzionale che impone al deducente un onere di specifica dimostrazione
dell’impossibilità di adempiere alle proprie funzioni in conseguenza della
riduzione delle disponibilità finanziarie regionali.
Nel contestare i rilievi mossi dalla ricorrente avverso il riferimento ai
criteri del PIL regionale e della popolazione residente, utilizzati dall’art.
46, comma 6, per fissare l’entità del contributo gravante sulle singole Regioni
nel caso di mancato raggiungimento di un’intesa in sede di autocoordinamento
regionale, l’Avvocatura generale dello Stato ha dedotto l’inconferenza
dei principi espressi dalla sentenza n. 79 del
2014, richiamata dalla ricorrente a sostegno delle proprie censure: quella
pronuncia, ricorda la difesa statale, avrebbe infatti ad oggetto una norma che
determinava la riduzione delle risorse spettanti alle Regioni in misura proporzionale
alle spese sostenute per i consumi intermedi, realizzando un effetto
perequativo implicito, in contrasto con il terzo comma dell’art. 119 Cost. –
nella parte in cui prevede che la legge dello Stato istituisce un fondo
perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante – stante
l’assenza di una diretta correlazione tra le spese per consumi intermedi e la
capacità fiscale delle singole Regioni.
L’utilizzo, da parte della norma impugnata, di un diverso criterio, quale
quello del PIL regionale e della popolazione residente, dimostrerebbe, appunto,
l’inconferenza del richiamo alla citata sentenza. Si
tratterebbe, infatti, di un indice del tutto diverso da quello della spesa per
consumi intermedi, tale da non determinare alcun (incostituzionale) effetto
perequativo implicito, «posto che la disposizione in oggetto si limita ad
imporre in capo alle amministrazioni regionali un contributo alla finanza
pubblica, realizzato attraverso una riduzione della spesa per l’acquisto di
beni e servizi, senza che venga in alcun modo preso in considerazione il tema
dei trasferimenti dovuti dallo Stato alle Regioni».
1.5.− Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Regione Veneto ha
depositato memoria, in data 18 gennaio 2016, insistendo per l’accoglimento del
ricorso.
In primo luogo ha dato conto delle
modifiche medio tempore intervenute
sui commi 6 e 7 dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito,
rappresentando di aver già provveduto ad autonoma impugnativa.
In secondo luogo, ha dedotto che tali
modifiche non farebbero venir meno l’interesse alla pronuncia della Corte sul
ricorso originariamente proposto; così come priva di rilevanza, allo stesso
fine, dovrebbe considerarsi l’intesa raggiunta in data 29 maggio 2014 in sede
di Conferenza Stato-Regioni, sul riparto della riduzione di 500 milioni di euro
per l’anno 2014.
Ha, inoltre, arricchito le
argomentazioni già esposte nel ricorso, deducendo che l’applicazione dei
criteri previsti dal comma 6 dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito (PIL regionale e popolazione residente), per il caso di mancato
raggiungimento dell’intesa – in sede di autocoordinamento
regionale – sugli importi e sugli ambiti dei tagli alla spesa, indebolirebbe la
posizione "contrattuale” delle Regioni con un PIL più elevato, in quanto la
norma non escluderebbe che quest’ultimo possa essere utilizzato dal Governo, in
via sostitutiva, come criterio «decisamente prevalente»: in tal modo, le
Regioni con un PIL più elevato, risultando in tesi esposte – in caso di mancata
intesa – al rischio di un maggiore impatto della riduzione, si troverebbero
indebolite rispetto alla possibilità di contrastare le pretese avanzate dalle
Regioni con un PIL più ridotto, che potrebbero invece imporre, in sede di autocoordinamento, una ripartizione a loro più favorevole.
Ha quindi dedotto che l’irrazionalità di
tale criterio emergerebbe da quattro ordini di considerazioni: a) le Regioni
con un PIL più elevato sarebbero anche quelle più efficienti sul lato della
spesa pubblica e, nonostante ciò, sarebbero le più esposte alla riduzione; ciò
renderebbe palese come sia stata travalicata la logica costituzionale sottesa
alla funzione statale di coordinamento della spesa pubblica, che dovrebbe
essere diretta a contenere innanzitutto la spesa «cattiva», per non premiare,
del tutto indebitamente, le realtà regionali inefficienti, confermandole nella
propria condizione, penalizzando, invece, quelle rivelatesi virtuose, grazie
all’esercizio in termini responsabili della propria autonomia; b) il criterio
del PIL regionale sarebbe profondamente diverso da quello della capacità
fiscale, previsto come unico criterio perequativo ordinario tra le autonomie
territoriali, ai sensi dell’art. 119, terzo comma, Cost., consistente nel
gettito standardizzato dei tributi di competenza regionale; c) il PIL regionale
non si tradurrebbe automaticamente in una disponibilità di risorse a livello
regionale, sicché, a parità di sforzo fiscale, non sarebbe dimostrato che una
Regione "povera” in termini di PIL disponga di risorse regionali inferiori, e
viceversa; d) dai dati emergenti dai rapporti annuali della Ragioneria generale
dello Stato, anzi, risulterebbe l’esatto contrario, tanto che per l’anno 2013
(ultimo anno di elaborazione disponibile), la spesa finale per abitante, nelle
Regioni assunte come benchmark per la
spesa sanitaria efficiente, sarebbe risultata inferiore a tutte le altre.
La ricorrente ha ricordato che il cumulo
dei tagli imposti alle Regioni ha determinato una riduzione del 38,5% della
spesa primaria per il periodo 2009-2012, cui debbono aggiungersi gli effetti
delle manovre finanziarie per gli anni 2013 e 2014, in un contesto in cui il
tetto di spesa del patto di stabilità è stato ridotto di circa il 43,8% nel
quadriennio 2010-2013 e di un ulteriore 3,5% per il 2014.
Ciò posto, ha richiamato quanto
affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 188 del
2015, sui criteri che devono reggere la riduzione delle risorse regionali,
per non rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni affidate a tali enti,
in mancanza di una razionalizzazione di queste ultime: il taglio imposto,
osserva la ricorrente, sarebbe infatti destinato ad incidere su fondamentali
diritti sociali – in ambiti in cui lo Stato non ha determinato i livelli
essenziali delle prestazioni – senza indicare alcun parametro idoneo a
consentire una verifica di sostenibilità delle riduzioni di spesa imposte,
rispetto all’erogazione dei relativi servizi.
2.− Con un secondo ricorso,
notificato il 9-14 gennaio 2015 presso l’Avvocatura generale dello Stato e, in
pari data, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, poi depositato il
16 gennaio 2015 (reg. ric. n. 10 del 2015), la Regione Veneto ha impugnato, tra
gli altri, l’art. 42, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133
(Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
11 novembre 2014, n. 164.
2.1.− La ricorrente censura l’indicata disposizione per violazione
degli artt. 3, 77 Cost. – la cui violazione ridonderebbe sulla sfera
costituzionalmente garantita alla Regione dagli artt. 117, terzo e quarto
comma, e 119 Cost. – nonché dell’art. 117, terzo comma, Cost. e del principio
di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., perché essa ha anticipato,
dal 31 ottobre al 31 (rectius:
30) settembre 2014, il termine originariamente previsto per l’intesa da
raggiungere in sede di autocoordinamento regionale,
per decidere il riparto del contributo alla finanza pubblica delle Regioni a
statuto ordinario, già disposto dall’art. 46, commi 6 e 7, del d.l. n. 66 del
2014, come convertito (e già autonomamente impugnato con il ricorso iscritto al
n. 63 reg. ric. del 2014).
