CONSULTA ONLINE
SENTENZA N. 262
ANNO 2009
Commenti alla decisione di
I. Alessandro Pace, Le ragioni della Corte
costituzionale, per gentile concessione della Rivista telematica eius
II. Paolo Carnevale, "A futura memoria”: dalla
Corte segnali "per il dopo”, nella Rubrica Studi e commenti di Consulta OnLine
III. Claudio Chiola, Lamentatio sulla pietra tombale del Lodo Alfano,
per gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali
IV. Antonio Ruggeri, Il
"lodo” Alfano al bivio tra teoria delle fonti e teoria della giustizia
costituzionale (a margine di Corte cost. n. 262 del
2009), per gentile concessione dell’AIC (Associazione
Italiana dei Costituzionalisti)
V. Andrea Morrone, La
Corte costituzionale sul "lodo Alfano”: una risposta tardiva?, per gentile
concessione del Forum dei
Quaderni Costituzionali
VI. Tomaso F. Giupponi, La
sentenza sul "lodo Alfano”: le possibili prospettive di riforma, per gentile concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
VII. Francesca Sgrò, Dalla
sentenza n. 24/2004 alla sentenza n. 262/2009: un’opera in due atti, per
gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali
VIII. Andrea Pugiotto, La
seconda volta, per gentile concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
IX. Renzo Orlandi, Illegittimi
privilegi, per gentile concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
X. Glauco Giostra, Repetita non iuvant, per
gentile concessione dell’AIC (Associazione Italiana
dei Costituzionalisti)
XI. Giorgio Pelagatti, "Giudicato
implicito" e assorbimento di profili di illegittimità costituzionale. Nota
a margine di Corte cost. n. 262 del 2009., per gentile concessione di Amministrazione In Cammino
XII. Alessandro Pace, Sull’ammissibilità
della costituzione del pubblico ministero (penale) nel giudizio incidentale di
costituzionalità, per g.c. della Rivista AIC
e altri contributi al tema generale
"Tavola
rotonda" organizzata dal professor Mario
Chiavario, con i contributi
di Piero
Gualtieri, Renzo
Orlandi, Saulle
Panizza e Nicolò
Zanon per gentile concessione dell’AIC
(Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
A. Adele Anzon Demmig, Il
"lodo Alfano” alla prova del fuoco, per gentile concessione dell’AIC (Associazione Italiana
dei Costituzionalisti)
B. Gaetano Azzariti, Sospensione
dei processi per le Alte cariche dello Stato e comunicati irrituali della
Presidenza della Repubblica: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve
tacere”, per gentile concessione dell’AIC (Associazione Italiana
dei Costituzionalisti)
C. Fioravante Rinaldi, Lo
scudo processuale alle «alte cariche dello Stato»: dal lodo
"Maccanico-Schifani”, al lodo "Alfano”, al lodo "costituzionale”, per
gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
-
Francesco
AMIRANTE
Presidente
-
Ugo
DE
SIERVO
Giudice
-
Paolo
MADDALENA
"
-
Alfio
FINOCCHIARO
"
-
Alfonso
QUARANTA
"
-
Franco
GALLO
"
-
Luigi
MAZZELLA
"
-
Gaetano
SILVESTRI
"
-
Sabino
CASSESE
"
-
Maria
Rita
SAULLE
"
-
Giuseppe
TESAURO
"
-
Paolo
Maria
NAPOLITANO
"
-
Giuseppe
FRIGO
"
-
Alessandro
CRISCUOLO
"
-
Paolo
GROSSI
"
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art.
1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione
del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi dal
Tribunale di Milano con ordinanze del 26 settembre e del
4 ottobre 2008
e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con
ordinanza del 26
settembre 2008 rispettivamente iscritte al n. 397 e al n. 398 del registro
ordinanze 2008, nonché al n. 9 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2008 e n.
4, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e
gli atti di costituzione dell’onorevole Silvio Berlusconi, nonché del
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto
della stessa Procura;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2009 il Giudice relatore
Franco Gallo;
uditi gli avvocati Alessandro Pace, per il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Milano e un sostituto della stessa Procura, Niccolò Ghedini, Piero Longo e Gaetano Pecorella, per l’onorevole
Silvio Berlusconi, e l’avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008), pronunciata nel corso di un
processo penale in cui è imputato, fra gli altri, l’on. Silvio Berlusconi,
attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 136 e 138 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dei commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge
23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo
penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).
1.1. – Il primo dei commi censurati
prevede che: «Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione,
i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di
Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di
Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri
sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o
della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti
antecedenti l’assunzione della carica o della funzione». Il successivo comma 7
prevede che: «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai
processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in
vigore della presente legge». Gli altri commi dispongono che: a) «L’imputato o
il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla
sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne
ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del
codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili» (comma
3); c) si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale e la
sospensione, che opera per l’intera durata della carica o della funzione, non è
reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura,
né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle
funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la
disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e,
quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, «i termini per
comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile,
sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause
dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita» (comma 6).
Osserva innanzitutto il rimettente che
le questioni sono rilevanti perché le disposizioni censurate, imponendo la sospensione
del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei
ministri, trovano applicazione nel giudizio a quo.
1.1.1. – In punto di non manifesta
infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost., il giudice a quo rileva che dette
disposizioni trovano un precedente nell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n.
140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in
materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato),
dichiarato incostituzionale con la sentenza della
Corte costituzionale n. 24 del 2004. Secondo quanto osservato dal
rimettente, la Corte,
in tale pronuncia, ha affermato che il legislatore può prevedere ipotesi di
sospensione del processo penale «finalizzate anche alla soddisfazione di
esigenze extraprocessuali» e che la sospensione del processo penale nei
confronti delle alte cariche mira a proteggere l’apprezzabile interesse,
eterogeneo rispetto al processo, al sereno svolgimento della rilevante funzione
da esse svolta; interesse che può essere protetto «in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto».
Da tale pronuncia della Corte emerge –
sempre ad avviso del giudice a quo – «che disposizioni normative
riguardanti le prerogative, l’attività e quant’altro di organi costituzionali
richiedono il procedimento di revisione costituzionale. E ciò in quanto la
circostanza che l’attività di detti organi sia disciplinata tramite la previsione
di un’ipotesi di sospensione del processo penale, non esclude che in realtà
essa riguardi non già il regolare funzionamento del processo, bensí le prerogative di organi costituzionali e comunque
materie già riservate dal legislatore costituente alla Costituzione». A tale
conclusione il rimettente giunge sul rilievo che le disposizioni denunciate
incidono su «plurimi ulteriori interessi di rango costituzionale quali la
ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e
l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.),
comunque vulnerata seppur non integralmente compromessa, per cui il loro
bilanciamento deve necessariamente avvenire con norma costituzionale».
Il giudice a quo sottolinea che
già dai lavori dell’Assemblea costituente si desume che la non perseguibilità
per reati extrafunzionali nei confronti del
Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere prevista con legge
costituzionale. Osserva, altresí, che il fatto che,
nella specie, si trattasse «di limitazione dell’azione penale piú pregnante di quell’attuale non rileva sulla necessità
di disciplinare la materia mediante norma costituzionale»; e ciò in quanto «non
può essere messo in dubbio che si tratta in ogni caso di materia riservata, ex
art. 138 Cost., al legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti
tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti
con norma costituzionale».
A tale conclusione non osta – ad avviso
del rimettente – la sentenza della
Corte costituzionale n. 148 del 1983, relativa alla previsione con legge
ordinaria dell’insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai
componenti del Consiglio superiore della magistratura, perché in essa la
Corte afferma che «certo rimane il fatto che la scriminante in
esame non è stata configurata dalla Carta costituzionale, bensí
da una legge ordinaria ed appena nel gennaio 1981, a molti anni
dall’entrata in funzione del Consiglio Superiore della magistratura». Secondo
lo stesso rimettente, «la Corte,
cosí dicendo, mostra di ritenere normalmente
necessaria una legge costituzionale laddove si intervenga su organi
costituzionali, tanto è vero che nel superare la questione non afferma affatto
il principio della sufficienza della legge ordinaria in similari situazioni, ma
perviene alla conclusione di legittimità costituzionale sulla base di un
complesso ragionamento che in sostanza giustifica il ricorso alla legge
ordinaria con la ritardata sistemazione e collocazione della disciplina del
C.S.M.». Solo per completezza – prosegue il giudice a quo – «va
evidenziato che, nella specie, si era comunque in presenza di una scriminante
che ricalca cause di giustificazione generalissime quali l’esercizio di un diritto
e/o l’adempimento di un dovere, per cui, di fatto, non veniva ad essere
disciplinato l’àmbito delle prerogative di un organo costituzionale».
La necessità di una legge costituzionale
per disciplinare la materia oggetto delle norme denunciate non è messa in
dubbio – sempre ad avviso del rimettente – neanche dalla considerazione che la
Corte costituzionale, nella citata sentenza n.
24 del 2004, non ha rilevato il contrasto della legge n. 140 del 2003 con
l’art. 138 Cost. e che, cosí
facendo, «la Corte
avrebbe implicitamente rigettato tale profilo, in quanto, siccome pregiudiziale
rispetto ad ogni altra questione, avrebbe dovuto necessariamente dichiararlo,
ove lo avesse ritenuto». Il giudice a quo osserva, sul punto, che tale
considerazione si fonda sul presupposto dell’esistenza di una pregiudizialità
tecnico-giuridica tra la questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost. e quelle sollevate in base ad altri parametri e
contesta la fondatezza di detto presupposto, rilevando che una tale
pregiudizialità non è deducibile «dalla complessiva motivazione della sentenza,
in quanto la Corte,
nell’accogliere la questione di legittimità costituzionale in riferimento agli
artt. 3 e 24 della Costituzione, dichiara espressamente "assorbito ogni altro
profilo di illegittimità costituzionale”, lasciando cosí
intendere che, in via gradata, sarebbero state prospettabili altre questioni».
Né a diverse conclusioni – secondo il
rimettente – possono condurre le note del Presidente della Repubblica del 2 e
del 23 luglio 2008, perché le prerogative che si ritengono attribuite al Capo
dello Stato in sede di autorizzazione alla presentazione alle Camere di un disegno
di legge e in sede di promulgazione comportano solo un primo esame della
legittimità costituzionale, e cioè un controllo meno approfondito di quello
demandato al giudice ordinario prima ed alla Corte costituzionale poi.
1.1.2. – Quanto alle questioni proposte
in riferimento agli artt. 3 e 136 Cost., il Tribunale
sostiene che le norme denunciate violano sia il giudicato costituzionale
sia il principio di uguaglianza, perché, «avendo riproposto la medesima
disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità
costituzionale, già ritenuta dalla Corte sotto il profilo della violazione
dell’art. 3 Cost.». Per il rimettente, infatti, esse
accomunano «in una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti
di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» ed inoltre distinguono
irragionevolmente, e «per la prima volta sotto il profilo della parità
riguardo ai princípi fondamentali della
giurisdizione, i Presidenti [...] rispetto agli altri componenti degli organi
da loro presieduti». Non sarebbe sufficiente ad evitare le prospettate
illegittimità costituzionali il fatto che le disposizioni censurate,
diversamente dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003, non includono il
Presidente della Corte costituzionale tra le alte cariche per le quali opera la
sospensione dei processi. Infatti, tale differenza di disciplina – prosegue il
rimettente − non è idonea ad impedire la violazione dell’art. 136 Cost., cosí come interpretato
dalla Corte costituzionale «con la sentenza n.
922/1988».
1.2. – Si è costituito in giudizio il
suddetto imputato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate non
rilevanti e, comunque, manifestamente infondate.
