SENTENZA N. 220
ANNO 2013
Commenti alla decisione di
I. Renzo Dickmann, La Corte costituzionale si
pronuncia sul modo d’uso del decreto-legge, in questa Rivista, in Studi e Commenti, 2013,
II. Andrea Severini, La
riforma delle Province, con decreto legge, "non s’ha da fare”, dalla Rivista Telematica dell’AIC- Associazione
Italiana dei Costituzionalisti)
III. Antonio Saitta, Basta
legalità! Interpretiamo lo spirito del tempo e liberiamo lo sviluppo!, per g.c. del Forum
di Quaderni costituzionali
IV. Michele Massa, Come
non si devono riformare le province, per g.c. del Forum di Quaderni costituzionali
V. Giovanni Di Cosimo, Come
non si deve usare il decreto legge,
per g.c. del Forum di Quaderni costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’articolo 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis, 21 e 22 del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossi dalle Regioni Piemonte,
Lombardia, Veneto, Molise, dalla Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, dalle Regioni
Lazio e Campania, e dalle Regioni autonome Sardegna e Friuli-Venezia Giulia, e
degli articoli 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai
cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135, promossi dalle Regioni Molise, Lazio, Veneto, Campania,
Lombardia, dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e dalle
Regioni Piemonte e Calabria, rispettivamente iscritti ai nn.
18, 24, 29, 32, 38, 44, 46, 47, 50, e ai nn. 133,
145, 151, 153, 154, 159, 160, 161 e 169 del registro ricorsi 2012.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri
(fuori termine nei giudizi relativi ai ricorsi iscritti ai nn.
29, 46 e 50 del registro ricorsi 2012), nonché gli
atti di intervento delle Province di Latina, Frosinone, Viterbo, della Unione
delle Province d’Italia, delle Province di Isernia, di Avellino e del Comune di
Mantova;
udito nell’udienza pubblica del 2 luglio 2013 il Giudice
relatore Gaetano Silvestri;
uditi gli avvocati Vincenzo Cerulli
Irelli per l’Unione delle Province d’Italia, Giancarlo Viglione
per la Provincia di Avellino, Federico Sorrentino per la Provincia di Isernia,
Giandomenico Falcon per la Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, Luca Antonini, Bruno Barel e
Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Giovanna
Scollo per la Regione Piemonte, Beniamino Caravita di Toritto per le Regioni
Lombardia e Campania, Vincenzo Colalillo per la
Regione Molise, Ulisse Corea per la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e per la Regione Lazio, Piero D’Amelio per la Regione
Lazio, Massimo Luciani per la Regione autonoma della Sardegna, Graziano Pungì per la Regione Calabria e gli avvocati dello Stato
Maria Elena Scaramucci e Antonio Tallarida per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso spedito per la
notifica il 19 gennaio 2012, ricevuto e depositato il successivo 23 gennaio
(reg. ric. n. 18 del 2012), la Regione Piemonte ha promosso questioni di
legittimità costituzionale dell’articolo
23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis
e 21, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, per violazione degli artt. 5, 114,
117, secondo comma, lettera p),
quarto e sesto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, del principio di leale
collaborazione, anche «in relazione agli artt. 3, 77 e 97 della Costituzione».
1.1.– La Regione ricorrente
individua l’oggetto della normativa impugnata nella «abolizione delle
province», cioè in una compressione funzionale e strutturale delle Province
stesse così intensa da annullarne, in sostanza, il ruolo costituzionalmente
assegnato. Il ricorso sarebbe legittimato dalla diretta lesione delle
prerogative regionali, ma anche dal vulnus
recato alle attribuzioni provinciali, che le Regioni sarebbero ammesse a
denunciare quando si risolva in una indebita compressione dei poteri loro
conferiti dalla Costituzione.
È impugnato anzitutto il comma
14 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, che assegna alle Province
«esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei
Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze».
Sono impugnate, poi, le norme
che fondano la nuova disciplina degli organi provinciali: il comma 15, che
individua gli organi di governo nel Consiglio provinciale e nel Presidente
della Provincia, con durata della carica pari per entrambi a cinque anni; il
comma 16, che fissa nel numero massimo di dieci i componenti del Consiglio, da
eleggere a cura degli organi elettivi dei Comuni insediati nel territorio di
pertinenza, secondo modalità da fissare con legge dello Stato; il comma 17, che
regola l’elezione del Presidente ad opera dei componenti del Consiglio provinciale,
sempre in applicazione di legge statale da approvarsi ad hoc.
La Regione Piemonte censura, di
seguito, le disposizioni che regolano il trasferimento di funzioni e risorse
dalle Province ai Comuni ed alle Regioni: il comma 18 dell’art. 23 citato, il
quale prevede che la legislazione statale e regionale provveda, entro il 31
dicembre 2012, a trasferire le funzioni provinciali ai Comuni, «salvo che, per
assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»,
configurando l’intervento sostitutivo dello Stato in caso di inadempimento
regionale; il comma 19, che dispone il trasferimento, a cura della legislazione
statale o regionale, «delle risorse umane, finanziarie e strumentali per
l’esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell’ambito delle medesime
risorse il necessario supporto di segreteria per l’operatività degli organi
della provincia».
Sono impugnati, infine, il
comma 20 (che disciplina la tempistica di attuazione della riforma degli organi
provinciali), il comma 20-bis (che
esclude dalla novella le Province autonome ed assegna alle Regioni a statuto
speciale un termine semestrale per l’adeguamento dei rispettivi ordinamenti),
il comma 21 (che consente ai Comuni di istituire unioni o organi di raccordo
per l’esercizio di specifici compiti o funzioni amministrative, garantendo
l’invarianza della spesa).
1.2.– A parere della ricorrente
le norme censurate, tutte «in stretta connessione tra loro», violerebbero in
primo luogo l’art. 5 Cost., applicando una logica inversa a quella del
decentramento e dell’autonomia, con diretta lesione delle prerogative
regionali.
Sarebbe poi vanificato il
riconoscimento delle Province come enti costitutivi della Repubblica, dotati di
autonomia e funzioni proprie, secondo il disposto dell’art. 114 Cost. Ciò in
ragione, tra l’altro, dell’eliminazione del principale organo di governo (la
Giunta) e della stessa funzione di governo, ridotta a compito di coordinamento
dell’attività comunale, ed accompagnata dalla spoliazione delle funzioni
amministrative provinciali e delle relative risorse. Inoltre, il decreto
governativo – volto a realizzare una vera e propria riforma istituzionale
mediante la legislazione sulla spesa – avrebbe privato Regioni e Province di
ogni autonomia decisionale riguardo al relativo percorso di modificazione
legislativa, «in aperta violazione del secondo comma dell’art. 114 Cost.».
La Regione Piemonte assume,
ancora, l’intervenuta violazione del disposto di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117
Cost., che riserva allo Stato, tra l’altro, la competenza esclusiva in materia
di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali delle
Province. Tale competenza non potrebbe che esercitarsi entro i limiti tracciati
dagli artt. 5 e 114 Cost., cioè rispettando la «esistenza» degli enti
interessati, e lasciando intatte le potestà regolamentari ed amministrative di
cui agli artt. 117, sesto comma, e 118 Cost. In realtà il decreto impugnato avrebbe
realizzato una violazione trasversale delle competenze legislative concorrenti
o residuali delle Regioni. Sarebbero compresse le stesse funzioni
amministrative di competenza regionale, dato che la Costituzione prevede il
relativo esercizio anche mediante delega alle Province (art. 118, secondo
comma), mentre la riforma concentra sulle stesse Regioni, oltreché sui Comuni e
sullo Stato, le funzioni già attribuite alle Province medesime.
La disciplina censurata, ad
avviso della ricorrente, impone un modello indifferenziato di conferimento di
funzioni agli enti locali, tale da menomare le attribuzioni delle Regioni di
cui all’art. 118 Cost., anche in relazione alla correlata autonomia finanziaria
(art. 119 Cost.).
L’intervento dello Stato non
potrebbe trovare giustificazione nelle allegate esigenze di riordino dei conti
pubblici, anche perché le modeste economie risultanti dalla riforma,
riguardanti le indennità di carica degli assessori e di parte dei consiglieri
provinciali, sarebbero riferibili alle finanze regionali. Quello anzidetto
costituirebbe, pertanto, un ulteriore profilo di lesione, secondo la
ricorrente, dell’autonomia amministrativa ed organizzativa delle Regioni nei
loro rapporti con gli enti territoriali minori.
Da ultimo, la Regione Piemonte
denunzia la violazione del principio di leale collaborazione, in rapporto
all’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3). Il comma 18 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, infatti, regolerebbe
l’intervento sostitutivo dello Stato in radicale contrasto con i principi
fissati dalla citata legge n. 131 del 2003 per l’attuazione di quanto disposto
nel testo novellato dell’art. 120 Cost., e comunque senza prevedere alcuna
forma di concertazione fra Stato, Regioni ed enti locali. Una concertazione che
sarebbe stata tanto più necessaria considerando l’incidenza della riforma
sull’autonomia finanziaria regionale.
La ricorrente ricorda che la
giurisprudenza costituzionale ammette la possibilità per le Regioni di
denunciare con il ricorso in via principale la violazione di parametri
costituzionali non pertinenti al riparto delle competenze, quando la stessa
ridondi sulle attribuzioni regionali. Un vizio di irragionevolezza denoterebbe
nel complesso la disciplina impugnata, poiché il vantaggio finanziario
perseguito, di fatto irrilevante e comunque realizzato «a scapito» degli enti
territoriali, attraverso un decreto-legge che impone adempimenti lesivi anche
in punto di competenza legislativa, entro termini brevissimi, non
legittimerebbe il sovvertimento radicale dei rapporti istituzionali disegnati
dalla Costituzione.
1.3.– La Regione Piemonte
segnala infine che la normativa impugnata dovrebbe trovare attuazione entro un
termine assai prossimo (31 dicembre 2012) e, sull’assunto che da tale
attuazione sortirebbe un pregiudizio grave ed irreparabile per l’interesse
pubblico ed i diritti dei cittadini, sollecita la Corte costituzionale ad
adottare un provvedimento sospensivo dell’esecuzione della normativa medesima,
secondo il disposto dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
2.– Con ricorso spedito per la
notifica il 4 febbraio 2012, ricevuto l’8 febbraio e depositato il successivo
14 febbraio (reg. ric. n. 24 del 2012), la Regione Lombardia ha promosso
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, del d.l. n. 201 del
2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, per violazione degli
artt. 3, 5, 114, 117, 118, 119, 120, secondo comma, e 138 Cost.
2.1.– La ricorrente, dopo una
ricognizione delle norme censurate ed una ricostruzione del ruolo storico ed
istituzionale assunto dalle Province, richiama, in via preliminare, la
giurisprudenza costituzionale in tema di legittimazione delle Regioni a
prospettare doglianze nei confronti di leggi statali lesive delle attribuzioni
degli enti territoriali minori, anche quando non sia prospettata la violazione
della competenza legislativa regionale (è citata, tra le altre, la sentenza della
Corte costituzionale n. 298 del 2009). Il principio troverebbe conferma
nella previsione dell’art. 32 della legge n. 87 del 1953, come novellato ex art. 9 della legge n. 131 del 2003,
che ammette la proposizione di questioni di legittimità costituzionale di leggi
dello Stato anche su proposta del Consiglio delle autonomie locali (proposta
intervenuta nella specie). In ogni caso – aggiunge la ricorrente – la maggior
parte delle disposizioni impugnate risulterebbe direttamente lesiva delle
prerogative delle Regioni, vincolando queste ultime a determinati criteri di redistribuzione
delle funzioni e delle risorse, e prevedendo un anomalo potere sostitutivo
dello Stato.
2.2.– L’intervento di riforma
sarebbe segnato da grave irragionevolezza, con violazione dell’art. 3 in
rapporto agli artt. 1, 5 e 138 Cost. Ridimensionando l’istituzione provinciale
sotto il profilo funzionale e della rappresentanza politica, si sarebbe creata
la necessità di rilevanti interventi aggiuntivi, in riferimento alle non meglio
precisate «funzioni di indirizzo e coordinamento», alle nuove modalità di
elezione degli organi di governo, ai criteri di riallocazione delle risorse
umane e materiali. Il ricorso allo strumento del decreto-legge sarebbe dunque
stato incongruo, ed avrebbe implicato «paradossi» e incoerenze.
Anzitutto, l’intervento di
riforma non si tradurrebbe in immediati e rilevanti risparmi di spesa, tanto
che lo Stato avrebbe prudentemente rinunciato a valutarli in sede previsionale,
rinviandone l’apprezzamento alla fase consuntiva. Vi sarebbero, anzi, sicuri
aumenti dei costi per il personale e per le strutture da destinare agli
organismi intercomunali ed a supporto delle nuove funzioni di «indirizzo e
coordinamento». Inoltre, la realizzazione della riforma sarebbe prevedibilmente
costellata da altissima conflittualità, ad esempio riguardo al «forzoso»
trasferimento del personale delle Province nei ruoli regionali, aspetto del
tutto trascurato dall’intervento oggetto di censura. D’altra parte, dovrà
comunque essere assicurata l’azione di organismi infraregionali
in rapporto a funzioni che trascendano i limiti dell’azione comunale, specie in
Regioni caratterizzate dall’esistenza di numerosissimi Comuni, con popolazione
anche molto ridotta.
Ancora, la difesa regionale
evidenzia come sia stata colpita la Provincia quale istituzione democratica e
rappresentativa (trascurando, per altro, aspetti essenziali sul piano
finanziario, come ad esempio il destino delle partecipazioni societarie
attualmente in essere), ma non la Provincia quale sede del decentramento
statale, con i costi relativi.
Sarebbe evidente, quale profilo
sintomatico della irragionevolezza della normativa in esame, la carenza di
adeguatezza e proporzionalità rispetto agli obiettivi indicati, anche in
considerazione della sua pertinenza a valori il cui rilievo costituzionale è
segnato dagli artt. 1 e 5 Cost. e dalla procedura aggravata che avrebbe dovuto
essere seguita per un bilanciamento diverso da quello attuale.
2.3.– La ricorrente
pone in rilievo come il testo novellato dell’art. 114 Cost. conferisca
direttamente (anche) alle Province una propria posizione nel sistema delle
autonomie, pari ordinata a quella delle altre istituzioni territoriali e
segnata strutturalmente dal principio di sovranità popolare (è richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 106 del 2002).
La riduzione delle funzioni
provinciali al solo «indirizzo e coordinamento» disconoscerebbe la natura di
ente autonomo della Provincia, comprimendone anche l’autonomia statutaria e
finanziaria. D’altra parte, il principio autonomistico sarebbe fondato
intrinsecamente sul metodo democratico: una caratteristica essenziale che lo
Stato non potrebbe frustrare, pur nell’esercizio della propria competenza
legislativa in materia di organi di governo e legislazione elettorale per gli
enti locali.
2.4.– Secondo la Regione
Lombardia, le norme impugnate contrastano con gli artt. 117, 118 e 119 Cost. in
quanto violano la riserva costituzionale di funzioni a favore delle Province.
L’attribuzione "esclusiva” di compiti di indirizzo e coordinamento si
risolverebbe in una sostanziale spoliazione, sebbene le norme costituzionali
evocate, fissando i principi cui rinvia l’art. 114 Cost., attribuiscano alle
Province una potestà regolamentare per la disciplina di funzioni proprie (comma
sesto dell’art. 117), la titolarità di funzioni proprie o conferite dalla legge
statale o regionale (secondo comma dell’art. 118), una autonomia di spesa e di
entrata, con risorse derivanti anche dall’imposizione tributaria direttamente
esercitata (art. 119).
Pur rinviando alla legge per la
concreta specificazione, la Costituzione garantirebbe alle Province «un fascio
di funzioni», parte almeno delle quali dovrebbero essere «proprie» (sono citate
le sentenze
della Corte costituzionale n. 286 e n. 238 del 2007).
La disciplina impugnata
comprimerebbe direttamente anche l’autonomia regionale, giacché impone alle
Regioni la riallocazione delle funzioni provinciali e vieta loro, nel contempo,
l’attribuzione di funzioni alle Province, che la riforma lascia pur sempre in
vita.
A fronte di una rete siffatta
di attribuzioni, la riforma lascerebbe alle Province funzioni non «proprie» ed
oltretutto difficilmente identificabili, data la genericità dell’espressione
riferita all’indirizzo ed al coordinamento delle funzioni proprie di altri
enti.
2.5.– La Regione Lombardia
lamenta, ancora, un’asserita violazione del secondo comma dell’art. 120 Cost. e
del principio di leale collaborazione, in rapporto alla previsione (comma 18
dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011) di un intervento sostitutivo dello Stato
in assenza dei presupposti legittimanti fissati dalla Costituzione. Viene
richiamata la sentenza
della Corte costituzionale n. 43 del 2004, la quale avrebbe chiarito, in
rapporto alla clausola dell’unità giuridica o economica, che deve trattarsi di
emergenze istituzionali di particolare gravità, le quali comportino rischi di
compromissione relativi ad interessi essenziali della Repubblica. L’intervento
sostitutivo dovrebbe inoltre riguardare attività non discrezionali nell’an, previste
e disciplinate dalla legge, attuandosi mediante procedure che assicurino
concrete possibilità di diretto adempimento e, comunque, di interlocuzione
dell’ente sostituito.
La norma censurata, al
contrario, non prevede alcuna forma di partecipazione regionale al procedimento,
e nel contempo individua nella legge statale lo strumento per l’intervento
sostitutivo, assegnando allo Stato una competenza legislativa in materie di
pertinenza della Regione. La ricorrente segnala che la Corte costituzionale,
pur senza negarne la legittimità, ha già definito «deroga eccezionale»
l’eventualità che il Governo utilizzi i propri poteri di produzione degli atti
aventi forza di legge per esercitare il potere sostitutivo (sentenza n. 361 del
2010), ed il ricorso al decreto-legge, in ogni caso, non sarebbe
compatibile con l’attuazione del principio di leale collaborazione.
2.6.– Da ultimo, la Regione
Lombardia propone la tesi secondo la quale, mediante la produzione di norme
incompatibili con il dettato costituzionale, si eluderebbe il divieto di
modificare la Carta con procedure alternative a quella descritta nell’art. 138
Cost., con violazione conseguente di tale norma. Nella specie, lo Stato avrebbe
preteso di realizzare profonde modifiche dell’assetto costituzionale delle
autonomie mediante una legge di rango ordinario e addirittura con ricorso alla
decretazione d’urgenza.
La ricorrente osserva che la
tesi proposta, per lungo tempo confinata nel dibattito dottrinale, avrebbe
trovato recente conferma nella giurisprudenza della stessa Corte
costituzionale. Infatti quest’ultima, pronunciandosi sulle prerogative per le
«alte cariche» dello Stato (è citata la sentenza n. 262 del
2009), dopo aver chiarito che la legge ordinaria può attuare ma non
modificare o integrare la disciplina costituzionale delle citate prerogative,
ha ravvisato una violazione dell’art. 3 «in combinato disposto con l’art. 138»
della Costituzione. Nella successiva sentenza sul «legittimo impedimento», la
stessa Corte ha stabilito una violazione diretta ed «autonoma» del parametro in
questione, così «emancipandolo» dal ruolo tradizionalmente assegnatogli di
norma solo procedurale (sentenza n. 23 del
2011).
Nel caso oggetto dell’odierno
scrutinio, il riconoscimento della violazione sarebbe ancor più lineare, avendo
le norme impugnate «svuotato» il disegno costituzionale in materia di Province.
Pertanto, la riforma di tali enti non potrebbe che essere attuata mediante il
procedimento di revisione costituzionale.
3.– Con ricorso notificato il
21 febbraio 2012 e depositato il successivo 23 febbraio (reg. ric. n. 29 del
2012), la Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di
alcune disposizioni del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 214 del 2011, e, tra
queste, dell’art.
23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, per violazione degli artt. 1, 3,
5, 114, 118, 119, 120 e 138 Cost.
3.1.– La difesa regionale
svolge un’ampia premessa, riportando il contenuto delle disposizioni impugnate
ed evidenziando come le stesse risultino complessivamente incompatibili con il
sistema costituzionale delle autonomie territoriali.
Con le predette disposizioni il
legislatore avrebbe trasformato la Provincia da ente politico, rappresentativo
delle popolazioni incluse nel relativo territorio, in ente di secondo grado,
dotato di un Consiglio provinciale composto da non più di dieci componenti,
eletti dai Consigli comunali, con un presidente eletto dal Consiglio
provinciale tra i suoi componenti.
Sarebbero in tal modo venute
meno tutte le funzioni amministrative di tipo gestionale finora svolte dalla
Provincia, essendo quest’ultima ormai soltanto titolare di una «micro-funzione
di coordinamento dell’attività dei Comuni», e quindi svuotata anche
dell’autonomia finanziaria, fatte salve le risorse necessarie per il
funzionamento dei propri organi.
Tutto ciò avverrebbe, secondo
la Regione Veneto, in evidente, macroscopico contrasto con il disegno
costituzionale, risultando altresì penalizzante per l’autonomia regionale,
privata dell’interlocutore istituzionale cui affidare la gestione di funzioni
amministrative. Siffatta collaborazione sarebbe particolarmente utile in realtà
regionali, come quella veneta, caratterizzate da Comuni di piccole o
piccolissime dimensioni.
In questo contesto territoriale
la normativa impugnata indurrebbe «un centralismo regionale» e non
consentirebbe lo sviluppo di «un regionalismo pienamente attuativo del
principio di sussidiarietà», con ciò menomando l’autonomia statutaria specie là
dove, come nel caso della ricorrente, lo statuto abbia configurato la Regione
quale organo di legislazione e di indirizzo più che di amministrazione diretta.
La pur necessaria riforma delle
autonomie locali, secondo la ricorrente, andrebbe progettata con la
partecipazione degli enti territoriali ed attuata con appropriati strumenti
giuridici. Diversamente, le disposizioni in esame avrebbero alterato l’assetto
delineato dalla Costituzione, senza realizzare lo scopo della semplificazione
del sistema istituzionale né la riduzione di spesa degli apparati. La difesa
regionale segnala in proposito come la relazione tecnica riguardante il
provvedimento governativo non abbia potuto quantificare la misura dei risparmi
complessivamente perseguibili.
In realtà, il legislatore
statale avrebbe preteso di compiere una revisione costituzionale con legge
ordinaria, incidendo anche sull’autonomia costituzionalmente garantita alla
Regione Veneto, la quale è dunque legittimata a tutelare in via diretta le
proprie prerogative, oltre che a denunciare la violazione delle competenze degli
enti locali, secondo quanto affermato in numerose pronunce della Corte
costituzionale, per la stretta connessione esistente tra le attribuzioni
regionali e quelle delle autonomie locali.
3.2.– La ricorrente esamina, in
primo luogo, il comma 16 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, norma che, in
dispregio del procedimento indicato nell’art. 138 Cost., avrebbe sancito
l’eliminazione delle Province come enti esponenziali rappresentativi di una
comunità organizzata democraticamente, e cioè con organi elettivi di diretta
emanazione del corpo elettorale (art. 1 Cost.).
Tale configurazione, scelta dal
Costituente, è stata confermata e rafforzata in sede di riforma del Titolo V
della Parte seconda della Costituzione, là dove l’art. 114 Cost., al secondo
comma, indica le Province come «enti autonomi con propri statuti, poteri e
funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione», e, al primo comma,
prevede che esse sono destinate a costituire – assieme ai Comuni, alle Città
metropolitane e alle Regioni – la Repubblica.
Inoltre, il principio
autonomista, contenuto nell’art. 5 Cost., impedirebbe al legislatore ordinario
di «incidere sul carattere direttamente democratico dell’ente», che rappresenta
uno dei requisiti essenziali dell’ordinamento repubblicano.
La disposizione oggi impugnata
si porrebbe dunque in contrasto con gli artt. 1, 5, 114 e 138 Cost.
Dall’alterazione del sistema
delle autonomie locali discenderebbe, inoltre, la menomazione della sfera di
autonomia regionale. Evidente sarebbe l’impedimento delle Regioni ad attuare
pienamente i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione
nell’allocazione delle funzioni amministrative nelle materie di propria
competenza, ai sensi dell’art. 118, primo e secondo comma, Cost.
3.3.– La ricorrente esamina, in
secondo luogo, il comma 20 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, ove si
stabilisce l’applicazione fino al 31 marzo 2013 – per gli organi provinciali
che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 – della disposizione
contenuta nell’art. 141 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che disciplina lo
scioglimento e la sospensione dei consigli comunali e provinciali.
La disposizione censurata
sarebbe priva di ragionevolezza, stante la connotazione "patologica” delle
ipotesi regolate dall’art. 141 del TUEL, che infatti prevede lo scioglimento e
il commissariamento dei Consigli provinciali che abbiano agito contra legem.
Sarebbe dunque violato l’art. 3 Cost., unitamente agli artt. 1, 5 e 114 Cost.,
perché nella specie il commissariamento è prodromico alla eliminazione
dell’elezione diretta dei rappresentanti delle Province che dovrebbero essere
rinnovate nel 2012. Inoltre, poiché l’eliminazione dell’elezione diretta
riguarda anche le Province il cui rinnovo dovrà avvenire dopo il 31 dicembre
2012, secondo il rinvio che il medesimo comma 20 opera ai commi 16 e 17
dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, la difesa regionale ritiene che anche
detta previsione violi i parametri da ultimo indicati.
3.4.– Con riferimento al comma
15 dell’art. 23, la ricorrente evidenzia come tale disposizione – pur incidendo
sulla materia degli enti locali, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art.
117, secondo comma, lettera p), Cost.
– produca la menomazione della capacità di azione e di esecuzione delle
Province, disponendo la soppressione della Giunta e non indicando meccanismi
alternativi che assicurino l’operatività dell’esecutivo provinciale.
La stessa disposizione avrebbe,
inoltre, alterato irragionevolmente il sistema ordinamentale previsto dal
d.lgs. n. 267 del 2000, che è presidiato dalla clausola di inderogabilità (art.
1, comma 4).
Sarebbero pertanto violati
anche in questo caso gli artt. 3, 5 e 114 Cost.
3.5.– Argomenti sostanzialmente
identici a quelli appena esposti sorreggono le censure aventi ad oggetto il
comma 17 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, che detta le modalità con cui è
costituito il Consiglio provinciale in vista delle elezioni.
La disposizione in esame
risulterebbe costituzionalmente illegittima in via derivata, per violazione
degli artt. 3, 5 e 114 Cost.