A giudizio della ricorrente, tale anticipazione, operata da una norma
entrata in vigore il 13 settembre 2014, senza che ricorresse «alcun reale
presupposto di necessità e urgenza», sarebbe arbitraria ed irragionevole,
perché avrebbe reso, di fatto, impossibile il raggiungimento di una delicata
intesa diretta ad evitare, attraverso l’autocoordinamento
regionale, l’applicazione del criterio di riparto fondato sul PIL regionale e
sulla popolazione residente, previsto dal comma 6 dell’art. 46 del d.l. n. 66
del 2014, come convertito, particolarmente penalizzante per la Regione Veneto.
La ricorrente ha richiamato la giurisprudenza costituzionale secondo cui
costituisce motivo di illegittimità costituzionale la predeterminazione di un
termine irragionevolmente breve. Tale giurisprudenza, essa asserisce, si
attaglierebbe al caso in esame, caratterizzato dall’improvvisa riduzione di
trenta giorni del termine originariamente fissato, al solo presumibile scopo di
consentire al Governo di presentare, già in sede disegno di legge di stabilità
per il 2015 (effettivamente presentato in data 23 ottobre 2014), una piena
contabilizzazione della riduzione di spesa relativa all’anno 2015.
Ne risulterebbe il contrasto con un corretto e leale esercizio della
funzione di coordinamento della finanza pubblica (ai sensi dell’art. 117, terzo
comma, Cost.), nonché con gli artt. 3 e 77 Cost. – la cui violazione
ridonderebbe sulla sfera costituzionalmente garantita alla Regione dagli artt.
117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., riflettendosi sul livello di
finanziamento delle funzioni regionali – oltre che con il principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
2.2.− Con memoria depositata il 23 febbraio 2015, è intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato
inammissibile.
Secondo la difesa statale, infatti, la censura avanzata dalla ricorrente
non concernerebbe l’invasione della competenza regionale, intesa come
menomazione della relativa sfera di attribuzioni da parte della legge statale.
L’Avvocatura statale ha inoltre richiamato la sentenza n. 249 del
2009, secondo cui i meri inconvenienti di fatto derivanti dall’applicazione
delle norme denunciate non sarebbero sufficienti a determinare la lesione delle
competenze regionali.
2.3.− Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Regione Veneto ha
depositato memoria, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
A fronte dell’eccezione sollevata
dall’Avvocatura generale dello Stato, la Regione Veneto ha ribadito la
ridondanza della censura, fondata sulla violazione del principio di
ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., sulle competenze regionali stabilite
dalla Costituzione. La disposizione impugnata, nella parte in cui ha ridotto il
termine concesso per la stipula dell’intesa in sede di autocoordinamento
tra le Regioni, avrebbe infatti determinato un «effetto conformativo
sulle potestà regionali», risultando «lesiva della condizione giuridica delle
Regioni».
Il fatto che l’intesa sia stata
«faticosamente» raggiunta in data 26 febbraio 2015 (in ogni caso, senza il
consenso della Regione Veneto) nell’ambito dell’ulteriore riduzione disposta
dalla legge di stabilità per il 2015, non farebbe venire meno, a giudizio della
ricorrente, l’interesse ad ottenere una pronuncia da parte della Corte.
Secondo la ricorrente, infine, non
assumerebbero alcun rilievo le argomentazioni dell’Avvocatura generale dello
Stato «in relazione al secondo profilo censurato nel ricorso», concernente il
nuovo obbligo imposto dal comma 7-ter
dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito – aggiunto dall’art. 42,
comma 1, seconda parte, del d.l. n. 133 del 2014, come convertito – di
attestare l’effettuazione delle spese di cui al precedente comma 7-bis, nell’ambito della certificazione
del patto di stabilità 2014, accompagnato dalla previsione che, qualora non
risultino integralmente realizzate, esse siano versate al bilancio dello Stato
per la quota corrispondente. Ciò perché si tratterebbe di obbligo non
concordato nell’intesa raggiunta in data 29 maggio 2014.
Sarebbe sussistente, infatti, la
lamentata violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., nonché
del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., poiché
verrebbero in rilievo spese che la Regione può effettuare entro l’anno, ma solo
a condizione che il Governo provveda in tempi utili all’erogazione delle
relative risorse: a tale proposito viene richiamato il principio espresso dalla
Corte nella sentenza
n. 272 del 2015, sull’illegittimità di una previsione sanzionatoria per
inadempienze dipendenti dal mancato trasferimento di risorse da parte di altri
soggetti, oltre che quello espresso nella sentenza n. 79 del
2014, sull’illegittimità dell’obbligo di restituzione di risorse già
acquisite, che vengono assicurate al bilancio dello Stato senza alcuna
indicazione circa la loro destinazione.
2.4.− Anche l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una
memoria, in cui ha insistito per la declaratoria di inammissibilità del
ricorso, per difetto di ridondanza, sulle competenze regionali, delle censure
fondate su parametri estranei al Titolo V della Costituzione.
La difesa statale ha, inoltre,
sottolineato che il termine fissato dalla norma impugnata, pur ridotto, non
presenterebbe carattere perentorio, non essendo preclusa la possibilità di
raggiungere un’intesa tra Stato e Regioni anche in data successiva a quella stabilita
dalla legge.
Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che, in
data 26 febbraio 2015, nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni, è stata
appunto raggiunta l’intesa volta a definire le modalità con le quali le Regioni
a statuto ordinario devono raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica per il
2015, comprensivi, tra gli altri, di quelli fissati dall’art. 46, comma 6, del
d.l. n. 66 del 2014, come convertito, per un ammontare di 750 milioni di euro.
L’accordo prevede il rinvio a successive intese, da raggiungere entro il 31
gennaio di ciascun anno, per la definizione delle modalità di conseguimento
degli obiettivi di finanza pubblica fissati per gli anni dal 2016 al 2018. Ne
conseguirebbe l’infondatezza delle doglianze regionali circa la violazione del
principio di leale collaborazione.
Considerato
in diritto
1.− La Regione Veneto, con ricorso iscritto al reg. ric. n. 63 del
2014, ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale delle
disposizioni di cui agli artt. 8, commi 4, 6 e 10, e 46, commi 6 e 7, del
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la
giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 23 giugno 2014, n. 89. Con un secondo ricorso, iscritto al reg. ric. n.
10 del 2015, la medesima Regione ha impugnato l’art. 42, comma 1, del
decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164.
L’art. 8 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, è censurato nella parte
in cui impone, al comma 4, una riduzione di spesa per acquisti di beni e di
servizi, in ogni settore, alle pubbliche amministrazioni indicate nell’art. 11,
comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), per un ammontare di 700
milioni di euro per il 2014 e di pari importo, in ragione d’anno, a decorrere
dal 2015. Il comma 6 dello stesso articolo rinvia alle modalità indicate nel
successivo art. 46 per la determinazione degli obiettivi di riduzione di spesa
e, al comma 10, consente l’adozione di misure alternative di contenimento della
spesa corrente, al fine di conseguire risparmi comunque non inferiori agli importi
indicati.
L’art. 46, richiamato dal comma 6 dell’art. 8, è impugnato nella parte in
cui, al comma 6, stabilisce le modalità di riparto del contributo alla finanza
pubblica delle Regioni, di cui fissa le entità (pari a 500 milioni di euro per
il 2014 ed a 750 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2015 al 2017), in
ambiti di spesa e per importi che devono essere proposti, in sede di autocoordinamento, dalle Regioni medesime, tenendo anche
conto del rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 16 febbraio
2011, n. 2011/7/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali -
rifusione), nonché dell’incidenza degli acquisti centralizzati. La disposizione
prevede che le proposte scaturite in sede di autocoordinamento
siano recepite con intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti
tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, entro
il 31 maggio 2014, con riferimento all’anno 2014, ed entro il 31 ottobre 2014,
con riferimento agli anni 2015 e seguenti. In assenza di tale intesa nei
termini previsti, gli importi ricordati possono essere assegnati, con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, ad ambiti di spesa attribuiti alle
singole Regioni anche in base al PIL regionale ed alla popolazione residente.