1.2.1. – La difesa dell’imputato deduce,
quanto alla questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost.,
che: a) contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, la sentenza della
Corte costituzionale n. 24 del 2004, avente ad oggetto l’art. 1 della legge
n. 140 del 2003, non afferma né che la sospensione del processo penale sia una
«prerogativa di organi costituzionali» né che tale sospensione richieda il
procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.; b) nella stessa sentenza si rileva, anzi, che il
legislatore può legittimamente prevedere ipotesi di sospensione del processo
penale per esigenze extraprocessuali – ad esempio, come nella specie, per
soddisfare l’apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni
pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato −, dovendosi
intendere per "legislatore” quello ordinario e non quello costituzionale; c) la
sentenza accoglie la questione di legittimità costituzionale in relazione agli
artt. 3 e 24 Cost., dichiarando espressamente
assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale; d) l’assorbimento
dichiarato dalla Corte ha ad oggetto i soli profili di merito e non anche il
profilo relativo alla mancata approvazione della legge con il procedimento di
revisione costituzionale, perché tale ultimo profilo, avendo carattere formale
e non sostanziale, è logicamente antecedente rispetto all’accoglimento della
questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. e,
pertanto, non può essere assorbito; e) la sentenza ha, in conclusione,
implicitamente ritenuto non fondata ogni questione proposta in riferimento
all’art. 138 Cost.; f) non osta a tale conclusione il
richiamo fatto dalla sentenza alla necessità che l’apprezzabile interesse al
sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello
Stato vada tutelato «in armonia con i princípi
fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la
protezione è strumentale», perché tali princípi sono,
secondo la stessa sentenza, quelli di cui agli artt. 3 e 24 Cost.
e non quello di cui all’art. 138 Cost.; g) sulla
scorta della pronuncia della Corte, il giudice a quo avrebbe dovuto
evidenziare le peculiarità della nuova disciplina censurata rispetto a quella
dichiarata incostituzionale dalla Corte, specificando sotto quale profilo la
prima, a differenza della seconda, violi l’art. 138 Cost.
1.2.2. – Quanto alle finalità della
normativa censurata, la difesa dell’imputato deduce che: a) esse sono dirette
non tanto a garantire il sereno svolgimento delle funzioni inerenti alle alte
cariche dello Stato, quanto a tutelare il diritto di difesa dell’imputato nel
processo, che presuppone la possibilità di essere presente alle udienze e di
avere il tempo necessario per predisporre la propria difesa; b) la prevalenza
dell’esigenza della tutela del diritto di difesa rispetto a quella del sereno
svolgimento della funzione si ricava dalla previsione della rinunciabilità
della sospensione contenuta nel comma 2 dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008, perché se il legislatore avesse voluto creare «in primis […] una
prerogativa istituzionale, avrebbe dovuto dotare la sospensione di un profilo
di indisponibilità, sulla base del presupposto che l’interesse istituzionale trascende
anche l’eventuale interesse dell’imputato a farsi giudicare subito»; c) «non
osta a questa ricostruzione il fatto che la
Corte Costituzionale abbia dichiarato costituzionalmente
illegittima la legge n. 140/2003 anche perché prevedeva una sospensione dei
processi penali automatica e non rinunciabile: questo dato depone nel senso che
una disposizione legislativa che sospenda i processi per le alte cariche dello
Stato, senza dar loro la possibilità di rinunciarvi, porrebbe nel nostro
ordinamento seri problemi di costituzionalità, ma non può far diventare la
disposizione della legge n. 124/2008 ciò che non è, ovvero una prerogativa
connessa al fatto di rivestire una determinata funzione»; d) la ricostruzione
della ratio delle norme censurate nel senso che esse sono finalizzate a
tutelare il diritto di difesa della persona che ricopre la carica trova
conferma nel comma 5 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008 – il quale prevede
la non reiterabilità della sospensione – perché, «se
una stessa persona rivestisse, durante una legislatura, la funzione di
Presidente della Camera, con conseguente sospensione dei processi penali a suo
carico, e nella legislatura successiva ricoprisse la funzione di Presidente del
Senato, senza poter piú beneficiare della suddetta
sospensione, si sarebbe costretti ad ammettere che per un’intera legislatura la
Presidenza del Senato dovrebbe rimanere priva di una propria
prerogativa istituzionale, la quale tornerebbe poi a rivivere una volta che
venisse a ricoprire la funzione una persona che non avesse mai beneficiato
della sospensione»; e) nella prospettiva della tutela del diritto di difesa, la
durata di un mandato è il periodo di tempo che il legislatore ha ritenuto
sufficiente per consentire alla persona che riveste la carica di organizzarsi
per affrontare contemporaneamente gli impegni istituzionali di un eventuale
nuovo incarico e il processo penale; f) la ratio dell’inciso «salvo il
caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura», che fa eccezione alla
non reiterabilità della sospensione, è bilanciare
«l’esercizio del diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione,
con l’esercizio del munus publicum, tutelato dall’art. 51 della Costituzione»; g)
«il meccanismo per cui una condizione soggettiva dell’imputato si traduce in
una condizione di oggettiva difficoltà a che il processo si svolga regolarmente
è […] tutt’altro che nuovo», perché vale anche «per la sospensione del processo
per l’imputato incapace, prevista dall’art. 71 c.p.p.», che è un istituto diretto
a tutelare «il fatto che la capacità dell’imputato di partecipare
coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza
il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile»; h) ad analoga ratio
è ispirato anche l’istituto del legittimo impedimento a comparire
dell’imputato; i) non può essere condivisa l’affermazione del rimettente
secondo cui «tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il
processo penale sono definiti con norma costituzionale», perché anche prima
dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2008 il giudice di merito,
davanti a un impegno istituzionale, riconosceva l’impossibilità per l’imputato
di essere presente al processo nonostante la
Costituzione non preveda che le alte cariche dello Stato hanno
diritto al riconoscimento di questi legittimi impedimenti; l) con la sentenza n. 148 del
1983, la Corte
ha ammesso che il legislatore possa disciplinare con legge ordinaria addirittura
una vera e propria circostanza scriminante, quale l’insindacabilità dei voti
dati e delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore della
magistratura, con la conseguenza che anche una mera causa di
sospensione, quale quella oggetto delle disposizioni censurate, può essere
disciplinata con legge ordinaria; m) i commi denunciati operano un ragionevole
bilanciamento tra l’obbligatorietà dell’azione penale e la ragionevole durata
del processo, da un lato, e il diritto di difesa dell’imputato, dall’altro.
1.2.3. – Quanto, in particolare, alla
questione sollevata dal giudice a quo in riferimento all’art. 136 Cost., la parte privata rileva che: a) contrariamente
all’assunto del rimettente, la norma in esame non ha riproposto la medesima disciplina
già dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 24 del
2004, «né ha perseguito e raggiunto, anche indirettamente, esiti
corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione», ma ha un
contenuto del tutto differente, ad esempio laddove prevede la rinunciabilità della sospensione del processo; b) la nuova
disciplina è diversa dalla vecchia anche sotto il profilo del trattamento della
parte civile e della durata non indefinita della sospensione; c) i soggetti cui
la sospensione si applica non coincidono con quelli indicati nella disciplina
già dichiarata incostituzionale e la differenziazione del loro trattamento,
«sotto il profilo della parità riguardo ai princípi
fondamentali della giurisdizione, rispetto agli altri componenti degli organi
collegiali è giustificata dall’intero nuovo assetto normativo, comunque diverso
da quello già oggetto di censura costituzionale», anche perché «la
Costituzione stessa riconosce l’autonomo rilievo nelle
funzioni dei due Presidenti delle Camere rispetto agli altri membri del
Parlamento (artt. 62 comma 2, 86 commi 1 e 2, 88 comma 1 della Costituzione)» e
perché «del pari il Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi del primo
comma dell’art. 95 della Costituzione, svolge funzioni proprie del tutto
peculiari rispetto agli altri membri del Governo».
1.3. – Si è costituito il pubblico
ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa
Procura.
1.3.1. – Il pubblico ministero sostiene,
in primo luogo, l’ammissibilità della sua costituzione, nonostante il contrario
indirizzo interpretativo della Corte costituzionale, espresso con le sentenze n. 361 del
1998, n. 1
e n. 375 del
1996 e con l’ordinanza
n. 327 del 1995. Secondo la sua ricostruzione, «gli argomenti contrari alla
legittimazione del p.m. sono i seguenti: 1) la distinta menzione del "pubblico
ministero” e delle "parti” nell’attuale disciplina della legge 11 marzo 1953,
n. 87 (artt. 20, 23 e 25); 2) la menzione delle sole "parti” nella disciplina
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (artt.
3 e 17 [ora 16]); 3) la peculiarità della posizione ordinamentale e processuale
del p.m. nonostante ad esso debba riconoscersi la qualità di parte nel processo
a quo».
Quanto all’art. 20 della legge 11 marzo
1953, n. 87, la difesa del pubblico ministero ritiene che esso, limitandosi a
prevedere che per gli organi dello Stato (tra cui gli uffici del pubblico
ministero) non è richiesta una difesa "professionale”, non riguardi né valga a
modificare la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire
in giudizio.
Parimenti non decisivi, contro la
legittimazione del pubblico ministero a costituirsi nel giudizio di
costituzionalità, sarebbero gli argomenti desumibili dagli artt. 23 e 25 della
legge n. 87 del 1953.
Il quarto comma dell’art. 23 dispone
che: «L’autorità giurisdizionale ordina che a cura della cancelleria
l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia
notificata, quando non se ne dia lettura nel pubblico dibattimento, alle parti
in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio».
Dispone, a sua volta, il secondo comma dell’art. 25 che: «Entro venti giorni
dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 23, le parti
possono esaminare gli atti depositati nella cancelleria e presentare le loro
deduzioni». Secondo la difesa del pubblico ministero, il quarto comma dell’art.
23, da un lato, non esclude espressamente che l’ordinanza debba essere
notificata al pubblico ministero che sia stato parte in giudizio e, dall’altro,
ne impone la notifica al pubblico ministero, proprio perché questo è stato
"parte"; e ciò a prescindere dal fatto che il suo intervento fosse o
no obbligatorio. A ciò conseguirebbe che il pubblico ministero, sia che sia
parte del giudizio principale, sia che debba obbligatoriamente intervenire in
tale giudizio, può costituirsi nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale.
Quanto agli artt. 3 e 17 delle
previgenti norme integrative (attuali artt. 3 e 16), il pubblico ministero
rileva che essi si limitano a riferirsi alle "parti”, non facendo «altro che
presupporre una nozione aliunde determinata».
Essi, quindi, non ostano alle «conclusioni (favorevoli) raggiunte alla luce
degli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953».
Quanto alla peculiarità della posizione
ordinamentale e processuale del pubblico ministero, la difesa rileva che il
fatto che tale organo giudiziario, «secondo la nota formula dell’art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, debba vegliare "alla
osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia,
alla tutela dei diritti di stato, delle persone giuridiche e degli incapaci
[…]” è indiscutibile, ma costituisce un argomento estraneo al problema».
Infatti, «un conto è l’imparzialità istituzionale del pubblico ministero, un
conto la sua parzialità funzionale», avendo rilevanza nel processo costituzionale
solo tale ultimo profilo, in considerazione del fatto che i princípi
costituzionali di parità delle parti e del contraddittorio sono stati
inequivocabilmente introdotti nell’ordinamento con la legge costituzionale 23
novembre 1999, n. 2, entrata in vigore successivamente alle decisioni della
Corte costituzionale che negano al pubblico ministero la legittimazione a
costituirsi. Tali princípi – prosegue la difesa del
pubblico ministero – esistevano nel nostro ordinamento già prima, «ma com’è
noto, essi venivano desunti in giurisprudenza e in dottrina dall’art. 24 Cost. e quindi, come per tutti i diritti costituzionali
previsti in Costituzione, di essi erano (e sono) titolari solo i soggetti
privati, non i pubblici poteri. Conseguentemente sia il principio della parità
delle armi che il principio del contraddittorio avevano una portata
unidirezionale. Garantivano il cittadino, ma non la pubblica accusa nel
processo penale e non la p.a. nel processo amministrativo». Ne deriverebbe che
solo la nuova formulazione dell’art. 111 Cost.
garantisce al pubblico ministero una piena qualità di parte, sotto il profilo
della parità processuale e del contraddittorio, con la conseguenza che la
Corte costituzionale potrebbe mutare il sopra citato
orientamento giurisprudenziale, proprio alla luce del mutato quadro
costituzionale.
