SENTENZA N. 108
ANNO 2012
Commento alla decisione di
Cristina Bertolino
Nuovi spazi di intervento per le Regioni in materia di«professioni» e «formazione professionale»?
per gentile concessione del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, commi 2, 3 e 5; 5, commi 3, 4 e 5; 6, comma 4, della legge della Regione Toscana 6 maggio 2011, n. 18 (Norme in materia di panificazione), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 12-18 luglio 2011, depositato in cancelleria il 20 luglio 2011, ed iscritto al n. 71 del registro ricorsi 2011.
Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;
udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2012 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato dello Stato Paolo Marchini per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Toscana.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 12-18 luglio 2011 e depositato il successivo 20 luglio (reg. ric. n. 71 del 2011) il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, commi 2, 3 e 5; 5, commi 3, 4 e 5; 6, comma 4, della legge della Regione Toscana 6 maggio 2011, n. 18 (Norme in materia di panificazione), in riferimento all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
La legge impugnata si ricollega dichiaratamente all’art. 4 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, norma recante disposizioni urgenti per la liberalizzazione dell’attività di produzione di pane, e viene censurata nella parte in cui disciplina la posizione del responsabile dell’attività produttiva.
Secondo l’art. 4 del d.l. n. 223 del 2006 «L’impianto di un nuovo panificio ed il trasferimento o la trasformazione di panifici esistenti sono soggetti a dichiarazione di inizio attività», che «deve essere corredata (…) dall’indicazione del nominativo del responsabile dell’attività produttiva, che assicura l’utilizzo di materie prime in conformità alle norme vigenti, l’osservanza delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza dei luoghi di lavoro e la qualità del prodotto finito».
Dal canto suo, l’art. 3, comma 2, impugnato assoggetta il responsabile dell’attività produttiva a formazione obbligatoria entro il termine di sei mesi dall’indicazione del suo nominativo per mezzo della denuncia di inizio attività (oggi SCIA, segnalazione certificata di inizio attività) (termine che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, diviene di dodici mesi per chi abbia maturato esperienza professionale) e dispone che la formazione sia garantita dal datore di lavoro entro il medesimo termine.
Il comma 3 dello stesso articolo prevede l’esenzione dall’obbligo a favore di chi abbia già conseguito, in materie attinenti all’attività di panificazione un diploma, un attestato di qualifica, o la qualifica professionale a seguito di apprendistato, ovvero abbia prestato attività lavorativa nel settore.
Il comma 5 fa seguire la formazione iniziale da un’attività periodica di aggiornamento professionale della durata minima di venti ore.
Infine, l’art. 5, commi 3, 4 e 5, commina una sanzione amministrativa pecuniaria al responsabile dell’attività produttiva che non ottemperi alle precedenti prescrizioni.
Lo Stato ritiene che tali disposizioni invadano la sua competenza a determinare i principi fondamentali della materia delle “professioni”, che ha carattere concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. In particolare, sarebbe leso il principio formulato per mezzo dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006, «il quale, nel disciplinare la figura del responsabile dell’attività produttiva, non prevede l’obbligo di alcun requisito, ma solamente la necessità dell’indicazione del nominativo dello stesso contestualmente alla segnalazione di inizio attività».
Le norme impugnate recherebbero, invece, l’indicazione di specifici requisiti per l’esercizio della professione di responsabile dell’attività produttiva, costituiti dalla formazione iniziale e dall’aggiornamento periodico, così esulando dalla sfera di competenza legislativa regionale.
2.– Si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La Regione ritiene che le disposizioni impugnate siano ascrivibili alla materia, affidata alla propria potestà legislativa residuale, concernente la formazione professionale e l’“attività produttiva” e a quella concorrente in tema di “igiene e sanità”, giacché riguardano l’acquisizione di competenze nel settore della panificazione, anche allo scopo di garantire la qualità del prodotto.
Infatti, prosegue la Regione, ai fini dell’esercizio dell’attività professionale è sufficiente, secondo quanto prevede la normativa statale, la sola indicazione del nominativo del responsabile, cui tale attività non viene preclusa per effetto dell’obbligo formativo e di aggiornamento: l’inadempimento di quest’ultimo comporta non già un divieto di operare, ma la sola applicazione di una sanzione pecuniaria.