Il comma 7 del citato art. 46 è impugnato nella parte in cui prevede che
il complesso delle spese finali, espresse in termini di competenza eurocompatibile di ciascuna Regione a statuto ordinario, di
cui al comma 449-bis dell’art. 1
della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), sia
ridotto, per ciascuno degli anni dal 2014 al 2017, tenendo conto degli importi
determinati ai sensi del comma 6.
La ricorrente censura il sistema così delineato, sotto diversi profili.
In primo luogo, assume che il complesso delle norme ricordate imporrebbe
un taglio «meramente lineare» alle spese per acquisti di beni e servizi, in
ogni settore e senza alcuna distinzione qualitativa. Si sarebbe in presenza di
una misura di carattere generico, interferente anche in ambiti attinenti a
fondamentali diritti civili e sociali (è fatto l’esempio dell’assistenza
sociale, materia costituzionalmente assegnata alla Regione), priva di
riferimenti a parametri idonei a consentire una verifica della sostenibilità
della riduzione di spesa rispetto alla erogazione dei corrispondenti servizi da
parte regionale.
Secondo la ricorrente, nonostante la previsione di un’intesa – per
l’individuazione sia dell’importo che degli ambiti di spesa – le disposizioni
impugnate, più che un "coordinamento” della finanza pubblica,
concretizzerebbero misure di "contenimento” prive, tuttavia, degli
indispensabili elementi di razionalità, di efficacia e di sostenibilità. Di
qui, la prospettata violazione: del principio di ragionevolezza di cui all’art.
3 della Costituzione, con una diretta ricaduta sull’autonomia organizzativa
finanziaria regionale; dell’art. 117, terzo comma, Cost., essendo indebitamente
travalicata la funzione di coordinamento della finanza pubblica; degli artt.
117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., essendo indebitamente incisa
l’autonomia di spesa della Regione e, dunque, la relativa funzione legislativa,
da esercitare nel rispetto degli equilibri di un quadro finanziario che
verrebbe illegittimamente alterato.
Un secondo profilo di censura concerne la natura asseritamente permanente
della riduzione di spesa, in quanto i risparmi contemplati dal comma 4 del
ricordato art. 8 sarebbero imposti anche per il futuro, annualmente, a
decorrere dal 2015.
Un terzo profilo riguarda la disciplina dell’intesa, da raggiungere in
sede di autocoordinamento tra le Regioni, per la
definizione del riparto degli importi e degli ambiti sui quali la riduzione
incide. È, in particolare, censurata la parte di disposizione in cui si prevede
che, in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, il riparto dei tagli e i
relativi ambiti sono definiti con decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri, tenendo conto anche del PIL regionale e della popolazione residente.
Secondo la ricorrente, applicando tali criteri, verrebbe realizzato «un effetto
perequativo implicito, ma evidente», in contrasto con i requisiti fissati dal
terzo e dal quinto comma dell’art. 119 Cost. e dall’art. 120 Cost. Infatti, si
addosserebbe un maggiore onere a carico delle Regioni con un PIL più elevato,
con alterazione dei corretti criteri costituzionali della perequazione. In
particolare, non sarebbe prevista, come invece richiesto dall’art. 119 Cost.,
alcuna destinazione delle risorse, così acquisite, ad un fondo perequativo
indirizzato ai soli «territori con minore capacità fiscale per abitante» (terzo
comma del citato articolo), né alcuna finalizzazione delle stesse a fornire
quelle «risorse aggiuntive» che lo Stato (dal quale, peraltro, le risorse
dovrebbero provenire) avrebbe l’obbligo di destinare esclusivamente a
«determinate» Regioni, per «scopi diversi dal normale esercizio delle loro
funzioni» (quinto comma dell’art. 119 Cost.).
Con un secondo ricorso, iscritto al reg.
ric. n. 10 del 2015, la Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri, l’art. 42,
comma 1, del d.l. n. 133 del 2014, come convertito, per violazione degli artt.
3, 77 Cost. – la cui violazione ridonderebbe sulla sfera costituzionalmente
garantita alla Regione dagli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost. –
nonché dell’art. 117, terzo comma, Cost. e del principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost. La disposizione è censurata nella
parte in cui anticipa, in relazione al contributo alla finanza pubblica delle
Regioni a statuto ordinario già disposto dall’art. 46, commi 6 e 7, del d.l. n.
66 del 2014, come convertito, dal 31 ottobre al 31 (rectius: 30) settembre 2014, il
termine originariamente previsto per l’intesa da raggiungere, in sede di autocoordinamento regionale, in ordine al riparto degli
importi indicati dalle norme ricordate nonché agli ambiti sui quali incide la
riduzione di spesa. Attraverso tale anticipazione, il termine sarebbe stato
reso irragionevolmente breve, in assenza, peraltro, di «alcun reale presupposto
di necessità e urgenza».
2.− I due ricorsi vertono su disposizioni
intimamente connesse ed avanzano censure strettamente collegate tra loro. Ai
fini di una decisione congiunta, è perciò opportuna la riunione dei relativi
giudizi, mentre resta riservata a separate pronunce la decisione delle
questioni relative alle altre disposizioni impugnate con i medesimi ricorsi.
3.− Va rilevato, in via
preliminare, che una delle disposizioni censurate è stata modificata in
pendenza dei giudizi.
In particolare, il comma 6 dell’art. 46
del d.l. 66 del 2014, come convertito, modificato dall’art. 42, comma 1, del
d.l. n. 133 del 2014, come convertito (pure impugnato nel presente giudizio), è
stato ulteriormente inciso dal comma 398, lettere a), b) e c), dell’art. 1
della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2015). Tale
modifica è oggetto di ricorso proposto dalla Regione Veneto, distinto e
successivo a quello ora in esame. Lo scrutinio di questa Corte deve pertanto
limitarsi al contenuto precettivo dell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del
2014 (nella versione originaria e in quella modificata dall’art. 42, comma 1,
del d.l. n. 133 del 2014, come convertito), senza necessità di valutare il
trasferimento delle attuali questioni di legittimità costituzionale alla
modifica normativa sopravvenuta (da ultimo, sentenze n. 40 del 2016,
n. 239 e n. 77 del 2015).
Un’ulteriore modifica del citato comma 6
dell’art. 46 è stata operata con il comma 681 dell’art. 1 della legge 28
dicembre 2015, n. 208 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2016), che ha esteso al 2019
l’orizzonte temporale del contributo alla finanza pubblica imposto con la
disposizione di cui si discute.
Tale ultima modifica non risulta, allo
stato, impugnata autonomamente dalla Regione Veneto, sicché deve essere
verificata la necessità del trasferimento delle relative questioni di
legittimità costituzionale.
Questa Corte ha ripetutamente affermato
che, in caso di ius superveniens, la questione di
legittimità costituzionale deve essere trasferita quando la disposizione impugnata
sia stata modificata marginalmente (sentenza n. 30 del
2012), senza che ne sia conseguita l’alterazione della sua portata
precettiva (sentenza
n. 193 del 2012) e la modifica risulti comunque orientata in senso non satisfattivo alle richieste della ricorrente (da ultimo,
sentenze n. 40
del 2016, n.
155 e n. 46
del 2015).
In definitiva, se dalla disposizione
legislativa sopravvenuta sia desumibile una norma sostanzialmente coincidente
con quella impugnata, la questione – in forza del principio di effettività
della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via d’azione – deve
intendersi trasferita sulla nuova norma (sentenza n. 326 del
2010 e, nello stesso senso, da ultimo, sentenze n. 40 del 2016,
n. 155, n. 77 e n. 46 del 2015).