A tali considerazioni si dovrebbe
aggiungere che nei casi – come quello di specie – in cui proprio il pubblico
ministero abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale di fronte
al giudice a quo, sarebbe irragionevole escluderlo dalla partecipazione
al giudizio costituzionale.
1.3.2. – Nel merito, il pubblico
ministero chiede che siano accolte le questioni proposte dal rimettente.
1.4. – È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, rilevando che: a) la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. è infondata, perché non si ha violazione del
giudicato costituzionale qualora, come nel caso di specie, «il quadro normativo
sopravvenuto, nel quale si inserisce la nuova disposizione, sia diverso da
quello della legge precedente dichiarata costituzionalmente illegittima»; b) la
questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost.
è «inammissibile e comunque infondata», per i motivi esposti nell’atto di
intervento nel procedimento r.o.
n. 398 del 2008.
1.5. – Con memoria depositata in
prossimità dell’udienza, la parte privata ha chiesto che venga dichiarata
inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, fondando la
sua richiesta essenzialmente su due assunti.
1.5.1. – Tale parte sostiene, in primo
luogo, che il pubblico ministero non è assimilabile alle altre parti del
giudizio a quo, rilevando che: a) l’art. 20, secondo comma, della legge
n. 87 del 1953 deve essere interpretato nel senso che esso contiene una
previsione generale, volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa
nel giudizio davanti alla Corte costituzionale; b) l’oggetto del giudizio
costituzionale incidentale è la conformità alla Costituzione o ad una legge
costituzionale di una norma avente forza di legge ed il contraddittorio in tale
giudizio si articola in «correlazione […] con le posizioni soggettive che
quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso
possono venir coinvolte» (secondo quanto affermato dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 163 del 2005); c) dalla correlazione del
contraddittorio con le suddette "posizioni soggettive” deriva l’estraneità al
giudizio del pubblico ministero, perché quest’ultimo – anche in base all’art.
73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – «non rappresenta mai, per
definizione, una posizione soggettiva, intendendosi con questa espressione, un
interesse che non sia quello […] della conformità alla legge»; d) «la difesa di
una parte privata […] non può mai eccepire l’illegittimità costituzionale di
una norma che sia di favore al proprio assistito, e ciò per due ordini di
ragioni: in primis perché sarebbe carente di interesse (ma questo non
rileverebbe perché non si tratta di una impugnazione), ma in secondo luogo
perché risponderebbe del reato di patrocinio infedele ai sensi dell’art. 380
del codice penale, oltre che di grave illecito deontologico sanzionabile dal
punto di vista disciplinare»; e) il pubblico ministero, per contro, ha natura
di parte pubblica e ha «il diritto/dovere di eccepire l’incostituzionalità di
una norma sia a favore sia contro ciascuna delle parti», anche nel processo
civile; g) gli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953 – come interpretati
dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 361 del 1998 – distinguono espressamente le
parti dal pubblico ministero, escludendo che quest’ultimo possa costituirsi nel
giudizio costituzionale.
1.5.2. – La stessa difesa sostiene, in
secondo luogo, che al giudizio costituzionale non si applica il principio di
parità delle parti davanti al giudice sancito dall’art. 111 Cost.,
non essendo la Corte
costituzionale un organo giurisdizionale, ed afferma, a sostegno di tale
assunto, che, nel giudizio costituzionale: a) non trova applicazione il sesto
comma dell’articolo 111 Cost., derivando l’obbligo di
motivazione delle sentenze della Corte dall’articolo 18, commi secondo e terzo,
della legge n. 87 del 1953; b) non trova applicazione neanche il secondo comma
dello stesso art. 111, perché «il contraddittorio tra le parti avanti la
Consulta è disciplinato, come noto, dalla legge 11 marzo 1953,
n. 87 e dalle norme integrative per i giudizi avanti la
Corte Costituzionale»; c) non si applica neppure il principio
di terzietà e imparzialità del giudice sancito dallo stesso art. 111 Cost., «perché i giudici della Corte Costituzionale sono
per natura (per ovvie ragioni concernenti la loro funzione) sempre terzi ed
imparziali, tant’è che non possono astenersi né essere ricusati contrariamente
a quanto è necessariamente previsto per i giudici di qualsivoglia "processo”».
1.6. – Con memoria
depositata in prossimità dell’udienza, il pubblico ministero del giudizio a
quo insiste per l’accoglimento delle questioni proposte nell’ordinanza di
rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di
costituzione.
2. – Con ordinanza del 4
ottobre 2008 (r.o. n. 398 del 2008), nel corso di
un processo penale in cui è imputato anche l’on. Silvio Berlusconi, attuale
Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008.
2.1. – In punto di rilevanza, il
rimettente premette che l’articolo censurato, imponendo la sospensione del
processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri,
trova necessaria applicazione nel giudizio a quo.
Quanto alla non manifesta infondatezza
delle questioni, il giudice a quo osserva che, con la sentenza n. 24 del
2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, la
Corte costituzionale aveva affermato che: a) la natura e la
funzione della norma consistevano «nel temporaneo arresto del normale
svolgimento» del processo penale e miravano «alla soddisfazione di esigenze
extraprocessuali […] eterogenee rispetto a quelle proprie del processo»; b) il presupposto
della sospensione era dato dalla «coincidenza delle condizioni di imputato e di
titolare di una delle cinque piú alte cariche dello
Stato»; c) il bene che la misura intendeva tutelare andava ravvisato
«nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che
ineriscono a quelle cariche» e tale bene veniva definito, dapprima, come
«interesse apprezzabile, che può essere tutelato in armonia con i princípi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al
cui migliore assetto la protezione è strumentale» e, poi, come espressione dei
«fondamentali valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente
l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività
connesse alle cariche in questione»; d) proprio «considerando che l’interesse
pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti
nel contempo un legittimo impedimento a comparire», il legislatore aveva voluto
stabilire «una presunzione assoluta di legittimo impedimento».
Secondo quanto riferito dal rimettente, la
Corte aveva, in detta sentenza, ravvisato l’incostituzionalità
della norma nel fatto che la sospensione in esame, che di per sé «crea un
regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in particolare
di quella penale», fosse «generale, automatica e di durata non determinata»:
generale, in quanto la sospensione concerneva «i processi per imputazioni
relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano
extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti
alla carica»; automatica, in quanto la sospensione veniva disposta «in tutti i
casi in cui la suindicata coincidenza» di imputato e titolare di un’alta carica
«si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento
dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei
casi concreti»; di durata non determinata, in quanto la sospensione,
«predisposta com’è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e
quindi legata alla carica rivestita dall’imputato», subiva nella sua durata
«gli effetti della reiterabilità degli incarichi e
comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati».
Sempre ad avviso del giudice a quo,
nella menzionata sentenza
n. 24 del 2004 la Corte
aveva rilevato: a) la violazione del diritto di difesa previsto dall’art. 24
della Costituzione, in quanto all’imputato «è posta l’alternativa tra
continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in
ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure
dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del
processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole,
rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.)»; b) la violazione degli articoli 111 e 112 Cost., perché «all’effettività dell’esercizio della
giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo»; c) la violazione
dell’art. 3 Cost., perché la norma, da un lato,
accomunava in un’unica disciplina «cariche diverse non soltanto per le fonti di
investitura, ma anche per la natura delle funzioni» e, dall’altro, distingueva,
«per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai princípi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti
delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto
agli altri componenti degli organi da loro presieduti»; d) la violazione
dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che aveva esteso
a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità
accordata nel secondo comma dell’art. 68 della Costituzione ai membri delle due
Camere.
Il rimettente ritiene che il legislatore,
nell’adottare la disciplina censurata – la quale prevede la sospensione dei
processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di
Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di
Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri
–, non abbia tenuto conto di quanto affermato nella citata sentenza n. 24 del
2004, anche perché ha sostanzialmente riprodotto le previsioni della legge
n. 140 del 2003 in
tema di sospensione del corso della prescrizione, ai sensi dell’art. 159 del
codice penale, e di applicabilità della norma anche ai processi penali in
corso, in ogni fase, stato o grado.
2.1.1. – Sulla scorta di tali
considerazioni, il Tribunale sostiene che l’articolo denunciato si pone in
contrasto, in primo luogo, con l’art. 138 Cost.,
perché lo status «dei titolari delle piú alte
istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente costituzionale, e la
ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo
la loro responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio
generale dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto
dall’articolo 3 della Costituzione, principio fondante di uno Stato di
diritto».
2.1.2. – In secondo luogo, il giudice a
quo rileva la violazione dell’art. 3 Cost.,
perché le «guarentigie concesse a chi riveste cariche istituzionali risultano
funzionali alla protezione delle funzioni apicali esercitate», con la
conseguenza che la facoltà di rinunciare alla sospensione processuale
riconosciuta al titolare dell’alta carica si pone in contrasto con la tutela
del munus publicum,
attribuendo una discrezionalità «meramente potestativa» al soggetto
beneficiario, anziché prevedere quei filtri aventi caratteri di terzietà e
quelle valutazioni della peculiarità dei casi concreti che soli, secondo la sentenza n. 24 del
2004, potrebbero costituire adeguato rimedio rispetto tanto all’automatismo
generalizzato già stigmatizzato dalla Corte quanto «al vulnus al diritto
di azione». Lo stesso parametro costituzionale sarebbe, altresí,
violato, perché «il contenuto di tutte le disposizioni in argomento incide su
un valore centrale per il nostro ordinamento democratico, quale è l’eguaglianza
di tutti i cittadini davanti all’esercizio della giurisdizione penale».
2.1.3. – È denunciata, in terzo luogo,
la violazione degli artt. 3, 68, 90, 96 e 112 Cost.,
per la disparità di trattamento tra la disciplina introdotta per i reati extrafunzionali e quella, di rango costituzionale, prevista
per i reati funzionali delle quattro alte cariche in questione. Tale disparità
sarebbe irragionevole: a) per la mancata menzione dell’art. 68 Cost. fra le norme costituzionali espressamente fatte salve
dalla legge n. 124 del 2008; b) per il fatto che «il bene giuridico considerato
dalla legge ordinaria, e cioè il regolare svolgimento delle funzioni apicali
dello Stato, è lo stesso che la
Costituzione tutela per il Presidente della Repubblica con
l’art. 90, per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri con
l’art. 96»; c) per la previsione di uno ius
singulare per i reati extrafunzionali
a favore del Presidente del Consiglio dei ministri, che, invece, la
Costituzione accomuna ai ministri per i reati funzionali in
conseguenza della sua posizione di primus
inter pares.
2.1.4. – Il rimettente ritiene, infine,
che la norma censurata violi l’art. 111 Cost., sotto
il profilo della ragionevole durata del processo, perché: a) una sospensione
formulata nei termini di cui alla disposizione denunciata, «bloccando il
processo in ogni stato e grado per un periodo potenzialmente molto lungo,
provoca un evidente spreco di attività processuale»; b) non essendo stabilito
alcunché «sull’utilizzabilità delle prove già assunte» né all’interno dello
stesso processo penale al termine del periodo di sospensione né all’interno
della diversa sede in cui la parte civile abbia scelto di trasferire la propria
azione, vi è la necessità per la stessa parte «di sostenere ex novo
l’onere probatorio in tutta la sua ampiezza».