3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, l’Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
In particolare, l’Avvocatura ai rilievi contenuti nel ricorso aggiunge che, in violazione degli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della L. 5 giugno 2003, n. 131), i commi 2 e 3 dell’art. 3 della legge regionale «si pongono inoltre in contrasto con altri due principi fondamentali»: quello della libertà professionale e quello della tutela della concorrenza e del mercato.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, commi 2, 3 e 5; 5, commi 3, 4 e 5; 6, comma 4, della legge della Regione Toscana 6 maggio 2011, n. 18 (Norme in materia di panificazione), in riferimento all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
La legge impugnata si ricollega all’art. 4 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, norma recante disposizioni urgenti per la liberalizzazione dell’attività di produzione di pane. Con tale disposizione sono stati assoggettati a denuncia di inizio attività (espressione da intendersi oggi sostituita con quella di SCIA, segnalazione certificata di inizio attività, ai sensi dell’art. 49, comma 4-ter, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78) l’apertura, il trasferimento e la trasformazione del panificio, aggiungendo (comma 2) che la segnalazione va corredata, tra l’altro, con l’indicazione del nominativo del responsabile dell’attività produttiva, che assicura l’utilizzazione di materie prime in conformità alle norme vigenti, l’osservanza delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza dei luoghi di lavoro e la qualità del prodotto finito.
Come è stato indicato nel preambolo, la legge regionale in questione ha inteso «valorizzare l’attività di panificazione con la previsione, per i responsabili dell’attività produttiva, della partecipazione obbligatoria a corsi di formazione e di aggiornamento professionale»; a tal fine, l’art. 3, comma 2, della legge della Regione Toscana n. 18 del 2011 prevede che il responsabile dell’attività produttiva sia soggetto a formazione obbligatoria entro il termine massimo di sei mesi dalla segnalazione certificata di inizio attività, e che il datore di lavoro ne garantisca tale formazione nel medesimo termine, salvo che ricorrano le condizioni esimenti indicate al successivo comma 3.
L’art. 6, comma 4, estende, a talune condizioni, il termine sopra indicato a dodici mesi.
L’art. 3, comma 5, introduce l’obbligo di aggiornamento professionale con cadenza quinquennale, mentre l’art. 5, commi 3, 4 e 5, commina una sanzione amministrativa pecuniaria a coloro che si siano sottratti agli obblighi appena ricordati.
Il ricorrente reputa che tali disposizioni individuino la figura professionale del responsabile dell’attività produttiva del panificio e costituiscano pertanto una violazione dei principi fondamentali della materia legislativa, a riparto concorrente, delle “professioni” (art. 117, terzo comma, Cost.), la cui formulazione è riservata allo Stato. In particolare, esse si porrebbero in contrasto con la norma interposta contenuta nell’art. 4 del d.l. n. 223 del 2006, «il quale, nel disciplinare la figura del responsabile dell’attività produttiva, non prevede l’obbligo di alcun requisito».
2.– In via preliminare, questa Corte deve dichiarare l’inammissibilità delle questioni aventi ad oggetto l’art. 3, comma 5, l’art. 5, commi 4 e 5, e l’art. 6, comma 4, giacché il Consiglio dei ministri, cui compete tale prerogativa (sentenza n. 533 del 2002; da ultimo, sentenza n. 269 del 2010), non ha autorizzato l’impugnazione di queste norme. L’odierno giudizio, pertanto, cade esclusivamente sull’art. 3, commi 2 e 3, e sull’art. 5, comma 3, ovvero sulle norme indicate nella relazione del Ministro per i rapporti con le Regioni e per la coesione territoriale, cui ha rinviato la delibera del Consiglio dei ministri di autorizzazione alla proposizione del ricorso.
3.– Sempre in via preliminare, va rilevato che le deduzioni svolte dall’Avvocatura dello Stato solo con la memoria conclusiva, depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica, non sono tali da costituire autonomo profilo di censura delle norme impugnate, con riferimento alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza. Esse, piuttosto, svolgono argomenti a sostegno dell’impugnativa basata sulla violazione della competenza statale relativa alle professioni, e solo entro tali limiti sono ammissibili, non potendo la parte ricorrente introdurre nuove censure dopo l’esaurimento del termine perentorio assegnato per impugnare in via principale le leggi.