Se, invece, a seguito della modifica, la
norma appaia dotata «di un contenuto radicalmente innovativo rispetto alla
norma originaria» (sentenza n. 219 del
2013), si deve concludere per la portata innovativa della modifica stessa,
che va impugnata con autonomo ricorso, poiché il trasferimento «supplirebbe
impropriamente all’onere di impugnazione» (sentenze n. 40 del 2016,
n. 17 del 2015,
n. 138 del 2014,
n. 300 e n. 32 del 2012).
Nel caso in esame, la modifica non è
certamente satisfattiva per la ricorrente, ma non presenta carattere marginale,
determinando sia una diversa portata precettiva della disposizione modificata,
sia un’autonoma incisione sugli interessi della ricorrente.
Non può, infatti, dubitarsi
che in tal senso sia da valutare l’estensione di un anno del concorso alla
finanza pubblica imposto con il comma 6 dell’art. 46 di cui si discute.
L’autonomia precettiva di una
disposizione che estende il confine temporale di misure finanziarie comporta
l’onere di separata impugnativa (così, da ultimo, sentenza n. 40 del
2016). A tale onere, gravante sulle parti, supplirebbe invece impropriamente
il trasferimento delle questioni, che, perciò, devono restare limitate al
contenuto precettivo originario del comma 6 dell’art. 46 del d.l. n. 66 del
2014, come convertito.
Quanto al comma 7 dell’art. 46 del d.l.
n. 66 del 2014, esso è stato abrogato dal comma 399 dell’art. 1 della legge n.
190 del 2014, ma la norma ha trovato applicazione per l’anno 2014, in seguito
all’intesa sancita in data 29 maggio 2014: conformemente alla costante
giurisprudenza di questa Corte, non può pertanto dichiararsi, sul punto, la
cessazione della materia del contendere (ex
plurimis, e da ultimo, sentenze n. 250, n. 189, n. 149, n. 140, n. 16 e n. 8 del 2015).
4.− Ancora in via preliminare,
vanno esaminate le eccezioni sollevate dalle parti o rilevabili d’ufficio.
4.1.− Con memoria depositata in
data 10 novembre 2015, la Regione Veneto ha chiesto di valutare l’ammissibilità
della costituzione dell’Avvocatura generale dello Stato nel giudizio iscritto
al n. 63 reg. ric. del 2014, in quanto la relativa memoria, dopo aver
correttamente indicato in epigrafe il ricorso e le norme impugnate, conterrebbe
argomenti del tutto non pertinenti rispetto all’oggetto dell’impugnativa.
Secondo la difesa regionale, la memoria
di costituzione sarebbe incentrata esclusivamente sull’applicabilità alle
Regioni ad autonomia speciale (quale certamente non è la ricorrente) dei principi
di coordinamento della finanza pubblica, senza che alcuna ragione sia spesa per
contrastare le effettive censure mosse dalla ricorrente Regione Veneto.
L’eccezione non è fondata.
L’eventuale inconferenza
degli argomenti spesi rispetto al contenuto del ricorso può, al limite, minare
l’efficacia difensiva della memoria di costituzione. L’ammissibilità di
quest’ultima, tuttavia, resta ancorata esclusivamente al rispetto del termine
imposto per il deposito in cancelleria dall’art. 19, comma 3, delle norme integrative
per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale, il quale, nella specie,
risulta osservato. Né la lamentata inconferenza lede
il diritto al contraddittorio della parte ricorrente, che, fino al ventesimo
giorno libero prima dell’udienza, ben può presentare memorie illustrative: ciò,
nel caso di specie, è effettivamente avvenuto, con il deposito di memoria
integrativa in data 18 gennaio 2016.
4.2.− Con riferimento al ricorso
iscritto al reg. ric. n. 63 del 2014, la difesa statale ha dedotto la genericità
– e, dunque, l’inammissibilità – delle censure avanzate contro gli asseriti
«tagli lineari», richiamando la giurisprudenza costituzionale (in particolare
la sentenza n.
26 del 2014) che impone alle Regioni un onere di specifica dimostrazione
dell’impossibilità di esercitare le proprie funzioni, in conseguenza della
riduzione delle disponibilità finanziarie.
Anche tale eccezione non è fondata.
Un eventuale difetto di prova nel senso indicato,
infatti, comporterebbe, semmai, l’infondatezza del ricorso (tra le più recenti,
sentenze n. 250,
n. 239 e n. 89 del 2015)
e non la sua inammissibilità.
4.3.− Con riferimento al ricorso
iscritto al reg. ric. n. 10 del 2015, la difesa statale ha chiesto che esso sia
dichiarato inammissibile, in quanto le censure avanzate dalla ricorrente non
concernerebbero l’invasione della competenza regionale, intesa come menomazione
della relativa sfera di attribuzioni da parte della legge statale.
Considerata la connessione tra i due
ricorsi, qui riuniti e decisi congiuntamente, tale eccezione va esaminata dopo
la verifica d’ufficio dei presupposti di ammissibilità delle censure fondate su
parametri estranei al Titolo V della Costituzione, pure avanzate nel primo
ricorso, iscritto al reg. ric. n. 63 del 2014.
Secondo il costante indirizzo di questa
Corte (tra le ultime, ex plurimis, sentenza n. 218 del
2015), «le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da
quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo quando la violazione
denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una lesione delle
attribuzioni costituzionali delle Regioni (sentenze n. 8 del 2013 e
n. 199 del 2012)
e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una
possibile ridondanza della predetta violazione sul riparto di competenze,
assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della specifica
competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di tale
lesione» (nello stesso senso, le sentenze n. 29 del 2016,
n. 251, n. 189, n. 153, n. 140, n. 89 e n. 13 del 2015).
Orbene, nel ricorso iscritto al reg. ric.
n. 63 del 2014, la Regione Veneto ha sostenuto l’irragionevolezza delle misure
imposte dagli artt. 8, commi 4, 6 e 10, e 46, commi 6 e 7, del d.l. n. 66 del
2014, come convertito, deducendone «una diretta ricaduta sull’autonomia
regionale, che risulta limitata nella propria capacità organizzativa e
finanziaria». Ed ha anche indicato una propria specifica funzione ostacolata
dai «tagli lineari» censurati, individuata nell’assistenza sociale.
Peraltro, con la memoria depositata in
data 18 gennaio 2016, la Regione Veneto ha indicato ulteriori ambiti – quali la
sistemazione degli edifici scolastici ed i sussidi per garantire il diritto
allo studio, rientranti nelle proprie attribuzioni costituzionali – nei quali
la spesa prevista nel proprio bilancio si sarebbe più che dimezzata dal 2014 al
2015. Ciò sarebbe effetto delle riduzioni imposte dalle manovre finanziarie
succedutesi nel tempo, rispetto alle quali le norme impugnate costituirebbero
uno degli ultimi tasselli. Ha, inoltre, sottolineato che le norme censurate
sarebbero state approvate senza alcuna previa verifica di sostenibilità per
quelle Regioni che hanno da tempo adottato misure di contenimento della spesa,
già riducendola a livelli non ulteriormente comprimibili.
Può, dunque, ritenersi assolto l’onere
di necessaria indicazione, non solo della specifica competenza regionale
asseritamente offesa, ma anche delle ragioni della lesione lamentata.
Con il secondo ricorso, iscritto al reg.
ric. n. 10 del 2015, la Regione Veneto ha censurato la repentina riduzione del
termine per il raggiungimento di un’intesa che avrebbe evitato l’applicazione
di criteri di riparto ritenuti per essa particolarmente penalizzanti. Ha perciò
dedotto la violazione degli artt. 3 e 77 Cost., che ridonderebbe sulla sfera
costituzionalmente garantita alla Regione dagli artt. 117, terzo e quarto
comma, e 119 Cost., «riflettendosi sul livello di finanziamento delle funzioni
regionali».