3.6.– La ricorrente procede,
quindi, all’esame del comma 14 dell’art. 23, che avrebbe creato una inammissibile
sovraordinazione delle Province rispetto ai Comuni,
ponendosi in contrasto con le norme costituzionali che configurano le Province
e gli stessi Comuni come titolari di funzioni amministrative «fondamentali» e
«proprie», oltre a quelle conferite con legge statale o regionale. Tra l’altro,
osserva la ricorrente, una prima e provvisoria individuazione delle funzioni
fondamentali è avvenuta, sia pure ai soli fini dell’attuazione della delega,
con l’art. 21, comma 4, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della
Costituzione).
L’impugnato comma 14 avrebbe
dunque l’effetto di menomare l’autonomia regionale in quanto impedisce alle
Regioni, nelle materie di propria competenza, di trasferire o delegare alle
Province qualsiasi funzione o, in termini ancora più radicali, obbliga le
Regioni ad assegnare alle Province soltanto le competenze indicate, con
conseguente violazione dell’art. 118, primo e secondo comma, Cost.
3.7.– Il comma 18 dell’art. 23
prevede il trasferimento ai Comuni delle funzioni statali e regionali, diverse
da quelle indicate nel comma 14, che la normativa vigente attribuisce alle
Province. Secondo la Regione Veneto, tale disposizione aggraverebbe la lesione
delle competenze regionali già realizzata dal citato comma 14 dell’art. 23, in
quanto renderebbe operativo il divieto, per le Regioni, di delegare alle
Province funzioni amministrative nelle materie di propria competenza.
La ricorrente ribadisce che la
normativa in esame delinea una situazione di «forte centralismo regionale», in
contrasto con il disegno costituzionale, e richiama le affermazioni contenute
nella sentenza
della Corte costituzionale n. 343 del 1991, in cui si valorizza l’intento
di «assicurare un sempre maggiore avvicinamento di queste funzioni
[amministrative] alle realtà locali, […] allo scopo di evitare il formarsi di
una burocrazia a livello regionale, ripetitiva di quella dell’amministrazione
statale accentrata che, appunto, con l’ordinamento regionale e con la sua
ulteriore articolazione a livello locale, la Costituzione tende a superare».
Risulterebbe inoltre
ingiustificato, ai sensi dell’art. 120 Cost., l’intervento di carattere
sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni. In particolare, non
sarebbe ravvisabile, nella specie, l’esigenza di tutelare l’unità giuridica o
economica del Paese; inoltre, il rinvio all’art. 8 della legge n. 131 del 2003
risulterebbe irragionevole, per la diversità che connota la procedura indicata
nell’impugnato comma 18 dell’art. 23 rispetto a quella, concertativa, del
citato art. 8. Del resto, osserva la ricorrente, l’intervento sostitutivo del
Governo, previsto nel caso in cui le Regioni non approvino le leggi imposte
dalla prima parte del comma 18, avrebbe ad oggetto la funzione legislativa
regionale tout court, da esercitare
anche nelle materie di competenza esclusiva regionale.
Sarebbe dunque evidente il
contrasto della norma impugnata con gli artt. 118, primo e secondo comma, e 120
Cost.
3.8.– La difesa regionale
esamina il comma 19 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, il quale disciplina
il trasferimento delle risorse (umane, finanziarie e strumentali) necessarie
per l’esercizio delle funzioni trasferite.
Si tratterebbe di disposizione
strettamente collegata al precedente comma 18, in quanto concernente la
riallocazione delle risorse conseguenti allo «svuotamento delle funzioni» fino
ad oggi svolte dalle Province, e pertanto viziata, in via derivata, nei
medesimi termini indicati per il citato comma 18.
Il legislatore avrebbe poi
utilizzato la tecnica normativa con la quale è stato attuato il cosiddetto
decentramento amministrativo di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni
ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n.
59), antecedente alla riformulazione dell’art. 119 Cost., sicché risulterebbe
violato anche quest’ultimo parametro, nella parte in cui prevede che le
Province, al pari degli altri enti territoriali, dispongono di autonomia
finanziaria di entrata e di spesa, nonché di risorse autonome, derivanti sia
dall’applicazione di tributi ed entrate proprie, sia dalla compartecipazione al
gettito dei tributi erariali riferibili al territorio di pertinenza.
La disposizione impugnata, in
particolare, non conterrebbe alcun riferimento all’autonomia finanziaria delle
Province e non considererebbe la recente normativa di attuazione dello stesso
art. 119 Cost., introdotta con il decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68
(Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto
ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni
standard nel settore sanitario), finalizzata anche a superare l’effetto di
deresponsabilizzazione derivante dal trasferimento di risorse statali o
regionali alle Province.
Secondo la difesa regionale,
ciò sarebbe coerente con l’esiguità delle funzioni amministrative assegnate
alle Province e con la corrispondente entità delle risorse a tal fine
riconosciute, dimostrando una volta ancora l’incompatibilità con la
Costituzione del sistema introdotto dall’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011.
Il comma 19 peraltro non
avrebbe chiarito in quale modo sarà attuato il passaggio dal finanziamento
derivante dalle funzioni di amministrazione attiva (la gestione delle strade,
tra le altre) a quello limitato alle «funzioni di supporto di segreteria per
l’operatività degli organi provinciali», sicché non può che ipotizzarsi un
incremento del ricorso ai meccanismi di finanza derivata, attraverso il
trasferimento di fondi statali.
In ogni caso, poiché la
disposizione impugnata costituisce principio statale di coordinamento della
finanza pubblica, essa impone da subito alle Regioni di riallocare le funzioni
con la creazione di un sistema di finanza derivata, avuto riguardo sia alle
funzioni residuali delle Province, sia a quelle allocate ai Comuni, al di fuori
di qualsiasi rispetto dell’autonomia finanziaria che l’art. l19 Cost. riconosce
alle Regioni, con un ritorno, quindi, al sistema di finanza di trasferimento,
più volte stigmatizzato dalla Corte costituzionale (è richiamata la sentenza n. 370 del
2003).
Oltre al palese contrasto con
l’art. 119 Cost., il sistema configurato nei commi da 14 a 20 dell’art. 23 del
d.l. n. 201 del 2011 risulterebbe di difficile applicazione e potenzialmente
idoneo a produrre costi superiori ai risparmi.
Conclusivamente, la difesa
regionale ribadisce che la pur necessaria razionalizzazione dei livelli di
governo delle autonomie territoriali deve essere attuata con una legge di
revisione costituzionale, laddove «soluzioni improvvisate, tecnicamente ed
economicamente discutibili […] possono creare guasti gravi al sistema in
termini di gestibilità e di costi aggiuntivi».
Sull’assunto che i guasti
indicati rechino un grave ed irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico od
ai diritti dei cittadini, la Regione Veneto, da ultimo, propone istanza di
sospensione dell’esecuzione delle norme impugnate, ai sensi dell’art. 35 della
legge n. 87 del 1953, come sostituito dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003.
4.– Con ricorso spedito per la
notifica il 22 febbraio 2012, ricevuto il 20 marzo e depositato il 27 febbraio
(reg. ric. n. 32 del 2012), la Regione Molise ha promosso questioni di
legittimità costituzionale dell’art.
23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis
e 21, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge n. 214 del
2011, per violazione degli artt. 5, 114, 117, secondo comma, lettera p), quarto e sesto comma, 118, 119 e 120
Cost., del principio di leale collaborazione, «e in relazione agli artt. 3, 77
e 97 della Costituzione».
4.1.– La ricorrente delinea in
premessa l’evoluzione legislativa che ha segnato la nascita delle Province di
Campobasso e di Isernia, per evidenziare l’interesse alla permanenza
dell’assetto istituzionale esistente. La normativa censurata, risolvendosi
nella sostanziale abolizione delle Province, sarebbe lesiva delle competenze
loro conferite direttamente dalla Costituzione.
Al riguardo, i Presidenti delle
due Province hanno richiesto alla Regione di impugnare le citate disposizioni davanti
alla Corte costituzionale, e la Regione Molise ritiene di essere legittimata a
proporre l’impugnativa per la lesione sia delle prerogative delle Province, sia
delle proprie. È richiamata, in proposito, la consolidata giurisprudenza
costituzionale che ammette la formulazione di censure riguardanti la
compressione delle sfere di attribuzione provinciale, o degli altri enti locali
indicati nell’art. 114 Cost., da cui derivi una compressione dei poteri delle
Regioni.
4.2.– Nel merito, la Regione
Molise osserva come il vigente assetto costituzionale riconosca espressamente
il rilievo delle autonomie locali, nei principi fondamentali (art. 5) e
nell’organizzazione istituzionale (art. 114, primo comma), a garanzia della
unitarietà della Repubblica e della «decentrata sovranità del popolo nel
territorio localizzato». Con l’introduzione delle norme impugnate, invece, la
Provincia non si presenterebbe più come ente esponenziale della collettività
locale.
In questo contesto, prosegue la
difesa regionale, non sembra possibile che una legge ordinaria attui il
«declassamento istituzionale» delle Province, e in tal senso l’art. 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina
dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
ministri) dispone che non possono formare oggetto di decretazione
d’urgenza le materie di cui all’art. 72, quarto comma, Cost.
Inoltre, le funzioni, l’assetto
e i compiti delle Province sono oggetto di disposizioni del d.lgs. n. 267 del
2000, che si qualifica (all’art. 1, comma 4) alla stregua di legge rinforzata,
ai sensi dell’art. 128 Cost. Peraltro, anche la giurisprudenza costituzionale
ha affermato che i principi di valorizzazione e promozione delle autonomie
locali, contenuti nel TUEL, attuativi dell’art. 5 Cost., operano ad un livello
superiore a quello della normazione statale (sentenze n. 13 del
1974 e n. 30
del 1959).
La ricorrente osserva che,
invece, l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 trasforma completamente la
Provincia, da ente costituzionalmente autonomo ad ente di secondo livello, con
mere funzioni di coordinamento degli enti comunali, in quanto tale privato dell’attività
di gestione amministrativa e della maggior parte delle originarie funzioni
istituzionali.
4.3.– La difesa regionale
procede, quindi, all’esame delle disposizioni impugnate, a partire dal comma 14
dell’art. 23 citato, il quale attribuisce alla Provincia esclusivamente
funzioni di indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni, nelle materie e
nei limiti indicati dalle leggi statali e regionali.
Secondo la ricorrente, tali
funzioni non possono «rappresentare quel nucleo di funzioni amministrative
intimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia della
Provincia, richiesto e previsto dalla Costituzione nell’art. 117», né sarebbe
rispettata la configurazione dell’ente in oggetto contenuta nell’art. 118,
primo comma, in forza del quale la Provincia è titolare anche di funzioni
proprie.
Con il comma 15 dell’art. 23 è
definito l’assetto organico della Provincia, limitato al Presidente ed al
Consiglio provinciale. La disposizione altererebbe la funzione istituzionale e
la struttura organizzativo-gestionale dell’ente, incidendo significativamente
sulle disposizioni del TUEL.
Per effetto del comma 16
dell’art. 23, che trasforma il Consiglio provinciale da organo di elezione
diretta ad organo di elezione indiretta, composto da dieci componenti eletti
dagli organi elettivi comunali, verrebbe meno l’autonomia istituzionale della
Provincia, come configurata dagli artt. 5 e 114 Cost., realizzandosi
sostanzialmente l’«abolizione» dell’ente, che diventa una emanazione dei Comuni
e perde non solo l’autonomia politico-rappresentativa della collettività
locale, ma anche il potere di incidenza sul territorio.
La ricorrente sottolinea il
dato di comune esperienza secondo cui un organo elettivo di secondo grado non
assicura una rappresentanza omogenea del territorio e, dunque, da questo punto
di vista, una gestione equilibrata.
La disposizione in esame
contrasterebbe inoltre con l’art. 15 della legge n. 400 del 1988, perché
interviene in materia costituzionale ed elettorale, sottratta alla decretazione
d’urgenza.
Il comma 17 dell’art. 23 detta
la disciplina dell’elezione del Presidente da parte del Consiglio provinciale,
rinviando per le modalità ad una successiva legge. La disposizione
presenterebbe portata lesiva identica a quella del già esaminato comma 16,
essendo violati i medesimi principi richiamati in riferimento al predetto
comma, dovendosi aggiungere che, con il disposto del comma 17, il legislatore
avrebbe inciso sulla espressione della democrazia in ambito locale, sancita
dall’art. 5 Cost., sottraendo al corpo elettorale la libera scelta dell’organo
rappresentativo dell’ente. Secondo la difesa regionale, infatti,
l’individuazione del Presidente della Provincia consentirebbe di esprimere, al
più alto livello, il pluralismo politico e la rappresentanza diretta del corpo
elettorale.
Diversamente, la disposizione
impugnata svincola il Presidente, «anche nelle sue scelte concrete, dal corpo
elettorale per subordinarlo ad altro organo», cioè il Consiglio che, a sua
volta, in quanto rappresenta i Comuni, costituisce espressione solo indiretta
della scelta degli elettori.
La difesa regionale esamina
quindi il comma 18, il quale impone allo Stato ed alle Regioni di trasferire ai
Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni già esercitate dalle Province,
fatta salva la possibilità che, a fini di esercizio unitario, le stesse vengano
acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza. La previsione di un intervento sostitutivo
dello Stato varrebbe ad alterare l’attuazione del decentramento amministrativo,
con violazione dei richiamati principi di sussidiarietà e adeguatezza, laddove
gli artt. 4, 114 e 118 Cost. garantiscono all’ente Provincia un autonomo
livello di esercizio di funzioni.
Il comma 19 dell’art. 23, a
completamento del processo di decentramento, prevede che lo Stato e le Regioni
trasferiscano le risorse umane, finanziarie e strumentali per l’esercizio delle
funzioni.
Secondo la Regione Molise il
nuovo assetto della Provincia avrebbe compromesso il principio dell’autonomia
organizzativa dell’ente «sopprimendone, di fatto, gli stessi poteri statutari»
nonché i poteri regolamentari per lo svolgimento di funzioni autonome. Nella
medesima prospettiva, risulterebbe alterata anche l’autonomia finanziaria prevista
dall’art. 119 Cost., compresi i meccanismi di attuazione del federalismo
fiscale.
Il comma 20 dell’art. 23
rimette al Governo il compito di fissare la decorrenza del mutamento
dell’assetto istituzionale delle Province mentre il comma 20-bis esclude dall’applicazione delle
previsioni che lo precedono le Regioni a statuto speciale e le Province
autonome di Trento e di Bolzano, assegnando alle stesse il termine di sei mesi
per adeguare i propri ordinamenti.
Il comma 21, infine, dispone
che i Comuni possano istituire unioni o organi di raccordo per l’esercizio di
specifiche funzioni amministrative, a spesa invariata.
4.4.– I richiamati commi, da 14
a 21, dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, da leggersi in stretta connessione
tra loro, si porrebbero in contrasto con i parametri evocati (artt. 5, 114,
117, secondo comma, lettera p, quarto
e sesto comma, 118 e 119 Cost.) nonché con il principio di leale collaborazione
in relazione all’art. 8 della legge n. 131 del 2003.
4.4.1.– La ricorrente osserva
che l’art. 5 Cost., il quale riconosce rilievo costituzionale alle autonomie
locali, comprese le Province, ed al principio del decentramento amministrativo,
non contiene enunciazioni di carattere programmatico, ma esprime un valore
vincolante, con l’effetto sia di garantire le autonomie locali, sia di imporre
allo Stato (e quindi alla legislazione statale e regionale) di attuare il
decentramento amministrativo.
L’art. 23, nella parte oggetto
di impugnazione, produrrebbe una evidente inversione di principio rispetto al
parametro indicato, con conseguente grave compromissione anche dell’autonomia
regionale e dell’assetto istituzionale di questa.
La modifica strutturale delle
funzioni e dei compiti della Provincia produrrebbe una alterazione della forma,
storicamente garantita, del decentramento amministrativo come articolazione
dello Stato sul territorio.
4.4.2.– L’art. 114 Cost., come
modificato dopo la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione,
indica le Province come enti autonomi che costituiscono la Repubblica, insieme
ai Comuni, alle Città metropolitane, alle Regioni ed allo Stato, e ribadisce
che esse esercitano poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione.
Trattandosi di attribuzioni
disciplinate sul piano costituzionale, la loro modifica – che nella specie
secondo la ricorrente, si è risolta in un vero e proprio «declassamento»
dell’istituzione provinciale, senza margini residui di «autonomia opzionale»
per le Regioni e per le stesse Province – avrebbe dovuto essere operata con
procedimento normativo aggravato.
4.4.3.– La difesa regionale
assume che l’intervento «demolitorio» attuato con le disposizioni impugnate
travalichi la competenza esclusiva statale in materia elettorale, di organi di
governo e di funzioni fondamentali delle Province, prevista dall’art. 117,
secondo comma, lettera p), Cost.
L’esercizio di tale competenza incontra, infatti, i limiti derivanti dalla
correlazione con le previsioni contenute negli artt. 5 e 114 Cost., e dunque
può avvenire soltanto nel rispetto dell’esistenza delle Province, secondo la
configurazione delineata dalla Carta.
Con le disposizioni impugnate
si sarebbe realizzata, invece, l’abolizione delle funzioni fondamentali delle
Province e dei relativi organi di governo, attribuendosi alle stesse «mere
funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni».
Le medesime disposizioni, nella
parte in cui impongono alle Regioni di trasferire ai Comuni le funzioni
esercitate dalle Province, ovvero di riservarle a loro stesse per assicurarne
l’esercizio unitario, sarebbero lesive anche dell’autonomia regionale, avuto
riguardo alle competenze residuali e concorrenti, nonché alla potestà
regolamentare delle Regioni. Sarebbe stato cancellato, inoltre, il potere delle
Regioni di conferire funzioni amministrative alle Province, anche attraverso
l’istituto della delega.
Per un verso, quindi, sarebbe
vulnerata la potestà regolamentare delle Province, in contrasto con l’art. 117,
sesto comma, Cost. e, per altro verso, verrebbe imposto un «paradigma di
conferimento, indifferenziato e generale», quello cioè della legge regionale,
per il trasferimento delle funzioni agli enti locali (e quindi alla stessa
Provincia). Ciò produrrebbe una evidente compressione delle prerogative
regionali, in violazione dell’art. 118 Cost., anche in riferimento alla
correlata autonomia finanziaria, sancita dall’art. 119 Cost. Le disposizioni
impugnate, invero, non raggiungerebbero né l’obiettivo della razionalizzazione
dell’esercizio delle funzioni amministrative né quello del risparmio di spesa.
4.4.4.– La previsione
dell’intervento sostitutivo dello Stato, contenuta nel comma 18 del citato art.
23, si porrebbe in contrasto con il principio di leale collaborazione, in
quanto le fattispecie indicate nella disposizione impugnata non rientrano tra
quelle di cui all’art. 120 Cost., così come attuato dall’art. 8 della legge n.
131 del 2003.
La difesa regionale segnala poi
la sproporzione fra il sacrificio dell’autonomia provinciale che discende dalle
disposizioni impugnate e il risparmio di spesa, che costituisce l’obiettivo
della normativa in esame, donde la violazione anche del principio di
ragionevolezza. Sussisterebbe, nella specie, la legittimazione della Regione a
far valere tale profilo di illegittimità, in considerazione delle ricadute
sulla sua sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite.
Non sarebbe ravvisabile, in
ogni caso, «un interesse pubblico prevalente tale da giustificare una così
grave limitazione e invasione della sfera di competenza regionale e degli altri
enti locali territoriali», e ciò si tradurrebbe nel difetto dei requisiti di
straordinaria necessità ed urgenza delle disposizioni impugnate, non sanabile,
e quindi non sanato, dal successivo intervento della legge di conversione (è
richiamata la
sentenza n. 171 del 2007 della Corte costituzionale).
4.5.– Anche la Regione Molise
propone istanza di sospensione dell’esecuzione delle disposizioni impugnate,
stante il rischio di un grave ed irreparabile pregiudizio all’interesse
pubblico ovvero ai diritti dei cittadini.
5.– Con ricorso spedito per la
notifica il 23 febbraio 2012 e depositato il successivo 29 febbraio (reg. ric.
n. 38 del 2012), la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée
d’Aoste ha promosso questioni di legittimità
costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23,
comma 22, per violazione degli artt. 2, primo comma, lettera b), 3, primo comma, lettera f), e 4 della legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale
per la Valle d’Aosta), nonché del combinato disposto degli artt. 117,
terzo comma, 119, secondo comma, Cost. e dell’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione).
5.1.– La difesa regionale
premette che, con il d.l. n. 201 del 2011, sono state introdotte misure
finalizzate ad assicurare il contenimento dei costi delle pubbliche
amministrazioni, alcune delle quali inciderebbero in maniera significativa
sull’assetto dei rapporti finanziari tra lo Stato e le Regioni ad autonomia
speciale.
In particolare, la disposizione
impugnata introduce il divieto di corresponsione, sotto qualsiasi forma, di
emolumenti a favore dei titolari di cariche, uffici od organi di natura
elettiva di enti territoriali non previsti dalla Costituzione. Il divieto non
opera per i Comuni «di cui all’articolo 2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre 2009, n. 191
e successive modificazioni», ovvero «per i Comuni con più di 250.000 abitanti».
5.2.– La disposizione censurata
contrasterebbe anzitutto con l’art. 3, comma 1, lettera f), dello statuto speciale valdostano, il quale riserva alla
Regione la potestà di legiferare in materia di «finanze regionali e comunali»,
nel rispetto dei principi fissati dalle leggi dello Stato.
La ricorrente osserva come, a
fronte dei novellati artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., la
competenza attribuita alla Regione dalla richiamata norma statutaria non possa
più essere considerata «meramente suppletiva» rispetto a quella statale,
risultando «garantita nell’ambito dei principi di coordinamento stabiliti dallo
Stato». Il legislatore statale, nel caso di specie, non si sarebbe limitato a
dettare i principi della materia di competenza concorrente, ma avrebbe imposto
misure di contenimento della spesa pubblica estremamente dettagliate, con
l’effetto di privare la Regione del potere di valutare l’an e il quomodo di una eventuale
remunerazione dei titolari di cariche elettive, nonché di adattare la
previsione statale alla situazione concreta della Regione stessa.
Sarebbe dunque evidente la
violazione del parametro statutario evocato, posto che la disposizione
impugnata non consente alla ricorrente di desumere i principi cui ispirare o
adeguare la propria legislazione in materia.
Analoghe ragioni sarebbero alla
base del contrasto con l’art. 2, comma 1, lettera b), dello statuto di autonomia, giacché la disposizione statale
impugnata avrebbe compresso la potestà legislativa primaria della Regione in
materia di ordinamento degli enti locali, e con l’art. 4 dello statuto, che
attribuisce alla Regione il potere di esercitare, nei predetti ambiti
materiali, le funzioni amministrative.
5.3.– La Regione autonoma Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste
ritiene, inoltre, violato il combinato disposto degli artt. 117, terzo comma, e
119, secondo comma, Cost., ad essa applicabile per effetto della clausola
contenuta nell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
I parametri indicati limitano
la competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica alla
determinazione dei principi, con la conseguenza che risultano illegittime le
disposizioni che, superando tale limite, dispongono nel dettaglio.
La difesa regionale richiama le
pronunce che, in ossequio ai suddetti parametri, hanno dichiarato illegittime
previsioni che fissavano vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei
bilanci delle Regioni e degli enti locali, sul rilievo che esse non
costituivano principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e
che pertanto risultavano lesive dell’autonomia finanziaria di spesa garantita
dall’art. 119 Cost. (sentenze n. 159 del
2008, n. 417
del 2005, n.
390 e n. 36
del 2004, n.
376 del 2003).
La normativa statale, secondo
la citata giurisprudenza, può stabilire «un limite complessivo, che lascia agli
enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti ed
obiettivi di spesa» (sentenza n. 36 del
2004), mentre non può spingersi a determinare le singole voci di spesa
oggetto della misura di contenimento. Ciò che sarebbe avvenuto, invece, nel
caso della norma censurata.
6.– Con ricorso notificato il
24 febbraio 2012 e depositato il successivo 1° marzo (reg. ric. n. 44 del
2012), la Regione Lazio ha promosso questioni di legittimità costituzionale di
alcune disposizioni del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23,
commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, per violazione degli artt. 5, 72,
quarto comma, 77, 114, 117, secondo comma, lettera p), 118, secondo comma, 119, quarto comma, e 120, secondo comma,
Cost., nonché dei principi di ragionevolezza e di leale collaborazione.
6.1.– Dopo avere illustrato il
contenuto delle disposizioni impugnate, la Regione ricorrente afferma che le
stesse svuoterebbero di rilievo l’istituto della Provincia e modificherebbero
radicalmente l’assetto costituzionale delle autonomie locali.
La natura strutturale
dell’intervento, che lo stesso Governo avrebbe riconosciuto, varrebbe a
documentare, in primo luogo, la carenza dei requisiti di straordinarietà ed
urgenza, che solo avrebbero potuto legittimare il ricorso alla decretazione
d’urgenza, con conseguente violazione dell’art. 77 Cost., ed in contrasto con
l’art. 15 della legge n. 400 del 1988, che sottrae espressamente al
decreto-legge le materie di cui al quarto comma dell’art. 72 Cost.
In secondo luogo, le
disposizioni censurate violerebbero gli artt. 5, 114, 117, secondo comma,
lettera p), e sesto comma, 118, 119 e
120 Cost., posto che le Province sarebbero declassate ad enti di secondo grado
e private delle funzioni loro attribuite dalla Carta costituzionale. Tale
svuotamento si risolverebbe, nel contempo, in lesione dell’autonomia legislativa
regionale quanto alla distribuzione delle funzioni amministrative a livello
locale. La riallocazione a livello regionale di parte delle predette funzioni
violerebbe poi il principio di sussidiarietà verticale.
Il ricorso de quo viene proposto, quindi, con riferimento sia ad una diretta
lesione delle competenze costituzionali delle Regioni, sia per la difesa delle
prerogative provinciali, che spetta alle Regioni tutelare, come dimostrato
anche dalle previsioni statutarie che consentono al Consiglio delle autonomie
locali di sollecitare l’ente regionale all’impugnativa di norme approvate dallo
Stato.
6.2.– Poste le indicate
premesse, la Regione Lazio procede all’esame delle disposizioni impugnate.
Il comma 14 dell’art. 23 del
d.l. n. 201 del 2011, assegnando alle Province solo generiche funzioni di
indirizzo e coordinamento dell’attività comunale, contrasterebbe con il secondo
comma dell’art. 114 Cost., ove si stabilisce che (anche) le Province sono enti
autonomi con proprie funzioni, secondo i principi stabiliti dalla Costituzione.
A funzioni provinciali, proprie o conferite, si riferisce anche il secondo
comma dell’art. 118 Cost., e lo stesso art. 117 (alla lettera p del secondo comma), attribuendo allo
Stato la competenza legislativa in materia di funzioni fondamentali proprie
(anche) delle Province, presuppone, appunto, la rilevanza costituzionale delle
funzioni provinciali.