2.2. – Si è costituito in giudizio il
suddetto imputato, svolgendo rilievi in parte analoghi a quelli svolti nella
memoria di costituzione nel procedimento r.o.
n. 397 del 2008 e osservando, in particolare, che la sospensione prevista
dalla disposizione censurata non è un’immunità. Secondo l’imputato, infatti,
l’immunità è una circostanza scriminante, che «tutela in via esclusiva, diretta
ed immediata, il sereno e libero esercizio della funzione esercitata,
garantendone l’autonomia da altri poteri», avendo ad oggetto comportamenti per
i quali «viene esclusa ogni responsabilità penale che mai ed in nessun tempo
può sorgere, né durante l’esercizio della funzione né in un momento
successivo». Riguardo ai reati extrafunzionali –
prosegue la difesa – «sussiste certamente una reviviscenza della astratta
punibilità, a carica scaduta, sia nel caso di immunità che nel caso di
sospensione. Ma la ratio di questi due istituti è altrettanto
pacificamente diversa, poiché la seconda tutela, in via principale, diretta ed
immediata, lo svolgimento di un giusto processo attraverso la protezione del
diritto di difesa, che del giusto processo è condizione ineliminabile, il quale
subisce un arresto temporaneo sino al momento in cui cessa la carica
esercitata, ossia la causa di legittimo impedimento a comparire».
2.2.1. – In relazione al principio di
uguaglianza, la difesa della parte privata premette che l’ordinamento penale
prevede molti casi in cui la diversità di trattamento dipende da profili
soggettivi (come, ad esempio, per i reati dei pubblici ufficiali o i reati
militari). Con particolare riferimento all’asserita violazione degli artt. 68,
90 e 96 Cost., rileva che tali parametri nulla hanno
a che vedere con l’articolo denunciato, perché essi sono «rivolti, in via
esclusiva, diretta ed immediata, a tutelare il sereno svolgimento delle
funzioni rispetto al potere giurisdizionale, e dunque per tutelare un interesse
pacificamente esterno al processo». In particolare, gli articoli 68 e 90 Cost. prevedrebbero una immunità di natura funzionale, che
«sottrae un soggetto alla giurisdizione, poiché comporta l’esclusione, che si
protrae ad infinitum, di ogni responsabilità
penale», mentre l’art. 96 Cost. «non prevede una
immunità ma una condizione di procedibilità, ossia «una ulteriore ipotesi […]
di blocco definitivo dell’esercizio del potere giurisdizionale, qui derivante
da una valutazione di un organo politico in merito alla sussistenza dei
presupposti». Differentemente, la sospensione temporanea del processo penale
prevista dalla disciplina denunciata «non è un istituto che esclude la
giurisdizione e nemmeno l’eventuale responsabilità penale, non tutela in via
diretta ed immediata un interesse esterno al processo ma un diritto inviolabile
interno ed immanente allo stesso. Di talché il giudizio verrebbe sí sospeso, ma pacificamente rinizierebbe
nel momento in cui cessi la causa che nega il suo intangibile diritto di
difesa, ossia il perdurare della carica». L’assoluta eterogeneità tra la norma
censurata e i menzionati parametri costituzionali sarebbe, inoltre, confermata
dall’espressa previsione della salvezza dei «casi previsti dagli articoli 90 e
96 della Costituzione», la quale avrebbe la funzione di «accompagnare
l’interprete nella direzione esattamente opposta a quella seguita dal giudice a
quo, avvertendo che i beni giuridici tutelati non sono gli stessi per i
quali è stata approvata la legge 124/08, non vi è perfetta comunanza di
finalità e nemmeno di ratio».
2.2.2. – In relazione al principio di
ragionevolezza, la parte privata rileva che, poiché la disciplina censurata è
volta a tutelare il diritto di difesa dell’imputato, è irrilevante la
differenza di trattamento fra reati funzionali ed extrafunzionali,
in quanto ogni volta che la Corte
costituzionale «si è pronunciata sul diritto fondamentale di difesa personale
non ha mai operato la ben che minima distinzione in ordine al tipo di reato
oggetto dell’imputazione e nemmeno alla sua gravità». Contrariamente, poi, a
quanto ritenuto dal giudice a quo, il Presidente del Consiglio dei
ministri e i ministri non sarebbero sullo stesso piano, perché il primo comma
dell’art. 95 Cost. è esclusivamente dedicato al
Presidente del Consiglio dei ministri ed ai suoi compiti e prevede che egli
«dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità
di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività
dei ministri», mentre l’art. 92, secondo comma, Cost.
gli assegna il potere di proporre la nomina e la revoca dei ministri. Ciò
troverebbe conferma anche nel fatto che la legge elettorale vigente collega
«l’apparentamento dei partiti politici ad un soggetto che si candida
espressamente per esercitare le funzioni di Presidente del Consiglio» e negli
«incarichi internazionali correlati alla Presidenza del Consiglio, quali ad
esempio la presidenza del G8 e del G20, che comportano una quantità
impressionante di impegni all’estero per piú giorni
consecutivi». Un’ulteriore conferma della particolare posizione del Presidente
del Consiglio dei ministri nell’ordinamento deriverebbe dalle previsioni della
legge 23 agosto 1988, n. 400, la quale, in attuazione del dettato
costituzionale, attribuisce a quest’ultimo molti poteri che i singoli ministri
non hanno, come, tra gli altri: l’iniziativa per la presentazione della questione
di fiducia dinanzi alle Camere; la convocazione del Consiglio dei ministri e di
fissazione dell’ordine del giorno; la comunicazione alle Camere della
composizione del Governo e di ogni mutamento in essa intervenuto; la
proposizione della questione di fiducia; la sottoposizione al Presidente della
Repubblica delle leggi per la promulgazione, dei disegni di legge per la
presentazione alle Camere, dei testi dei decreti aventi valore o forza di
legge, dei regolamenti governativi e degli altri atti indicati dalle leggi per
l’emanazione; la controfirma degli atti di promulgazione delle leggi nonché di
ogni atto per il quale è intervenuta deliberazione del Consiglio dei ministri,
degli atti che hanno valore o forza di legge e, insieme con il ministro
proponente, degli altri atti indicati dalla legge; la presentazione alle Camere
dei disegni di legge di iniziativa governativa e, anche attraverso il ministro
espressamente delegato, l’esercizio delle facoltà del Governo di cui
all’articolo 72 Cost.; l’esercizio delle attribuzioni
di cui alla legge n. 87 del 1953, e la promozione degli adempimenti di
competenza governativa conseguenti alle decisioni della Corte Costituzionale;
la formulazione delle direttive politiche ed amministrative ai ministri, in
attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, nonché di quelle
connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del
Governo; il coordinamento e la promozione dell’attività dei ministri in ordine
agli atti che riguardano la politica generale del Governo; la sospensione
dell’adozione di atti da parte dei ministri competenti in ordine a questioni
politiche e amministrative, con la loro sottoposizione al Consiglio dei
ministri nella riunione immediatamente successiva; il deferimento al Consiglio
dei ministri della decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni
contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti; il coordinamento
dell’azione del Governo relativa alle politiche comunitarie e all’attuazione
delle politiche comunitarie. Dal punto di vista politico, invece «il Presidente
del Consiglio risponde collegialmente per tutti gli atti del Consiglio dei
ministri ma, non si può dimenticare, individualmente per quelli compiuti
nell’esercizio delle funzioni a lui attribuitegli, in via esclusiva, dalla
Costituzione e dalla legge ordinaria».
In conclusione, pare razionale alla
difesa della parte che l’art. 96 Cost., in quanto
diretto a garantire il sereno svolgimento del potere esecutivo, accomuni in
un’unica disciplina coloro che esercitano lo stesso potere, sebbene con
funzioni diverse e in posizione differenziata. Pare ugualmente razionale che la
norma censurata, in quanto diretta a tutelare il diritto inviolabile alla
difesa personale nel processo, tenga conto, invece, «delle disposizioni
costituzionali, e della legge ordinaria di attuazione, che attribuiscono
espressamente rilevantissimi poteri-doveri politici al Presidente del Consiglio
dei ministri di cui è il solo responsabile, valutando dunque, in maniera
altrettanto ragionevole, che solo i suoi impegni possono configurare un
costante legittimo impedimento a comparire nel processo penale, diretto ad
accertare una responsabilità giuridica esclusivamente personale». E ciò anche
perché – ad avviso della stessa difesa – «la
Carta costituzionale non contiene, invece, alcuna attribuzione
esplicita di poteri o doveri ai ministri, ma ne demanda la disciplina alla sola
legge ordinaria e alla prassi».
2.2.3. – La difesa passa, poi, a
trattare specificamente il profilo soggettivo della disciplina censurata,
sostenendo che il Presidente della Repubblica, i Presidenti del Senato della
Repubblica e della Camera dei deputati e il Presidente del Consiglio dei
ministri sono «accomunati da quattro caratteristiche: ricoprono posizioni di vertice
in altrettanti organi costituzionali, sono titolari di funzioni istituzionali
aventi natura politica, hanno l’incarico di adempiere peculiari doveri che la
Costituzione espressamente impone loro e ricevono la propria
investitura, in via diretta o mediata, dalla volontà popolare». Diversa sarebbe
la posizione del Presidente della Corte costituzionale, perché egli «non riceve
la propria investitura dalla volontà, né diretta né indiretta, del popolo. Si
aggiunga che la sentenza
24/04 poneva in luce che la legge 140/03 mentre faceva espressamente salvi
gli artt. 90 e 96 Cost., nulla diceva a proposito del
secondo comma dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1.
Riscontrava, per tale ragione, gravi elementi di intrinseca irragionevolezza».
Secondo la difesa dell’imputato, «le
alte cariche indicate dalla legge 124/08 si trovano tutte in una posizione
nettamente differenziata rispetto agli altri componenti degli organi che
eventualmente presiedono». In particolare, il Presidente della Camera dei
deputati: a) convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per
eleggere il nuovo Presidente della Repubblica (art. 85, secondo comma, Cost.); b) indice la elezione del nuovo Presidente della
Repubblica (art. 86, secondo comma, Cost.); c)
convoca il Parlamento in seduta comune per l’elezione di un terzo dei giudici
della Corte Costituzionale (art. 135, primo comma, Cost.);
d) presiede le riunioni del Parlamento in seduta comune (art. 63, secondo
comma, Cost.); e) rappresenta la
Camera e ne assicura il buon funzionamento; f) sovrintende
all’applicazione del regolamento presso tutti gli organi della Camera e decide
sulle questioni relative alla sua interpretazione acquisendo, ove lo ritenga
opportuno, il parere della Giunta per il regolamento, che presiede; g) emana
circolari e disposizioni interpretative del regolamento; h) decide, in base ai
criteri stabiliti dal regolamento, sull’ammissibilità dei progetti di
legge, degli emendamenti e ordini del giorno, degli atti di indirizzo e di
sindacato ispettivo; i) cura l’organizzazione dei lavori della Camera
convocando la Conferenza
dei presidenti di gruppo e predisponendo, in caso di mancato raggiungimento
della maggioranza prescritta dal regolamento, il programma e il calendario; l)
presiede l’Assemblea e gli organi preposti alle funzioni di organizzazione dei
lavori e di direzione generale della Camera (Ufficio di presidenza, Conferenza
dei presidenti di gruppo, Giunta per il regolamento); m) nomina i componenti
degli organi interni di garanzia istituzionale (Giunta per il regolamento,
Giunta delle elezioni, Giunta per le autorizzazioni richieste ai sensi
dell’art. 68 Cost.); n) assicura il buon andamento
dell’amministrazione interna della Camera, diretta dal Segretario generale, che
ne risponde nei suoi riguardi. Il Presidente del Senato della Repubblica: a)
esercita le funzioni di supplente del Presidente della Repubblica, in base
all’art. 86 Cost., in ogni caso in cui questi non
possa adempierle; b) viene sentito, al pari del Presidente della Camera dei
deputati, dal Presidente della Repubblica prima di sciogliere entrambe le
Camere o anche una sola di esse (art. 88 Cost.); c)
rappresenta il Senato; d) regola l’attività di tutti i suoi organi; e) dirige e
modera le discussioni; f) pone le questioni; g) stabilisce l’ordine delle
votazioni e ne proclama il risultato; h) dispone dei poteri necessari per
mantenere l’ordine e assicurare, sulla base del regolamento interno, il buon
andamento dei lavori.