Con riferimento all’asserita violazione
dell’art. 3 Cost., può dirsi sufficientemente argomentata la ridondanza della
lamentata violazione sulla sfera delle competenze regionali. Assume la
ricorrente, infatti, che la repentina ed unilaterale riduzione del termine per
la conclusione dell’intesa avrebbe reso impossibile, di fatto, il
raggiungimento di un accordo diretto ad evitare, attraverso l’autocoordinamento regionale, l’applicazione dei criteri
"sussidiari” di riparto stabiliti dall’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del
2014, come convertito.
La stessa motivazione, invece, in quanto
riferita alla prospettata violazione dell’art. 77 Cost. non è idonea a superare
l’esame preliminare di ammissibilità. Il parametro da ultimo richiamato,
infatti, è evocato, per le parti che qui interessano, con un laconico – e
perciò del tutto insufficiente – riferimento all’asserita carenza di «alcun
reale presupposto di necessità e urgenza» a sostegno dell’intervento normativo
del Governo.
Limitatamente a tale profilo di censura,
dunque, l’eccezione di inammissibilità prospettata dalla difesa statale deve
essere accolta.
4.4.− Sempre in via preliminare,
con riferimento al ricorso iscritto al reg. ric. n. 10 del 2015, va rilevato
che la ricorrente, dopo aver enunciato i motivi a fondamento dell’impugnativa
per violazione degli artt. 3 e 77 Cost., si è limitata ad affermare, per
argomentare la prospettata violazione anche dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
che la disposizione censurata si pone in contrasto «con un corretto e leale
esercizio della funzione di coordinamento della finanza pubblica», senza in
alcun modo specificarne le ragioni.
Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, i termini delle questioni di legittimità costituzionale debbono
essere ben identificati, dovendo il ricorrente individuare le disposizioni
impugnate, i parametri evocati e le ragioni dei dubbi di legittimità
costituzionale (ex multis, tra le più
recenti, sentenze n.
40 e n. 3
del 2016, n.
273, n. 176
e n. 131 del
2015). Si è, infatti, più volte chiarito che l’esigenza di un’adeguata
motivazione a fondamento della richiesta declaratoria di illegittimità
costituzionale si pone in termini perfino più pregnanti nei giudizi proposti in
via principale rispetto a quelli instaurati in via incidentale (ex plurimis,
sentenze n. 251,
n. 233, n. 218, n. 142, n. 82 e n. 32 del 2015).
Ne deriva l’inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 117,
terzo comma, Cost.
4.5.− Va infine rilevato, ancora
in via preliminare, che, con memoria depositata in data 18 gennaio 2016 (nel
giudizio iscritto al reg. ric. n. 10 del 2015), la ricorrente ha illustrato un
asserito «secondo profilo censurato nel ricorso», in realtà non presente nelle
proprie originarie prospettazioni.
Tale nuovo profilo – incentrato sulla
violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., nonché del
principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost. – si riferisce al
nuovo obbligo imposto dal comma 7-ter
dell’art. 46 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito – aggiunto dall’art. 42,
comma 1, seconda parte, del d.l. n. 133 del 2014, come convertito – di
attestare l’effettuazione delle spese di cui al precedente comma 7-bis, nell’ambito della certificazione
del patto di stabilità 2014, accompagnato dalla previsione che, qualora non
risultino integralmente realizzate, esse siano versate al bilancio dello Stato
per la quota corrispondente.
In realtà, il ricorso originario è
limitato all’impugnativa dell’art. 42, comma 1, primo periodo, del d.l. n. 133
del 2014, come convertito, nella sola parte in cui ha previsto, per l’anno
2014, la riduzione repentina di trenta giorni del termine originariamente
fissato per il raggiungimento dell’intesa tra le Regioni.
La censura relativa all’art. 42, comma
1, seconda parte, del d.l. n. 133 del 2014, come convertito, viene introdotta, in
questo giudizio, solo con la memoria del 18 gennaio 2016, determinando così un
inammissibile ampliamento del thema decidendum.
Per costante giurisprudenza di questa
Corte, l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via principale è limitato
ai parametri e alle questioni indicate nel ricorso introduttivo. La parte
ricorrente non può introdurre nuove censure dopo l’esaurimento del termine
perentorio assegnato per impugnare in via principale le leggi (da ultimo, sentenza n. 153 del
2015), e quindi non può né modificare né integrare la domanda iniziale,
dopo il decorso del termine di decadenza per la proposizione del ricorso, con
memorie depositate in prossimità dell’udienza (sentenze n. 108 del 2012,
n. 169 del 2010,
n. 298 del 2009
e n. 229 del
2001).
5.− Nel merito, vanno decise,
anzitutto, le questioni sollevate – in riferimento agli artt. 3, 117, terzo e
quarto comma, 119, terzo e quinto comma, Cost., e al principio di leale
collaborazione di cui all’art. 120 Cost. – con il ricorso iscritto al reg. ric.
n. 63 del 2014, aventi ad oggetto gli artt. 8, commi 4, 6 e 10, e 46, commi 6 e
7, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
5.1.− Una prima censura concerne
la violazione del principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., che la
ricorrente ricollega al «carattere meramente lineare» della riduzione imposta
dall’art. 8, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, alle spese per
acquisti di beni e servizi, in ogni settore e senza alcuna distinzione
qualitativa tra «spesa buona» e «spesa cattiva», attraverso una misura che
avrebbe carattere assolutamente generico e, dunque, irrazionale. A parere della
ricorrente, un corretto coordinamento finanziario dovrebbe essere mirato a
limitare innanzitutto la spesa inefficiente, e non quella diretta a finanziare
i servizi, a tutela dei diritti costituzionalmente garantiti.
La censura non è fondata.
La ricorrente imputa all’applicazione
della disposizione un risultato – il taglio «lineare», ossia di pari importo,
in ogni ambito di spesa – che la disposizione stessa, per il suo tenore
testuale, non impone in alcun modo.
La disposizione in questione, infatti,
si limita a prescrivere una riduzione di spesa per acquisti di beni e servizi,
in ogni settore e per un ammontare complessivo, senza indicare dettagliatamente
la misura dei risparmi da conseguire in ciascun singolo ambito.
Essa non impone di effettuare riduzioni
di identico importo in tutti i settori, ma semplicemente richiede di
intervenire in ciascuno di questi, limitandosi ad individuare un importo
complessivo di risparmio, e lasciando alle Regioni, in primo luogo, il potere
di decidere l’entità dell’intervento in ogni singolo ambito.
La disposizione impugnata, dunque, non
esclude affatto che la riduzione avvenga prevedendo tagli maggiori proprio nei
settori in cui la spesa sia risultata improduttiva, eventualmente evitando di
coinvolgere in modo rilevante, e nella medesima misura, gli ambiti in cui la
spesa si sia rivelata, al contrario, efficiente.
Né questa conclusione risulta
contraddetta dalla previsione – contenuta nel comma 10 dell’art. 8, pure
impugnato – della possibilità, per le Regioni, di adottare misure alternative
di contenimento della spesa corrente, al fine di conseguire risparmi comunque
non inferiori agli importi indicati. Anche tale disposizione si sottrae al
prospettato contrasto con l’art. 3 Cost., giacché, a ben vedere, nulla aggiunge
e nulla toglie al potere regionale, riconosciuto dal comma 4 dell’art. 8 del
d.l. n. 66 del 2014, come convertito, di modulare opportunamente i risparmi di
spesa nei diversi settori.
Analogo vizio di irragionevolezza
inficerebbe, nella prospettiva della ricorrente, la previsione – contenuta
nell’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014 – dei criteri "sussidiari”
(costituiti dal PIL regionale e dalla popolazione residente) ai quali lo Stato,
in mancanza del raggiungimento dell’intesa tra le Regioni nei termini
assegnati, potrebbe ricorrere per individuare autonomamente gli obiettivi di
riduzione della spesa e i relativi ambiti e misure.