La norma censurata, realizzando
un sostanziale svuotamento dell’istituzione provinciale, travalicherebbe la
competenza statale, superando i limiti posti dalla citata lettera p) del secondo comma dell’art. 117
Cost., in stretta correlazione con gli artt. 5 e 114 Cost. L’attribuzione delle
funzioni provinciali alle Regioni ed allo Stato, con riallocazione presso i
Comuni, sovvertirebbe l’assetto costituzionale delle autonomie locali. Tra
l’altro, la genericità del riferimento alle residue funzioni di coordinamento
implicherebbe una concomitante violazione dell’art. 114 Cost., che delinea un
sistema equiordinato delle autonomie locali.
Quanto alle previsioni
contenute nei commi 15, 16 e 17 dell’art. 23, la Regione Lazio, pur non
contestando la competenza legislativa statale nella materia «legislazione
elettorale ed organi di governo», prospetta un vizio di irragionevolezza, dato
che la conformazione del procedimento elettorale che dovrebbe sorreggere la
«nuova» istituzione provinciale è genericamente rinviata ad una successiva
legge, così dando luogo a «notevoli» margini di indeterminatezza. In ogni caso
la riduzione della governance e la
sottrazione al corpo elettorale della diretta designazione dei relativi
componenti comporterebbero un vulnus
per il fondamentale principio di rappresentanza democratica, incompatibile con
la configurazione della Provincia quale parte costitutiva della Repubblica
(art. 5 e 114 Cost.).
Avuto riguardo al comma 18, la
ricorrente prospetta, per un verso, la violazione del secondo comma dell’art.
120 Cost., essendosi introdotta una fattispecie incompatibile di intervento
sostitutivo dello Stato. Per altro verso, la previsione che le Regioni
«acquisiscano» funzioni provinciali senza trasferirle ai Comuni introdurrebbe
nell’ordinamento un tertium genus rispetto
al trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni ed al mantenimento delle
funzioni in capo alle Regioni stesse. Infine, la pertinenza dell’intervento
all’essenza dell’ordinamento delle autonomie locali e la sua stessa
giustificazione in base ad esigenze di spesa (con risultati nulli o comunque
imponderabili, secondo la ricorrente), avrebbe richiesto un processo di
consultazione tra Stato ed enti territoriali, che nella specie è completamente
mancato, in spregio al principio di leale collaborazione.
La denunciata illegittimità
delle norme sul trasferimento di funzioni, secondo la Regione Lazio, implica la
illegittimità «derivata» del comma 19 dell’art. 23, che regola il correlativo
trasferimento di riscorse umane, materiali e finanziarie. Comunque, sarebbe
violato l’art. 114 Cost., nella parte in cui assicura l’autonomia organizzativa
delle Province.
Infine, secondo la ricorrente,
sarebbe illegittimo anche il comma 20 dell’art. 23 (relativamente alla durata
in carica degli attuali consigli provinciali), per violazione degli artt. 1, 5,
e 114 Cost., oltre che dei principi della «Carta europea dell’autonomia
locale». Vi sarebbe anche violazione dell’art. 3 Cost., sotto i profili
dell’eccesso di potere legislativo e della irragionevolezza, data la prevista
subordinazione della permanenza delle attuali istituzioni rappresentative ai
dettami di una legge statale di adozione solo futura.
7.– Con ricorso spedito per la
notifica il 25 febbraio 2012 e depositato il successivo 2 marzo (reg. ric. n.
46 del 2012), la Regione Campania ha promosso questioni di legittimità
costituzionale dell’art.
23, commi 14, 15, 16, 18, 19 e 20, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, per violazione degli artt. 1, 2, 5, 114, 117,
118, 119, 120, secondo comma, Cost.
7.1.– Per ragioni di sintesi va
subito rilevato come l’impugnativa riproponga, anche nei profili motivazionali,
gran parte delle censure prospettate, nel proprio ricorso, dalla Regione
Lombardia. L’atto qui in esame si caratterizza, in sostanza, per una parziale
riduzione di oggetto, non comprendendo l’impugnazione del comma 17 dell’art. 23
sopra citato. Quanto ai parametri evocati, per i commi 14, 18 e 19 manca un
richiamo formale all’art. 3 Cost. (pur essendo invocato il «principio di
ragionevolezza»), e manca inoltre un riferimento all’art. 138 Cost. quale norma
«sostanziale» concorrente di parametrazione delle disposizioni indicate, ferma
restando l’evocazione degli artt. 1 e 5. Per i commi 15, 16 e 20 la violazione
dell’art. 114 Cost. è prospettata in riferimento concorrente, oltreché agli
artt. 1 e 5 Cost., all’art. 2 della stessa Carta costituzionale.
Ancora, la violazione
concomitante degli artt. 114, 117, 118 e 119 Cost. – sotto il profilo del
contrasto con la riserva costituzionale di funzioni a favore delle Province,
anche in relazione alle competenze regionali per la riallocazione delle
funzioni amministrative ed alle risorse finanziarie nelle materie di pertinenza
regionale – è specificamente riferita ai commi 14, 18 e 19 dell’art. 23.
Analoga precisazione si riscontra quanto alla prospettata violazione dell’art.
120, secondo comma, Cost.
Ciò premesso, i profili di
illegittimità delle norme censurate sono argomentati mediante rilievi in tutto
analoghi a quelli dei quali già si è data una sintesi, fatte salve alcune
particolarità dei riferimenti alla situazione regionale campana. In
particolare, si evince dal ricorso che l’impugnativa non è stata nella specie
sollecitata dal Consiglio delle autonomie locali. Si fa notare, inoltre, che
nella Regione ricorrente esistono allo stato solo quattro Unioni di Comuni e
che dunque, in ragione della carenza di strutture intermedie tra Regioni ed
enti comunali, l’eliminazione delle funzioni provinciali comporterà una
riorganizzazione complessa e, paradossalmente, un forte incremento di spesa.
8.– Con ricorso notificato il
24 febbraio 2012 e depositato il successivo 2 marzo (reg. ric. n. 47 del 2012),
la Regione autonoma Sardegna ha promosso questioni di legittimità
costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23,
commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis,
21 e 22, per violazione dell’art. 3, primo comma, lettere a) e b),
della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna).
8.1.– La Regione ricorrente
rammenta che, a norma dell’art. 3 del proprio statuto (primo comma, lettere a e b),
è titolare della competenza legislativa a provvedere in merito all’ordinamento
degli uffici e degli enti amministrativi regionali ed allo stato economico e
giuridico del personale, nonché a proposito dell’ordinamento degli enti locali
e delle relative circoscrizioni.
La riserva concernente
l’ordinamento degli enti locali sarebbe stata violata dall’intervento statale
di completa riforma dell’istituzione provinciale ed anche dal divieto di
remunerazione delle cariche politico-amministrative. Andrebbe esclusa, in
particolare, la pertinenza della normativa alle «riforme economico-sociali
della Repubblica», non essendosi il legislatore limitato ad indicare i criteri
di massima del riassetto, ed avendo piuttosto adottato una disciplina di
dettaglio che avrebbe dovuto essere riservata all’istituzione regionale, anche
per il migliore adeguamento alle singole realtà locali.
Con i commi 18 e 19 dell’art.
23, a parere della ricorrente, è stato addirittura disciplinato il modo in cui
la Regione Sardegna dovrebbe regolare le proprie funzioni amministrative. La
plateale violazione della norma statutaria non potrebbe essere giustificata
alla luce della riserva di competenza legislativa statale circa le «funzioni
fondamentali» degli enti locali (di cui alla lettera p del secondo comma dell’art. 117 Cost.), sia per la prevalenza
della norma statutaria, sia, e comunque, perché non potrebbero qualificarsi
fondamentali le funzioni che la Regione, nell’esercizio della propria
autonomia, ha finora inteso allocare all’uno o all’altro livello di governo.
Il vulnus anzidetto non potrebbe ritenersi escluso dalla previsione
del comma 20-bis dell’art. 23 citato,
in forza del quale la ricorrente, come le altre Regioni a statuto speciale,
dispone di un termine semestrale per l’adeguamento del proprio ordinamento alle
previsioni della disciplina censurata. Tale adeguamento sarebbe, infatti, doveroso,
così restando compressa l’autonomia statutaria della ricorrente. Anzi, la
previsione sarebbe sintomatica della consapevolezza del Governo circa
l’invasione di campo realizzata.
9.– Con ricorso notificato il
25 febbraio 2012 e depositato il successivo 5 marzo (reg. ric. n. 50 del 2012),
la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha promosso questioni di legittimità
costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23,
commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis
e 22, per violazione degli artt. 5, 77, 114, 117, commi primo, secondo e
sesto, 118, commi primo e secondo, e 119, nonché degli artt. 4, primo comma, n.
1-bis), 11, 51, 54 e 59 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1
(Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) e degli artt. 2 e 9 del
decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9 (Norme di attuazione dello statuto
speciale per la regione Friuli-Venezia Giulia in materia di ordinamento
degli enti locali e delle relative circoscrizioni).
9.1.– Riguardo anzitutto al
comma 4 del citato art. 23, dopo averne enunciato il contenuto (che riguarda
l’accorpamento delle committenze per i piccoli Comuni), la ricorrente esprime il
dubbio che la disposizione non riguardi le Regioni a statuto speciale, dato il
disposto dell’art. 4, comma 5, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163
(Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). L’impugnazione è dunque
proposta per il caso che la norma sia interpretata, invece, nel senso
dell’applicabilità sull’intero territorio nazionale. In tal caso, sarebbero
violate le competenze legislative assicurate alla ricorrente in materia di
«organizzazione amministrativa degli enti locali» (art. 4, comma primo, n. 1-bis, dello statuto) e di «finanza
locale» (artt. 51 e 54 dello stesso statuto), compresa la materia dei
«contratti degli enti locali».
La ricorrente assume che la
norma impugnata, non limitandosi a porre l’obiettivo di forme organizzative
utili a risparmi di spesa, e consistendo piuttosto in una disciplina di
dettaglio, violi la competenza legislativa regionale nella materia. La
normativa sarebbe, d’altra parte, in contraddizione con il principio che,
gravando sul bilancio regionale gli oneri della spesa locale, lo Stato potrebbe
chiamare la Regione a concordare vincoli finanziari complessivi, ma non
introdurre puntuali norme di coordinamento finanziario per spese interamente
sostenute dall’ente regionale.
9.2.– La Regione Friuli-Venezia
Giulia ritiene che le riforme introdotte con i commi da 14 a 20-bis dell’art. 23 avrebbero dovuto essere
attuate con procedimento di revisione costituzionale, ed impugna le disposizioni
citate sia nell’interesse proprio, sia quale soggetto rappresentativo delle
comunità provinciali esistenti nel proprio territorio.
Uno specifico e preliminare
profilo di illegittimità sarebbe poi dato dal ricorso del Governo alla
decretazione di urgenza, nonostante il carattere strutturale dell’intervento e
sebbene i suoi effetti finanziari siano pacificamente destinati a prodursi solo
nel lungo periodo: sussisterebbe dunque violazione dell’art. 77 Cost.
Con riguardo al comma 14
dell’art. 23, la ricorrente ritiene che la norma privi gli enti provinciali di
funzioni ad essi riferibili (residuando una mera attività di coordinamento
dell’esercizio di compiti affidati a soggetti diversi), in contrasto con
numerosi parametri costituzionali, che enunciano o presuppongono l’esistenza di
funzioni provinciali proprie (art. 114, secondo comma; art. 117, secondo comma,
lettera p, e sesto comma; art. 118,
primo e secondo comma; art. 119 Cost.). Dall’illegittimità del comma 14
deriverebbe quella dei commi 18 e 19, che conterrebbero in sostanza
disposizioni "attuative” della norma indicata. Peraltro, il comma 18 imporrebbe
alle Regioni di assumere funzioni in deroga ai principi di sussidiarietà ed
adeguatezza, ed il comma 19 completerebbe sul piano materiale «il disegno di
sottrazione».
La Regione Friuli-Venezia
Giulia prospetta anche l’illegittimità «derivata» dei commi 15, 16 e 17
dell’art. 23, la cui funzione di revisione degli organismi provinciali sarebbe
il portato dello svuotamento sostanziale dell’istituzione provinciale sul piano
delle funzioni. La soppressione della Giunta, ad esempio, potrebbe avere senso
solo in vista della eliminazione di funzioni provinciali. Ma le norme citate
sarebbero illegittime anche per ragioni «proprie».
In particolare il comma 15, eliminando
il rapporto diretto tra elettori e componenti delle istituzioni provinciali,
sebbene le Province siano parte della Repubblica, come tali fondate sui
principi di rappresentanza e di sovranità popolare, violerebbe direttamente il
primo comma dell’art. 114 Cost., oltre che la «Carta europea dell’autonomia
locale» (di cui alla legge 30 dicembre 1989, n. 439 «Ratifica ed esecuzione
della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale,
firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985»).
A tale ultimo proposito, avuto
riguardo ai commi 14, 16 e 17 dell’art. 23, la ricorrente rammenta che il primo
comma dell’art. 117 Cost. vincola il legislatore agli obblighi comunitari ed
internazionali. L’art. 3 della citata Carta europea definisce «autonomia
locale» il diritto e la capacità di regolamentare «una parte importante di
affari pubblici», così rendendo illegittima la norma di sostanziale spoliazione
delle Province riguardo all’esercizio di funzioni proprie. Inoltre, il comma 2
del citato art. 3 riferisce l’esercizio dell’indicato diritto a «Consigli e
Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario,
diretto ed universale», rendendo illegittima – sempre a parere della ricorrente
– la previsione che i membri dei Consigli provinciali siano indicati dai
Comuni.
Quanto al comma 20-bis dell’art. 23, che impone alle
Regioni speciali ed alle Province autonome l’adeguamento dei propri ordinamenti
alle norme immediatamente precedenti, entro il termine di sei mesi, la
ricorrente prospetta anzitutto una invalidità derivata, non essendo legittima
una norma che imponga di dare esecuzione a norme illegittime. In ogni caso,
l’art. 4 dello statuto attribuisce alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
una competenza legislativa primaria, che non potrebbe essere esercitata in
forma di adeguamento. L’art. 11 dello stesso statuto prevede che le funzioni
amministrative siano normalmente delegate (anche) alla Province. Ancora, il
successivo art. 59 attribuisce alla Regione il potere concorrente di regolare
ordinamento e funzioni degli enti provinciali compresi nel proprio territorio.
L’art. 54, infine, regolando l’eventualità che la Regione destini alle Province
una quota delle proprie entrate per la gestione delle loro funzioni, presuppone
evidentemente la titolarità di funzioni gestionali in capo alle Province
medesime.
Tutte le norme indicate, poi,
sarebbero illegittime in quanto esprimerebbero, con violazione dell’art. 54
dello statuto (in rapporto all’art. 9 del d.lgs. n. 9 del 1997), la pretesa
dello Stato di dettare norme puntuali di limitazione per spese di competenza
regionale.
La ricorrente censura infine il
comma 22 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, relativo al divieto di
remunerazione per i componenti di organi ed uffici elettivi concernenti enti
territoriali non previsti dalla Costituzione, fatta eccezione per le
circoscrizioni di Comuni con oltre 250.000 abitanti. Essendo pertinente alla
finanza locale ed all’ordinamento degli enti locali, la norma sarebbe
illegittima per le ragioni già indicate riguardo ai commi precedenti dello
stesso art. 23, compresa quella del carattere puntuale e «minuto» del divieto
di spesa introdotto dal legislatore nazionale.
La norma in oggetto entrerebbe
poi in contraddizione con quanto disposto in materia di «sistema regionale
integrato» dall’art. 1, comma 154, della legge 13 dicembre 2010, n. 220
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge di stabilità 2011). Tale sistema costituisce, per la Regione Friuli-Venezia
Giulia, lo strumento per la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica
complessivamente concordati con lo Stato, ed il comma 155 del citato art. 1
esclude espressamente l’applicazione delle disposizioni statali relative al
patto di stabilità interno agli enti locali che compongono il «sistema»,
spettando alla Regione il compito di distribuire gli oneri a fini di
assicurazione del risultato complessivo, del quale soltanto risponde nei
confronti dello Stato (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 341 del 2009).
10.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, è intervenuto tempestivamente in tutti i giudizi, tranne che in quelli
promossi dalle Regioni Veneto, Campania e Friuli-Venezia Giulia, nei quali il relativo atto di costituzione è stato
depositato fuori termine.
La difesa statale ha
sostanzialmente svolto le medesime considerazioni in tutti i giudizi, che
possono essere riassunte come segue.
10.1.– Preliminarmente, il
Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce l’inammissibilità dei ricorsi
per difetto di legittimazione delle Regioni, poiché dalla disposta riduzione
delle Province non deriverebbe alcuna vulnerazione
delle competenze costituzionalmente attribuite alle Regioni.
10.2.– Nel merito, secondo
l’Avvocatura generale, le norme impugnate sarebbero effettivamente idonee a
determinare risparmi di spesa, attraverso una razionalizzazione degli assetti
organizzativi e la realizzazione di economie di scala. Si tratterebbe pertanto
di «un intervento di carattere strutturale» riguardante le funzioni e le
modalità di nomina degli organi provinciali. Tutto ciò varrebbe ad escludere la
lamentata violazione dell’art. 3 Cost.
Peraltro, le misure in
questione sono inserite in una più ampia manovra denominata "Salva Italia”,
adottata con la procedura prevista per i decreti-legge, che avrebbe «la
finalità di realizzare, in un momento particolarmente difficile per la tenuta
complessiva del sistema economico italiano, l’obiettivo di un contenimento del
deficit di bilancio, in assolvimento anche degli obblighi derivanti
dall’ordinamento europeo». Il ricorso allo strumento del decreto-legge si
giustificherebbe proprio alla luce di quanto appena detto e, specialmente, in
considerazione dello «stato di emergenza determinato dal rischio di default di alcuni Stati, aggravato dal
presumibile effetto domino».
Al tempo stesso, lungi dal
realizzare un’inversione di tendenza rispetto a quanto stabilito dall’art. 5
Cost., la riforma realizzerebbe un complessivo decentramento di funzioni verso
l’istanza territoriale più prossima ai cittadini, essendo riservati al livello
regionale, in conformità al disposto dell’art. 118 Cost., i soli ambiti
funzionali che richiedano un esercizio unitario nella prospettiva della
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Il Presidente del Consiglio
esclude, ancora, che sussista violazione degli artt. 114 e 117 Cost. In base al
primo dei parametri indicati, l’autonomia degli enti territoriali si esplica
secondo i principi fissati dalla Costituzione. Spetta allo Stato, secondo
l’art. 117, secondo comma, lettera p),
Cost., la competenza legislativa esclusiva in materia di legislazione
elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli enti locali. Dunque
ben può lo Stato circoscrivere le funzioni delle Province all’indirizzo ed al
coordinamento delle attività dei Comuni. D’altra parte, il compito di
trasferire a questi ultimi le funzioni provinciali è stato riservato alla legge
regionale, così valorizzandosi al massimo le prerogative delle Regioni.
La difesa dello Stato richiama
la sentenza
della Corte costituzionale n. 261 del 2011, relativa al coordinamento tra
la previsione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), e l’art. 133 Cost., dalla quale emergerebbe la pienezza delle
competenze statali a proposito degli organi di governo e delle funzioni
fondamentali degli enti territoriali minori.
Viene esclusa, ancora, la
violazione degli artt. 118 e 119 Cost. La normativa impugnata lascerebbe,
infatti, impregiudicata la competenza legislativa delle Regioni in merito al
trasferimento delle funzioni provinciali. La Costituzione, per altro verso,
impone che le Province abbiano funzioni proprie ma non le determina
direttamente, né pone un principio di immutabilità delle funzioni medesime.
Infine, le norme censurate non avrebbero alcuna attinenza all’autonomia
finanziaria delle Province.
Quanto infine al principio di
leale collaborazione, la riforma non avrebbe inciso sulle competenze regionali
concorrenti o esclusive. La previsione concernente l’eventuale intervento
sostitutivo dello Stato, d’altra parte, sarebbe legittimata dalla necessità di
evitare sperequazioni nel trattamento degli enti locali, e comunque si
tratterebbe di intervento da attuare mediante le procedure stabilite dall’art.
8 della legge n. 131 del 2003.
A proposito del principio di
leale collaborazione e dei limiti costituzionali per l’intervento sostitutivo
dello Stato in materie attribuite alla competenza regionale, l’Avvocatura
generale osserva che tale intervento deve assicurare l’armonizzazione
dell’intero apparato pubblico, e dunque fondarsi su «norme da applicare con
carattere di generalità a tutte le Amministrazioni, ivi inclusi gli enti
territoriali, senza per questo ledere l’autonomia organizzativa» degli enti
medesimi.
Il Presidente del Consiglio
esclude, infine, una violazione dell’art. 138 Cost., posto che la riforma
censurata non ha soppresso le Province, e dunque non necessitava di
approvazione secondo la procedura di revisione costituzionale.
10.3.– In relazione alle
censure mosse al comma 4 dell’art. 23, l’Avvocatura generale sottolinea come la
disposizione in esame modifichi il codice dei contratti pubblici, con la
conseguenza che il comma impugnato deve essere letto «unitamente» alle
disposizioni dello stesso codice poste a salvaguardia delle competenze delle
Regioni speciali e delle Province autonome.
10.4.– Con particolare riguardo
al comma 22 dell’art. 23, la difesa statale ritiene che questa previsione sia
giustificata, ex art. 117, terzo
comma, Cost., «dalla necessità di fissare principi in materia di "costi della
politica”». La finalità della norma in esame non sarebbe, pertanto, la
sostituzione dello Stato alla Regione nell’organizzazione degli enti
territoriali non costituzionalizzati, ricadenti nella sfera di competenze della
Regione, bensì quella di «dettare una misura concretamente necessaria per
attuare un principio generale di coordinamento della finanza pubblica».
Sempre in relazione alle
questioni promosse nei confronti del comma 22, l’Avvocatura generale evidenzia
uno specifico profilo di inammissibilità derivante dal fatto che la Regione
ricorrente non ha precisato se sussistano, e in tal caso quali siano, eventuali
enti territoriali non costituzionalizzati la cui attività rientri nelle
competenze della Regione stessa.
10.5.– Da ultimo, la difesa
statale ritiene che la mera fissazione di un termine per l’adeguamento alle
nuove disposizioni valga a salvaguardare le competenze delle Regioni speciali.
11.– Nel giudizio promosso
dalla Regione Molise (ric. n. 32 del 2012) è intervenuta la Provincia di
Isernia chiedendo che la Corte costituzionale dichiari l’illegittimità dei
commi da 14 a 21 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011.
12.– Nel giudizio promosso
dalla Regione Lazio (ric. n. 44 del 2012) sono intervenute le Province di
Latina, Frosinone e Viterbo, nonché l’Unione delle Province d’Italia, chiedendo
che la Corte costituzionale dichiari l’illegittimità dei commi da 14 a 20
dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge n. 214 del
2011.
13.– In prossimità
dell’udienza, originariamente fissata per il 6 novembre 2012, le Regioni
Lombardia, Veneto, Molise e Campania, le Regioni autonome Sardegna e
Friuli-Venezia Giulia, la Provincia di Isernia e il Presidente del Consiglio
dei ministri hanno depositato memorie, nelle quali danno atto delle norme
introdotte dall’art. 17 del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, ed insistono nelle conclusioni già
rassegnate nei rispettivi ricorsi e atti di costituzione.
14.– Con ricorso spedito per la
notifica il 5 ottobre 2012, ricevuto e depositato il 9 ottobre (reg. ric. n.
133 del 2012), la Regione Molise ha promosso questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 17
del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012, per
violazione degli artt. 3, 5, 77, 114, 117, secondo comma, lettera p), quarto e sesto comma, 118, 119, 126
e 133, primo comma, Cost., e del principio di leale collaborazione.
14.1.– In via preliminare, la
ricorrente ricorda come la Provincia di Isernia (destinata ad essere soppressa
in virtù della normativa impugnata) sia stata istituita, da oltre trenta anni,
in aggiunta a quella di Campobasso, e come i due enti costituiscano oggi il
fulcro dell’intero assetto organizzativo e legislativo della gestione del
territorio regionale. La conservazione di tale assetto, dunque, sarebbe oggetto
di un interesse diretto ed attuale della Regione Molise, e fondamento della sua
legittimazione al ricorso, anche in difesa delle prerogative costituzionali
delle Province interessate.
In applicazione del primo comma
dell’art. 133 Cost., la Provincia di Isernia è stata istituita con legge dello
Stato (2 febbraio 1970, n. 20 «Adeguamento delle circoscrizioni provinciali,
degli organi e uffici della pubblica amministrazione nella regione Molise»),
sull’iniziativa concorrente di 51 Comuni. Trattandosi di istituzione
territoriale ormai radicata, quale componente del sistema delle autonomie
locali ed organo di rappresentanza democratica delle popolazioni interessate,
essa non potrebbe essere «sostanzialmente abolita» attraverso un provvedimento
del Governo. Ciò, a maggior ragione, considerando che, per effetto della
disciplina impugnata, la Regione Molise verrebbe ad essere costituita da una
sola Provincia, in violazione della regola che esigerebbe la presenza di almeno
due enti provinciali per ogni Regione.
Sarebbe illegittima, del resto,
anche la disciplina procedurale delineata nell’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012.
Il previsto coinvolgimento del Consiglio delle autonomie locali non potrebbe in
alcun modo sostituirsi all’iniziativa dei Comuni prescritta dall’art. 133
Cost., sia perché il Consiglio non rappresenta direttamente i Comuni (né li
rappresenta tutti), sia perché la normativa in questione prevede l’attuazione
del progetto a prescindere dalla proposta del citato Consiglio e della stessa
Regione.
La Costituzione riserverebbe a
tutti i Comuni, singolarmente considerati, la piena e diretta iniziativa per la
revisione delle circoscrizioni provinciali. Non sarebbe dunque utilizzabile lo
strumento della legge statale ordinaria per incidere su istituzioni provinciali
già esistenti, neppure dettando parametri a carattere generale.
Oltretutto – prosegue la
ricorrente – la norma impugnata ha rimesso al Governo la scelta dei criteri per
l’individuazione delle Province da sopprimere, nel contempo delineando una
partecipazione delle Regioni al processo, che assumerebbe carattere
obbligatorio ma non vincolante. Inoltre, la scelta normativa è stata assunta in
prima battuta dal Governo, in assenza dei requisiti di necessità ed urgenza
richiesti dall’art. 77 Cost., la cui carenza non può considerarsi «sanata» per
il sopravvenire della legge di conversione. Da ultimo, si tratterebbe nella
specie di materia riconducibile all’art. 72, quarto comma, Cost.