4.– La questione non è fondata, perché le norme impugnate sono da ascrivere alla competenza legislativa residuale della Regione in materia di formazione professionale e non, come sostiene lo Stato, a quella concorrente in materia di professioni.
È noto che l’attività di «addestramento del lavoratore, per iniziativa di un soggetto pubblico e fuori dall’ordinamento universitario, finalizzato precipuamente all’acquisizione delle cognizioni necessarie all’esercizio di una particolare attività lavorativa» (sentenza n. 250 del 2009), inerisce tradizionalmente alle competenze delle autonomie territoriali, ed è stata oggetto di legislazione regionale finanche anteriormente alla revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione.
Già la legge 21 dicembre 1978, n. 845 (Legge-quadro in materia di formazione professionale) aveva accolto, anche a tal fine, una nozione estremamente ampia di formazione professionale, intesa come l’insieme degli interventi «finalizzati alla diffusione delle conoscenze teoriche e pratiche necessarie per svolgere ruoli professionali e rivolti al primo inserimento, alla qualificazione, alla riqualificazione, alla specializzazione, all’aggiornamento ed al perfezionamento dei lavoratori, in un quadro di formazione permanente» (art. 2, comma 1). In seguito, l’art. 141 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59), al fine di ripartire le funzioni amministrative in materia di formazione professionale tra livelli di governo, ha ulteriormente ampliato la definizione della materia, affermando che «agli effetti del presente decreto legislativo, per “formazione professionale” si intende il complesso degli interventi volti al primo inserimento, compresa la formazione tecnico professionale superiore, al perfezionamento, alla riqualificazione e all’orientamento professionali, ossia con una valenza prevalentemente operativa, per qualsiasi attività di lavoro e per qualsiasi finalità, compresa la formazione impartita dagli istituti professionali, nel cui ambito non funzionano corsi di studio di durata quinquennale per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore, la formazione continua, permanente e ricorrente e quella conseguente a riconversione di attività produttive. Detti interventi riguardano tutte le attività formative volte al conseguimento di una qualifica, di un diploma di qualifica superiore o di un credito formativo, anche in situazioni di alternanza formazione-lavoro. Tali interventi non consentono il conseguimento di un titolo di studio o di diploma di istruzione secondaria superiore, universitaria o post-universitaria se non nei casi e con i presupposti previsti dalla legislazione dello Stato o comunitaria, ma sono comunque certificabili ai fini del conseguimento di tali titoli».
Con l’entrata in vigore della revisione costituzionale dell’art. 117 Cost., la formazione professionale è divenuta oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni (sentenza n. 50 del 2005; in seguito, tra le altre, sentenze n. 269 del 2010, n. 250 del 2009, n. 213 del 2009, n. 328 del 2006). Il nucleo di tale competenza, che in linea di principio non può venire sottratto al legislatore regionale, perciò – al di fuori del sistema scolastico secondario superiore, universitario e post-universitario – cade sull’addestramento teorico e pratico offerto o prescritto obbligatoriamente (sentenza n. 372 del 1989) al lavoratore o comunque a chi aspiri al lavoro: in tal modo, la sfera di attribuzione legislativa regionale di carattere residuale viene a distinguersi sia dalla competenza concorrente in materia di istruzione (sentenza n. 309 del 2010), sia da quella, anch’essa ripartita, in materia di professioni (art. 117, terzo comma, Cost.), nel quadro della esclusiva potestà statale di dettare le norme generali sull’istruzione (art. 117, secondo comma, lettera n, Cost.).
In base al ricorso, la materia relativa alle “professioni” è la sola con cui questa Corte deve confrontare le disposizioni impugnate, per valutare se sussista una sfera di intervento legislativo statale opponibile alla competenza residuale delle Regioni (sentenza n. 282 del 2002), e non è la prima volta che è stata la giurisprudenza costituzionale a doverne definire i confini nel rapporto con l’ambito proprio della formazione professionale.