Poiché, in tesi, le Regioni con un PIL
più elevato sarebbero anche quelle più efficienti sul lato della spesa
pubblica, ad avviso della ricorrente il ricorso a tali criteri, per modulare le
riduzioni di spesa e imporle alle singole Regioni, finirebbe per premiare
indebitamente le realtà regionali inefficienti, penalizzando, invece, quelle
rivelatesi virtuose.
Neppure tale censura è fondata.
In primo luogo, l’applicazione dei
criteri ora indicati è appunto sussidiaria, cioè dettata solo per il caso di
mancato raggiungimento dell’intesa in sede di autocoordinamento
tra le Regioni.
Del resto, l’eventuale inerzia regionale
nel raggiungimento dell’intesa non può impedire il dispiegarsi effettivo della
funzione di coordinamento della finanza pubblica.
La costante giurisprudenza di questa
Corte, infatti, riconosce un carattere finalistico al coordinamento della
finanza pubblica (sentenze n. 229 e n. 122 del 2011,
n. 370 del 2010,
n. 121 del 2007,
n. 35 del 2005),
che impone di rendere effettivo l’esercizio di tale funzione: proprio in questa
prospettiva, la procedura disegnata dalla disposizione impugnata – che lascia
l’iniziativa alle Regioni, con la previsione di un intervento solo successivo
dello Stato – è idonea a garantire, al tempo stesso, i necessari spazi
all’autonomia regionale e l’effettività della funzione di coordinamento.
Questa Corte, d’altronde, pur
riconoscendo l’inevitabile incidenza – sull’autonomia finanziaria delle Regioni
– del concorso ad esse imposto alla finanza pubblica, ha ripetutamente
affermato che è necessario, ma anche sufficiente, «contemperare le ragioni
dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni
costituzionalmente attribuite» alle autonomie (sentenza n. 139 del
2012), garantendo il loro pieno coinvolgimento (sentenza n. 88 del
2014): ed è appunto ciò che avviene in base alla disposizione censurata,
sotto tali aspetti in linea con la giurisprudenza di questa Corte.
In secondo luogo, una volta assicurato
il coinvolgimento regionale – attraverso l’attribuzione, in sede di autocoordinamento tra le Regioni, della possibilità, entro
un termine, di un’autonoma individuazione della distribuzione anche
territoriale del sacrificio e di una definizione degli importi delle riduzioni
– non appare irragionevole, in caso di inutile decorso di quel termine, la
previsione dell’applicazione, da parte statale, di idonei criteri sostitutivi.
Nella specie, la disposizione impugnata
stabilisce che, in assenza di un’intesa ed entro venti giorni dalla scadenza
dei termini per questa previsti, con decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri, previa delibera del Consiglio dei ministri, gli importi in riduzione
siano assegnati ad ambiti di spesa ed attribuiti alle singole Regioni «tenendo
anche conto del Pil e della popolazione residente».
Come si evince dal testo della
disposizione, i due criteri censurati, cui sono imputati effetti lesivi, non
devono necessariamente operare in via esclusiva. Ciò, di per sé, priva di
pregio la prospettazione della ricorrente. In ogni caso, i criteri del PIL
regionale e della popolazione residente, operando congiuntamente, costituiscono
un indice non implausibile della capacità di ciascuna Regione di assorbire la
riduzione di risorse, con minore impatto sul livello dei servizi da fornire ai
cittadini.
Anche sotto questo profilo, le
disposizioni impugnate (commi 6 e 7 dell’art. 46) non appaiono intrinsecamente
irragionevoli.
5.2.− Con un secondo motivo, le disposizioni sono censurate perché
avrebbero oltrepassato i limiti imposti, dalla giurisprudenza costituzionale,
all’esercizio della funzione statale di coordinamento della finanza pubblica,
di cui all’art 117, terzo comma, Cost.
La censura, in particolare, si articola
su due profili.
5.2.1.− In primo luogo, secondo la
ricorrente, la previsione di un’intesa non potrebbe servire a qualificare le
misure dettate dall’art. 8 del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, in termini
di "coordinamento” della finanza pubblica, in quanto verrebbe in rilievo, piuttosto,
un "contenimento” della spesa, privo dell’indicazione di parametri idonei a
consentire una verifica di sostenibilità delle riduzioni imposte, rispetto
all’erogazione dei servizi inerenti a fondamentali diritti civili e sociali.
La ricorrente aggiunge, per rafforzare
la tesi sostenuta, che l’inciso «in ragione di anno», contenuto nel comma 4 del
citato art. 8, dovrebbe intendersi nel senso che l’obiettivo fissato per il
2014 sarebbe riferito a otto mesi (considerata la data di entrata in vigore del
decreto-legge), e andrebbe perciò rideterminato in aumento percentuale per gli
anni successivi, raggiungendo un importo quasi doppio.
La censura non è fondata.
Per costante giurisprudenza costituzionale,
l’imposizione di risparmi di spesa rientra a pieno titolo nell’esercizio della
funzione di coordinamento della finanza pubblica, attribuita alla competenza
statale dall’art. 117, terzo comma, Cost.
Come si legge, da ultimo, nella sentenza n. 218 del
2015, sin dalle prime decisioni rese all’indomani della riforma del Titolo
V della Parte II della Costituzione, questa Corte ha ricondotto le disposizioni
dettate dal legislatore statale in vista del contenimento della spesa corrente
degli enti territoriali alle finalità di coordinamento della finanza pubblica,
sull’assunto che «[n]on è contestabile il potere del legislatore statale di
imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse
ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli
alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in
limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti» (sentenza n. 36 del
2004). E ciò in quanto «il contenimento del tasso di crescita della spesa
corrente rispetto agli anni precedenti costituisce pur sempre uno degli
strumenti principali per la realizzazione degli obiettivi di riequilibrio
finanziario», essendo «indicato fin dall’inizio fra le azioni attraverso le
quali deve perseguirsi la riduzione del disavanzo annuo» (così, ancora, la sentenza n. 36 del
2004).
5.2.2.− Secondo la ricorrente,
ancora, la misura introdotta con l’art. 8, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014,
come convertito, risulterebbe priva di un termine finale, in quanto la norma si
limita a stabilire che «[l]e stesse riduzioni si applicano, in ragione d’anno,
a decorrere dal 2015».
Ciò posto, è utile ricordare che,
secondo il costante indirizzo di questa Corte, norme statali che fissano limiti
alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla condizione, tra
l’altro, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima,
intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non
generale, della spesa corrente (ex multis,
tra le più recenti, sentenze n. 218 e n. 189 del 2015;
nello stesso senso, sentenze n. 44 del 2014,
n. 236 e n. 229 del 2013,
n. 217, n. 193 e n. 148 del 2012,
n. 182 del 2011).
Orbene, nel caso in esame, le misure
finanziarie adottate dallo Stato rispettano il canone della transitorietà.
Per quelle introdotte dall’art. 46,
commi 6 e 7, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, è tracciato
espressamente un orizzonte temporale definito. E, a differenza di quanto
supposto dalla ricorrente, il rinvio operato dall’art. 8, comma 6, del d.l. n.
66 del 2014, come convertito, proprio al successivo art. 46 (in particolare al
comma 6) del medesimo d.l., è da ritenere idoneo a stabilire un dies ad quem anche
per i tagli di spesa imposti dal comma 4 del citato art. 8.
Il riferimento alle «modalità di cui
all’art. 46» appare, infatti, di tale latitudine da consentire di includere,
nel rinvio, anche le determinazioni temporali ivi contenute, le quali abbracciano – nella versione originaria,
qui scrutinata, dell’art. 8, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito
– il periodo 2014-2017.