La Corte costituzionale avrebbe
ammesso, senza peraltro far riferimento alla decretazione d’urgenza, che
l’istituzione o la modificazione delle Province possa essere disposta tanto con
legge ordinaria che mediante decreti delegati. Avrebbe stabilito, però, la
necessaria osservanza di un procedimento «ascensionale» che muova dalla
proposta dei Comuni, riconoscendo al potere legislativo il solo compito di
valutare, in chiusura della sequenza, l’idoneità e l’adeguatezza dell’ambito
territoriale destinato a costituire la base delle Province nuove o modificate
(sono citate le sentenze
della Corte costituzionale n. 214 del 2010, n. 230 del 2001
e n. 347 del
1994). Mai sarebbe stata riconosciuta l’idoneità del procedimento alla
soppressione di enti provinciali. E, d’altra parte, nel caso di specie, il
procedimento sarebbe comunque difforme da quello tracciato dalla Costituzione.
Andrebbe considerato, ancora,
che le funzioni e l’assetto delle Province sarebbero regolati da leggi
«rinforzate», secondo il disposto dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 267 del
2000, e che la stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto che «la
normativa sull’ente locale opera a un livello superiore della stessa normazione
statale» (sono citate le sentenze n. 13 del
1974 e n. 30
del 1959).
In sostanza la norma impugnata
violerebbe sotto più profili le norme costituzionali di presidio delle
autonomie locali, garantite dall’art. 5 Cost., sottraendo la materia alla
inderogabile determinazione democratica delle istituzioni rappresentative delle
popolazioni interessate.
14.2.– Dopo l’ampia premessa,
la ricorrente procede ad un esame di dettaglio delle ragioni di asserito
contrasto tra la disciplina censurata ed i singoli parametri costituzionali, a
cominciare dall’art. 133, in relazione agli artt. 5 e 114 Cost.
La norma citata da ultimo
stabilisce che la Repubblica è costituita anche da Province. L’art. 133, per
altro verso, varrebbe anzitutto a porre la volontà popolare quale presupposto
imprescindibile per ogni «mutamento» in materia di Province, in armonia con la
direttiva costituzionale di «promozione» delle autonomie locali (art. 5 Cost.).
Secondo la Regione Molise, la Corte costituzionale avrebbe già riconosciuto che
l’istituzione di una nuova Provincia senza l’iniziativa dei Comuni
contrasterebbe con la Costituzione (sono citate le sentenze n. 214 del
2010 e n.
237 del 2004). A maggior ragione sarebbe illegittima, dunque, la
soppressione di una Provincia su statuizione governativa.
Oltre che nella procedura, la
normativa impugnata sarebbe censurabile anche quanto ai criteri dettati per i
previsti accorpamenti. Le esigenze di contenimento della spesa pubblica non
legittimerebbero la lesione delle prerogative degli enti locali (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 151 del 2012), e comunque non potrebbero che essere
assicurate nel rispetto dell’art. 133 Cost. (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 347 del 1994).
I commi 2 e 13 dell’art. 17 del
d.lgs. n. 95 del 2012 sarebbero illegittimi, in specifico, perché rimettono ad
una deliberazione del Consiglio dei ministri il riordino delle Province,
materia, questa, riservata alla legge, e prevedono che l’accorpamento, cioè di
fatto la soppressione, sia disposto a
posteriori con una deliberazione dello stesso Governo, pur essendo state le
singole Province istituite con legge. L’art. 133 Cost. porrebbe «una riserva di
legge assoluta», tale da riservare ogni modifica al Parlamento con lo strumento
della legge ordinaria. Peraltro, aggiunge la ricorrente, l’iniziativa
obbligatoria dei Comuni è disciplinata da una «legge rinforzata», il d.lgs. n.
267 del 2000, che all’art. 21 disciplina siffatto procedimento.
Dopo aver fatto cenno al
divieto di vincoli specifici e puntuali per la gestione delle risorse regionali
in nome della funzione di coordinamento della finanza pubblica (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 159 del 2008), la Regione Molise osserva come il
Parlamento abbia addirittura omesso di dettare al Governo i parametri per
l’individuazione dei criteri di accorpamento, così riducendo la procedura ad
una libera scelta dell’esecutivo circa le Province da sopprimere, secondo una
generica direttiva di risparmio della spesa che oltretutto, almeno nel caso di
Isernia, sarebbe ingiustificata in linea di fatto.
La disciplina impugnata
vanificherebbe quella esigenza di continuità territoriale che pure è menzionata
nel testo del comma 3 dell’art. 17. Tra l’altro, è prevista una eccezione per
le Province confinanti solo con Province di Regioni diverse, ed il criterio
dovrebbe valere a maggior ragione ad escludere che il territorio di una Regione
si riduca a contenere un’unica Provincia.
Nota infine la ricorrente che
l’art. 133 sarebbe violato anche dalla possibilità, accordata alle Regioni, di
proporre esse stesse ipotesi di riordino delle circoscrizioni provinciali,
senza carattere vincolante. Ricorrerebbe anzi, per questa ragione, la
violazione degli artt. 5, 117, 118 e 119 Cost., nonché del combinato disposto
degli artt. 5, 114 e 118 Cost., non essendo garantito alla Provincia un proprio
ed autonomo livello di esercizio di funzioni, in applicazione del principio di
sussidiarietà.
14.3.– A questo punto la
Regione Molise ricorda come l’art. 5 Cost. garantisca e promuova le autonomie
locali, compreso l’ente Provincia, per ciò stesso inibendo iniziative di
soppressione, specie se fondate (ex post)
sulla ricorrenza di requisiti minimi per la permanenza. L’argomento per il
quale il sistema delle autonomie potrebbe comunque incentrarsi sui Comuni si
scontra, secondo la ricorrente, con l’espressa previsione delle Province come
istituzioni costitutive della Repubblica (art. 114 Cost.). La disciplina
censurata varrebbe, in realtà, a snaturare «la forma, storicamente garantita,
del decentramento amministrativo come articolazione sul territorio».
«Promuovere» sarebbe l’antitesi del «sopprimere».
14.4.– Secondo la ricorrente,
«la disposizione legislativa impugnata viola sostanzialmente anche l’art. 3
Cost. sotto il profilo dell’eccesso di potere legislativo, ponendosi in
contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto rinvia al potere
esecutivo la adozione di atti senza la preventiva individuazione dei parametri
di sopravvivenza di enti Provincia da parte dell’esecutivo». La stessa Corte
costituzionale avrebbe riconosciuto all’ente Provincia una autonomia
strutturale e funzionale di rilievo costituzionale, a norma dell’art. 114
Cost., negando, al contempo, analoga autonomia alle Comunità montane (è citata
la sentenza n.
244 del 2005). Ciò dimostrerebbe che un atto del Governo, od anche un atto
legislativo ordinario, non potrebbero tradurre il concetto di «mutamento» fino
a risolverlo in quello di soppressione.
14.5.– La Regione Molise
ricorda che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. riserva allo Stato la competenza legislativa esclusiva a
proposito degli organi di governo e delle funzioni fondamentali delle Province.
Tale competenza non potrebbe che esercitarsi sul presupposto della esistenza
delle Province, cioè nella prospettiva di promozione segnata dall’art. 5 Cost.
e con le garanzie stabilite dall’art. 133 Cost. La disciplina censurata, di
contro, avrebbe valenza essenzialmente demolitoria. Sarebbero nel contempo
soppresse le funzioni amministrative e la potestà regolamentare proprie delle
Province, sovvertendo l’assetto delineato dagli artt. 117 e 118 Cost.
A conferma del proprio assunto,
la ricorrente osserva come già da lungo tempo abbia trasferito proprie funzioni
alla Provincia di Isernia, e come dunque si trovi costretta, in forza della
disciplina censurata, a trasferire funzioni ai Comuni od a riassumerne il
diretto esercizio, con violazione delle prerogative di cui all’art. 118 Cost.
La compressione delle
prerogative regionali, sopra illustrata, determinerebbe anche la violazione
dell’autonomia finanziaria della Regione (ex
art. 119 Cost.), poiché la norma impugnata non solo non razionalizzerebbe
l’esercizio delle funzioni amministrative, ma non produrrebbe neanche alcun
risparmio di spesa.
14.6. – Secondo la Regione
Molise la disciplina impugnata avrebbe comportato una violazione del principio
di leale collaborazione, avuto riguardo al disposto dell’art. 8 della legge n.
131 del 2003, risolvendosi in un intervento sostitutivo dello Stato fuori dai
casi previsti dall’art. 120 Cost.
Mancherebbe, nell’intervento
dello Stato, ogni profilo di adeguatezza, nella prospettiva di un ragionevole
bilanciamento tra l’obiettivo di riduzione della spesa pubblica (riduzione
sostanzialmente nulla) e il vulnus recato
alle prerogative ed agli interessi costituzionali gravitanti sull’assetto
dell’istituzione provinciale.
Inoltre, «così come
strutturato, lo art. 17 viene a pregiudicare, in modo irreparabile, il
principio di sussidiarietà, ed in particolare di sussidiarietà verticale,
nonché quello di adeguatezza previsto dall’art. 118 Cost.».
14.7. – Da ultimo, la
ricorrente sottolinea come, nel caso di specie, non sussistano i «casi
straordinari di necessità e d’urgenza», richiesti dall’art. 77 Cost. per
l’adozione di un decreto-legge, né potrebbe essere riconosciuta efficacia
sanante di siffatti vizi alla legge di conversione.
14.8. – A norma dell’art. 35
della legge n. 87 del 1953 la Regione Molise chiede che l’esecuzione delle
norme impugnate venga sospesa, dato il pregiudizio irreparabile che si
determinerebbe qualora fossero avviate le innumerevoli operazioni di
«trasferimento» di risorse umane e materiali che sarebbero implicate
dall’attuazione della riforma.
15.– Con ricorso spedito per la
notifica il 12 ottobre 2012, ricevuto il 17 ottobre e depositato il 16 ottobre
(reg. ric. n. 145 del 2012), la Regione Lazio ha promosso questioni di
legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012,
e, tra queste, degli artt. 17 e
18, per violazione degli
artt. 3, 72, quarto comma, 77, 114, 117, terzo comma, e 133 Cost.
15.1.– La ricorrente ricorda in apertura che la
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, esprimendosi sui contenuti
del decreto-legge di cui si tratta, ha espresso dubbi circa la compatibilità
costituzionale di alcune delle relative disposizioni. Parte di tali dubbi
sarebbe stata recepita dal Parlamento in sede di conversione, attraverso
opportune modifiche della normativa originaria. Residuerebbero, però, norme in
contrasto con i parametri già indicati in apertura.
Sarebbe il caso, anzitutto,
dell’art. 17 del decreto, ove la sostituzione del termine «riordino» alle
parole «soppressione» e «accorpamento», con riferimento alle Province, non
avrebbe certo superato le obiezioni e le proposte di emendamento formulate
dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Secondo la ricorrente,
in particolare, i commi 2 e 3 della disposizione delineano un procedimento nel
cui ambito il ruolo assegnato ai Comuni, ai Consigli delle autonomie locali ed
alle Regioni potrebbe essere del tutto vanificato, se non esercitato in tempi
assai ristretti, dato che, scaduti i relativi termini, il Governo sarebbe
legittimato a procedere in piena autonomia.
Tra le norme tuttora in
contrasto con la Costituzione, inoltre, vi sarebbe anche l’art. 18 del d.l. n.
95 del 2012, nella parte in cui dispone, in concomitanza con la istituzione
delle relative Città metropolitane, la soppressione delle Province di Roma e di
numerosi altri capoluoghi di Regione.
15.2.– Trattando in particolare
dell’art. 17, la ricorrente assume anzitutto la propria legittimazione ad
agire, tanto alla luce del combinato disposto dell’art. 32 della legge n. 87
del 1953 e dell’art. 41, comma 4, dello statuto regionale, tanto in ragione
della giurisprudenza costituzionale, secondo cui spetta alle Regioni
l’impugnativa delle leggi che violino le attribuzioni costituzionali degli enti
locali, indipendentemente dall’eventuale contrasto con il riparto delle
competenze legislative (è citata la sentenza della Corte
costituzionale n. 298 del 2009). Nella specie, inoltre, la ricorrente
farebbe valere prerogative proprie, alla luce dell’art. 133 Cost., che
attribuisce alle Regioni un ruolo di rilievo nel processo di modifica delle
circoscrizioni provinciali.
La norma censurata
contrasterebbe, in primo luogo, proprio con l’art. 133 Cost., eludendo il
principio fondamentale della promozione «dal basso» dei mutamenti delle
circoscrizioni provinciali, attuata mediante l’imprescindibile «iniziativa dei
Comuni». Il compito di «riordino» sarebbe stato sostanzialmente assegnato al
Governo, in contrasto oltretutto con la giurisprudenza che impone la
considerazione delle esigenze delle popolazioni interessate per ogni
compromissione dell’attuale assetto delle autonomie locali (sono citate le sentenze n. 279 del
1994 e n.
453 del 1989).
Lo scarto dal modello di
procedimento imposto dalla Costituzione permarrebbe anche dopo la previsione,
introdotta dalla legge di conversione n. 135 del 2012, che vengano tenute in
considerazione dal Consiglio dei ministri le «eventuali iniziative comunali»
già esistenti, tanto che il Governo avrebbe già escluso ogni loro influenza
sulla integrazione dei requisiti minimi stabiliti dallo stesso Consiglio dei
ministri.
D’altra parte, la norma
censurata non troverebbe giustificazione nei compiti statali di coordinamento
della finanza pubblica (di qui la violazione del terzo comma dell’art. 117
Cost.), dato che non si limita ad un’opera «transitoria» di contenimento della
spesa, incidendo piuttosto in modo strutturale e definitivo su ordinamenti
intermedi, muniti di proprie prerogative costituzionali (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 326 del 2010). Peraltro, le esigenze di economia
delle risorse non possono legittimare la violazione delle garanzie
costituzionali degli enti locali (sentenza n. 151 del
2012).
Sarebbe violato anche il
principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., con ridondanza nella
lesione delle prerogative assicurate alla ricorrente dagli artt. 114 e 133
Cost., in quanto la tempistica prevista per gli adempimenti assegnati alla
Regioni ed ai Consigli delle autonomie locali nell’ambito del procedimento di
riordino sarebbe tanto serrata da vanificare, sul piano pratico, ogni
possibilità di influire sulla legge statale.
Ancora, farebbero palesemente
difetto, nel caso di specie, le condizioni straordinarie di necessità ed
urgenza richieste dall’art. 77 Cost. per la decretazione d’urgenza. La
violazione del richiamato art. 77 (oltreché del quarto comma dell’art. 72)
ridonderebbe in lesione della sfera di autonomia garantita alle Province ed
alle Regioni dagli artt. 114 e 113 Cost.
Il decreto-legge sarebbe stato
assunto, tra l’altro, anche in violazione del disposto dell’art. 15 della legge
n. 400 del 1988, che costituirebbe esplicitazione della ratio sottesa all’art. 77 Cost., e sancirebbe il divieto di
normazione in via d’urgenza sulle materie di "rilievo costituzionale”.
15.3.– Considerazioni in tutto
analoghe, secondo la ricorrente, varrebbero per la denunciata illegittimità
dell’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012. Il decreto-legge sarebbe strumento
costituzionalmente inadeguato sia per la soppressione delle Province, la cui
esistenza ed autonomia sarebbe sottratta alla legislazione ordinaria dall’art. 114
Cost., sia per la istituzione di Città metropolitane, riservata all’«assemblea»
dal quarto comma dell’art. 72 Cost. In entrambi i casi si tratterebbe di una
nuova disciplina «di regime», che non sarebbe attuabile mediante la
decretazione di urgenza (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 22 del 2012).
16.– Con ricorso notificato il
12 ottobre 2012 e depositato il 17 ottobre (reg. ric. n. 151 del 2012), la
Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune
disposizioni del d.l. n. 95
del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge n. 135 del 2012, e, tra queste, degli artt. 17 e 18, per violazione degli artt. 3, 5,
77, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 Cost., e del principio di leale
collaborazione.
16.1.– Dopo aver rilevato che le Regioni sono legittimate
a promuovere il giudizio di costituzionalità, riguardo a leggi dello Stato,
anche in base alla ritenuta violazione delle competenze proprie degli enti
locali, la ricorrente assume che, in forza dell’impugnato art. 17, si determina
anche una diretta lesione delle prerogative regionali. Infatti, la disciplina
censurata finirebbe con il privare la Regione di un interlocutore istituzionale
cui la Regione stessa può affidare, ed anzi normalmente affida, funzioni
amministrative. Sarebbero vulnerate, per la stessa ragione, le competenze
legislative (concorrenti e residuali) di cui al terzo ed quarto comma dell’art.
117 Cost., nonché le competenze regolamentari di cui al sesto comma della
medesima norma costituzionale.
Ancora, le disposizioni
concernenti la redistribuzione di funzioni amministrative tra i Comuni, le
Province e le Regioni (a norma dei commi 6, 10 e 11 dell’art. 17)
sovvertirebbero irragionevolmente «l’intero assetto costituzionale regionale e
delle autonomie locali», determinando la complessiva violazione degli artt. 3,
5, 97 e 114 Cost. In particolare, considerato che la gran parte dei Comuni
italiani conta una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, la riforma
eliminerebbe strutture essenziali per l’attuazione del principio di
sussidiarietà verticale, di cui al primo comma dell’art. 118, in relazione ai
compiti di «area vasta».
16.2.– Dopo avere asserito che
le notazioni fin qui svolte varrebbero a documentare tanto il merito delle
censure proposte che la legittimazione al ricorso da parte della Regione
Veneto, quest’ultima denuncia ancora la difformità fra la procedura prevista
dal legislatore statale e quella prescritta dall’art. 133 Cost. per il
mutamento delle circoscrizioni provinciali.
La norma costituzionale
richiederebbe, infatti, una «legge rinforzata», approvata in esito
all’iniziativa dei Comuni, sentita la Regione interessata. La disciplina di
dettaglio della procedura, contenuta nell’art. 21 del d.lgs. n. 267 del 2000,
comprende regole che garantiscono una adesione maggioritaria delle popolazioni
al progetto di mutamento, riservando alla funzione legislativa dello Stato un
compito di verifica della corrispondenza del progetto all’interesse generale.
In nessun caso la modifica della circoscrizione potrebbe essere disposta – come
invece prevede la normativa censurata – senza l’iniziativa dei Comuni, e
addirittura affidando al Governo la precostituzione del disegno di riforma.
La Regione Veneto considera
inaccettabile la tesi dell’Esecutivo – desunta dalla relazione al disegno di
legge di iniziativa governativa per la conversione del d.l. n. 95 del 2012 –
secondo cui la procedura di cui all’art. 133 Cost. dovrebbe essere applicata
solo per mutamenti esauriti nell’ambito delle singole Regioni, mentre, nel
contesto di un disegno complessivo di riforma, il coinvolgimento dei Comuni
potrebbe essere validamente assicurato mediante l’interlocuzione dei Consigli delle
autonomie locali. La norma costituzionale, infatti, non istituisce alcuna
differenza basata sulla «scala» dei mutamenti, che del resto si producono
nell’ambito delle singole Regioni, quand’anche disposti su base nazionale.
La ricorrente ricorda che la
Corte costituzionale, pur ammettendo che l’istituzione di nuove Province può
essere attuata mediante legge di delegazione, ha ribadito la necessità del
procedimento «ascensionale» che muove dai Comuni, riservando alla legge il solo
compito di «valutare, nella fase conclusiva dello stesso procedimento,
l’idoneità e l’adeguatezza dell’ambito territoriale destinato a costituire la
base della nuova Provincia» (sentenza n. 347 del
1994).
Neppure potrebbe ammettersi,
sempre secondo la ricorrente, che nel ruolo assegnato loro dall’art. 133 Cost.
i Comuni siano validamente «sostituiti» dai Consigli delle autonomie locali. Il
potere di iniziativa spetta infatti ai singoli Comuni, e, d’altra parte, l’art.
17 chiama i Consigli ad operare su un progetto già elaborato dal Governo, al
quale addirittura si assegna un potere sostitutivo nel caso di inutile scadenza
dei brevissimi termini a disposizione del citati Consigli.
La Regione Veneto ricorda che
un disegno del genere era già stato posto a base di una norma di emanazione
governativa (art. 15 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante
«Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo»), poi soppressa, per questo aspetto, in sede di conversione, anche in
forza delle obiezioni mosse da più parti a proposito della sua compatibilità
con la Costituzione (art. 1 della relativa legge di conversione 14 settembre
2011, n. 148). Sarebbe incomprensibile e contraddittoria, dunque, la nuova
iniziativa, avente ad oggetto norme in contrasto ancora maggiore con l’art. 133
Cost.
16.3.– La ricorrente prende in
considerazione la possibilità che l’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012 venga
applicato per realizzare l’accorpamento di Province appartenenti a Regioni
diverse. In questo caso, la procedura prevista dalla norma si troverebbe in
contrasto con la specifica previsione costituzionale dell’art. 132, secondo
comma, Cost., fondata su consultazioni referendarie e sulla interlocuzione dei
Consigli regionali interessati.
16.4.– Ulteriore ragione di
contrasto con la Costituzione è ravvisata nella carenza delle condizioni
straordinarie di necessità e urgenza che, sole, avrebbero potuto legittimare il
ricorso alla decretazione governativa (art. 77 Cost.).
Viene ricordato come l’art. 15
della legge n. 400 del 1988 escluda dall’area di possibile intervento del
decreto-legge le materie di cui al quarto comma dell’art. 72 Cost., comprese
«le norme in materia costituzionale ed elettorale». Poiché la riforma in
discussione atterrebbe alla «modifica dell’assetto dello Stato», non avrebbe
potuto comunque essere realizzata in via d’urgenza.
Lo stesso Governo, pur
allegando ragioni di urgente riassetto della finanza pubblica, avrebbe d’altra
parte vanificato quelle ragioni, «ammettendo» di non essere in grado di
quantificare il risparmio che dovrebbe derivare dall’attuazione della riforma.
La ricorrente rammenta, infine, che il «vizio» originario del decreto legge non
è sanato dall’intervento della legge di conversione.
16.5.– Tutte le censure
indicate, secondo la Regione Veneto, sarebbero riferibili anche all’art. 18 del
d.l. n. 95 del 2012, con il quale il legislatore statale ha «sbrigativamente»
disposto la soppressione delle Province con capoluogo in numerose città
italiane, istituendo contemporaneamente altrettante Città metropolitane.
Il completo scostamento dalla
procedura imposta dalla Costituzione, con partenza «dal basso», comporterebbe
la violazione degli artt. 5 e 114, 3 e 97 e 133 Cost. L’assenza di un serio
coinvolgimento della Regione nella istituzione delle Città metropolitane
comporterebbe la lesione delle competenze legislative regionali (in relazione
al secondo comma dell’art. 118 e alla lettera p del secondo comma dell’art. 117 Cost.), e comunque una violazione
del principio di leale collaborazione (artt. 5 e 120 Cost.).
Palese poi sarebbe
l’incostituzionalità del comma 9 (lettere c
e d) dell’impugnato art. 18, che
prevede il reciproco conferimento di funzioni tra Città metropolitane e Comuni,
mentre la previsione dell’indicato conferimento, per le materie di competenza
regionale, avrebbe dovuto essere riservata, in applicazione del secondo comma
dell’art. 118 Cost., ad una legge regionale.
16.6.– La Regione Veneto,
tenuto anche conto delle serrate scadenze previste dal d.l. n. 95 del 2012 per
la realizzazione della riforma, e del carattere irreversibile degli effetti
dannosi che si annetterebbero alla sua esecuzione, formula richiesta di
sospensione cautelare delle esecuzione della normativa impugnata, ai sensi e
per gli effetti degli artt. 35 e 40 della legge n. 87 del 1953.
17.– Con ricorso spedito per la
notifica il 13 ottobre 2012, ricevuto il 17 ottobre e depositato il 18 ottobre
(reg. ric. n. 153 del 2012), la Regione Campania ha promosso questioni di
legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, e, tra queste, dell’art. 17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 6, 11 e 12, e dell’art. 18, commi 1, 2, 2-bis, 7-bis, 9, lettere c) e d), per violazione degli artt. 1, 2, 3,
5, 71, primo comma, 77, secondo comma, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133 e
138 Cost.
17.1.– La ricorrente, dopo aver descritto il contenuto
delle disposizioni impugnate, illustra le ragioni di illegittimità
costituzionale dell’art. 17,
commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 6, 11 e 12,
del d.l. n. 95 del 2012.
17.1.1.– Sono censurate, in primo luogo, le norme
dell’art. 17 che regolano il procedimento di revisione delle circoscrizioni
provinciali (commi da 1 a 4-bis),
prospettandone l’incompatibilità con l’art. 133 Cost.
Secondo la Regione Campania la
norma costituzionale, che pone una riserva di legge «rinforzata» per
l’istituzione di nuove Province ed il mutamento delle circoscrizioni già
esistenti, riguarda a fortiori il
riordino, concomitante e generalizzato, delle circoscrizioni stesse.
La necessità della procedura
«rinforzata» sarebbe stata più volte confermata, in via indiretta, dalla Corte
costituzionale. Così, ad esempio, riguardo ad una legge regionale istitutiva di
nuove Province nella Regione Sardegna, considerata compatibile con la
Costituzione solo in quanto fondata su una normativa derogatoria di pari rango,
e cioè lo statuto della Regione interessata (sentenza n. 230 del
2001). In altra occasione la Corte ha respinto i dubbi di legittimità
proposti riguardo ad una legge statale finalizzata all’istituzione di nuove
Province, sul presupposto che gli elementi fondanti della procedura prescritta
dalla Costituzione (iniziativa dei Comuni e interlocuzione regionale) fossero
compatibili con la normazione per delega al Governo, adottata nel caso di
specie (sentenza
n. 347 del 1994).
Nell’odierna fattispecie, il
ruolo dei Comuni sarebbe mediato e potenzialmente ininfluente, sia per
l’irrilevanza di un eventuale loro dissenso rispetto alle proposte del
Consiglio delle autonomie locali, sia ancora per la previsione della
possibilità di ignorare le iniziative comunali deliberate successivamente
all’adozione del provvedimento del Consiglio dei ministri che ha determinato i
criteri per il riordino, sia infine per il potere accordato al Governo di
provvedere anche in assenza di proposte di riordino formulate dalle Regioni
sulla base delle ipotesi trasmesse dall’organo di raccordo tra la Regione
stessa e gli enti locali.