In conclusione – prosegue la difesa
dell’imputato – «nella logica della valorizzazione del dettato costituzionale,
dei regolamenti di attuazione, e delle indicazioni della Consulta, il
legislatore ha ragionevolmente ritenuto che solo gli impegni di codeste
peculiari alte cariche politiche possano prospettare un costante legittimo
impedimento a comparire nel processo penale, diretto ad accertare una
responsabilità giuridica esclusivamente personale, e che solo nei loro
confronti sorga l’esigenza di tutelarne, in maniera specifica, la serenità di
azione».
Quanto alla facoltà di rinuncia alla
sospensione prevista dal censurato comma 2 dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008, la parte privata sostiene che essa «dà la riprova che la ratio oggettivizzata in questo dettato legislativo è sí quella di tutelare, in via indiretta, un interesse
politico, ma soprattutto, in via diretta ed immediata, l’inviolabile diritto di
difesa. Altrimenti una facoltà di rinuncia non sarebbe stata prevista». Ne conseguirebbe
che «non vi è allora nessuna necessità di prevedere un filtro per la tutela di
tale primario diritto, poiché la normativa in esame costituisce concreta
attuazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione».
2.2.4. – In relazione alla questione
proposta in riferimento all’art. 138 Cost., la difesa
dell’imputato, dopo avere premesso quanto dedotto nella memoria depositata nel
procedimento r.o. n. 397 del 2008, passa ad esaminare le cause di
sospensione regolate da leggi ordinarie e dirette a determinate categorie o a
soggetti specificati per funzione, qualifica o qualità. Sostiene, sul punto,
che «è assolutamente pacifico e notorio che la massima parte delle attribuzioni
dei compiti e delle specificazioni in tema sono stati sempre posti in essere
mediante leggi ordinarie», anche perché le riserve di legge costituzionale
devono essere espressamente previste dalla Costituzione. Esistono infatti –
prosegue la difesa – numerose cause di sospensione del processo previste con
legge ordinaria «ed indirizzate a determinate categorie o a soggetti
specificati per funzione, qualifica o qualità, alcune delle quali sono dirette
alla tutela di un diritto immanente al processo, altre di un interesse
esclusivamente esterno», come, ad esempio: nel codice di procedura penale «gli
articoli 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477, e 479, cosí
come nel codice penale gli articoli 159 e 371-bis»; in materia tributaria,
«quei molteplici decreti legge convertiti i quali, in correlazione con il
condono previsto dagli stessi, disponevano una sospensione processuale
estremamente lunga»; l’art. 243 del codice penale militare di guerra, «ove la
sospensione è correlata alla condizione soggettiva di appartenenza a reparti
mobilitati»; «l’art. 28 del D.P.R. 22.9.1988 n. 448 in tema di procedimenti
nei confronti di minorenni», in cui «la sospensione è addirittura ad personam ove si ritenga da parte del giudice di dover
valutare la personalità del minorenne».
2.2.5. – Quanto alla natura delle «cause
di sospensione derivanti dalla sussistenza di immunità internazionali», la
medesima difesa sostiene che esse non trovano copertura nell’art. 10 Cost., perché sono previste da trattati internazionali
recepiti con legge ordinaria e non dalle «norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute». Sostiene, inoltre, che esse sono «squisitamente
soggettive, ovvero strettamente correlate alla funzione svolta dal soggetto
interessato», come ad esempio quelle previste dall’art. 31, primo comma,
seconda parte, della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18
aprile 1961 e dall’art. 43, primo comma, della Convenzione di Vienna
sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963. Sostiene, infine, che le immunità
hanno natura sia funzionale, sia extrafunzionale, in
quanto coprono «tutti gli atti, compiuti come persona privata o come carica
pubblica da parte del soggetto immune, siano quelli privati, precedenti o
concorrenti, rispetto alla sua condizione di alto rappresentante dello Stato»,
come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia
e della Corte di cassazione e confermato dalla dottrina.
2.2.6. – Quanto al parametro dell’art.
112 Cost., la difesa dell’imputato sostiene che: a)
l’orientamento della Corte costituzionale, secondo cui fra il diritto di essere
giudicato e il diritto di autodifendersi deve ritenersi prevalente
quest’ultimo, si attaglia perfettamente alla sospensione prevista dalla norma
censurata; b) l’art. 112 Cost. non impone un’assoluta
continuità nell’esercizio dell’azione penale una volta che questa viene
avviata, essendo ben possibile che vengano meno eventuali condizioni di
procedibilità oggettive o soggettive; c) «l’obbligatorietà dell’azione penale
non nasce dal semplice fatto storico antigiuridico, ma dal medesimo fatto
connotato da una condizione di procedibilità ex officio o su impulso di
parte privata» e «il pubblico ministero ha sí
l’obbligo di esercitare l’azione penale, ma sempre che non vi siano cause
ostative o sospensive dell’azione stessa, che possono liberamente essere
fissate dal legislatore, purché non confliggano con i princípi
di uguaglianza e di ragionevolezza»; d) l’ordinamento prevede la querela e la
remissione di querela, oltre a fattispecie come l’immunità o l’estradizione,
nelle quali l’azione penale è preclusa «totalmente o parzialmente,
temporaneamente o definitivamente», nonché fattispecie in cui «alcuni fatti di
reato, pur nell’obbligatorietà dell’azione penale e nell’antigiuridicità della
condotta, sono perseguibili soltanto a richiesta del Ministro della giustizia»
o «se il soggetto agente si trovi nel territorio dello Stato, per i reati
commessi all’estero» (artt. 8, 9 e 10 cod. pen.); e)
l’art. 260 del codice penale militare di pace subordina la procedibilità di una
notevole serie di reati alla richiesta del comandante del corpo; f) l’art. 313
cod. pen. «subordina l’esercizio dell’azione penale
per una lunga serie di delitti, alcuni di non certo modesta gravità,
addirittura all’autorizzazione del Ministro della Giustizia» e tale disciplina
è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla sentenza n. 22 del
1959, con la quale si è affermato che «l’istituto della autorizzazione a
procedere trova fondamento nello stesso interesse pubblico tutelato dalle norme
penali, in ordine al quale il procedimento penale potrebbe qualche volta
risolversi in un danno piú grave dell’offesa stessa»;
g) nel caso in esame, «contrariamente a quanto accade con l’art. 313 c.p.,
ritenuto costituzionalmente corretto, non vi è una inibizione definitiva
dell’azione penale bensí soltanto una temporanea
sospensione del processo», con la conseguenza che «la giurisdizione potrà poi
effettivamente esplicarsi».
2.2.7. – Quanto alla violazione
dell’art. 111 Cost., prospettata dal rimettente sotto
il profilo della ragionevole durata del processo, la difesa dell’imputato
osserva che: a) la disposizione censurata «segue alla lettera le indicazioni
date da codesta Corte nella sentenza n. 24 del
2004, perché impedisce che la stasi del processo si protragga per un tempo
indefinito e indeterminabile e prevede espressamente, nel contempo, la non reiterabilità delle sospensioni»; b) la giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo e quella costituzionale hanno
riconosciuto la rilevanza del canone della ragionevole durata del processo,
chiarendo, però, che esso «non costituisce un valore assoluto, da perseguire ad
ogni costo»; c) in particolare, la
Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 458
del 2002, ha affermato che: «il principio di ragionevole durata del
processo non può comportare la vanificazione degli altri valori costituzionali
che in esso sono coinvolti, primo fra i quali il diritto di difesa, che l’art.
24, secondo comma, proclama inviolabile in ogni stato e grado del
procedimento»; d) ancora, la stessa Corte, con l’ordinanza n. 204
del 2001 ha affermato che: «il principio della ragionevole durata del
processo [...] deve essere letto − alla luce dello stesso richiamo al
connotato di "ragionevolezza ", che compare nella formula normativa −
in correlazione con le altre garanzie previste dalla Carta costituzionale, a
cominciare da quella relativa al diritto di difesa (art. 24 Cost.)».
Piú in particolare, in relazione al rilievo del
rimettente secondo cui «la sospensione cosí
formulata, bloccando il processo in ogni stato e grado per un periodo
potenzialmente molto lungo, provoca un evidente spreco di attività
processuale», la parte privata osserva che «l’istruttoria dibattimentale, per
quanto riguarda la posizione dell’esponente, non è affatto conclusa mancando
l’audizione del consulente tecnico di parte e l’audizione di numerosissimi
testimoni».
Quanto, poi, all’affermazione del
giudice a quo per cui «la norma [...] nulla dice sull’utilizzabilità
delle prove già assunte, che potrebbero venire del tutto disperse qualora, al
termine dell’eventualmente lungo periodo di operatività della sospensione
[...], divenisse impossibile la ricostruzione del medesimo collegio», la difesa
dell’imputato sostiene che si tratta di «una ipotesi del tutto potenziale e
futura», con conseguente inammissibilità, per difetto di rilevanza, della
relativa questione di legittimità costituzionale. In ogni caso – prosegue la
difesa dell’imputato – non si comprende «per quali ragioni sia oggi sostenibile
dal rimettente l’affermazione che non sarà possibile ricostituire il medesimo
collegio», considerato che «la permanenza nello stesso ufficio giudiziario per
la durata massima della carica di un Presidente del Consiglio dei ministri non
è certamente infrequente, anzi, e comunque vi è sempre la possibilità di
ricostituzione mediante le opportune applicazioni». Se poi lo stesso Tribunale,
nella sua composizione attuale, proseguirà nel giudicare il coimputato
pronunciando sentenza, «si porrà, qualsiasi sia la decisione, in una situazione
di assoluta incompatibilità sancita dal codice di rito». La rinnovazione
dell’istruttoria «non avrebbe in alcun modo l’effetto di porre nel nulla
l’attività sino a quel momento compiuta, la quale invece si riverserebbe nel
nuovo fascicolo del dibattimento» e sarebbero «poi le parti a dover decidere se
richiedere l’espletamento di tutti o parte degli incombenti dibattimentali,
fermo restando il contenuto del fascicolo del dibattimento».
Quanto, infine, alla mancata previsione
di una disciplina dell’utilizzabilità in sede civile delle prove già assunte
nel processo penale, la difesa dell’imputato ritiene che essa non comporta
alcun divieto di utilizzabilità delle prove stesse, perché trovano applicazione
le regole generali, «potendo cosí il giudice civile,
in piena autonomia, utilizzarle e valutarle come semplici indizi o come prova
esclusiva del proprio convincimento».
2.3. – Si è costituito il pubblico
ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa
Procura.
Il pubblico ministero sostiene
l’ammissibilità della sua costituzione in giudizio e chiede, nel merito, che
siano accolte le questioni proposte dal rimettente, svolgendo considerazioni
analoghe a quelle contenute nella memoria depositata nel procedimento r.o.
n. 397 del 2008.
2.4. – È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato.
2.4.1. – La difesa erariale rileva, in
primo luogo, che la questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost. è «inammissibile e comunque infondata», perché la
disposizione censurata ha la funzione di tutelare il sereno svolgimento delle
rilevanti funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato e la «materia,
considerata di per sé, non è preclusa alla legge ordinaria», come confermato
dal fatto che altre fattispecie di sospensione sono disciplinate dal codice di
procedura penale. «Il fatto che nella Costituzione si trovino alcune
"prerogative” degli organi costituzionali» – prosegue l’Avvocatura generale –
«non significa che non ne possano essere introdotte altre con legge ordinaria,
ma solo che le prime costituiscono deroghe a princípi
o normative posti dalla Costituzione stessa e che quindi solo nella
Costituzione possono trovare deroghe». Del resto – secondo la stessa difesa –
«per dimostrare la necessità della legge costituzionale si sarebbe dovuto
indicare l’interesse incompatibile, garantito dalla Costituzione, rispetto alla
quale la norma avrebbe dovuto costituire una deroga», mentre il rimettente non
ha indicato parametri costituzionali diversi dall’art. 138 Cost,
«perché in effetti non ce ne sono di utilizzabili». Tale conclusione troverebbe
conferma nella sentenza
n. 24 del 2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, con cui la
Corte costituzionale, non avendo affrontato la questione della
«forma legislativa utilizzabile», ne avrebbe escluso implicitamente la
rilevanza.