Tale interpretazione è, peraltro, anche
l’unica possibile, poiché, se così non fosse, la protrazione all’infinito della
riduzione della spesa, nella misura annuale prescritta, porterebbe al
paradossale risultato di "azzerare” sostanzialmente, sul lungo periodo, le
uscite per gli ambiti di spesa individuati: una conseguenza, questa, del tutto
estranea alla logica dell’intervento statale.
5.3.− Una terza, ed ultima,
censura è sollevata in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 119,
terzo e quinto comma, e 120 Cost., ed è articolata in quattro profili.
5.3.1.− Viene, in primo luogo,
prospettata un’indebita incisione dell’autonomia di spesa della Regione e,
dunque, della relativa funzione legislativa, da esercitare nel rispetto degli
equilibri di un quadro finanziario che verrebbe illegittimamente alterato.
La questione non è fondata.
Per costante giurisprudenza
costituzionale (sentenze n. 236 e n. 63 del 2013
e n. 151 del
2012), la funzione di coordinamento finanziario prevale su tutte le altre
competenze regionali, anche esclusive. Nella sentenza n. 250 del
2015, questa Corte ha precisato che l’incidenza dei principi statali di
coordinamento è legittima, sia sull’autonomia di spesa delle Regioni (già
prima, ex plurimis,
sentenze n. 91
del 2011, n.
27 del 2010, n.
456 e n. 244
del 2005), sia su ogni tipo di potestà legislativa regionale (sentenza n. 151 del
2012).
Se, come è stato accertato, le
disposizioni impugnate dettano principi fondamentali di coordinamento della
finanza pubblica – e sono ascrivibili, a tale titolo, alla competenza
legislativa concorrente dello Stato – l’eventuale loro impatto sull’autonomia
finanziaria delle Regioni si traduce in una «circostanza di fatto come tale non
incidente sul piano della legittimità costituzionale» (sentenze n. 236 del 2013,
n. 40 del 2010,
n. 169 del 2007
e n. 36 del 2004).
Sarebbe spettato, semmai, alla Regione
ricorrente dimostrare l’assoluta impossibilità, conseguente all’applicazione
delle misure finanziarie in esame, di svolgere le funzioni attribuitele
dalla Costituzione, come da costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 29 del 2016,
n. 252 e n. 239 del 2015,
n. 26 del 2014).
Nel caso in esame, tale onere della
prova non può tuttavia considerarsi assolto, in quanto, pur avendo descritto
ampie riduzioni di spesa in alcuni, pur fondamentali, ambiti (assistenza
sociale e istruzione), la ricorrente non ha dimostrato l’oggettiva
impossibilità di offrire un adeguato livello di servizio rispetto ai bisogni
della popolazione.
Nel dichiarare non fondata la questione,
questa Corte osserva, peraltro, che non erra la Regione ricorrente nel
sottolineare l’utilità della determinazione, da parte dello Stato, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera m),
Cost., dei livelli essenziali delle prestazioni per i servizi concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale (in tal senso, già sentenza n. 273 del
2013). Un tale intervento, che deve svolgersi «attraverso moduli di leale
collaborazione tra Stato e Regione» (sentenza n. 297 del
2012), offrirebbe, infatti, alle Regioni un significativo criterio di
orientamento nell’individuazione degli obiettivi e degli ambiti di riduzione
delle risorse impiegate, segnando il limite al di sotto del quale la spesa –
sempreché resa efficiente – non sarebbe ulteriormente comprimibile.
5.3.2.− La Regione ricorrente
lamenta che l’applicazione dei criteri del PIL regionale e della popolazione
residente indebolirebbe «la posizione "contrattuale” delle Regioni con un Pil
più elevato», in quanto l’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, non esclude che questi ultimi possano essere utilizzati dal Governo
come criteri decisamente prevalenti: in tal modo, le Regioni con un PIL più
elevato, risultando esposte – in caso di mancata intesa – al rischio di un
maggiore impatto della riduzione, vedrebbero diminuite le loro possibilità di
contrastare le pretese avanzate dalle Regioni con un PIL inferiore, che
potrebbero imporre, in sede di autocoordinamento, una
ripartizione dei tagli a loro più favorevole.
La censura non è fondata.
Essa lamenta una conseguenza di mero
fatto derivante dall’applicazione delle norme impugnate e, appunto perché tale,
inidonea a configurare un contrasto della disposizione impugnata con gli artt.
119, terzo e quinto comma, e 120 Cost. (sentenza n. 8 del
2016).
5.3.3.− Secondo la Regione Veneto,
ancora, i criteri del PIL regionale e della popolazione residente non presenterebbero
«un’attinenza costituzionalmente corretta con lo scopo della norma»,
indirizzata al contenimento della spesa regionale.
Essi realizzerebbero, piuttosto, un
effetto perequativo implicito, in contrasto con i requisiti fissati dal terzo e
dal quinto comma dell’art. 119 Cost. Quest’ultima disposizione prevede, come
unico criterio perequativo ordinario tra le autonomie territoriali, quello
della capacità fiscale, calcolata in base al gettito dei tributi di competenza
regionale; mentre il PIL regionale sarebbe quantificato secondo indici diversi,
che non si tradurrebbero – sempre ed automaticamente – in disponibilità di
risorse per le Regioni.
L’applicazione del criterio del PIL
regionale integrerebbe, così, una misura di perequazione implicita, in quanto
consentirebbe allo Stato di incamerare risorse spettanti agli enti
territoriali, con una generica assunzione in bilancio e senza destinazione di
«risorse aggiuntive» in favore di «determinate Regioni», come invece richiesto
dalla norma costituzionale.
La ricorrente richiama la sentenza n. 79 del
2014 di questa Corte, pur riconoscendo che essa riguardava un caso diverso,
ossia una riduzione di trasferimenti statali alle Regioni, applicata in misura
proporzionale alle spese sostenute per i consumi intermedi, considerate
manifestazione di "ricchezza”.
La questione non è fondata.
Nel caso scrutinato dalla sentenza n. 79 del
2014, infatti, l’effetto perequativo, implicito ma evidente, discendeva dal
collegamento, espresso ed esclusivo, della riduzione dei trasferimenti statali
all’ammontare delle spese per i consumi intermedi, intese quali manifestazioni,
pur indirette, di ricchezza delle Regioni.
Nel caso qui in esame, invece, le
disposizioni impugnate impongono alle Regioni semplicemente una riduzione di
spesa, sebbene con eventuale rideterminazione, evidentemente in diminuzione,
dei livelli di finanziamento statale degli ambiti nei quali si è deciso il
taglio.
Nel caso deciso con la richiamata
sentenza, dunque, veniva in rilievo una relazione diretta e certa tra
l’ammontare della spesa per consumi intermedi e la misura della riduzione dei
trasferimenti statali: a spesa più alta per consumi intermedi corrispondeva una
maggiore riduzione dei trasferimenti statali, fino al punto di costringere
quelle Regioni, che avessero registrato uscite superiori ai trasferimenti
statali dovuti, a restituire al bilancio dello Stato le somme residue, senza
alcuna precisazione circa la destinazione finale di queste. L’effetto
complessivo risultava indubbiamente perequativo, in quanto determinava una
riduzione di trasferimenti erariali per le Regioni considerate più "ricche”,
con un conseguente riequilibrio di risorse disponibili, al di fuori dei
meccanismi previsti dall’art. 119 Cost.
Nel caso oggetto del presente giudizio,
invece, l’intervento statale non comporta, neppure indirettamente, una
riduzione degli squilibri tra le Regioni, mirando piuttosto a coinvolgere tutti
gli enti nell’opera di risanamento, secondo criteri di "progressività” dello
sforzo, proporzionati alla dimensione del PIL e della popolazione, senza alcun
effetto di livellamento: le "differenze di ricchezza” già esistenti, calcolate
applicando congiuntamente (anche) il criterio del PIL in rapporto alla
popolazione residente, non vengono ridotte, ma semplicemente assunte come base
di calcolo – peraltro eventuale, provvisoria e comunque non esclusiva,
rimanendo possibile operare determinazioni fondate su parametri diversi – per
riduzioni di spesa imposte a tutte le Regioni, appunto in proporzione ai
dislivelli già esistenti.