L’assoluta necessità di
rispetto dei criteri posti dall’art. 133 Cost. trova conferma – secondo la
ricorrente – nella Carta europea dell’autonomia locale (la cui ratifica è stata
autorizzata con legge n. 439 del 1989,
che ne ha anche disposto l’esecuzione). La Carta in questione, infatti,
riconoscerebbe un diritto alla consultazione delle popolazioni interessate a
modifiche dei limiti locali territoriali (art. 5), ed un diritto all’iniziativa
degli enti territoriali per questioni non esulanti dalle proprie competenze e
non rimesse ad altra autorità (art. 4). Se è vero che la Corte costituzionale
ha riconosciuto mero carattere programmatico alle norme richiamate (sentenza n. 325 del
2010), resterebbe inalterato l’obbligo, sancito dal primo comma dell’art.
117 Cost., di adeguarsi alle disposizioni sovranazionali, anche data la loro
piena compatibilità con la norma costituzionale interna (art. 133) e
considerato che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. non assegna allo Stato alcuna competenza in materia di modifica
delle circoscrizioni provinciali.
Insomma, il legislatore avrebbe
dovuto procedere a riforma costituzionale, per pervenire legittimamente al
risultato perseguito, con la conseguenza che sarebbe violato anche l’art. 138
Cost.
17.1.2.– La Regione Campania
osserva come la giurisprudenza costituzionale abbia posto da tempo in luce la
piena pertinenza delle Province al sistema delle autonomie locali (art. 5
Cost.), quali strutture espressive del principio autonomistico e di quello
democratico, «attraverso cui si esplica la sovranità popolare» (è citata la sentenza n. 106 del
2002). La mortificazione del loro ruolo sarebbe dunque incompatibile con i
principi sanciti agli artt. 1, 2 e 5 Cost., in combinato disposto con l’art.
114 Cost.
D’altra parte – prosegue la
ricorrente – la riforma delle circoscrizioni provinciali non avrebbe comunque
potuto essere effettuata con lo strumento del decreto-legge, neppure per una
declamata finalità di urgente riassetto della finanza pubblica (sono citate le sentenze della
Corte costituzionale n. 151 e n. 148 del 2012).
Mancherebbero, in effetti, le necessarie condizioni di necessità ed urgenza,
trattandosi di intervento di complessivo riordino dell’ente provinciale.
Inoltre, la successiva conversione in legge non varrebbe a sanare l’originaria
illegittimità del decreto.
Per quanto detto, la normativa
censurata contrasterebbe anche con l’art. 77, secondo comma, Cost.
17.1.3.– Il fatto che la
normativa censurata abbia privato i Comuni della funzione propulsiva per il
riordino delle circoscrizioni provinciali avrebbe determinato, secondo la
Regione Campania, anche una violazione dell’art. 71 Cost., nella parte in cui
regola l’iniziativa legislativa. Viene ribadito che, a norma dell’art. 133
Cost., detta iniziativa sarebbe spettata ai Comuni, i quali in nessun modo
potrebbero considerarsi "rappresentati” dal Consiglio delle autonomie locali o
da altri organi di raccordo tra Regione ed enti territoriali.
17.1.4.– Proprio con riguardo
al ruolo attribuito ai Consigli delle autonomie locali o, in mancanza, ad altri
organi regionali di raccordo, la normativa censurata avrebbe determinato una
lesione delle competenze legislative regionali, come definite dagli artt. 123,
quarto comma, e 117, quarto comma, Cost. La prima delle norme citate rimette
allo statuto la disciplina dei Consigli (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 370 del 2006), dal che dovrebbe desumersi che
spetta unicamente alla Regione definire i compiti dei Consigli medesimi, con
conseguente illegittimità di ogni interferenza statale nella materia. Una
interferenza che sarebbe evidente, di contro, con l’attribuzione agli organismi
regionali dei compiti regolati dall’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012.
Quanto all’art. 117, quarto
comma, Cost., la difesa regionale ritiene che questa norma costituzionale sia
violata nel caso in cui, in mancanza dei Consigli delle autonomie locali, le
funzioni in esame siano svolte dagli organi regionali di raccordo. In tale
ipotesi, infatti, sarebbe violata la potestà delle Regioni, nell’ambito della
propria competenza esclusiva in materia di organizzazione, di disciplinare
discrezionalmente questi organi interni.
17.1.5.– La Regione Campania
individua ulteriori profili di illegittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l.
n. 95 del 2012, guardando al merito dei criteri dettati per il riordino delle
Province, e prima ancora al fatto che la competenza per la relativa
individuazione sia stata rimessa al Governo, in assenza di vincoli effettivi.
Non vi sarebbe alcuna competenza
statale a provvedere, non potendo la stessa connettersi alla lettera p) del secondo comma, o al terzo comma,
dell’art. 117 Cost. In ogni caso l’affidamento all’Esecutivo della
parametrazione sarebbe stato operato «in evidente spregio della ratio dell’art. 133 Cost.», che
esigerebbe il ricorso alla legge quale presidio dei principi democratici e
autonomistici e della identità territoriale delle Province. L’intervenuta
riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione non avrebbe
consentito di adottare la procedura prevista, in epoca antecedente, dall’art.
16 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento
delle autonomie locali), poi rinnovata dall’art. 21 del d.lgs. n. 267
del 2000, che si giustificava in rapporto ad una collocazione istituzionale
delle Province quali organi di decentramento dello Stato, e non ancora come
enti autonomi «costitutivi» della Repubblica.
Osserva ancora la ricorrente
che, nell’attuale quadro costituzionale, le funzioni amministrative vengono
conferite alle Province in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza, e dunque non sono attribuite uniformemente, quanto piuttosto in
ragione delle singole esigenze territoriali. Contrasterebbe dunque con
l’impianto del citato Titolo V la fissazione di criteri rigidi ed uniformi per
il riordino, con conseguente violazione dei principi di ragionevolezza e
proporzionalità (art. 3 Cost.).
Oltretutto – prosegue la
Regione Campania – l’indicata uniformità varrebbe a svilire la «natura
storico-identitaria delle autonomie locali, sancita dagli artt. 1, 2, 5 e 114
Cost.».
17.1.6.– La competenza a
regolare la materia non potrebbe essere rivendicata dallo Stato neppure
invocando la necessità di fissare principi di coordinamento della finanza
pubblica: una competenza, questa, che la Corte costituzionale avrebbe già
delimitato ad un’opera di «transitorio contenimento complessivo» della spesa,
non legittimando certo la disciplina stabile, rigida ed esaustiva di vincoli
all’autonomia regionale. Tale sarebbe, all’evidenza, la normativa introdotta
con le norme censurate, senza oltretutto che dallo Stato sia venuta alcuna
indicazione, neppure di massima, delle economie realizzate. Sarebbero violati,
dunque, gli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost.
17.1.7.– Sarebbe illegittima,
secondo la ricorrente, anche la previsione di un potere sostitutivo del Governo
nei confronti delle Regioni che non trasmettano le proposte di riordino secondo
la procedura prevista dalle norme censurate (per violazione degli artt. 3, 118,
120 e 133 Cost.).
È stabilito in particolare, al
comma 4 del censurato art. 17, che il provvedimento legislativo di riordino sia
adottato previa la sola interlocuzione della Conferenza unificata, sebbene
facciano difetto le condizioni legittimanti l’esercizio del potere sostitutivo,
di cui all’art. 120 Cost. ed all’art. 8 della legge n. 131 del 2003. L’atto
regionale (proposta di riordino delle Province) la cui omissione comporta la
sostituzione, infatti, non sarebbe dovuto o necessario, ossia privo di
discrezionalità nell’an,
trattandosi di atti di iniziativa del procedimento di revisione a norma del
primo comma dell’art. 133 Cost., «e quindi, con ogni evidenza, assolutamente
discrezionali e certamente non vincolati».
La disciplina censurata non
contiene d’altra parte alcuna delle garanzie procedurali previste dall’art. 8
della citata legge n. 131 del 2003, né una tutela effettiva del principio di
leale collaborazione (collaborazione non surrogabile attraverso
l’interlocuzione della Conferenza unificata). Oltretutto, con una scelta la cui
irrazionalità assumerebbe autonoma rilevanza ex art. 3 Cost., la normativa in questione prevede che il termine
per l’esercizio del potere sostitutivo decorra ancor prima che sia scaduto
quello per l’adozione dei provvedimenti spettanti al soggetto istituzionale da
sostituire (il primo termine è infatti ancorato all’entrata in vigore della
legge di conversione n. 135 del 2012, mentre il secondo è connesso alla
pubblicazione della delibera governativa sui criteri di riordino delle
circoscrizioni provinciali).
Da ultimo, la ricorrente
esclude che l’atto di iniziativa del procedimento di revisione delle
circoscrizioni provinciali (sul quale deve essere sentita anche la Regione)
possa essere oggetto di una chiamata in sussidiarietà dello Stato; infatti, in
tal modo la «flessibilizzazione» di una competenza
direttamente assegnata dalla Costituzione, e non da leggi di conferimento delle
funzioni amministrative in attuazione dell’art. 118 Cost., ridonderebbe nella
«violazione del principio di rigidità costituzionale ricavabile dall’art. 138
Cost.».
17.1.8.– La Regione Campania
ritiene che i commi 6 e 12 dell’art. 17 impugnato, confermando ed attuando il
disegno perseguito mediante l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, riproducano il vulnus già recato con la norma appena
citata, e già denunciato dalla stessa Regione con un proprio ricorso (reg. ric.
n. 46 del 2012), alla sintesi del quale può senz’altro farsi rinvio.
17.1.9.– La ricorrente censura
anche il comma 11 dell’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, per l’asserito
contrasto con gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.
Nel suo significato letterale,
la norma parrebbe infatti assegnare alla Regione, in rapporto alle funzioni di
"area vasta” attribuite in via transitoria alle Province, meri compiti di
programmazione e coordinamento, relativamente alle materie di corrispondente
competenza legislativa a norma dell’art. 117 Cost. Una disciplina siffatta
contrasterebbe con principi già enunciati dalla giurisprudenza costituzionale,
secondo cui spetta alla legge regionale, nelle materie di competenza, la
concreta allocazione delle funzioni (è citata la sentenza n. 43 del
2004), con la conseguente ammissibilità di norme che riservino alle Regioni
stesse determinate funzioni.
17.2.– La Regione Campania,
come anticipato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale anche con
riguardo all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012.
17.2.1.– La soppressione delle
più importanti Province (compresa quella di Napoli), con contestuale creazione
delle Città metropolitane, avrebbe lo scopo dichiarato di garantire l’efficace
ed efficiente svolgimento delle funzioni amministrative, e dunque uno scopo
diverso da quello ostentato per il ricorso alla decretazione d’urgenza, cioè il
contenimento della spesa pubblica. Del resto, il processo di riforma e la
creazione dei nuovi enti richiederebbe un palese sforzo di spesa, a sua volta
in contrasto con la finalità dichiarata.
Ebbene – osserva la ricorrente
– l’inserimento di norme con finalità eterogenea nell’ambito di un
provvedimento d’urgenza comporta l’illegittimità delle norme medesime, per
violazione dell’art. 77 Cost. (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 22 del 2012).
Per altro verso, l’istituzione
delle Città metropolitane non rientrerebbe nella competenza legislativa dello
Stato. Non potrebbe utilmente guardarsi, in assenza di altre ed esplicite disposizioni
costituzionali, alla lettera p) del
secondo comma dell’art. 117 Cost., che configura una competenza statale
tassativamente limitata al sistema elettorale, alla forma di governo ed alle
funzioni fondamentali degli enti locali. Di conseguenza, l’istituzione dei
nuovi enti apparterebbe alla competenza residuale delle Regioni, in
applicazione del quarto comma dell’art. 117 Cost.
In ogni caso, la normativa
impugnata sarebbe illegittima per non aver previsto alcun ruolo delle Regioni
nella istituzione delle Città metropolitane (in contrasto oltretutto col
disposto dell’art. 22 del d.lgs. n. 267 del 2000, che già rimetteva alle
Regioni la delimitazione territoriale delle aree metropolitane, pur essendo
stato introdotto nella vigenza del testo originario del Titolo V della Parte
seconda della Costituzione). La partecipazione della Regione sarebbe
circoscritta esclusivamente all’ambito dell’eventuale sub-procedimento volto
all’articolazione in più Comuni del territorio del Comune capoluogo (art. 18,
comma 2-bis). Dunque il legislatore
statale avrebbe violato gli artt. 114, 117 e 118, primo comma, Cost.
Anche più grave sarebbe poi
l’estromissione delle Regioni dalla procedura di soppressione delle principali
Province esistenti. Se l’art. 133, primo comma, Cost. assegna alla Regione un
ruolo interlocutorio nella istituzione di nuove Province, dovrebbe intendersi
prescritto, a maggior ragione, un parere per il caso della loro soppressione.
Oltretutto, con la disciplina impugnata, il legislatore avrebbe scelto le
Province da sopprimere, discriminandole rispetto alle altre, senza un
riconoscibile criterio, adottando una legge-provvedimento priva di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) ed in contrasto con il canone dell’imparzialità
(art. 97 Cost.). I criteri della proporzionalità e dell’adeguatezza sono tanto
più essenziali – osserva la ricorrente – quando il legislatore statale opera in
materie che interferiscono con l’autonomia degli enti locali e con le
competenze legislative delle Regioni.
17.2.2.– Un ulteriore profilo
di illegittimità dell’art. 18 consisterebbe nella facoltà, conferita ai Comuni
compresi nell’area delle istituite Città metropolitane, di non aderire al nuovo
ente, e di accorparsi piuttosto, con una propria delibera consiliare, al
territorio di una Provincia limitrofa (art. 18, comma 2). La norma
contrasterebbe infatti con il primo comma dell’art. 133 Cost.
Per un verso, sarebbe violata
la riserva di legge in materia di modifica delle circoscrizioni provinciali,
con l’ulteriore vulnus realizzato
mediante l’esclusione di ogni coinvolgimento dell’ente regionale nella
procedura.
Per altro verso, la disciplina
sarebbe incongrua nella misura in cui pare consentire l’accorpamento ad una
Provincia di un Comune che non confini con il relativo territorio, creando discontinuità,
sul piano del funzionamento dei servizi e dello svolgimento delle funzioni,
incompatibili con i principi di ragionevolezza e buona amministrazione (artt. 3
e 97 Cost.).
17.2.3.– Inoltre, la previsione
(comma 2-bis dell’impugnato art. 18)
che consente ai Comuni capoluogo di promuovere il proprio frazionamento in più
Comuni determinerebbe una violazione della riserva di legge regionale nella
materia, posta dal secondo comma dell’art. 133 Cost. La legge regionale, nella
disciplina censurata, è prevista quale mera sanzione degli esiti di un
procedimento referendario, con quorum
predeterminato, ed avrebbe dunque contenuto vincolato. Con l’ulteriore
violazione, dunque, della riserva statutaria concernente i referendum sulle leggi e sui provvedimenti regionali, di cui al
primo comma dell’art. 123 Cost. (e con immediato contrasto con la legislazione
regionale campana già esistente in materia).
17.2.4.– La Regione Campania
ritiene illegittimo, ancora, il comma 7-bis
del censurato art. 18, che pare limitare le attribuzioni regionali, all’esito
del conferimento alle Città metropolitane di funzioni fondamentali secondo il
disposto del precedente comma 7, alla sola programmazione ed al solo
coordinamento nelle materie di cui al terzo ed al quarto comma dell’art. 117
Cost., oltre che alle funzioni esercitate a norma dell’art. 118 Cost.
Spetterebbe alla legislazione
regionale, in effetti, la concreta allocazione delle funzioni, parte delle
quali, esercitando le prerogative attribuite dalle due norme costituzionali
appena citate, potrebbe essere appunto trattenuta a livello regionale.
17.2.5.– La ricorrente
contesta, infine, la legittimità del meccanismo di reciproco conferimento di
funzioni tra Città metropolitane e Comuni, di cui al comma 9 (lettere c e d)
dell’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012. Tale meccanismo violerebbe apertamente il
disposto di cui al secondo comma dell’art. 118 Cost., che prevede l’allocazione
con legge, statale o regionale, secondo la competenza stabilita dall’art. 117
Cost. (è citata, ancora una volta, la sentenza della
Corte costituzionale n. 43 del 2004). Inoltre, la previsione relativa al
contestuale trasferimento delle necessarie risorse umane strumentali e finanziarie
determinerebbe la lesione del principio di buon andamento e della riserva di
legge in materia di organizzazione della pubblica amministrazione (art. 97
Cost.).
18.– Con ricorso spedito per la
notifica il 13 ottobre 2012, ricevuto il 17 ottobre e depositato il 18 ottobre
(reg. ric. n. 154 del 2012), la Regione Lombardia ha promosso questioni di
legittimità costituzionale dell’art.
17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 6, 11 e
12, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012, per
violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 71, primo comma, 77, secondo comma, 114,
117, 118, 119, 120, secondo comma, 123, quarto comma, 133 e 138 Cost.
18.1.– La ricorrente, oltre ad impugnare gli stessi commi
oggetto di censura da parte della Regione Campania (reg. ric. n. 153 del 2012),
motiva l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate con argomentazioni
identiche a quelle contenute nel ricorso appena citato. Per questa ragione può
farsi integrale rinvio alla sintesi riportata sopra.
19.– Con ricorso notificato il
15 ottobre 2012 e depositato il 19 ottobre (reg. ric. n. 159 del 2012), la
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha promosso questioni di legittimità
costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012,
e, tra queste,
dell’art. 17, per
violazione degli artt. 77 e 133 Cost., dell’art. 4, primo comma, n. 1-bis), della legge cost. n. 1 del 1963 e
dell’art. 8 del d.lgs. n. 9 del 1997.
19.1.– La ricorrente evidenzia come l’art. 17, rubricato
«Riordino delle province e delle loro funzioni», sembri non riferirsi alle
Regioni a statuto speciale, dal momento che il comma 1 precisa che «tutte le
province delle regioni a statuto ordinario esistenti alla data di entrata in
vigore del presente decreto sono oggetto di riordino sulla base dei criteri e
secondo la procedura di cui ai commi 2 e 3».
È vero invece che, con la sola
espressa eccezione della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, la
disposizione riguarda anche le autonomie speciali. Il comma 5 dell’art. 17
prevede, infatti, che «le Regioni a statuto speciale, entro sei mesi dalla data
di entrata in vigore del presente decreto, adeguano i propri ordinamenti ai
principi di cui al presente articolo, che costituiscono principi
dell’ordinamento giuridico della Repubblica nonché principi fondamentali di
coordinamento della finanza pubblica».
Sul rilievo che l’obbligo di
adeguamento ivi prescritto gravi anche sulla Regione Friuli-Venezia Giulia, la
difesa della stessa Regione ritiene che sia stata violata la propria competenza
statutaria, con conseguente legittimazione alla impugnazione.
La tesi della ricorrente è che
le Regioni speciali dovrebbero provvedere ad applicare autonomamente, nel
proprio territorio, il procedimento di riordino previsto per le Regioni a
statuto ordinario, con minime possibilità di adattamento. In ogni caso, è
contestato anche il contenuto dei principi enucleati dal legislatore statale
per il riordino delle Province, sul rilievo che tale illegittimità si riverberi
sui vincoli posti alla ricorrente dal comma 5.
19.2.– Dai primi quattro commi
dell’art. 17 si desumerebbe, secondo la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,
che la procedura configurata prevede snodi eventuali e snodi ineliminabili, nel
cui ambito non è comunque prevista una specifica iniziativa dei Comuni.
Costituirebbero snodi eventuali
sia l’ipotesi di riordino formulata dal Consiglio delle autonomie locali, sia
l’analoga proposta ad opera della Regione, mentre il procedimento essenziale
per la revisione delle circoscrizioni provinciali sarebbe costituito dalla
previa deliberazione dei criteri da parte del Consiglio dei ministri (avvenuta
con provvedimento del 20 luglio 2012), dalla presentazione del disegno di legge
governativo di riordino, dal parere della Conferenza unificata e, infine,
dall’approvazione del disegno di legge da parte del Parlamento.
Si tratterebbe, in definitiva,
di un procedimento diretto dagli organi centrali dello Stato, in particolare
dal Governo, il quale, con la fissazione dei criteri per il riordino,
precostituisce il contenuto del disegno di legge.
19.3.– Ad avviso della
ricorrente, la procedura richiamata non potrebbe trovare applicazione diretta
nel suo territorio, posto che, ai sensi dell’art. 4, numero 1-bis, dello statuto speciale di
autonomia, essa è titolare di potestà legislativa primaria in materia di
ordinamento degli enti locali. L’art. 8 delle norme di attuazione dello statuto
speciale di cui al d.lgs. n. 9 del 1997 prevede infatti che in tale materia «è
ricompresa la revisione delle circoscrizioni provinciali, l’istituzione di
nuove province e la loro soppressione, su iniziativa dei comuni, sentite le
popolazioni interessate».
Tuttavia, come già evidenziato,
il comma 5 dell’art. 17 stabilisce che le Regioni a statuto speciale adeguino i
propri ordinamenti ai principi indicati nel medesimo art. 17, costituendo i
predetti «principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica nonché principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica».
Secondo la ricorrente, il
vincolo di adeguamento sarebbe costituzionalmente illegittimo sia per ragioni
attinenti al meccanismo configurato nei commi da 1 a 4 dell’art. 17, in sé
lesivo dell’art. 133 Cost., sia perché invasivo della competenza regionale
sancita dall’art. 8 delle norme di attuazione dello statuto speciale di cui al
d.lgs. n. 9 del 1997, sia, infine, perché le disposizioni alle quali la Regione
dovrebbe adeguarsi non costituirebbero principi dell’ordinamento giuridico né
principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica.
19.4.– Nel merito, sarebbe
evidente che la procedura di revisione delle circoscrizioni provinciali configurata
dall’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012 non corrisponde al modello indicato
dall’art. 133, primo comma, Cost. La centralità del ruolo dei Comuni, indicata
nel citato parametro, è stata riconosciuta dalla sentenza n. 347 del
1994 della Corte costituzionale, nella quale si è affermato che l’art. 133
Cost. impone un procedimento legislativo costituzionalmente rinforzato, anche
in ragione del formale intervento dei Comuni.
La scelta dei Costituenti,
frutto di un emendamento alla iniziale configurazione del procedimento su
iniziativa delle Regioni, intendeva enfatizzare il ruolo delle popolazioni
interessate, in una prospettiva opposta a quella, verticistica, assunta dal
legislatore del 2012.
Il contrasto evidente tra i
percorsi delineati, rispettivamente, dalla Costituzione e dal d.l. n. 95 del
2012, avrebbe indotto il Governo a precisare, nella relazione al disegno di
legge di conversione del citato decreto, che «anche a voler prescindere dalla
considerazione che, trattandosi di riordino complessivo, non trova applicazione
l’art. 133 della Costituzione, va rilevato in ogni caso che detto articolo è,
nella sostanza, rispettato, visto che i Comuni sono pienamente coinvolti
tramite il Consiglio delle autonomie locali».
La difesa della Regione
ricorrente reputa infondata la tesi governativa, giacché, per un verso, il
Consiglio delle autonomie locali non coincide affatto con i Comuni interessati,
potendo persino esprimere decisioni contrarie alla volontà di questi ultimi, e,
per altro verso, la normativa impugnata configura come solo eventuale
l’iniziativa del Consiglio.
In realtà, osserva la
ricorrente, l’idea stessa di un «generale riordino delle Province secondo
criteri diversi da quello storico [sarebbe] estranea alla Costituzione», e non
perché la Costituzione non si occupi del tema, come sostenuto dal Governo con
ragionamento paradossale, bensì perché la Costituzione, nel disciplinare il
procedimento legislativo ordinario di trasformazione delle Province esistenti,
esclude che il riordino generale del sistema possa avvenire al di fuori di un
procedimento di revisione costituzionale.
19.5.– La Regione
Friuli-Venezia Giulia reputa la normativa statale lesiva della competenza
statutaria in materia di ordinamento degli enti locali, che comprende la
revisione delle circoscrizioni provinciali. L’art. 8 delle norme di attuazione
di cui al d.lgs. n. 9 del 1997 richiama, nella formulazione letterale, l’art.
133 Cost., prescrivendo che si proceda su iniziativa dei Comuni, ed aggiunge il
vincolo a sentire le popolazioni interessate.
Da quanto esposto discenderebbe
che la ricorrente non potrebbe ottemperare agli obblighi imposti dall’art. 17
del d.l. n. 95 del 2012 senza, al contempo, violare le regole di base
dell’esercizio della propria competenza in materia di revisione delle
circoscrizioni provinciali.
Il dovere di adeguamento,
previsto dal comma 5 dell’art. 17 citato, sarebbe pertanto illegittimo, in
ragione del suo specifico contenuto, sia in riferimento all’art. 133 Cost., sia
in relazione all’art. 8 del d.lgs. n. 9 del 1997. Nondimeno, la difesa
regionale sottolinea che, se anche il contenuto dell’art. 17 fosse in sé
legittimo, ugualmente l’imposizione del dovere di adeguamento sarebbe lesivo
dell’autonomia regionale statutaria.
Le regole fissate dall’art. 17
del d.l. n. 95 del 2012 in materia di revisione delle circoscrizioni
provinciali non costituirebbero principi dell’ordinamento giuridico della
Repubblica né principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica. Si
tratterebbe, infatti, di mere regole dimensionali e procedurali, il cui
utilizzo sarebbe limitato ad un’unica occasione; regole non coincidenti, per di
più, con quelle fissate nell’art. 21 del d.lgs. n. 267 del 2000, che stabiliscono
i criteri ai quali i Comuni devono attenersi nell’esercizio «dell’iniziativa di
cui all’articolo 133 della Costituzione», volta alla «revisione delle
circoscrizioni provinciali».
Parrebbe dunque che, con
riferimento al medesimo oggetto, non possano esistere principi dell’ordinamento
giuridico contraddittori, e, in ogni caso, che principi dell’ordinamento non
possano essere ricavati da norme che derogano ad altre, di contenuto generale.
A ciò andrebbe aggiunto che, ai sensi dell’art. 4 dello statuto speciale,
soltanto leggi formali ed atti ad esse equiparati possono limitare la potestà
legislativa primaria della ricorrente, e non anche gli atti amministrativi,
come la deliberazione del Consiglio dei ministri prevista dal comma 2 dell’art.
17 per la definizione dei limiti dimensionali delle nuove Province.
Le norme impugnate, ad avviso
della ricorrente, neppure conterrebbero principi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica, non presentando alcun contenuto finanziario al di là
del presupposto, di buon senso ma tecnicamente non riconducibile ai suddetti
principi, secondo cui un numero inferiore di Province dovrebbe comportare una
minore spesa pubblica.
19.6.– La difesa della Regione
Friuli-Venezia Giulia impugna, infine, l’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012 per
contrasto con l’art. 77 Cost., per carenza dei requisiti di necessità ed
urgenza.