2.4.2. – In secondo luogo, la difesa
erariale sostiene che la questione sollevata con riferimento all’art. 112 Cost. «è inammissibile in quanto non compiutamente motivata
(e comunque è manifestamente infondata in quanto, all’evidenza, la meramente
disposta sospensione del processo […] non incide, limitandola, sulla
obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del P.M.), al pari di
quella prospettata con riferimento all’art. 68 Cost.
(essendo le ragioni accennate nella ordinanza nella stessa non sviluppate,
anche per quanto attiene alla rilevanza nel giudizio a quo)».
2.4.3. – In terzo luogo, quanto alla
pretesa violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla
giurisdizione penale, l’Avvocatura generale rileva che sussiste una «posizione
particolarmente qualificata delle alte cariche contemplate dalla norma in
discussione, nella considerazione della possibile compromissione dello
svolgimento delle elevate funzioni alle stesse affidate anche per la
inovviabile risonanza, anche mediatica, ed in termini non limitati all’interno
del Paese, dello svolgimento del processo penale a loro carico durante il
periodo in cui le stesse funzioni sono esercitate». La deroga alla
giurisdizione prevista dalla norma denunciata sarebbe, del resto,
«proporzionata ed adeguata alla finalità perseguita, in termini sia di prevista
predeterminata e non reiterabile durata della sospensione […], sia di
consentita rinuncia dell’interessato […] sia, infine di tutela efficace ed
"immediata” delle ragioni della eventuale parte civile».
2.4.4. – In quarto luogo, sempre ad
avviso della difesa erariale, la norma censurata non è irragionevole, perché,
«in una logica conseguente ad una ponderazione e ad un bilanciamento degli
interessi "in giuoco”, non è certo arbitrario che la stessa sottoposizione alla
giurisdizione ordinaria del Presidente del Consiglio dei ministri per reati
commessi nell’esercizio delle proprie funzioni sia costituzionalmente garantita
dalla prevista autorizzazione del Parlamento, chiamato perciò a previamente
valutare se la condotta sia meritevole di essere sottoposta all’esame del
giudice ordinario, avanti al quale la ipotizzata immediatezza del perseguimento
del reato funzionale trova la sua giustificazione nella preminente rilevanza
istituzionale degli interessi di carattere generale coinvolti ed incisi dalla
contestata condotta (rilevanza che, contrariamente a quanto assume il
rimettente, non va valutata solo in termini di pena conseguente). All’incontro,
la stessa esigenza non è comunque prospettabile con riferimento ai reati
"comuni”, per i quali il processo è promosso dal P.M., senza necessità di alcun
previo "filtro politico”, e per il quale è prevista solo la sua sospensione,
temporanea e predeterminata, nella ragionevole e su evidenziata considerazione
del "pregiudizio” del suo svolgimento sull’esercizio delle funzioni
istituzionali proprie dell’alta carica». Non sarebbe, del pari, irragionevole
la «disposta limitazione della sospensione, tra gli Organi di governo, al solo
Presidente del Consiglio […], poiché è indiscutibile la posizione
costituzionalmente differenziata del primo rispetto agli altri componenti del
Governo, spettando al Presidente (art. 95 Cost.) il
dirigere la politica generale del Governo, essendone il responsabile, e il
mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e
coordinando l’attività dei Ministri».
2.4.5. – In quinto luogo, non
sussisterebbe neppure la prospettata violazione del principio della ragionevole
durata del processo di cui all’art. 111 Cost.,
perché: da un lato, «la previsione, da parte della legge ordinaria, di cause
che comportano, per ragioni oggettive o soggettive, il temporaneo arresto del
normale svolgimento del processo penale […] non mette in crisi il menzionato
principio della ragionevole durata; d’altro lato, la temporanea sospensione del
processo, quale delineata e come sopra "conformata" con la
disposizione in discussione, è congruamente e ragionevolmente finalizzata ad
evitare il rischio che sia pregiudicato il corretto e sereno esercizio delle
eminenti funzioni pubbliche delle quale sono investite le alte cariche ivi
considerate».
2.4.6. – In sesto luogo, non pare
decisivo alla difesa erariale «l’ulteriore rilievo della ordinanza che
evidenzia la carenza di esplicita previsione circa la utilizzabilità
nell’ulteriore fase del processo dei mezzi di prova già assunti», perché «la
disposizione de qua nulla espressamente dispone al riguardo» e spetterà
al giudice a quo «motivatamente optare per una non preclusa e perciò
possibile interpretazione dell’art. 511 c.p.p. che, tenendo conto della
"particolarità” del regime predisposto con la disposizione in discussione,
consenta comunque […] la utilizzazione delle prove già assunte nella precedente
fase».
2.5. – Con memoria depositata in
prossimità dell’udienza, la parte privata chiede che venga dichiarata
inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, svolgendo
rilievi analoghi a quelli contenuti nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza nel procedimento r.o.
n. 397 del 2008.
2.6. – Con memoria
depositata in prossimità dell’udienza, il pubblico ministero del giudizio a
quo insiste per l’accoglimento delle questioni proposte nell’ordinanza di
rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di
costituzione.
3. – Con ordinanza del 26
settembre 2008 (r.o. n. 9 del 2009), nel corso di
un procedimento penale in cui è sottoposto alle indagini, tra gli altri, l’on.
Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Giudice
per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 111, 112 e 138 Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008.
3.1. – In punto di fatto, il rimettente
premette che: a) «in data 4 luglio 2008 il p.m. ha avanzato richiesta di
proroga dei termini di scadenza delle indagini preliminari (art. 406 c.p.p.)
per il periodo di sei mesi, nell’àmbito del procedimento iscritto al n. 1349/08
del Registro delle notizie di reato»; b) «decorso il periodo di sospensione
feriale dei termini di cui alla legge n. 742/1969, questo giudice si è trovato
nella necessità di procedere alla notificazione della richiesta del p.m. agli
indagati, in vista dell’instaurazione del contraddittorio cartolare di cui
all’art. 406, comma 3 c.p.p. che in via eventuale può instaurarsi prima della
relativa decisione»; c) in data 23 luglio 2008 è stata approvata dal Parlamento
la norma censurata, il cui comma 1 impone la sospensione generale ed automatica
dei processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di
Presidente della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica e di Presidente del Consiglio dei ministri dalla data
di assunzione e fino alla cessazione della carica, anche per processi penali
relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione.
Quanto alla rilevanza delle sollevate
questioni, il giudice a quo osserva che, anche se la locuzione «processi
penali», adoperata dal censurato comma 1, «lascerebbe intendere la non
operatività della legge per le fasi anteriori al giudizio propriamente inteso,
da celebrarsi cioè in pubblico dibattimento», un’attenta analisi del dato
normativo non autorizza una tale interpretazione restrittiva. E ciò perché –
prosegue il giudice a quo – il successivo comma 7 stabilisce che «le
disposizioni del presente articolo si applicano anche ai processi penali in
corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della
presente legge». Secondo lo stesso rimettente, «se è certamente concepibile la
circostanza che un processo, inteso come procedimento pervenuto alla fase del
dibattimento pubblico, possa pendere in diversi gradi (primo, secondo, di
legittimità) e se è certamente possibile individuare all’interno dei gradi, diversi
stati (quelli ad es. degli atti preliminari al dibattimento di primo, artt.
465-469 c.p.p. e di secondo grado, art. 601 c.p.p.; atti successivi alla
deliberazione della sentenza di primo grado, artt. 544-548 c.p.p.; atti
preliminari alla decisione del ricorso per Cassazione, art. 610 c.p.p.), non è
invece giuridicamente ipotizzabile per il giudizio dibattimentale una fase che
non sia quella in cui lo stesso è per l’appunto pervenuto». Ciò dimostrerebbe
«il carattere atecnico della locuzione adoperata
(processo) che copre in realtà e come del resto espressamente enunciato, ogni
fase, stato e grado del procedimento», anche perché altrimenti la previsione di
legge sarebbe priva di rilevanza «dispositiva, precettiva o anche solo
ermeneutica». Un ulteriore argomento testuale a favore dell’applicabilità della
disciplina denunciata anche alla fase delle indagini preliminari si rinverrebbe
nel disposto del censurato comma 3, il quale stabilisce che la sospensione non
impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi
degli articoli 392 e 467 cod. proc. pen., per l’assunzione delle prove non rinviabili. Tale
previsione comporta – sempre secondo il rimettente – due necessarie
implicazioni: a) la sospensione riguarda anche fasi precedenti il processo
inteso come giudizio dibattimentale pubblico, dal momento che solo nel corso
della fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare è consentito
il ricorso alla acquisizione anticipata delle prove mediante incidente
probatorio; b) nella fase delle indagini preliminari è vietata, in linea
generale, la raccolta delle prove e, al fine di permettere la celebrazione del
futuro processo che potrebbe avere luogo alla scadenza del periodo di durata
della carica dei soggetti considerati, è necessario ricorrere allo strumento
dell’incidente probatorio. In particolare, il giudice a quo osserva che,
«ove […] il legislatore avesse voluto consentire […] la raccolta delle prove
anche nella fase delle indagini preliminari, nulla avrebbe detto al riguardo,
laddove si è invece sentito in dovere di indicare espressamente le eccezioni
[…] al principio […] di vietare ogni acquisizione probatoria nei procedimenti a
carico dei soggetti che ricoprono le cariche pubbliche».
3.1.1. – Sul piano comparatistico, il
rimettente osserva che la disposizione censurata costituisce «un unicum»
rispetto a quanto previsto da altri ordinamenti e ricorda che «solo le
Costituzioni di pochi Stati (Grecia, Portogallo, Israele e Francia) prevedono
l’immunità temporanea per i reati comuni; essa è peraltro limitata alla figura
del Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale». La stessa
regola – prosegue il giudice a quo – non vale, invece, per i Presidenti
del Parlamento né tanto meno per il Capo dell’esecutivo, per il quale
l’immunità non è «mai estesa ai reati comuni» e «passa attraverso la tutela del
mandato parlamentare che quasi sempre […] si cumula nella figura del premier,
sotto forma di previsione di autorizzazioni a procedere concesse da organi
parlamentari (Spagna), Corti costituzionali (Francia) o tribunali comuni (Stati
Uniti)». Alla stessa logica sarebbero poi ispirate le soluzioni normative
proprie di quei sistemi costituzionali «che prevedono fori speciali o
particolari condizioni di procedibilità (in genere ed ancora: autorizzazione a
procedere della Camera di appartenenza) per l’esercizio dell’azione penale nei
confronti di alcune alte cariche dello Stato, per reati sia comuni che connessi
all’esercizio delle funzioni (come ad es. in Spagna nei confronti del Capo del
Governo e dei Ministri), mantenendo comunque la facoltà per la
Corte costituzionale di esercitare un controllo sull’eventuale
diniego opposto dallo organo parlamentare».
3.1.2. – Tanto premesso, il rimettente
afferma che la disposizione denunciata víola, in
primo luogo, l’art. 138 Cost., perché «la deroga al
principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata […]
introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle
fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge
costituzionale, la quale […] è stata di per sé già ritenuta insuscettibile di
alterare uno dei connotati fondamentali dell’ordinamento dello Stato espresso
dal suddetto principio».