Da questo punto di vista, inoltre, l’eventuale
rideterminazione dei livelli di finanziamento – evidentemente degli ambiti
individuati come oggetto delle riduzioni di spesa – appare conseguenza
necessitata, oltre che del tutto ragionevole.
5.3.4.− La Regione Veneto lamenta,
infine, la violazione del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120
Cost.
Anche tale questione non è fondata.
È ricorrente, nella giurisprudenza di
questa Corte, l’affermazione secondo cui l’esercizio della funzione legislativa
non è soggetto alle procedure di leale collaborazione (ex plurimis, sentenze n. 63 del 2013,
n. 112 del 2010,
n. 159 del 2008
e n. 387 del
2007), né tali procedure si impongono al procedimento legislativo, ove ciò
non sia specificamente previsto (sentenza n. 43 del
2016).
In ogni caso, si deve ribadire che la
giurisprudenza costituzionale, pur riconoscendo l’inevitabile incidenza –
sull’autonomia finanziaria delle Regioni – del concorso ad esse imposto alla
finanza pubblica, ha costantemente affermato che è necessario, ma anche
sufficiente, «contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date
competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite» alle
autonomie (sentenza
n. 139 del 2012), garantendo il loro pieno coinvolgimento (sentenza n. 88 del
2014).
E si è già evidenziato come tale
coinvolgimento è garantito dalle disposizioni censurate, che assicurano, nella
fase iniziale, un potere di determinazione autonoma, da parte delle Regioni, in
ordine alla modulazione delle necessarie riduzioni nei diversi ambiti di spesa.
6.− Le questioni di legittimità
costituzionale sollevate con il secondo ricorso dalla Regione Veneto (iscritto
al reg. ric. n. 10 del 2015) riguardano l’art. 42, comma 1, prima parte, del
d.l. n. 133 del 2014, come convertito, e si fondano, per i profili che hanno
superato il preventivo vaglio di ammissibilità, sulla prospettata violazione
dell’art. 3 Cost. – la cui violazione ridonderebbe sulla sfera
costituzionalmente garantita alla Regione dagli artt. 117, terzo e quarto
comma, e 119 Cost. – e del principio di leale collaborazione di cui all’art.
120 Cost.
La disposizione in esame, in relazione
al contributo alla finanza pubblica delle Regioni a statuto ordinario già
disposto dall’art. 46, commi 6 e 7, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito,
ha anticipato, dal 31 ottobre al 30 settembre 2014, il termine originariamente
previsto per l’intesa da raggiungere, tra le Regioni, in ordine al riparto
degli importi indicati e all’individuazione degli ambiti in cui effettuare la
riduzione.
Tale anticipazione, a giudizio della
ricorrente, avrebbe reso il termine eccessivamente breve, in contrasto con il
canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. La lesione di tale principio
ridonderebbe sulla sfera costituzionalmente garantita alla Regione dagli artt.
117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., riflettendosi sul livello di
finanziamento delle funzioni regionali, e si porrebbe in contrasto anche
con il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
La questione non è fondata.
Va premesso, in fatto, che il termine
così ridotto è decorso senza che l’intesa in sede di autocoordinamento
tra le Regioni sia stata raggiunta. Lo Stato non si è, tuttavia, avvalso del
potere, riconosciutogli dall’art. 46, comma 6, del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito, di ricorrere ai criteri "sussidiari” e quindi di assegnare, ad
ambiti di spesa specificamente individuati, gli importi del contributo alla
finanza pubblica, previa attribuzione alle singole Regioni, tenendo anche conto
del PIL regionale e della popolazione residente.
In data 26 febbraio 2015, a termini
(originario e ridotto) ormai trascorsi, è stata raggiunta un’intesa, in sede di
Conferenza permanente Stato-Regioni, su un’ipotesi di accordo complessivo, per
la distribuzione sia del contributo originario di 750 milioni annui, sia
dell’ulteriore contributo di 3.452 milioni annui, introdotto, per gli anni dal
2015 al 2018, dall’art. 1, comma 398, lettera c), della legge n. 190 del 2014 (oggetto di autonomo ricorso
proposto dalla Regione Veneto, distinto e successivo a quello qui in esame).
Ora, in primo luogo, sta di fatto che,
nonostante la scadenza del termine repentinamente ridotto, lo Stato non ha
applicato, per sua scelta, i criteri "sussidiari”, e la Regione Veneto non ne
ha quindi subìto i danni paventati. Ciò non esclude la persistenza del suo
interesse alla decisione sulla legittimità costituzionale della disposizione
impugnata, poiché dall’eventuale dichiarazione d’illegittimità costituzionale
potrebbe derivare la reintegrazione dell’ordine costituzionale delle competenze
asseritamente violato (sentenza n. 74 del
2001).
La Regione Veneto, inoltre, non si è
neppure conformata spontaneamente all’intervento legislativo (in quanto
l’intesa non è stata raggiunta entro il 30 settembre 2014), ma ha semplicemente
preso atto della scelta dello Stato di non esercitare il potere attribuitogli
dalla legge.
Ciò posto, va evidenziato che il termine
per la stipulazione dell’intesa pendeva sin dalla data di pubblicazione del
d.l. n. 66 del 2014 (ossia dal 24 aprile 2014) e che la norma impugnata non lo
ha affatto azzerato (come sarebbe accaduto se l’avesse fatto coincidere con la
data di entrata in vigore della disposizione sopravvenuta), ma ridotto di
trenta giorni, lasciando ancora un margine di diciassette giorni – ulteriori
rispetto ai mesi già decorsi – per raggiungere un accordo.
Innestandosi, dunque, su un termine
complessivamente adeguato, la riduzione introdotta dalla norma impugnata non si
rivela affetta dal vizio prospettato. Non può considerarsi irragionevolmente
breve il termine residuato dalla pur improvvisa riduzione, tenuto anche conto
del periodo precedente e della dimostrata capacità delle Regioni di concludere
analoghe intese in tempi ristretti (come accaduto per quella relativa all’anno
2014, stipulata in data 29 maggio 2014, a fronte di un termine decorrente dal
24 aprile 2014).
La ritenuta non lesività per le
competenze regionali, nel caso di specie e nelle condizioni date, della
riduzione del termine, non esime dall’avvertire che interventi statali, i quali
modifichino repentinamente l’equilibrio del rapporto tra autocoordinamento
regionale e supplenza statale nel delicato settore dei contributi regionali
alla finanza pubblica, restano ovviamente soggetti allo stretto scrutinio di
questa Corte, se e in quanto investita del relativo giudizio.
Infine, non è fondata neppure la
questione sollevata con riferimento all’art. 120 Cost., dal momento che, come
già illustrato in precedenza, «il principio di leale collaborazione, ove non
specificamente previsto, non si impone nel procedimento legislativo» (sentenza n. 43 del
2016).
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione
delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi
indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 1,
del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e
per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, promosse, in
riferimento agli artt. 77 e 117, terzo comma, della Costituzione, dalla Regione
Veneto (reg. ric. n. 10 del 2015);
2) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 4,
6 e 10, e 46, commi 6 e 7, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure
urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89, promosse,
in riferimento agli artt. 3, 117, terzo e quarto comma, 119, terzo e quinto
comma, e al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., dalla
Regione Veneto (reg. ric. n. 63 del 2014);
3) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 1,
del d.l. n. 133 del 2014, come convertito, promosse, in riferimento all’art. 3
Cost. e al principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost., dalla
Regione Veneto (reg. ric. n. 10 del 2015).
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2016.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 marzo
2016.