La natura stessa della materia
del riordino ordinamentale delle Province richiederebbe il procedimento
legislativo ordinario e soltanto una «urgenza estrema ed evidente potrebbe
giustificare l’anticipazione di qualche singolo aspetto del procedimento con
uno strumento di urgenza».
Vi sarebbe del resto un chiaro
collegamento tra il vizio procedurale e i limiti contenutistici della normativa
impugnata, là dove la scelta della decretazione d’urgenza non ha consentito di
stabilire i criteri del riordino, né ad attestare l’urgenza di provvedere
sarebbero sufficienti i termini, relativamente brevi, fissati per le diverse
fasi del procedimento di riordino. Mancherebbe, infatti, l’individuazione di
immediati risparmi finanziari, connessi all’attuazione del riordino, ove invece
parrebbero sicuri, nel breve periodo, l’aumento di spesa e le disfunzioni
collegate alla transizione da un assetto all’altro.
20.– Con ricorso notificato il
12 ottobre 2012 e depositato il 19 ottobre (reg. ric. n. 160 del 2012), la
Regione autonoma Sardegna ha promosso questioni di legittimità costituzionale
di alcune disposizioni del d.l.
n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 135 del 2012, e, tra queste, degli artt. 17 e 18, per violazione degli artt. 116 e
133 Cost., del principio di leale collaborazione e degli artt. 3, 43, 45 e 54
della legge cost. n. 3 del 1948.
20.1.– La ricorrente premette che tutti i riferimenti
alle attribuzioni costituzionali riconosciute alle Regioni ordinarie sono
richiamati per il tramite dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, che
estende alle Regioni a statuto speciale le disposizioni di maggior favore
previste per quelle ordinarie.
Ancora in via preliminare, la
stessa difesa precisa che la Regione Sardegna non ignora la particolare
congiuntura economica né la difficile situazione economico-finanziaria in cui
versa il Paese, entrambi fattori invocati dal Governo per giustificare l’uso
della decretazione d’urgenza, ai sensi dell’art. 77 Cost. La Regione ricorrente
non intende, infatti, sottrarsi al contributo cui tutti gli enti territoriali
sono chiamati per migliorare lo stato della finanza pubblica. Nondimeno la
situazione economico-finanziaria generale non può costringere a rinunciare alla
difesa delle attribuzioni costituzionali e statutarie, violate dalla normativa
impugnata (è richiamata la sentenza n. 151 del
2012).
D’altra parte, proprio con il
d.l. n. 95 del 2012 il legislatore statale ha rimodulato l’impegno al
miglioramento dei conti pubblici, al punto che, come si legge nel preambolo
allo stesso decreto, ha ritenuto di sospendere l’incremento dell’imposta sul
valore aggiunto, nonché di garantire le necessarie risorse per la prosecuzione
di interventi indifferibili.
20.2.– Su queste premesse, la
ricorrente impugna innanzitutto l’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012 per
violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 117 e ss.
Cost., degli artt. 116 e 133 Cost., e degli artt. 3, 43 e 54 dello statuto
speciale per la Sardegna.
La difesa regionale riporta il
contenuto della norma impugnata osservando come alla stessa sottenda una
«radicale diminuzione del numero delle Province», attraverso la soppressione di
molte di esse, ovvero l’accorpamento delle circoscrizioni territoriali ad altro
Ente. Tale obiettivo si ricaverebbe dalla previsione contenuta nel comma 2
dell’art. 17, che demanda ad apposita deliberazione del Consiglio dei ministri
l’individuazione dei requisiti minimi di popolazione residente e di estensione
territoriale.
La deliberazione, assunta il 20
luglio 2012, ha fissato l’estensione territoriale minima in duemilacinquecento
chilometri quadrati e la popolazione minima in trecentocinquantamila persone.
Pertanto, osserva la difesa regionale, l’attività di riordino delle Province
finisce per risolversi nella individuazione di quelle che non possiedono i
suddetti requisiti, destinate, in quanto tali, alla soppressione, con
conseguente accorpamento del loro territorio ad un altro ente provinciale.
Il descritto complesso
procedimento si applica, ai sensi dell’art. 17, comma 1, del d.l. n. 95 del
2012, a «tutte le province delle regioni a statuto ordinario esistenti alla
data di entrata in vigore del presente decreto», mentre il comma 5 del medesimo
art. 17 impone alle Regioni a statuto speciale di adeguare, entro sei mesi
dalla data di entrata in vigore del decreto, i propri ordinamenti «ai principi
di cui al presente articolo», qualificati come principi dell’ordinamento
giuridico della Repubblica nonché come principi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica.
20.3.– La ricorrente segnala
che, alla data di entrata in vigore del d.l. n. 95 del 2012, le Province
esistenti nella Regione Sardegna sono quelle cosiddette storiche, ossia
Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano, essendo state già soppresse le Province di
Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell’Ogliastra e di Olbia-Tempio, a
seguito del referendum 6 maggio 2012,
che ha abrogato la legge della Regione
Sardegna 12 luglio 2001, n. 9 (Istituzione delle province di Carbonia-Iglesias,
del Medio Campidano, dell’Ogliastra e di Olbia-Tempio), istitutiva delle
predette.
Delle quattro Province
cosiddette storiche, quelle di Cagliari, Nuoro e Sassari sono espressamente
previste dall’art. 43 dello statuto di autonomia, il quale stabilisce che «con
legge regionale possono essere modificate le circoscrizioni e le funzioni delle
province, in conformità alla volontà delle popolazioni di ciascuna delle
province interessate espressa con referendum».
La Provincia di Oristano, invece, è stata istituita con la legge statale 16 luglio 1974, n. 306 (Istituzione della provincia di Oristano).
Così ricostruito il contesto
normativo sul quale incide la disposizione impugnata, l’illegittimità
costituzionale di quest’ultima sarebbe addirittura palese.
La ricorrente osserva come, ai
fini del previsto adeguamento dell’ordinamento regionale alle disposizioni
statali sul riordino, e quindi in funzione della soppressione o
dell’accorpamento di una delle Province di Cagliari, Sassari e Nuoro, sarebbe
necessaria la revisione dello statuto, posto che la legge regionale potrebbe
soltanto modificare le relative circoscrizioni.
Ne consegue che, essendo
necessaria una legge costituzionale per la revisione dello statuto, la Regione
Sardegna non può procedere all’adeguamento del proprio ordinamento secondo
quanto previsto dall’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012.
Precisa la ricorrente che, ai
sensi dell’art. 54, ultimo comma, dello statuto, soltanto le disposizioni
contenute nel Titolo III (articoli da 7 a 14) possono essere modificate con
leggi ordinarie della Repubblica, su proposta del Governo o della Regione,
sentita in ogni caso quest’ultima.
In questa prospettiva, la
difesa regionale richiama la sentenza n. 198 del
2012, nella quale la Corte costituzionale ha rilevato che, poiché la
disciplina degli organi delle Regioni a statuto speciale è contenuta nei
rispettivi statuti, adottati con legge costituzionale al fine di garantire le
particolari condizioni di autonomia di tali enti, l’adeguamento al disposto
dell’art. 14, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011 da parte di dette Regioni
richiedeva la modifica di fonti di rango costituzionale, alle quali, peraltro,
«una legge ordinaria non può imporre limiti e condizioni».
Ciò detto con riguardo alle
Province previste espressamente dallo statuto, la difesa regionale esamina la
diversa situazione che si determinerebbe ove l’adeguamento al riordino
riguardasse la sola Provincia istituita con legge statale, e cioè la Provincia
di Oristano.
In questo caso, l’art. 43 dello
statuto impone una procedura rafforzata dal referendum,
espressivo della volontà delle popolazioni, con la conseguenza che non
potrebbero essere rispettati i tempi di adeguamento, come previsti
dall’impugnato art. 17. Né si potrebbe ritenere utilizzabile, ai fini che qui
rilevano, il referendum consultivo
regionale, previsto dalla legge della Regione Sardegna 17 maggio 1957, n. 20
(Norme in materia di referendum popolare regionale), svolto il 6 maggio 2012,
il cui quesito n. 5 era formulato nei seguenti «Siete voi favorevoli
all’abolizione delle quattro province "storiche” della Sardegna, Cagliari,
Sassari, Nuoro e Oristano?».
Tale proposta referendaria non
risulta in alcun modo sovrapponibile all’eventuale soppressione della Provincia
di Oristano e annessione del relativo territorio ad una o più delle Province
statutarie, ragione per cui sarebbe necessaria una ulteriore consultazione
popolare.
Sarebbe in definitiva evidente,
a parere della ricorrente, il contrasto fra i commi da 1 a 4-bis e 5 dell’art. 17 del d.l. n. 95 del
2012, da una parte, e il principio di leale collaborazione e gli artt. 43 e 54
dello statuto, dall’altra.
20.4.– La normativa impugnata
violerebbe anche il disposto dell’art. 133 Cost., il quale prevede che il
mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province
sono stabiliti con legge statale, su iniziativa dei Comuni.
A parte il rilievo che, ai
sensi dell’art. 45 dello statuto, la competenza appartiene al legislatore
regionale, la difesa della ricorrente osserva che il primo comma dell’art. 133
Cost. fa salvo il principio della consultazione delle comunità locali,
attraverso l’iniziativa legislativa, che pure non potrebbe avvenire nei tempi
ristretti imposti dall’art. 17.
Conclusivamente, la previsione
del riassetto degli enti provinciali, direttamente disciplinati dallo statuto
di autonomia, violerebbe gli artt. 43 e 54 dello stesso statuto, in uno con
l’art. 116 Cost.
20.5.– La ricorrente considera
costituzionalmente illegittimi anche i commi da 6 a 12 dell’art. 17 del d.l. n.
95 del 2012, con i quali il legislatore ha portato a compimento la riforma
delle funzioni delle Province, e degli organi di governo dei predetti enti
territoriali, introdotta con l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, già impugnato
dalla Regione Sardegna (reg. ric. n. 47 del 2012). In proposito, la difesa
regionale precisa di voler insistere nei motivi di ricorso già formulati.
Lo Stato avrebbe disposto, in
modo autoritativo e unilaterale, la riforma degli organi e delle funzioni delle
Province, già prevista dal citato art. 23, e confermata dall’impugnato art. 17,
senza tenere conto della riserva statutaria nelle materie «ordinamento degli
uffici e degli enti amministrativi della Regione» e «ordinamento degli enti
locali e delle relative circoscrizioni» (art. 3, comma 1, lettere a e b
dello statuto).
Le previsioni censurate non
potrebbero essere qualificate come norme fondamentali, di riforma
economico-sociale della Repubblica, stante il contenuto dettagliato, non
necessario ai fini della realizzazione degli obiettivi di maggiore efficienza
perseguiti dal legislatore statale.
In particolare, risulterebbero
lesivi dell’autonomia statutaria regionale i commi 6, 7 e 8 dell’art. 17, nella
parte in cui – al pari dei commi 18 e 19 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011
– operano il trasferimento ai Comuni di funzioni già attribuite alle Province e
le connesse risorse.
Secondo la ricorrente, infatti,
non si potrebbe ritenere che il legislatore statale fosse legittimato ad
intervenire come ha fatto, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. in quanto il parametro
richiamato fa riferimento alle «funzioni fondamentali» degli enti locali,
riguardo alle quali trova applicazione la disciplina dello statuto speciale di
autonomia.
20.6.– La Regione Sardegna
impugna anche l’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012 per violazione dei medesimi
parametri.
La ricorrente osserva che la
norma in esame non menziona direttamente una Città metropolitana da istituirsi
nella Regione Sardegna, nondimeno l’art. 17, comma 5, della legge n. 142 del
1990, da ritenersi fonte originaria della disciplina di questo tipo di ente,
stabiliva che «in attuazione dell’art. 43 della legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 3 (statuto speciale per la Sardegna), la regione Sardegna può
con legge dare attuazione a quanto previsto nel presente articolo delimitando
l’area metropolitana di Cagliari».
La disposizione riportata è
stata oggetto di modificazione e quindi trasfusa nel d.lgs. n. 267 del 2000, il
cui art. 22 disciplinava la materia, prevedendo al comma 3 che «restano ferme
le città metropolitane e le aree metropolitane definite dalle regioni a statuto
speciale».
L’art. 22 citato è stato
abrogato dall’art. 18, comma 1, ultimo capoverso, del d.l. n. 95 del 2012, con la
conseguenza che alla Regione Sardegna dovrebbe essere preclusa l’istituzione di
Città metropolitane nel territorio regionale, compresa quella di Cagliari, con
conseguente lesione delle attribuzioni statutarie.
È vero infatti che, se anche
l’art. 45 dello statuto non contempla direttamente le Città metropolitane, si
dovrebbe tenere conto del fatto che tali enti, nel territorio su cui insistono,
modificano sia l’ordinamento della Provincia, sia quello dei Comuni che vengono
a farne parte. Pertanto, la richiamata disposizione statutaria dovrebbe essere
interpretata nel senso che, tra le attribuzioni della Regione Sardegna, è
compresa l’istituzione delle Città metropolitane, la cui mancata espressa
menzione deriverebbe semplicemente dall’anteriorità dello statuto rispetto alla
introduzione, nell’ordinamento, dei predetti enti.
In questa prospettiva, dunque,
l’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012, nella parte in cui abroga l’art. 22 (in
specie il comma 3) del d.lgs. n. 267 del 2000, così escludendo che la Regione
Sardegna possa istituire le Città metropolitane nel proprio territorio, e in
particolare la Città metropolitana di Cagliari, si porrebbe in contrasto con
gli artt. 45 e 54 dello Statuto, nonché con l’art. 116 Cost., in quanto dispone
il riassetto di enti territoriali senza tenere conto della competenza regionale
in materia (è richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 198 del 2012).
I parametri indicati sarebbero
violati anche perché il procedimento di istituzione delle Città metropolitane
configurato dall’art. 18, ai commi 2, 2-bis,
3-bis, 3-ter e 3-quater, non
prevede la preventiva consultazione delle popolazioni interessate, a differenza
di quanto stabilito dall’art. 45 dello statuto, che regola la maggiore
autonomia conferita alle Regioni a statuto speciale, come riconosciuta anche
dall’art. 116 Cost.
21.– Con ricorso spedito per la
notifica il 12 ottobre 2012, ricevuto il 16 ottobre e depositato il 22 ottobre
(reg. ric. n. 161 del 2012), la Regione Piemonte ha promosso questioni di
legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, e, tra queste, dell’art. 17, commi 6 e 12, per violazione degli
artt. 5, 77, 114, 117, secondo comma, lettera p), quarto e sesto comma, 118, 119 e 120 Cost., e del principio di
leale collaborazione.
21.1.– In premessa la ricorrente afferma la propria
legittimazione ad impugnare la norma oggetto, in quanto lesiva delle proprie
prerogative e di quelle degli enti locali, alla luce sia della consolidata
giurisprudenza costituzionale sul punto, sia dell’art. 9 della legge n. 131 del
2003.
21.2.– Quanto al merito
dell’impugnazione, la difesa regionale richiama il contenuto dell’art. 17,
comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, che interviene sull’art. 23 del d.l. n. 201
del 2011. La disposizione riportata, da ritenersi di difficile interpretazione
in relazione al contenuto dei commi 14 e 18 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del
2011, è impugnata proprio se ed in quanto confermativa di dette norme, per le
medesime ragioni rappresentate con il ricorso n. 18 del 2012; ragioni che la difesa
regionale ripropone unitamente ad ulteriori dubbi di legittimità costituzionale
aventi specificamente ad oggetto l’art. 17, comma 6.
21.3.– La ricorrente ritiene
violato l’art. 5 Cost., che riconosce «rilievo costituzionale alle autonomie
locali, al principio del più ampio decentramento amministrativo e
all’adeguamento della legislazione statale alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento».
La norma impugnata avrebbe
invertito il significato del parametro richiamato, con grave compromissione dell’autonomia
regionale e dell’assetto ordinamentale ed istituzionale della stessa.
21.4.– Si assume, inoltre, che
la riduzione delle attribuzioni del Consiglio provinciale, quale organo
amministrativo fondamentale della Provincia, al solo indirizzo e coordinamento
dell’attività dei Comuni, con conseguente trasferimento delle altre
attribuzioni ai Comuni e alle Regioni, violerebbe palesemente l’art. 114 Cost.,
nella sostanza e nella forma.
In primo luogo, si osserva
dalla difesa regionale, «una proposta di riordino (che non equivale
necessariamente a soppressione) complessivo delle istituzioni territoriali non
può essere oggetto di un decreto-legge volto a risanare le finanze pubbliche
(obiettivo peraltro non raggiunto con la norma impugnata) e di fatto modificativo
della Costituzione».
In secondo luogo, la normativa
statale non avrebbe lasciato alcun margine di scelta alle Province e alle
stesse Regioni.
Sarebbero violati altresì gli
artt. 117, secondo comma, lettera p),
quarto e sesto comma, 118 e 119 Cost., posto che l’intervento «demolitorio»
attuato con la norma impugnata travalicherebbe la competenza esclusiva statale
in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», tenuto conto che il
parametro competenziale indicato deve essere
interpretato in stretta correlazione con gli artt. 5 e 114 Cost. La competenza
esclusiva statale riguardo alla individuazione delle funzioni fondamentali
degli enti indicati, quindi, dovrebbe essere esercitata nel rispetto
dell’esistenza di tali enti e della loro autonomia, come riconosciuta dalla
Costituzione.
Con la riduzione delle
attribuzioni al solo indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni si
realizzerebbe lo svuotamento delle funzioni delle Province, la cui natura è
regolamentare e amministrativa, e quindi, in realtà, la cancellazione stessa
dell’ente Provincia, con impatto anche sull’assetto legislativo e regolamentare
delle Regioni.
Sarebbero violate le competenze
residuali e concorrenti delle Regioni, e la stessa potestà regolamentare di
queste ultime, in quanto il Governo imporrebbe loro di trasferire ai Comuni le
funzioni delle Province e di trattenere quelle finalizzate ad assicurare
l’esercizio unitario. Dovrebbe considerarsi, inoltre, che le Province sono
titolari anche di funzioni amministrative proprie e di potestà regolamentare
sull’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni ad esse attribuite, ai
sensi dell’art. 118, sesto comma, Cost.
In definitiva, la norma
impugnata sovvertirebbe l’assetto costituzionale delle autonomie locali e la
scelta del legislatore di lasciare soltanto quattro funzioni di «area vasta»
inciderebbe sui destinatari dell’esercizio di tali funzioni.
21.5.– La stessa norma
violerebbe inoltre l’art. 77 Cost. in quanto l’iniziativa assunta dal Governo
con l’art. 17 non produrrebbe alcun risparmio (come confermerebbero i dati
della Ragioneria dello Stato), ed anzi lascerebbe inalterate le fonti di
finanziamento delle funzioni.
21.6.– Vi sarebbe poi la
lesione del principio di leale collaborazione, giacché, se si eccettua l’intesa
prevista nei commi 7 e 8, non è prevista alcuna concertazione tra Stato,
Regioni ed Enti locali, che, invece, la natura e l’oggetto della riforma
richiederebbe.
21.7.– La Regione Piemonte ritiene
che il comma 12 dell’art. 17 violi gli artt. 5 e 114 Cost.
La citata disposizione mantiene
ferma la disciplina dettata dal comma 15 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011,
secondo cui il Consiglio provinciale è costituito da non più di dieci componenti
eletti da organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia,
e il Presidente è eletto dal Consiglio Provinciale.
Ad avviso della ricorrente,
tale sistema non garantirebbe la rappresentanza delle popolazioni locali e dei
territori interessati, neppure nell’accezione di rappresentanza di secondo
grado, perché si tratterebbe di una rappresentanza «associativa» dei Comuni,
che può eleggere un numero di consiglieri non proporzionato alla popolazione.
22.– Con ricorso notificato il
13 ottobre 2012 e depositato il 23 ottobre (reg. ric. n. 169 del 2012), la
Regione Calabria ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 1, 2, 3, 4 e
4-bis, del d.l. n. 95 del 2012, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli artt. 3, 5, 77, 114, 117,
118 e 133 Cost.
22.1.– Dopo una premessa storica sulle origini dell’ente
Provincia e sull’evoluzione della relativa disciplina, la ricorrente prospetta
l’illegittimità delle norme impugnate, in quanto lesive della sfera di
competenza regionale nonché degli ambiti di autonomia riconosciuti dalla
Costituzione agli enti locali ed «ai cittadini calabresi».
22.2. – Sarebbero violati gli
artt. 77 e 114 Cost., «sotto il profilo dell’illegittimo utilizzo della
decretazione d’urgenza per comprimere il sistema delle autonomie locali e della
abusiva intromissione nella sfera di autonomia» che la Costituzione garantisce.
La difesa regionale richiama il
sistema previgente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della
Costituzione, ricordando che l’art. 128 Cost. istituiva un sistema di autonomia
rafforzata degli enti locali, a sua volta garantita da «principi fissati da
leggi generali della Repubblica». Tali leggi generali, pur non avendo rango
costituzionale, svolgevano, su un piano diverso, una funzione costituente, in
quanto il Parlamento, per il loro tramite, si faceva supremo garante
dell’equilibrio fra Province e Comuni da un lato e Stato e Regioni dall’altro.
L’autonomia rafforzata, di cui
al previgente art. 128 Cost., è tuttora richiamata dall’art. 1 del d.lgs. n.
267 del 2000, in particolare nelle disposizioni contenute nei commi 2 e 4. La
riforma del Titolo V, secondo la difesa regionale, avrebbe accentuato la
rilevanza costituzionale degli enti locali, passando da un sistema ad autonomia
garantita dalle leggi generali ad un sistema nel quale vengono in evidenza
direttamente i principi costituzionali.
La previsione contenuta
nell’art. 114, secondo comma, Cost. reca la locuzione «secondo i principi
fissati dalla Costituzione», che nel testo previgente dell’art. 115 era
riservata alle Regioni. Da ciò discenderebbero implicazioni significative sul
tema oggetto delle odierne questioni, e, in primo luogo, la conseguenza che
soltanto una procedura delineata con legge costituzionale potrebbe portare alla
soppressione di una o più Province.
Se poi si ritenesse che il
legislatore, con l’art. 17 impugnato, abbia voluto configurare una procedura di
mera revisione delle Province, si dovrebbe considerare che tale procedura è già
prevista da una "legge generale”, e cioè dall’art. 21 del d.lgs. n. 267 del
2000, il quale, fino all’entrata in vigore della nuova Carta delle autonomie
locali, potrebbe essere derogato solo da una norma espressa.
La ricorrente ritiene, inoltre,
che difetterebbero, nella specie, i requisiti di necessità e di urgenza per
l’adozione di un decreto-legge, ed osserva che una riforma destinata ad
improntare per decenni il sistema delle autonomie risulterebbe, in quanto tale,
incompatibile con le caratteristiche contingenti del decreto-legge, richiedendo
piuttosto un’approfondita elaborazione e programmazione, oltre al
coinvolgimento delle popolazioni e degli enti interessati, secondo quanto
previsto dall’art. 133 Cost.
22.3.– Secondo la Regione
Calabria, l’impugnato art. 17 conterrebbe una vera e propria deroga al
procedimento previsto dall’art. 133 Cost., con riguardo al potere di
iniziativa, alla consultazione delle popolazioni, alla funzione consultiva
regionale. La decretazione d’urgenza avrebbe quindi il solo scopo di eliminare
un segmento del procedimento previsto dal parametro citato, senza esplicare
alcun effetto sulla diminuzione degli apparati degli enti locali.
In ogni caso, sarebbero
gravemente limitate le competenze regionali.
22.4.– È denunciata, ancora, la
violazione degli artt. 3, 5, 114 e 117 Cost.
Si ritiene dalla ricorrente che
l’attuazione del decreto-legge comporti la soppressione di un rilevante numero
di Province, e che la logica delle "macro-province” contrasti con gli artt. 5 e
114 Cost., i quali prevedono il riconoscimento e la promozione delle autonomie
locali, e la loro disciplina quali enti autonomi, in funzione della dimensione
sociale e territoriale degli stessi.
I parametri evocati configurano
e disciplinano gli enti locali come livello di governo del territorio, ed i
principi in essi contenuti sono richiamati dall’art. 21 del d.lgs. n. 267 del
2000, che indica i criteri e gli indirizzi per la revisione delle
circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove Province. Diversamente,
l’impugnato art. 17 ipotizza un accorpamento su basi meramente quantitative,
non previste dalla Costituzione, oltre che produttive di effetti irragionevoli
e discriminatori.
Per un verso, i cittadini delle
Province di dimensioni ridotte, destinate ad essere accorpate, saranno privati
della possibilità di usufruire dei servizi e delle istituzioni provinciali, e,
per altro verso, la sostanziale concentrazione delle istituzioni provinciali
nei centri maggiori impedirà di attuare gli strumenti di uguaglianza
sostanziale e propulsiva, relegando ad un ruolo marginale le popolazioni delle
comunità più piccole.
22.5.– La disposizione
impugnata violerebbe l’art. 118 Cost. che, nell’ambito della distribuzione delle
funzioni amministrative tra i vari livelli di governo, impone il rispetto dei
principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, i quali, a loro
volta, esigono che l’attività legislativa ed amministrativa sia improntata alla
massima considerazione delle esigenze degli enti locali. Al contrario l’art.
17, attribuendo esclusivo rilievo ai criteri di accorpamento basati su
estensione territoriale e popolazione, avrebbe previsto un sistema che
disconosce le diversità delle realtà provinciali.
22.6.– Di tutta evidenza
sarebbero poi la violazione dell’art. 117 Cost. e l’invasione delle competenze
legislative regionali.
La ricorrente richiama il
contenuto dell’art. 117, secondo comma, lettere h) e p), Cost. per
sottolineare che la Costituzione, mentre non assegna allo Stato la competenza
esclusiva in materia di istituzione e ordinamento degli enti locali,
attribuisce alle Regioni, per esclusione, la materia «polizia amministrativa
locale». Peraltro, anche nel campo della funzione legislativa concorrente, non
vi sono materie afferenti l’istituzione e l’ordinamento degli enti locali,
sicché apparterrebbero alla competenza residuale delle Regioni le funzioni
legislative non contemplate dall’art. 117, secondo e terzo comma, Cost., e tra
queste la materia «circoscrizioni provinciali», allo stesso modo della materia
«circoscrizioni comunali».
Sarebbero pertanto illegittime
le previsioni contenute ai commi 1 e 4 dell’impugnato art. 17, in quanto il
riordino territoriale delle Province potrebbe essere attuato soltanto con la
legge statale prevista dall’art. 133 Cost., che è legge-provvedimento a
contenuto vincolato dalla proposta, preceduta dall’iniziativa dei Comuni e dal
parere della Regione interessata.