Il punto di partenza da cui muove il ricorso statale è in linea astratta corretto, giacché non è dubbio che spetti alla potestà legislativa dello Stato individuare le figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici, e di formulare così i principi fondamentali della materia “professioni”, dai quali può svilupparsi la legislazione regionale di dettaglio (sentenza n. 353 del 2003; in seguito, tra le altre, sentenze n. 77 del 2011, n. 132 del 2010, n. 139 del 2009, n. 93 del 2008, n. 459 del 2005, n. 319 del 2005). Al riguardo questa Corte ha precisato che il nucleo della potestà statale «si colloca nella fase genetica di individuazione normativa della professione: all’esito di essa una particolare attività lavorativa assume un tratto che la distingue da ogni altra e la rende oggetto di una posizione qualificata nell’ambito dell’ordinamento giuridico, di cui si rende espressione, con funzione costitutiva, l’albo» (sentenza n. 230 del 2011). Ove, pertanto, la legge definisca i tratti costitutivi peculiari di una particolare attività professionale e le modalità di accesso ad essa, in difetto delle quali ne è precluso l’esercizio, l’intervento legislativo non si colloca nell’ambito materiale della formazione professionale, ma, semmai, lo precede (sentenze n. 300 del 2007 e n. 449 del 2006). Una volta, invece, che la legge statale abbia dato vita ad un’autonoma figura professionale «non si spiega per quale motivo le Regioni, dotate di potestà primaria in materia di formazione professionale, non possano regolare corsi di formazione relativi alle professioni (…) già istituite dallo Stato» (sentenza n. 271 del 2009), fermo restando che l’esercizio di tale attribuzione regionale non è necessariamente subordinato a siffatto requisito preliminare, ma può venire realizzato nell’interesse formativo di qualunque lavoratore, anche al di fuori di un tipico inquadramento professionale di quest’ultimo, purché con ciò non si dia vita ad una nuova professione, rilevante in quanto tale nell’ordinamento giuridico.
Alla competenza legislativa regionale relativa alla previsione, organizzazione e disciplina dei corsi formativi si accompagna, come di consueto (sentenza n. 116 del 2006), la potestà di sanzionare in via amministrativa la violazione degli obblighi che ne conseguono.
Ciò premesso, appare chiaro che le norme impugnate non solo non hanno per oggetto l’individuazione di un profilo professionale, ma neppure cumulano illegittimamente requisiti di accesso all’attività di responsabile della produzione del panificio, rispetto a quanto richiesto dall’art. 4 del d.l. n. 223 del 2006, e tantomeno richiedono condotte tali che, in assenza di esse, verrebbe meno l’effetto abilitante prodotto dalla sola segnalazione certificata di inizio attività, cosa che sarebbe invece preclusa alla legislazione regionale (sentenza n. 82 del 1997).
Ferma infatti la facoltà di esercitare l’attività in ragione della sola segnalazione prevista dall’art. 4 del d.l. n. 223 del 2006, e dunque in conformità alla norma interposta nel presente giudizio, il responsabile dell’attività produttiva è tenuto ad assoggettarsi a formazione professionale entro un termine (art. 3, commi 2 e 3, della legge impugnata), compiuto il quale il legislatore regionale, in mancanza della formazione, non ha interdetto l’ulteriore esercizio della professione, ma ha solo comminato la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 5, comma 3, impugnato, in tal modo osservando pienamente i limiti propri della competenza residuale.
Così disponendo, la legge regionale ha lo scopo sia di assicurare una formazione professionale costante nell’interesse del lavoratore, sia di garantire per mezzo di quest’ultima, cui infatti è stato conferito carattere obbligatorio, la tutela di interessi connessi all’osservanza delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza sul luogo di lavoro, appartenenti anche alla sfera di governo decentrato (art. 117, terzo comma, Cost.).
All’attribuzione delle norme impugnate alla competenza residuale regionale in materia di formazione professionale consegue la non fondatezza della questione prospettata con l’odierno ricorso, senza che occorra considerare le ulteriori attribuzioni legislative indicate dalla difesa della Regione Toscana come appartenenti alla competenza regionale e concernenti “igiene e sanità” e “attività produttive” (materia, quest’ultima, in ogni caso non contemplata dall’attuale riparto delle competenze legislative: sentenza n. 165 del 2007).
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 5; 5, commi 4 e 5; 6, comma 4, della legge della Regione Toscana 6 maggio 2011, n. 18 (Norme in materia di panificazione), promossa, in riferimento all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 3, commi 2 e 3, e 5, comma 3, della legge della Regione Toscana n. 18 del 2011, promossa, in riferimento all’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2012.