Rileva il giudice a quo che, «anche
solo per disciplinare l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei soggetti
rivestiti della carica di Ministri (tra cui lo stesso Presidente del Consiglio)
in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle relative finzioni, il
legislatore è ricorso allo strumento della legge costituzionale (legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1), in funzione derogatoria, tra
gli altri, proprio dell’art. 96 Cost.». Il silenzio
serbato sul punto dalla sentenza n. 24 del
2004, avente ad oggetto l’analoga disciplina della legge n. 140 del 2003,
non può «valere come precedente a favore della costituzionalità della scelta
dello strumento normativo allora come oggi adottato, dal momento che gli
effetti delle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale delle
disposizioni di legge sottoposte a scrutinio sono quelli espressamente previsti
dagli artt. 27 e 30 legge 11 marzo 1953, n. 87, e non si estendono anche alle
questioni meramente deducibili».
3.1.3. – È dedotta, in secondo luogo, la
violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., sul
rilievo che la disciplina crea «"un regime differenziato riguardo alla
giurisdizione [...] penale” (sent
. Cost. n. 24/2004
)», ponendosi
cosí in contrasto con «uno dei princípi
fondamentali del moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei
cittadini di fronte alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del
principio di eguaglianza formale dinanzi alla legge».
Ad
avviso del rimettente, la Corte
costituzionale, con la citata sentenza n. 24 del 2004, ha affermato,
«con espressioni nette e limpide, ancorché quantitativamente ridotte rispetto
al corpo motivazionale», che «nessuna legge, sia costituzionale e tanto meno
ordinaria, può sovvertire uno dei princípi
fondamentali del moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei
cittadini di fronte alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del
principio di eguaglianza formale dinanzi alla legge». L’assolutezza del
principio sarebbe tale da sgombrare il campo dalla possibile obiezione che «le differenze
che si riscontrano nell’articolo unico della legge n. 124/2008 rispetto
all’art. 1, comma 2, della legge n. 140/2003 e l’eliminazione degli ulteriori
punti di contrasto con altre norme costituzionali che caratterizzavano quella
disciplina (menomazione del diritto di difesa dell’imputato e sacrificio delle
ragioni della parte civile eventualmente costituta in giudizio in relazione
all’art. 24 Cost., automatismo generalizzato della
sospensione e stasi indefinita dei tempi del processo in relazione ancora
all’art. 24 ed all’art. 111 Cost.; irragionevolezza
derivante dalla previsione di un’unica disciplina per cariche dello Stato
diverse per fonti di investitura e natura delle funzioni ed irragionevolezza
tra regime di esenzione dalla giurisdizione per le cariche apicali dello Stato
rispetto ai membri degli organi costituzionali di appartenenza o di altri
soggetti svolgenti funzioni omologhe, in rapporto all’art. 3, secondo comma Cost.) possano fondare la legittimità della previsione qui
censurata».
3.1.4.
– Sarebbe violato, in terzo luogo, l’art. 3 Cost.,
per l’irragionevolezza intrinseca della disciplina derivante
dall’insindacabilità della facoltà di rinunzia alla sospensione «dal momento
che se l’interesse dichiaratamente perseguito dal legislatore è quello di
assicurare la serenità di svolgimento della funzione nel periodo di durata in
carica (sent. Corte cost. n. 24/2004), la
sospensione dei procedimenti dovrebbe essere del tutto indisponibile da parte
dei soggetti considerati, al fine di assicurarne appieno l’efficacia».
3.1.5.
– L’articolo denunciato violerebbe, in quarto luogo, l’art. 111, secondo comma,
Cost., perché si porrebbe in contrasto con «un
corollario immanente al principio di ragionevole durata del processo,
consistente nella concentrazione delle fasi processuali, nel senso che nell’àmbito
del procedimento penale, alla fase di acquisizione delle prove deve seguire
entro tempi ragionevoli quella della loro verifica in pubblico dibattimento, ai
fini della emissione di una giusta sentenza da parte del giudice».
3.1.6.
– Il rimettente deduce, infine, il contrasto della norma censurata con gli
artt. 3 e 112 Cost., per violazione dei princípi di obbligatorietà dell’azione penale e di
uguaglianza sostanziale, sotto il profilo dell’irragionevolezza del contenuto
derogatorio della disciplina censurata rispetto al diritto comune, in quanto
tale norma non si applica ai reati commessi nell’esercizio delle funzioni
istituzionali, ma ai reati extrafunzionali
«indistintamente commessi dai soggetti ivi indicati, di qualsivoglia natura e
gravità, finanche prima dell’assunzione della funzione pubblica».
Ad
avviso del giudice a quo, la
Costituzione consente deroghe al principio di obbligatorietà
dell’azione penale per «i soli reati commessi nell’esercizio di funzioni
istituzionali e che siano intrinsecamente connaturati allo svolgimento delle
medesime (artt. 68, 90, 96 e 122, quarto comma Cost.),
situazione quest’ultima che fonda per l’appunto la ragionevolezza anche della
deroga al regime ordinario di procedibilità dei reati». L’irragionevolezza
denunziata – conclude il rimettente – risalterebbe in maniera ancora piú netta nel caso in cui la sospensione intervenisse
concretamente a bloccare, sia pur temporaneamente, procedimenti per reati
gravi, «con il non voluto risultato di trasformare l’assunzione dell’incarico
pubblico, comportante la generale temporanea immunità, in momento di obiettivo
disdoro per il prestigio intrinseco della funzione».
3.2.
– Si è costituita la suddetta parte privata, svolgendo, nel merito, rilievi
analoghi a quelli contenuti nelle memorie di costituzione nei procedimenti r.o. n. 397 e n. 398 del 2008 e
osservando, in punto di ammissibilità, che le questioni proposte dal rimettente
non sono ammissibili, perché la disposizione censurata non trova applicazione
nella fase delle indagini preliminari. La difesa non condivide, cioè, l’assunto
del giudice a quo – investito dal pubblico ministero della richiesta di
proroga dei termini di scadenza delle indagini – secondo cui, poiché il termine
«processo» si attaglierebbe esclusivamente al procedimento pervenuto alla fase
del dibattimento pubblico all’interno del quale non sarebbero individuabili
fasi diverse, il termine «fase» usato dal comma 7 dell’articolo 1 della legge
n. 124 del 2008 potrebbe avere significato giuridico esclusivamente in
riferimento all’intero procedimento, comprensivo ovviamente anche della fase
delle indagini preliminari.
Ad
avviso della difesa dell’imputato, tale assunto sarebbe erroneo, in primo
luogo, perché «anche nel "processo” sono individuabili varie fasi: prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento di cui all’art. 492 c.p.p. vi è la
fase che spazia dalla costituzione delle parti (art. 484 c.p.p.) alla decisione
sulle questioni preliminari (art. 491 c.p.p.); poi segue la fase disciplinata
dagli articoli 493, 494 e 495 c.p.p.; di seguito comincia la fase
dell’istruzione dibattimentale (artt. 496-515 c.p.p.) nel corso della quale può
innestarsi la fase delle nuove contestazioni (artt. 516-522 c.p.p.); segue la
fase della discussione finale con la chiusura del dibattimento; e infine v’è la
fase della deliberazione»; si tratterebbe di vere e proprie fasi e non di meri
frammenti del processo, perché esse sono disciplinate da regole specifiche e
caratterizzate, ciascuna, da specifici diritti, facoltà e decadenze.
In
secondo luogo, non sarebbe «giuridicamente sostenibile che il "processo” sorga,
come opina il giudice rimettente, solo quando il procedimento perviene alla
fase del dibattimento pubblico. Nessuno dubita, infatti, che di processo si può
e si debba parlare con l’inizio dell’azione penale che nel nostro ordinamento,
com’è diffusamente noto, sorge con l’esercizio dell’azione penale da parte del
pubblico ministero individuato, ratione temporis, dal primo comma dell’articolo 405 del codice
di procedura penale».
La
difesa della parte privata critica, poi, l’assunto del rimettente per cui il
fatto che la norma censurata consenta al giudice di provvedere all’assunzione
di prove non rinviabili ai sensi degli articoli 392 e 467 cod. proc. pen. comporterebbe che la
sospensione del processo deve necessariamente essere intesa come sospensione
anche del procedimento, «dal momento che solo nel corso della fase delle
indagini preliminari […] e dell’udienza preliminare […] è consentito il ricorso
alla acquisizione anticipata delle prove mediante incidente probatorio».
Secondo la difesa, «l’udienza preliminare partecipa appieno della species del processo dal momento che in tale fase è
stata già esercitata l’azione penale con il deposito della richiesta di rinvio
a giudizio ai sensi del combinato disposto degli articoli 405, primo comma e
416, primo comma del codice di procedura penale», con la conseguenza che la
previsione normativa richiamata dal rimettente circa l’assunzione di prove non
rinviabili ben può applicarsi anche nel corso del processo.
L’interpretazione
data dal rimettente sarebbe, inoltre, smentita sia dai lavori preparatori –
«durante i quali è stato reso manifesto l’àmbito di applicazione della norma in
riferimento esclusivo al "processo” inteso proprio in senso tecnico giuridico
di quella fase introdotta dall’avvenuto esercizio dell’azione penale» – sia
dalla Procura della Repubblica di Roma, la quale – secondo quanto asserito
dalla difesa della parte privata – ha chiesto, nel procedimento a quo,
«l’archiviazione del procedimento» [recte: la
proroga dei termini delle indagini preliminari] anche nei confronti del suddetto
imputato.
3.3.
– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, richiamando le argomentazioni già
svolte negli atti di intervento nei procedimenti r.o.
n. 397 e n. 398 del 2008 e
concludendo nel senso che «le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili
o infondate».
4.
– In prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato
un’unica memoria con riferimento ai procedimenti r.o.
n. 397 e n. 398 del 2008 e
n. 9 del 2009, nella quale ribadisce
quanto già osservato negli atti di intervento e rileva, in particolare che: a)
poiché il Presidente della Repubblica e i Presidenti delle Camere «non sono
parti dei giudizi, nei quali sono intervenute le ordinanze di rimessione, manca
la rilevanza per l’esame delle questioni che potrebbero insorgere nei loro
confronti», con conseguente inammissibilità delle questioni medesime; b) le
questioni relative al comma 7 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008 sono
inammissibili, «perché in proposito nel ricorso non sono proposti motivi
autonomi e, comunque, manca qualsiasi argomentazione a sostegno»; c) il
legislatore può, nella sua discrezionalità, intervenire per coordinare
l’interesse personale dell’imputato a difendersi nel processo e l’interesse
generale all’«esercizio efficiente delle funzioni pubbliche»; d) «poiché il
pregiudizio era provocato dalla contemporaneità dell’esercizio delle funzioni e
della pendenza del processo, non si poteva rimediare se non eliminando quella
contemporaneità» ed escludendo, invece, «qualsiasi forma di riduzione o di
sospensione» delle funzioni, «che sarebbe stata pregiudizievole per l’interesse
imprescindibile a che quelle funzioni siano esercitate con continuità»; e)
l’inerzia del legislatore «avrebbe comportato la tolleranza di una situazione
già di per sé non conforme alla Costituzione»; f) la sospensione stabilita
dalla norma censurata trova giustificazione anche nella grande risonanza
mediatica che hanno i processi penali per reati extrafunzionali
a carico del Presidente del Consiglio dei ministri; g) la previsione della
sospensione dei processi con legge ordinaria trova giustificazione anche
nell’esigenza di modificare agevolmente la relativa disciplina qualora «la
situazione reale si modificasse in misura tale da comportare un diverso
bilanciamento degli interessi».
5.
– Con ordinanza pronunciata in udienza, la
Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la
costituzione del Procuratore della Repubblica e del sostituto Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Milano nei giudizi introdotti dalle ordinanze
di rimessione registrate al n. 397 ed al n. 398 dell’anno 2008.
Considerato
in diritto
1.