Sarebbero del pari illegittime
le previsioni contenute nei commi 2 e 3, in quanto non rientrerebbe nella
competenza statale esclusiva la fissazione dei requisiti minimi di popolazione
e di territorio, né la disciplina dell’organizzazione e del funzionamento del
Consiglio delle autonomie locali, riservata dall’art. 123, ultimo comma, Cost.
allo statuto regionale.
Illegittimo risulterebbe anche
il comma 4-bis, in quanto non
rientrerebbe nella competenza statale la fissazione del capoluogo provinciale.
22.7.– La ricorrente sottolinea
la differenza tra il procedimento configurato dalla disposizione impugnata e il
dettato dell’art. 133 Cost., ed in particolare il fatto che il legislatore del
2012 non ha previsto l’iniziativa dei Comuni, non potendosi ritenere
quest’ultima surrogata dai poteri riservati al Consiglio delle autonomie locali
(comma 3 dell’art. 17), organo non rappresentativo dei Comuni.
Inoltre, la consultazione con
la Regione interessata è sostituita dal parere della Conferenza unificata, nei
casi in cui la Regione non si pronunci, così realizzando un procedimento
verticistico simmetrico e contrario a quello delineato dalla Costituzione.
22.8.– Sarebbe inoltre violato
l’art. 5 della Carta europea dell’autonomia locale, il quale stabilisce che
«per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le collettività locali
interessate dovranno essere preliminarmente consultate, eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia consentito
dalla legge».
L’assenza di consultazione
delle popolazioni interessate si tradurrebbe, dunque, in una illegittima
compressione dei diritti politici dei cittadini.
22.9.– La Regione Calabria
ritiene infine che l’art. 17, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, il quale
demanda ad un atto amministrativo governativo (d.P.C.m.)
l’individuazione dei parametri minimi territoriali e demografici, si ponga in
contrasto con la riserva di legge "rafforzata” contenuta nell’art. 133 Cost.,
oltre che con l’art. 21 del d.lgs. n. 267 del 2000.
23.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, è intervenuto nei giudizi introdotti dai ricorsi nn.
133, 145, 151, 153, 154, 159, 160, 161, 169 del 2012, svolgendo argomentazioni
in larga parte sovrapponibili, e concludendo, in tutti i casi, per la non
fondatezza delle questioni.
23.1.– La difesa statale eccepisce
anzitutto l’inammissibilità dei ricorsi per carenza di legittimazione delle
Regioni, sul rilievo che la normativa impugnata non pregiudicherebbe le
competenze regionali.
Nella materia in esame
(istituzione, modifica, riordino, soppressione, ordinamento delle Province)
soltanto lo Stato sarebbe titolare di competenza legislativa, ai sensi degli
artt. 117, secondo comma, lettere g)
e p), e 133, primo comma, Cost.
Inoltre, il procedimento introdotto dall’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012
avrebbe potenziato il ruolo delle Regioni, attribuendo loro un potere di
iniziativa.
I ricorsi sarebbero poi
inammissibili perché contraddittori. La tesi delle ricorrenti si fonderebbe
sull’assioma per cui, una volta istituita, la Provincia non possa essere
soppressa, giacché l’art. 133 Cost. farebbe riferimento soltanto alla modifica
o alla istituzione di nuove Province. In questa prospettiva, che nega
l’applicabilità dell’art. 133 Cost. ai fini della soppressione delle Province,
non si potrebbe denunciare la violazione del citato parametro, senza cadere in
contraddizione.
23.2.– Dopo aver riassunto la
vicenda storica che ha portato all’istituzione dell’ente Provincia, la difesa
statale rileva che, per la maggior parte, le Province attuali sono quelle degli
Stati preunitari. Dopo l’unificazione, si sono avuti diversi provvedimenti di
riordino del territorio, non organici, tra cui si ricorda quello adottato con
il regio decreto-legge 2 gennaio 1927,
n. 1 (Riordino delle circoscrizioni provinciali), con il quale furono
istituite 17 Province, aggregati alcuni Comuni, soppressa la Provincia di
Caserta (poi nuovamente istituita nel 1945).
L’Avvocatura generale
sottolinea il comprensibile interesse dello Stato a riordinare le
circoscrizioni provinciali, per adeguarle alle esigenze attuali. Tali
circoscrizioni, in quanto articolazioni amministrative, rientrerebbero
nell’«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato», che è materia
di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost.
Del resto, prosegue la difesa
statale, la Provincia non è nata come istituzione originaria ed esponenziale
del proprio territorio, a differenza del Comune e della Regione, ma come
segmento di suddivisione territoriale dello Stato, nella quale sono stati
allocati i principali uffici statali periferici e quelli dei maggiori enti
nazionali, tutti organizzati su base provinciale.
23.3.– Passando al merito delle
questioni, l’Avvocatura ritiene che si debba anzitutto sgombrare il campo dalla
censura posta in riferimento all’art. 77 Cost., trattandosi di questione che
non incide sui poteri delle Regioni. In ogni caso, secondo la giurisprudenza
costituzionale, la carenza del requisito della straordinaria necessità ed
urgenza di provvedere, per essere sindacabile, deve risultare «evidente» (sentenze n. 128 del
2008 e n.
171 del 2007).
Andrebbe poi considerato che le
disposizioni sul riordino delle Province, contenute nell’impugnato art. 17 del
d.l. n. 95 del 2012, sono destinate a produrre risparmi di spesa, come
affermato nella relazione finanziaria al disegno di legge di conversione del
decreto, attraverso la riduzione del numero di enti.
La ratio del decreto-legge, di riduzione della spesa pubblica,
varrebbe ad unificare tutte le previsioni ivi contenute, comprese quelle
riguardanti il riordino delle Province. La difesa statale evidenzia lo stretto
collegamento fra l’art. 17 e l’art. 10 del d.l. n. 95 del 2012, che prevede la
riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio, in uno con
l’esercizio unitario delle funzioni logistiche e strumentali di tutte le
strutture periferiche, con l’istituzione di servizi comuni per le funzioni di
gestione del personale, di economato, di gestione dei servizi informativi
automatizzati, di gestione dei contratti, di utilizzazione in via prioritaria
di immobili di proprietà pubblica, determinando un risparmio stimato in almeno
il 20% della spesa attuale per l’esercizio di dette funzioni.
Il d.l. n. 95 del 2012 prevede
dunque un riassetto complessivo dell’organizzazione periferica dello Stato,
dotato di organicità, che trova nel d.P.C.m. sui
criteri di accorpamento delle Province soltanto
il punto di partenza.
23.4.– La difesa statale
ritiene infondata anche la censura prospettata in riferimento all’art. 133
Cost., dedotta in relazione agli artt. 5 e 114 Cost.
In realtà, il procedimento
configurato dall’art. 133 Cost. riguarderebbe variazioni territoriali che
nascono in ambito locale ed interessano singoli Comuni, all’interno di una
singola Regione. Il riordino previsto dall’art. 17, invece, ha riguardo
all’intero territorio nazionale e a tutte le Province, alle quali impone di
rispondere ai requisiti di dimensionamento ottimale per l’espletamento delle
funzioni di area vasta.
Non a caso, il successivo art.
18 dà l’avvio alla istituzione delle Città metropolitane, destinate a
sostituire le Province nelle aree territoriali che comprendono i maggiori poli
urbani della penisola.
L’Avvocatura assume, inoltre,
che il riordino previsto dall’art. 17 non incida sulla posizione dei singoli
Comuni rispetto all’area territoriale cui appartengono, diversamente da quanto
accade nei casi di variazioni territoriali alle quali si riferisce il
procedimento configurato dall’art. 133 Cost.; di qui la ragionevolezza della
mancata previsione dell’iniziativa dei Comuni.
La difesa statale conclude sul
punto evidenziando che il dimensionamento ottimale di un ente territoriale deve
essere necessariamente attribuito allo Stato, anche in relazione alla materia
«legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni,
Province e Città metropolitane», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. In tal senso, cadrebbe anche
la censura di violazione dell’art. 133 Cost. nella parte in cui prevede una
riserva di legge statale, essendo peraltro pacifico che la riserva di legge è
compatibile con il rinvio integrativo ad altro atto di normazione secondaria.
In ogni caso, il d.P.C.m. previsto dall’art. 17 impugnato sarebbe soltanto
un atto interno di una procedura delineata con legge e che si conclude con un
atto legislativo di iniziativa governativa, adottato sulla base delle proposte
regionali (comma 4). Nessuna delegificazione sarebbe stata dunque attuata.
23.5.– La difesa statale
esamina la censura prospettata in riferimento agli artt. 5 e 114 Cost., secondo
cui l’individuazione di parametri relativi alla consistenza territoriale ed
alla popolazione, previsti dal comma 2 dell’art. 17, confliggerebbe con il
principio di valorizzazione delle istanze decentrate e di sussidiarietà.
Secondo lo schema delineato dal
legislatore – e diversamente da quanto ritenuto dalle ricorrenti – spetterebbe
ai Consigli delle autonomie locali e alle Regioni la formulazione di proposte
di riordino, che, nel rispetto dei requisiti dimensionali, rispondano
all’esigenza di configurare, in ogni Regione, enti provinciali espressivi anche
di omogeneità geografiche, storiche, sociali, economiche, demografiche,
meritevoli di essere rappresentate a livello di area vasta.
E del resto, osserva
l’Avvocatura, la promozione delle autonomie locali non si consegue
necessariamente con il loro aumento numerico, ma con l’attribuzione agli enti
locali di adeguate funzioni e di una riconosciuta rappresentanza.
In ogni caso, l’Avvocatura
ribadisce che l’art. 5 Cost. affida allo Stato il compito di attuare il più
ampio decentramento amministrativo nei propri servizi, e quindi in Province
riordinate e riformate, in linea con l’evoluzione della società, secondo un
disegno funzionale e razionale, che non può non rientrare nella materia
attribuita alla competenza statale esclusiva dall’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost.
23.6.– Per quanto appena detto,
risulterebbero infondate le censure prospettate in riferimento all’art. 117,
commi secondo, quarto e sesto, Cost., anche a prescindere dal fatto che un
titolo concorrente di legittimazione potrebbe essere rinvenuto nella materia
del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», di cui
agli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., avuto riguardo al
vincolo di stabilità finanziaria derivante dal patto di stabilità comunitario,
che legittimerebbe l’intervento statale volto a ridurre il numero delle
Province e a contenere la spesa pubblica, come esplicitato nel preambolo del
d.l. n. 95 del 2012.
Tale decreto, invero,
rappresenta l’ultimo di una serie di interventi che si propongono di fare
fronte, con urgenza, ad una grave crisi economica, al fine di assicurare la
stabilità finanziaria dello Stato.
In questa prospettiva, i
principi enunciati dall’art. 17 sarebbero espressione di princìpi fondamentali
di coordinamento della finanza pubblica (comma 5), giacché impongono a tutti
gli enti costitutivi della Repubblica di concorrere alla realizzazione del bene
pubblico, in attuazione dei valori di solidarietà politica, economica e sociale
(art. 2 Cost.), di uguaglianza economico-sociale (art. 3, comma 2, Cost.), di
unitarietà della Repubblica (art. 5 Cost.), di responsabilità internazionale
dello Stato (art. 10 Cost.), e dei correlati principi del concorso di tutti
nelle spese pubbliche (art. 53 Cost.), della tutela dell’unità giuridica ed
economica (art. 120 Cost.), e degli altri doveri espressi dalla Costituzione.
In definitiva, secondo la
difesa statale, si deve ritenere che il riassetto delle circoscrizioni
provinciali, in quanto articolazioni amministrative dello Stato, è sicuramente
consentito allo Stato e che il d.l. n. 95 del 2012 delinea, in proposito, un
procedimento rispettoso delle autonomie locali.
Sarebbero già state evidenziate
le differenze di tale procedimento rispetto a quello previsto dall’art. 133
Cost., finalizzato a consentire il mutamento delle indicate circoscrizioni ad iniziativa
delle comunità locali, le cui norme di attuazione sono contenute nel d.lgs. n.
267 del 2000. Si tratterebbe quindi di interventi diversi, entrambi volti alla
tutela di interessi pubblici, e tra loro perfettamente compatibili.
Da un lato, l’art. 21, lettera f), del d.lgs. n. 267 del 2000
stabilisce che l’istituzione di nuove Province non comporta necessariamente
l’istituzione di uffici provinciali delle amministrazioni dello Stato e degli
altri enti pubblici, dall’altro lato, l’art. 17, comma 3, del d.l. n. 95 del
2012 prevede che «le ipotesi e le proposte di riordino tengano conto delle
eventuali iniziative comunali volte a modificare le circoscrizioni provinciali
esistenti».
La disposizione sottoposta
all’odierno scrutinio sarebbe, infine, rispettosa delle autonomie locali,
garantendo il relativo coinvolgimento, a livello di Consiglio delle autonomie
locali e di Regione, in un procedimento di riordino che non sarebbe possibile
attuare attraverso il modello delineato dall’art. 133 Cost.
È richiamata la sentenza n. 347 del
1994 della Corte costituzionale, che ha riguardato l’istituzione di una
nuova Provincia nonché la modifica della circoscrizione di una Provincia
esistente, e nella quale si è affermato che la modifica può essere effettuata,
oltre che con legge formale, anche mediante delega legislativa, nel rispetto
dei limiti fissati dall’art. 76 Cost.
23.7.– A proposito del
prospettato contrasto fra la previsione che attribuisce al Consiglio delle
autonomie locali il compito di formulare ipotesi di riordino delle Province e
l’art. 123 Cost., l’Avvocatura osserva come tale compito rientri pienamente
nella missione istituzionale dell’organo di consultazione fra la Regione e gli
enti locali, in quanto tale legittimato a fornire una ipotesi di riordino, e
quindi a dare un parere, in termini non dissimili dal parere previsto dall’art.
133 Cost. in capo alle Regioni.
23.8.– Quanto, infine, alla
prospettata violazione della Carta europea dell’autonomia locale, secondo la
difesa statale la Carta non avrebbe contenuto precettivo (è richiamata la sentenza n. 325 del
2010 della Corte costituzionale), e, in ogni caso, la procedura partecipata
prevista dall’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012 sarebbe rispettosa sia dell’art.
5, che richiede la preventiva consultazione delle popolazioni interessate dalle
modifiche territoriali, sia dell’art. 4 della stessa Carta, che riconosce alle
collettività locali la facoltà di assumere iniziative nella materia in oggetto.
23.9.– Quanto, infine, alla
prospettata violazione dell’art. 120 Cost., l’Avvocatura generale ribadisce che
la procedura di riordino in esame è rispettosa delle istanze delle autonomie
locali, evidenziando che l’art. 17, comma 4, non avrebbe previsto un vero e
proprio potere sostitutivo dello Stato, volendo soltanto ovviare alla eventuale
mancanza di proposta regionale con il parere aggiuntivo della Conferenza
unificata.
23.10.– La difesa statale
esamina, quindi, le censure aventi ad oggetto l’art. 18 del d.l. n. 95 del
2012, ed eccepisce anzitutto l’inammissibilità della questione posta in
riferimento all’art. 77 Cost., per le medesime ragioni già esposte a proposito
dell’impugnazione dell’art. 17, alla cui sintesi si rinvia.
L’urgenza di provvedere
renderebbe infondata la questione posta in riferimento all’art. 3 Cost., sotto
il profilo della irragionevolezza della fissazione di termini brevi entro i quali
le Regioni devono comunicare le relative proposte.
L’art. 18 reca un intervento
che si collocherebbe a valle del complesso procedimento di razionalizzazione
delle Province e sarebbe finalizzato al raggiungimento dei medesimi obiettivi
di risanamento della finanza pubblica.
Si dovrebbe in proposito
considerare che, dall’anno 2014, l’obiettivo del pareggio di bilancio dovrà
essere perseguito ai sensi dell’art. 81 Cost., e che l’art. 18, comma 1,
statuisce che «le città metropolitane (da istituire tassativamente entro il 1°
gennaio 2014) conseguono gli obiettivi del patto di stabilità interno delle
province soppresse», sicché non parrebbe dubitabile la sussistenza dei
presupposti di necessità ed urgenza che hanno portato il legislatore a
ridisegnare l’assetto del territorio del Paese.
Nemmeno sarebbe fondata la
censura prospettata in riferimento all’art. 72, quarto comma, Cost., sul
rilievo che l’istituzione delle città metropolitane costituirebbe materia
riservata all’assemblea. La Corte costituzionale annovera, nella categoria
delle leggi in materia costituzionale, esclusivamente le leggi costituzionali
(è richiamata la sentenza
n. 168 del 1963).
23.11.– Con riferimento ai
ricorsi promossi dalle Regioni speciali e ai termini previsti dall’art. 17 per
l’adeguamento dei rispettivi ordinamenti, la difesa statale osserva che,
trattandosi di termini non perentori, sarebbe assicurato il rispetto delle
procedure previste dagli statuti speciali.
24.– Nei giudizi promossi dalla
Regione Molise (ric. n. 133 del 2012), dalla Regione Campania (ric. n. 153 del
2012) e dalla Regione Lombardia (ric. n. 154 del 2012) sono intervenuti,
rispettivamente, le Province di Isernia e di Avellino, ed il Comune di Mantova
argomentando circa l’ammissibilità dei loro interventi e chiedendo che la Corte
costituzionale dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l. n.
95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012.
25.– In prossimità dell’udienza
del 2 luglio 2013 le Regioni Campania (reg. ric. n. 46 e n. 153 del 2012),
Friuli-Venezia Giulia (reg. ric. n. 50 e n. 159 del 2012), Lazio (reg. ric. n.
145 del 2012), Lombardia (reg. ric. n. 24 e n. 154 del 2012), Sardegna (reg.
ric. n. 47 e n. 160 del 2012), Valle d’Aosta (reg. ric. n. 38 del 2012) e
Veneto (reg. ric. n. 151 del 2012), nonché il Presidente del Consiglio dei
ministri, hanno depositato memorie, nelle quali insistono nelle conclusioni già rassegnate nei rispettivi ricorsi e atti
di costituzione.
Considerato in diritto
1.– Le Regioni Piemonte (reg.
ric. n. 18 del 2012), Lombardia (reg. ric. n. 24 del 2012), Veneto (reg. ric.
n. 29 del 2012), Molise (reg. ric. n. 32 del 2012), Lazio (reg. ric. n. 44 del
2012) e Campania (reg. ric. n. 46 del 2012), e le Regioni autonome Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste
(reg. ric. n. 38 del 2012), Sardegna (reg. ric. n. 47 del 2012) e
Friuli-Venezia Giulia (reg. ric. n. 50 del 2012), con nove distinti ricorsi,
hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni
del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 22 dicembre
2011, n. 214, e, tra queste, dell’art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis, 21 e 22, per violazione
degli artt. 1, 2, 3, 5, 72, 77, 97, 114, 117, 118, 119, 120 e 138 della
Costituzione, nonché degli artt. 2, primo comma, lettera b), 3, primo comma, lettera f),
e 4 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dell’art. 3, primo comma,
lettere a) e b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna),
degli artt. 4, primo comma, n. 1-bis),
11, 51, 54 e 59 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia
Giulia), e degli artt. 2 e 9 del decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9
(Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Friuli-Venezia
Giulia in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni), nonché del principio di leale collaborazione.
In particolare, la Regione
Piemonte ha impugnato i commi
14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis e
21 del citato art. 23, per violazione degli artt. 5, 114, 117, secondo
comma, lettera p), quarto e sesto
comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, del principio di leale
collaborazione, «e in relazione agli artt. 3, 77 e 97 della Costituzione».
La Regione Lombardia ha
promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, del
d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge n. 214 del 2011, per
violazione degli artt. 3, 5, 114, 117, 118, 119, 120, secondo comma, e 138
Cost.
La Regione Veneto ha promosso
questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, per
violazione degli artt. 1, 3, 5, 114, 118, 119, 120 e 138 Cost.
La Regione Molise ha promosso
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis e 21, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, per violazione degli artt. 5, 114, 117, secondo
comma, lettera p), quarto e sesto
comma, 118, 119 e 120 Cost., del principio di leale collaborazione, «e in
relazione agli artt. 3, 77 e 97 della Costituzione».
La Regione autonoma Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste ha
promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23, comma 22, per violazione degli artt.
2, primo comma, lettera b), 3, primo
comma, lettera f), e 4 della legge
cost. n. 4 del 1948, nonché del combinato disposto degli artt. 117, terzo
comma, 119, secondo comma, Cost. e dell’art. 10 della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo
V della parte seconda della Costituzione).
La Regione Lazio ha promosso
questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, per
violazione degli artt. 5, 72, quarto comma, 77, 114, 117, secondo comma,
lettera p), 118, secondo comma, 119,
quarto comma, e 120, secondo comma, Cost., nonché dei principi di
ragionevolezza e di leale collaborazione.
La Regione Campania ha promosso
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 18, 19 e 20, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, per violazione degli artt. 1, 2, 5, 114, 117,
118, 119, 120, secondo comma, Cost.
La Regione autonoma Sardegna ha
promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis, 21 e 22, per violazione
dell’art. 3, primo comma, lettere a)
e b), della legge cost. n. 3 del
1948.
La Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia ha promosso questioni di legittimità costituzionale di
alcune disposizioni del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 214 del 2011, e, tra queste, dell’art. 23,
commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis
e 22, per violazione degli artt. 5, 77, 114, 117, commi primo, secondo e
sesto, 118, commi primo e secondo, e 119, nonché degli artt. 4, primo comma, n.
1-bis), 11, 51, 54 e 59 della legge
cost. n. 1 del 1963 e degli artt. 2 e 9
del d.lgs. n. 9 del 1997.
Riservata a separate pronunce
la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel d.l. n.
201 del 2011, vengono in esame in questa sede le questioni di legittimità
costituzionale relative all’art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis, 21 e 22.
2.– Le Regioni Molise (reg.
ric. n. 133 del 2012), Lazio (reg. ric. n. 145 del 2012), Veneto (reg. ric. n.
151 del 2012), Campania (reg. ric. n. 153 del 2012), Lombardia (reg. ric. n.
154 del 2012), Piemonte (reg. ric. n. 161 del 2012) e Calabria (reg. ric. n.
169 del 2012), e le Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia (reg. ric. n. 159
del 2012) e Sardegna (reg. ric. n. 160 del 2012), con nove distinti ricorsi,
hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni
del decreto-legge 6 luglio 2012,
n. 95 (Disposizioni urgenti per
la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135, e, tra queste, degli artt. 17 e 18, per violazione degli
artt. 1, 2, 3, 5, 6, 71, 72, 77, 97, 114, 116, 117, 118, 119, 120, 123, 126,
132, 133 e 138 Cost., degli artt. 3, 43, 45 e 54 della legge cost. n. 3 del
1948, dell’art. 4 della legge cost. n. 1 del 1963, dell’art. 8 del d.lgs. n. 9 del 1997 e dell’art. 8 della legge 5
giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della
Repubblica alla legge costituzionale
18 ottobre 2001, n. 3), nonché del principio di leale collaborazione.
In particolare, la Regione
Molise ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l. n. 95 del
2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli
artt. 3, 5, 77, 114, 117, secondo comma, lettera p), quarto e sesto comma, 118, 119, 126 e 133, primo comma, Cost.,
e del principio di leale collaborazione.
La Regione Lazio ha promosso
questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del
2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli
artt. 3, 72, quarto comma, 77, 114, 117, terzo comma, e 133 Cost.
La Regione Veneto ha promosso
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012, per
violazione degli artt. 3, 5, 77, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 Cost.,
e del principio di leale collaborazione.
La Regione Campania ha promosso
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis,
6, 11 e 12, e dell’art. 18, commi 1, 2, 2-bis,
7-bis, 9, lettere c) e d), del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 71,
primo comma, 77, secondo comma, 97, 114, 117, 118, 119, 120, 123, 133 e 138
Cost.
La Regione Lombardia ha
promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 6, 11 e 12, del d.l. n. 95 del
2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli
artt. 1, 2, 3, 5, 71, primo comma, 77, secondo comma, 97, 114, 117, 118, 119,
120, secondo comma, 123, quarto comma, 133 e 138 Cost.
La Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli artt. 77 e 133 Cost.,
dell’art. 4 della legge cost. n. 1 del 1963 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 9 del
1997.
La Regione autonoma Sardegna ha
promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli artt. 116 e 133 Cost., del
principio di leale collaborazione e degli artt. 3, 43 e 54 della legge cost. n.
3 del 1948.
La Regione Piemonte ha promosso
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 6 e 12, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, per violazione degli artt. 5, 77, 114, 117,
secondo comma, lettera p), quarto e
sesto comma, 118, 119 e 120 Cost., e del principio di leale collaborazione.
La Regione Calabria ha promosso
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 1, 2, 3, 4 e 4-bis,
del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012, per
violazione degli artt. 3, 5, 77, 114, 117, 118 e 133 Cost.
Riservata a separate pronunce
la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel d.l. n.
95 del 2012, vengono in esame in questa sede le questioni di legittimità
costituzionale relative agli artt. 17 e 18.
3.– I giudizi, così separati e
delimitati, in considerazione della loro connessione oggettiva devono essere
riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.
4.– In via preliminare deve
essere confermata l’ordinanza, deliberata nel corso dell’udienza pubblica ed
allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati
inammissibili gli interventi spiegati: dall’Unione delle Province d’Italia, nel
giudizio promosso dalla Regione Lazio nei confronti dell’art. 23 del d.l. n.
201 del 2011; dalle Province di Isernia, Latina, Frosinone e Viterbo, nei
giudizi promossi, rispettivamente, dalle Regioni Molise e Lazio nei confronti
dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011; dalle Province di Isernia e Avellino,
nei giudizi promossi, rispettivamente, dalle Regioni Molise e Campania nei
confronti degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012; dal Comune di Mantova,
nel giudizio promosso dalla Regione Lombardia avverso l’art. 17 del d.l. n. 95
del 2012.
Il giudizio di
costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione ai sensi dell’art. 127
Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), si svolge esclusivamente tra soggetti
titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale
potestà, i mezzi di tutela delle rispettive posizioni soggettive, anche
costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente
innanzi a questa Corte in via incidentale.
Pertanto, alla stregua
della normativa in vigore e conformemente alla costante giurisprudenza
costituzionale in materia (ex plurimis, sentenze n. 118 del
2013, n. 245,
n. 114 e n. 105 del 2012,
n. 69 e n. 33 del 2011,
n. 278 e n. 121 del 2010,
e ordinanza n.
107 del 2010), deve ritenersi inammissibile l’intervento, nei giudizi di
costituzionalità in via principale, di soggetti privi di potere legislativo.
5.– Prima di esaminare il
merito delle singole censure, questa Corte è chiamata a risolvere alcune
questioni preliminari.
5.1.– Innanzitutto, deve essere
esclusa la fondatezza dell’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello
Stato, secondo cui i ricorsi dovrebbero essere dichiarati inammissibili in
quanto le Regioni non sarebbero legittimate ad agire a tutela delle
attribuzioni degli enti locali.
Al riguardo, la giurisprudenza
costituzionale ha ripetutamente affermato che «le Regioni sono legittimate a
denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti
locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della
competenza legislativa regionale» (ex plurimis, sentenze n. 311 del
2012, n. 298
del 2009, n.
169 e n. 95
del 2007, n.
417 del 2005 e n. 196 del 2004).
5.2.– In secondo luogo, le
istanze di sospensione delle norme impugnate, proposte da alcune Regioni
ricorrenti ai sensi dell’art. 35 della legge n. 87 del 1953, devono essere
dichiarate assorbite dalla decisione del merito della questione (ex plurimis, sentenze n. 121
e n. 46 del 2013).
Peraltro, lo stesso legislatore
statale ha disposto la sospensione dell’applicazione di gran parte delle norme
impugnate fino al 31 dicembre 2013.
5.3.– Da ultimo, deve essere
dichiarata l’inammissibilità degli atti di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri nei giudizi promossi dalle Regioni Veneto (reg. ric. 29
del 2012) e Campania (reg. ric. 46 del 2012), e dalla Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia (reg. ric. 50 del 2012), in quanto depositati oltre il
termine perentorio stabilito dall’art. 19, comma 3, delle norme integrative per
i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Il
mancato rispetto di tale termine comporta l’inammissibilità della costituzione
in giudizio della parte resistente (tra le più recenti, sentenze n. 299
e n. 297 del
2012, ordinanza
n. 61 del 2013).
6.– Nel merito, è necessario
premettere che non tutte le questioni promosse nei confronti dell’art. 23 del
d.l. n. 201 del 2011 investono norme relative alla cosiddetta riforma delle
Province. In particolare, fra i numerosi commi del citato art. 23 posti ad
oggetto delle censure regionali, sono compresi i commi 4, 21 e 22, che recano
statuizioni non attinenti alla materia indicata.
Per ragioni di ordine
sistematico, l’esame delle censure deve muovere da quelle relative ai suddetti
commi 4, 21 e 22.
7.– La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 23, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011 non è fondata.
7.1.– Il censurato comma 4 introduce il comma 3-bis all’art. 33 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163
(Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), che prevede l’obbligo – per i Comuni con popolazione non superiore a 5.000
abitanti – di affidamento dell’acquisizione di lavori, servizi e forniture,
nell’ambito delle unioni dei Comuni, ad un’unica centrale di committenza.
Il comma 4 è impugnato dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, la quale
ritiene che la norma non si applichi alle Regioni speciali e quindi promuove in
via di mero subordine la questione di legittimità costituzionale per violazione
delle proprie competenze in tema di ordinamento degli enti locali e di finanza
locale (artt.
4, primo comma, n. 1-bis, 51 e 54
della legge cost. n. 1 del 1963 e art.
9 del d.lgs. n. 9 del 1997).
La
difesa regionale esclude l’applicabilità della norma in questione alle Regioni
speciali facendo rilevare che l’art. 4 del d.lgs. 163 del 2006 (collocato fra le prime
disposizioni del codice dei contratti pubblici), stabilisce, al comma 5, che le
«Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano
adeguano la propria legislazione secondo le disposizioni contenute negli
statuti e nelle relative norme di attuazione».
Dalle norme del codice
nascerebbe dunque un obbligo di adeguamento per le Regioni speciali e non una
immediata cogenza delle norme ivi contenute.
Nelle more dell’odierno
giudizio è intervenuto l’art. 1 del d.l. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 135 del 2012,
che attenua la portata del comma 3-bis dell’art.
33 del d.lgs. n. 163 del 2006 (introdotto dal censurato comma 4 dell’art. 23),
aggiungendovi il seguente periodo: «In alternativa, gli stessi Comuni possono
effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto
gestiti da altre centrali di committenza di riferimento, ivi comprese le
convenzioni di cui all’articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488,
e il mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo
328 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207».
7.2.– Questa Corte ritiene
condivisibile l’interpretazione,
sopra illustrata, proposta in via principale dalla Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia: infatti, alla luce del combinato disposto dell’art. 4,
comma 5, e dell’art. 33 del d.lgs. n. 163 del 2006 (come modificato dalla norma
impugnata), deve escludersi l’applicabilità di quest’ultima norma alle Regioni
a statuto speciale.
Di conseguenza, la relativa questione di legittimità costituzionale deve
essere dichiarata non fondata.
8.– La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 23, comma 21, del d.l. n. 201 del 2011 è
inammissibile.
Il comma 21 stabilisce che «I Comuni possono istituire unioni o organi di
raccordo per l’esercizio di specifici compiti o funzioni amministrativi
garantendo l’invarianza della spesa». La norma è impugnata dalle Regioni Piemonte e Molise nonché
dalla Regione autonoma Sardegna, ma nessuna delle ricorrenti formula censure
specifiche, limitandosi tutte ad inserire il comma in oggetto nel novero delle
disposizioni impugnate, senza argomentare sulle ragioni della sua illegittimità
costituzionale.
Per le ragioni anzidette le questioni, genericamente proposte nei
confronti del comma 21, devono essere dichiarate inammissibili per carenza di
motivazione.
9.– La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 23, comma 22, del d.l. n. 201 del 2011 non è fondata.
Il comma 22 dispone che «La titolarità di qualsiasi carica, ufficio o organo di
natura elettiva di un ente territoriale non previsto dalla Costituzione è a
titolo esclusivamente onorifico e non può essere fonte di alcuna forma di remunerazione,
indennità o gettone di presenza, con esclusione dei comuni di cui all’articolo
2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre
2009, n. 191, e successive modificazioni».
L’art. 2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato. Legge finanziaria 2010), a sua
volta, prevede che, «al fine del coordinamento della finanza pubblica e per il
contenimento della spesa pubblica», i Comuni devono, tra l’altro, disporre la
«soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale di cui all’articolo 17 del citato testo unico di cui al
decreto legislativo n. 267 del 2000, e successive modificazioni, tranne
che per i comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti, che hanno
facoltà di articolare il loro territorio in circoscrizioni, la cui popolazione
media non può essere inferiore a 30.000 abitanti; è fatto salvo il comma 5
dell’articolo 17 del Testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267».
Il comma 22 dell’art. 23 del d.l. n. 201
del 2011 è impugnato dalle sole Regioni a statuto speciale Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste, Sardegna
e Friuli-Venezia Giulia. La Sardegna formula una indistinta censura per tutti i
commi da 14 a 22; la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e il Friuli-Venezia Giulia, invece, formulano censure
specifiche nei confronti della norma in questione.
Le Regioni sopra indicate
lamentano la lesione delle attribuzioni loro conferite sia dagli statuti
speciali sia dalla Costituzione. Anche a questo proposito, in realtà, le
ricorrenti sostengono, in via principale, che la norma non si applica alle
Regioni speciali e, solo in subordine, argomentano l’illegittimità
costituzionale della stessa sull’assunto che si tratterebbe di «qualsiasi
carica, ufficio o organo di natura elettiva di un ente territoriale non
previsto dalla Costituzione», la cui gestione ricade per intero sulle finanze
delle Regioni.
In particolare, sono richiamate
le recenti sentenze
n. 215, n.
173 e n. 151
del 2012, con le quali questa Corte ha escluso l’applicabilità dei vincoli
di cui al decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, alle Regioni
speciali che – ai sensi dell’art. 1 della legge 13 dicembre 2010, n. 220 «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2011» – concordano con lo Stato le
modalità del loro concorso agli obiettivi della finanza pubblica.
Tale lettura del dato normativo
censurato deve essere ribadita nel presente giudizio. La questione promossa
deve essere, quindi, dichiarata non fondata, in quanto il comma 22 non si
applica alle Regioni speciali.
10.– Come si è già detto, il
nucleo principale delle questioni promosse riguarda la normativa recante la
cosiddetta riforma delle Province. Si tratta, in particolare, dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20
e 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 135 del 2012.
Al riguardo, è necessario
ricostruire preliminarmente l’evoluzione della disciplina in materia.
Con l’art. 23 del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge n. 214 del 2011 – oggetto delle
impugnative proposte con i ricorsi nn. 18, 24,
29, 32, 38, 44, 46, 47 e 50 del 2012 – il legislatore ha, tra l’altro,
modificato la normativa in tema di funzioni delle Province (limitandole al solo
indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni) e in tema di organi delle
stesse (eliminando la Giunta, prevedendo che il Consiglio sia composto da non
più di dieci membri eletti dagli organi elettivi dei Comuni e disponendo che il
Presidente della Provincia sia eletto dal Consiglio provinciale).
Con l’art. 17 del d.l.
n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge n. 135 del 2012 – oggetto delle
impugnative proposte con i ricorsi nn. 133,
145, 151, 153, 154, 159, 160, 161 e 169 del 2012, in qualche caso congiuntamente all’art. 18 – il legislatore ha disposto il
cosiddetto riordino delle Province, ha nuovamente modificato la normativa in
tema di funzioni delle Province (ripristinandone un nucleo essenziale) ed ha
tenuto ferma la disciplina sugli organi delle stesse, introdotta dall’art. 23
del d.l. n. 201 del 2011.
L’art. 18 del d.l. n.
95 del 2012, poi, prevede la soppressione delle Province di Roma, Torino,
Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria,
disponendo la contestuale istituzione delle relative Città metropolitane a
partire dal 1° gennaio 2014. Lo stesso art. 18 disciplina, inoltre, gli organi
e le funzioni delle Città metropolitane.
Con la delibera del
Consiglio dei ministri 20 luglio 2012 sono stati dettati i criteri per il
riordino delle Province a norma dell’art. 17, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012.
Il riordino delle
Province nelle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’art. 17, commi 3 e 4,
del d.l. n. 95 del 2012, è stato disposto dal decreto-legge 5 novembre 2012, n. 188 (Disposizioni urgenti in materia di
Province e Città metropolitane), che però non è stato convertito in
legge. Il predetto decreto recava anche modifiche all’art. 18 del d.l. n. 95
del 2012.
Da ultimo, l’art. 1, comma 115, della legge 24 dicembre
2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato. Legge di stabilità 2013) ha sospeso per un anno
l’attuazione delle norme sopra indicate. In particolare, è stata disposta: la
sospensione, fino al 31 dicembre 2013, dell’applicazione delle disposizioni di
cui ai commi 18 e 19 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011; la sostituzione, al
citato art. 23, comma 16, delle parole «31 dicembre 2012» con le seguenti «31
dicembre 2013»; la sostituzione, all’art. 17, comma 4, del d.l. n. 95 del 2012,
delle parole «entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto» con le seguenti «entro il 31 dicembre 2013»;
la sostituzione, all’art. 17, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012, delle parole
«all’esito della procedura di riordino» con le seguenti «in attesa del
riordino, in via transitoria»; la sospensione, fino al 31 dicembre 2013,
dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 18 del d.l. n. 95 del
2012.
Si è previsto inoltre
che «Nei casi in cui in una data compresa tra il 5 novembre 2012 e il 31
dicembre 2013 si verifichino la scadenza naturale del mandato degli organi
delle province, oppure la scadenza dell’incarico di Commissario straordinario
delle province nominato ai sensi delle vigenti disposizioni di cui al testo
unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, o in altri casi di cessazione
anticipata del mandato degli organi provinciali ai sensi della legislazione
vigente, è nominato un commissario straordinario, ai sensi dell’articolo
141 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000
per la provvisoria gestione dell’ente fino al 31 dicembre 2013».
11.– Così ricostruito il quadro
normativo di riferimento, si deve osservare che la questione di legittimità
costituzionale promossa per violazione dell’art. 77 Cost. nei confronti
dell’art. 23, commi 14, 15,
16, 17, 18, 19, 20 e 20-bis, del
d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge n. 135 del 2012, precede logicamente le altre e deve essere
pertanto esaminata per prima.
11.1.– In via preliminare, deve
rilevarsi che il parametro dell’art. 77 Cost., pur essendo indicato negli atti
introduttivi dei giudizi, non sempre è espressamente individuato nelle relative
delibere delle Giunte regionali.
Quanto ai ricorsi che hanno ad
oggetto l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, il citato parametro è evocato dalle
Regioni Piemonte, Molise, Lazio e dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, ma non risulta indicato
nelle delibere delle Giunte regionali del Molise e del Friuli-Venezia Giulia.
Quanto al secondo blocco di
impugnative, aventi ad oggetto gli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, il
parametro costituzionale di cui all’art. 77 Cost. è evocato in tutti i ricorsi
– tranne che in quello della Regione autonoma Sardegna – con riferimento sia
all’art. 17 sia all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012. Lo stesso parametro non è
però indicato nella delibera della Giunta regionale del Molise.
Al riguardo, questa Corte –
anche sulla base di quanto prescritto dall’art. 32, secondo comma, della legge
n. 87 del 1953, secondo cui deve essere oggetto della previa deliberazione
della Giunta regionale la «questione di legittimità costituzionale» e non le
sole disposizioni da impugnare – ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso
nel caso in cui non vi sia corrispondenza tra i parametri ivi indicati e quelli
per i quali la Giunta regionale ne ha deliberato la proposizione (ex plurimis, sentenze n. 20 del
2013, n. 226
del 2012, n.
227 e n. 7
del 2011).
Né può valere l’inserimento,
nella delibera della Giunta regionale, di una formula che rimetta al difensore
incaricato il compito di individuare i parametri asseritamente
violati (come avvenuto nel ricorso della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia).
Deve pertanto essere esclusa
l’ammissibilità delle censure prospettate, in riferimento all’art. 77 Cost.,
dalla Regione Molise in entrambi i ricorsi promossi (reg. ricc.
n. 32 e n. 133 del 2012) e dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia nel
ricorso avverso l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 (reg. ric. n. 50 del 2012).
Da quanto detto consegue che le
residue questioni prospettate in riferimento all’art. 77 Cost. sono quelle
promosse: dalle Regioni Piemonte e Lazio avverso l’art. 23 del d.l. n. 201 del
2011 e dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania, Lombardia, Piemonte e Calabria, e
dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia avverso gli artt. 17 e 18 del d.l.
n. 95 del 2012.
11.2.– L’Avvocatura generale
dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità di tutte le censure
riguardanti l’asserita violazione dell’art. 77 Cost., in quanto quest’ultimo
non sarebbe parametro attinente al riparto delle competenze tra Stato e
Regioni.
L’eccezione non può essere
accolta.
Questa Corte ammette, con
giurisprudenza costante, che «le Regioni possono evocare parametri di
legittimità diversi rispetto a quelli che sovrintendono al riparto di
attribuzioni solo se la lamentata violazione determini una compromissione delle
attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o ridondi sul riparto di
competenze legislative tra Stato e Regioni» (sentenza n. 33 del
2011; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 46,
n. 20 e n. 8 del 2013; n. 311, n. 298, n. 200, n. 199, n. 198, n. 187, n. 178, n. 151, n. 80 e n. 22 del 2012).
Se dunque il parametro evocato
non attiene direttamente al riparto delle competenze legislative tra Stato e
Regioni, è necessario, ai fini dell’ammissibilità, che le norme censurate
determinino, nella prospettazione della parte ricorrente, una violazione «potenzialmente
idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle
Regioni» (sentenza
n. 22 del 2012, ma, ancora prima, sentenze n. 6 del
2004 e n.
303 del 2003). Ciò ovviamente non equivale a ritenere che la censura basata
su parametri non attinenti al riparto di competenze sia ammissibile solo se
fondata rispetto ad una norma contenuta nel Titolo V della Parte seconda della
Costituzione. La questione infatti, all’esito di uno scrutinio di merito,
potrebbe risultare non fondata rispetto ai parametri competenziali, ma essere
ritenuta preliminarmente ammissibile proprio per la sua potenziale incidenza su
questi ultimi. Solo se dalla stessa prospettazione del ricorso emerge
l’estraneità della questione rispetto agli ambiti di competenza regionale –
indipendentemente da ogni valutazione sulla fondatezza delle censure – la
questione deve essere dichiarata inammissibile (sentenza n. 8 del
2013).
La possibile ridondanza deve
essere valutata non solo con riferimento alle competenze proprie delle Regioni
ricorrenti (uniche legittimate ad esperire ricorsi in via di azione davanti a
questa Corte), ma anche con riguardo alle attribuzioni degli enti locali,
quando sia lamentata dalle Regioni una potenziale lesione delle sfere di competenza
degli stessi enti locali (sentenza n. 199 del
2012).
11.3.– Nei casi oggetto dei
presenti giudizi, risulta evidente che le norme censurate incidono notevolmente
sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli amministratori,
sulla composizione degli organi di governo e sui rapporti dei predetti enti con
i Comuni e con le stesse Regioni. Si tratta di una riforma complessiva di una
parte del sistema delle autonomie locali, destinata a ripercuotersi sull’intero
assetto degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e
garantiti dalla Costituzione.
Questa Corte deve quindi
valutare la compatibilità dello strumento normativo del decreto-legge, quale
delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in
specie, ai fini del presente giudizio, con gli artt. 117, secondo comma,
lettera p, e 133, primo comma) che
prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia
sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale
dei singoli enti, considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost.,
insieme allo Stato e alle Regioni, elementi costitutivi della Repubblica, «con
propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione».
12.– Le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20 del
d.l. n. 201 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, promosse
dalle ricorrenti per violazione dell’art. 77 Cost., sono fondate nei termini di
seguito specificati.
12.1.– Si deve osservare
innanzitutto che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello
Stato la disciplina dei seguenti ambiti: «legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
La citata norma costituzionale
indica le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti
locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e
rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le
linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato
dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. È appena il caso di
rilevare che si tratta di norme ordinamentali, che non possono essere
interamente condizionate dalla contingenza, sino al punto da costringere il
dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo
e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per
interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili
dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza».
Da quanto detto si ricava una
prima conseguenza sul piano della legittimità costituzionale: ben potrebbe
essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni
degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su
specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo,
secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio
successivo del Parlamento. Si ricava altresì, in senso contrario, che la
trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un
ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è
incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale,
trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo
è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non
nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di
necessità e d’urgenza».
I decreti-legge traggono la
loro legittimazione generale da casi straordinari e sono destinati ad operare
immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni
bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e
urgenti necessità. Per questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma
di portata generale, ha previsto che il decreto-legge debba contenere «misure
di immediata applicazione» (art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 «Disciplina
dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
ministri»). La norma citata, pur non avendo, sul piano formale, rango
costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve ritenersi intrinseco alla
natura stessa del decreto-legge (sentenza n. 22 del
2012), che entrerebbe in contraddizione con le sue stesse premesse, se
contenesse disposizioni destinate ad avere effetti pratici differiti nel tempo,
in quanto recanti, come nel caso di specie, discipline mirate alla costruzione
di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di
spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in
via approssimativa.
Del resto, lo stesso
legislatore ha implicitamente confermato la contraddizione sopra rilevata
quando, con l’art. 1, comma 115, della legge n. 228 del 2012, ha sospeso per un
anno – fino al 31 dicembre 2013 – l’efficacia delle norme del d.l. n. 201 del
2011, con la seguente formula: «Al fine di consentire la riforma organica della
rappresentanza locale ed al fine di garantire il conseguimento dei risparmi
previsti dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni,
dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, nonché quelli derivanti dal processo di
riorganizzazione dell’Amministrazione periferica dello Stato, fino al 31
dicembre 2013 è sospesa l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 18 e
19 dell’art. 23 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214».
Dalla disposizione sopra
riportata non risulta chiaro se l’urgenza del provvedere – anche e soprattutto
in relazione alla finalità di risparmio, esplicitamente posta a base del
decreto-legge, come pure del rinvio – sia meglio soddisfatta dall’immediata
applicazione delle norme dello stesso decreto oppure, al contrario, dal
differimento nel tempo della loro efficacia operativa. Tale ambiguità conferma
la palese inadeguatezza dello strumento del decreto-legge a realizzare una
riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in
esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi
necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili
sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano
con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge, secondo il disegno
costituzionale.
Le considerazioni che precedono
non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore e non portano alla
conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo
con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno
degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo
stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia
utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi
assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative.
12.2.– Si deve ancora osservare
che la modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma
dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che
deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed
il parere, non vincolante, della Regione.
Sin dal dibattito in Assemblea
costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le
circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di
quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori
– fosse il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite
i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni
politiche imposte dall’alto.
Emerge dalle precedenti
considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che va al di
là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il
decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità
e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può
identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché
l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di una
concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della
straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà
prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già
manifestatisi nelle popolazioni locali.
Questa Corte ha ammesso che
l’istituzione di una nuova Provincia possa essere effettuata mediante lo
strumento della delega legislativa, purché «gli adempimenti procedurali
destinati a "rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei
Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione
alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla
stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata» (sentenza n. 347 del
1994).
In sostanza, secondo la
pronuncia citata, l’iniziativa dei Comuni ed il parere della Regione si pongono,
in caso di delega legislativa, come presupposti necessari perché possa essere
emanato da parte del Governo il decreto di adempimento della delega. La stessa
inversione cronologica non è possibile nel caso di un decreto-legge, giacché, a
norma dell’art. 77, secondo comma, Cost., il Governo deve presentare alle
Camere «il giorno stesso» dell’emanazione il disegno di legge di conversione.
Non vi è spazio quindi perché si possa inserire l’iniziativa dei Comuni. Né
quest’ultima potrebbe intervenire nel corso dell’iter parlamentare di
conversione; non si tratterebbe più di una iniziativa, ma di un parere, mentre
la norma costituzionale ben distingue il ruolo dei Comuni e della Regione nel
prescritto procedimento "rinforzato”.
Questa Corte ha riaffermato implicitamente
l’indefettibilità del procedimento previsto dall’art. 133, primo comma, Cost.,
riconoscendo ad una norma dello statuto speciale della Regione Sardegna, in
quanto avente rango costituzionale, «capacità derogatoria rispetto alla
generale disciplina in tema di istituzione di nuove province contenuta
nell’art. 133, primo comma, della Costituzione» (sentenza n. 230 del
2001).
L’Avvocatura generale dello
Stato sostiene che il riordino complessivo delle Province italiane non
rientrerebbe nella previsione dell’art. 133, primo comma, Cost.: quest’ultimo
limiterebbe la sua portata normativa soltanto alle singole modificazioni
circoscrizionali. Sarebbe impossibile, secondo la difesa statale, un riassetto
generale delle circoscrizioni provinciali, per l’estrema difficoltà di
coordinare le iniziative, per loro natura libere, di tutti o di gran parte dei
Comuni italiani.
A prescindere da ogni
valutazione sulla fondatezza nel merito di tale argomentazione con riferimento
alla legge ordinaria, occorre ribadire che a
fortiori si deve ritenere non utilizzabile lo strumento del decreto-legge
quando si intende procedere ad un riordino circoscrizionale globale, giacché
all’incompatibilità dell’atto normativo urgente con la prescritta iniziativa
dei Comuni si aggiunge la natura di riforma ordinamentale delle disposizioni
censurate, che introducono una disciplina a carattere generale dei criteri che
devono presiedere alla formazione delle Province. Per quest’ultimo profilo
valgono le considerazioni già sviluppate nel paragrafo 12.1.
13.– Parimenti illegittimo deve
essere dichiarato il comma 20-bis
dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, le cui censure meritano autonoma
trattazione.
Il citato comma 20-bis è impugnato nella parte in cui
obbliga le Regioni speciali ad adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni
di cui ai commi da 14 a 20, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del
d.l. n. 201 del 2011.
Siffatta norma è censurata,
congiuntamente ai commi da 14 a 20, dalle Regioni Piemonte e Molise, e dalle
Regioni autonome Sardegna e Friuli-Venezia Giulia.
Quanto all’impugnativa promossa
dalle Regioni Piemonte e Molise, le relative questioni risultano all’evidenza
inammissibili, stante l’assoluta carenza di interesse delle ricorrenti ad
impugnare una norma non applicabile nei loro confronti.
Per contro, si è già visto che
la violazione dell’art. 77 Cost. è stata prospettata soltanto dalla Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia e che la relativa questione deve essere
dichiarata inammissibile in quanto non menzionata nella delibera della Giunta
regionale. Residuano, pertanto, avverso il comma 20-bis, le sole questioni promosse dalla Regione autonoma Sardegna in
riferimento ai parametri statutari.
Nondimeno, l’illegittimità
costituzionale dei commi da 14 a 20 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 non
può che comportare, in via consequenziale, l’illegittimità anche del comma 20-bis, che pone un obbligo di adeguamento
degli ordinamenti delle Regioni speciali a norme incompatibili con la
Costituzione.
In definitiva, deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, ai sensi
dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, dell’art. 23, comma 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011.
14.– Restano assorbiti gli
altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dalle ricorrenti.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata
a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute
nel decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 22 dicembre
2011, n. 214, e nel decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione
della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135;
riuniti i giudizi,
1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011;
2) dichiara l’illegittimità
costituzionale degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012;
3) dichiara, in via
consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011;
4) dichiara inammissibili le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 21, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, promosse – in riferimento agli artt. 3, 5, 77,
97, 114, 117, secondo comma, lettera p),
quarto e sesto comma, 118, 119 e 120 Cost., e ai principi di ragionevolezza e
di leale collaborazione, nonché all’art. 3, primo comma, lettere a) e b),
della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) – dalle
Regioni Piemonte e Molise, e dalla Regione autonoma Sardegna con i ricorsi indicati in epigrafe;
5) dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, promossa – in riferimento agli artt. 4, primo
comma, n. 1-bis), 51 e 54 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1
(Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), nonché all’art. 9 del decreto legislativo 2 gennaio 1997, n.
9 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni) – dalla Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 22, del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, promosse – in riferimento agli artt. 4, primo
comma, n. 1-bis), 51 e 54 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1
(Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), all’art. 3,
primo comma, lettere a) e b), della legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale
per la Sardegna), agli artt. 2, primo comma, lettera b), 3, primo comma, lettera f), e 4 della legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale
per la Valle d’Aosta) ed agli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo
comma, Cost. – dalle Regioni autonome
Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste con i
ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.
F.to:
Franco GALLO,
Presidente
Gaetano SILVESTRI,
Redattore
Gabriella MELATTI,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 19 luglio 2013.
Il Direttore della
Cancelleria
F.to: Gabriella
MELATTI
Allegato:
Ordinanza
letta all’udienza del 2 luglio 2013