– Il Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008) dubita, in riferimento
agli artt. 3, 136 e 138 della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell’art. 1, commi 1 e 7, della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in
materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche
dello Stato). Lo stesso Tribunale di Milano (r.o. n. 398 del 2008) dubita della
legittimità dell’intero art. 1 della legge n. 124 del 2008, in riferimento agli
artt. 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost. Il Giudice
per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma (r.o. n. 9 del 2009) dubita, in riferimento
agli articoli 3, 111, 112 e 138 Cost., della
legittimità dello stesso art. 1 della legge n. 124 del 2008.
La
disposizione censurata prevede, al comma 1, che: «Salvi i casi previsti dagli
articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei
soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente
del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di
Presidente del Consiglio dei Ministri sono sospesi dalla data di assunzione e
fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica
anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o
della funzione». Gli altri commi dispongono che: a) «L’imputato o il suo
difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla
sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne
ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del
codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili» (comma
3); c) si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale e la
sospensione, che opera per l’intera durata della carica o della funzione, non è
reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura,
né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle
funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la
disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e,
quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, «i termini per
comparire, di cui all’articolo 163-bis
del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa
l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo
all’azione trasferita» (comma 6); e) l’articolo si applica «anche ai processi
penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore
della presente legge» (comma 7).
Le
questioni proposte dai rimettenti possono essere raggruppate in relazione ai
parametri evocati.
1.1.
– L’art. 136 Cost. è evocato a parametro dal
Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008), il quale osserva
che i commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008, «avendo riproposto
la medesima disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità
costituzionale, già ritenuta dalla Corte» con la sentenza n. 24 del 2004.
1.2.
– L’art. 138 Cost. è evocato da tutti i rimettenti.
Il
Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008) afferma che i
denunciati commi 1 e 7 dell’art. 1, della legge n. 124 del 2008 violano tale
parametro costituzionale, perché intervengono in una «materia riservata […] al
legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla
circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza costituzionale ed
il processo penale sono definiti con norma costituzionale».
In
relazione all’intero art. 1, lo stesso Tribunale di Milano (r.o. n. 398 del 2008) rileva che «la
normativa sullo status dei titolari delle
piú alte istituzioni della Repubblica è in sé materia
tipicamente costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che
limitano o differiscono nel tempo la loro responsabilità si pongono quali
eccezioni rispetto al principio generale dell’uguaglianza di tutti i cittadini
davanti alla legge previsto dall’articolo 3 della Costituzione, principio
fondante di uno Stato di diritto».
Secondo
il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, l’art. 1
denunciato si pone in contrasto con l’evocato parametro, perché «la deroga al
principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata […]
introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle
fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge
costituzionale».
1.3.
– Tre delle questioni sollevate sono riferite al principio di uguaglianza, di
cui all’art. 3 Cost., sotto il profilo
dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla giurisdizione.
Con
l’ordinanza r.o. n. 397 del 2008, il Tribunale di
Milano rileva che i commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008 violano
tale parametro, per avere accomunato «in una unica disciplina cariche diverse
non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle
funzioni», ed inoltre per aver distinto irragionevolmente e «per la prima volta
sotto il profilo della parità riguardo ai princípi
fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei
ministri [...] rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti».
Con
l’ordinanza r.o. n. 398 del 2008, lo stesso Tribunale
lamenta che il parametro è violato, perché «il contenuto di tutte le
disposizioni in argomento incide su un valore centrale per il nostro
ordinamento democratico, quale è l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti
all’esercizio della giurisdizione penale».
Il
Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma basa la sua
censura sulla considerazione che la disposizione crea «un regime differenziato
riguardo alla giurisdizione [...] penale», ponendosi cosí
in contrasto con «uno dei princípi fondamentali del
moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei cittadini di fronte
alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del principio di eguaglianza
formale dinanzi alla legge».
1.4.
– Lo stesso art. 3 Cost. è evocato anche sotto il
profilo della ragionevolezza.
Secondo
il Tribunale di Milano (r.o. n. 398 del 2008), tale articolo è
violato, perché le «guarentigie concesse a chi riveste cariche istituzionali
risultano funzionali alla protezione delle funzioni apicali esercitate», con la
conseguenza che la facoltà di rinunciare alla sospensione processuale
riconosciuta al titolare dell’alta carica si pone in contrasto con la tutela
del munus publicum,
attribuendo una discrezionalità «meramente
potestativa» al soggetto beneficiario, anziché prevedere quei filtri aventi
carattere di terzietà e quelle valutazioni della peculiarità dei casi concreti
che soli, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004,
potrebbero costituire adeguato rimedio rispetto tanto all’automatismo
generalizzato del beneficio quanto «al
vulnus al diritto di azione».
Ad
avviso del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma,
l’irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata deriva
dall’insindacabilità della facoltà di rinunzia alla sospensione, dal momento
che, «se l’interesse dichiaratamente perseguito dal legislatore è quello di
assicurare la serenità di svolgimento della funzione nel periodo di durata in
carica (sent. Corte cost. n. 24/2004), la
sospensione dei procedimenti dovrebbe essere del tutto indisponibile da parte
dei soggetti considerati».
1.5.
– Il Tribunale di Milano formula un’articolata questione in riferimento agli
artt. 3, 68, 90, 96 e 112 Cost., sul rilievo che la
disposizione denunciata crea una disparità di trattamento tra la disciplina
introdotta per i reati extrafunzionali e quella, di
rango costituzionale, prevista per i reati funzionali commessi dalle quattro
alte cariche in questione. Tale disparità sarebbe irragionevole: a) per la
mancata menzione dell’art. 68 Cost. fra le norme
costituzionali espressamente fatte salve dalla legge n. 124 del 2008; b) per il
fatto che «il bene giuridico considerato dalla legge ordinaria, e cioè il
regolare svolgimento delle funzioni apicali dello Stato, è lo stesso che la
Costituzione tutela per il Presidente della Repubblica con l’art. 90, per il
Presidente del Consiglio e per i ministri con l’art. 96»; c) per la previsione
di uno ius singulare per
i reati extrafunzionali a favore del Presidente del
Consiglio dei ministri, che, invece, la Costituzione accomuna ai ministri per i
reati funzionali in conseguenza della sua posizione di primus inter pares.
1.6.
– Il Giudice per indagini preliminari presso il Tribunale di Roma rileva la
violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 112 Cost.,
sotto il profilo dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’uguaglianza
sostanziale. Ad avviso del rimettente, la disciplina censurata pone una deroga
irragionevole rispetto alla disciplina ordinaria, perché non si applica ai
reati commessi nell’esercizio delle funzioni istituzionali, ma ai reati extrafunzionali «indistintamente commessi dai soggetti ivi
indicati, di qualsivoglia natura e gravità, finanche prima dell’assunzione
della funzione pubblica».
1.7.
– Sia l’ordinanza r.o. n. 398 del 2008, sia l’ordinanza r.o. n. 9 del 2009 evocano quale parametro
l’art. 111, secondo comma, Cost., sotto il profilo
della ragionevole durata del processo.
Per
il primo dei due rimettenti, il parametro è violato perché la disposizione
denunciata blocca «il processo in ogni stato e grado per un periodo
potenzialmente molto lungo» e provoca «un evidente spreco di attività processuale»,
oltretutto non stabilendo alcunché «sull’utilizzabilità delle prove già
assunte», né all’interno dello stesso processo penale al termine del periodo di
sospensione, né all’interno della diversa sede in cui la parte civile abbia
scelto di trasferire la propria azione, con conseguente necessità per la stessa
parte «di sostenere ex novo l’onere
probatorio in tutta la sua ampiezza».
Il
secondo dei due rimettenti rileva che la disposizione censurata si pone in
contrasto con «un corollario immanente al principio di ragionevole durata del
processo, consistente nella concentrazione delle fasi processuali, nel senso
che nell’àmbito del procedimento penale, alla fase di acquisizione delle prove deve
seguire entro tempi ragionevoli quella della loro verifica in pubblico
dibattimento, ai fini della emissione di una giusta sentenza da parte del
giudice».
2.
– In considerazione della parziale coincidenza
dell’oggetto e dei motivi delle questioni sollevate, i giudizi devono essere
riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi.
3.
– Va preliminarmente esaminata l’eccezione della difesa della parte privata con
la quale si deduce l’inammissibilità, per irrilevanza, delle questioni
sollevate dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma (r.o. n. 9 del 2009), in quanto la
disposizione censurata non trova applicazione nella fase delle indagini
preliminari. La difesa contesta l’assunto del giudice a quo, secondo cui il termine «fase» usato dal comma 7
dell’articolo 1 della legge n. 124 del 2008 potrebbe avere significato
giuridico esclusivamente in riferimento all’intero procedimento, comprensivo
della fase delle indagini preliminari.
L’eccezione
è fondata.
3.1.
– Il giudice rimettente, al fine di giustificare l’applicazione della norma
censurata anche alle indagini preliminari, si avvale di argomentazioni di
natura semantica e sistematica.
Sotto
il profilo semantico, il rimettente afferma, innanzi tutto, che la locuzione
«processi penali» (contenuta nell’art. 1, comma 1, della legge n. 124 del 2008)
non può essere interpretata in senso tecnico, in modo tale da essere
restrittivamente riferita al solo giudizio dibattimentale. Il legislatore
avrebbe infatti adottato, in questo caso, una locuzione generica, idonea a
ricomprendere nella nozione di "processo” anche la fase delle indagini
preliminari. Inoltre, assume che il termine «fase» (contenuto nel comma 7
dell’art. 1) non può che riferirsi − per avere un significato plausibile −
alla fase delle indagini preliminari, posto che «non è ipotizzabile, per il
giudizio dibattimentale, una fase che
non sia quella in cui lo stesso è per l’appunto pervenuto».
Sotto
il profilo sistematico, il giudice rimettente afferma che il comma 3 del
medesimo art. 1 − stabilendo che «la sospensione non impedisce al giudice,
ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere ai sensi degli articoli 392 e 467
del codice di procedura penale, per l’assunzione di prove non rinviabili» −
comporta necessariamente che la sospensione si applica anche alle fasi
antecedenti al processo «inteso come giudizio dibattimentale pubblico», dal
momento che solo nella fase delle indagini preliminari e in quella dell’udienza
preliminare è consentito il ricorso all’acquisizione anticipata delle prove
mediante incidente probatorio. Il primo degli articoli richiamati disciplina i
casi in cui si procede con incidente probatorio; il secondo fa riferimento al
precedente al fine di disciplinare l’assunzione delle prove non rinviabili. Dal
richiamo congiunto a tali articoli il rimettente desume la corrispondenza
biunivoca tra incidente probatorio e indagini preliminari.
3.2.
– Nessuno di tali argomenti giustifica la conclusione cui il rimettente è
pervenuto, vale a dire l’applicabilità della sospensione anche alle indagini
preliminari. Infatti, risulta contraddittorio evocare in modo discontinuo –
come fa il rimettente – il rigore linguistico del testo normativo: rigore, da
un lato, escluso con riferimento alla locuzione «processo penale» e,
dall’altro, affermato con riferimento al termine «fase». Inoltre, va rilevato
che quest’ultimo termine − che non trova precisa connotazione nel sistema
processuale penale − può denotare, in senso ampio e nell’uso comune, un
punto o uno stadio della procedura, indifferentemente riferibile tanto alle
"fasi del procedimento”, quanto a quelle del processo. Neppure il richiamo che
la disposizione censurata fa agli artt. 392 e 467 cod. proc.
pen. comporta necessariamente che la sospensione si
estenda alle fasi antecedenti al processo. In realtà - in forza della
giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 77 del 1994) - non
esiste alcuna preclusione all’esperimento dell’incidente probatorio durante
l’udienza preliminare, la quale costituisce una fase del processo estranea a
quella delle indagini preliminari. Il richiamo alla disciplina dell’incidente
probatorio e dell’assunzione delle prove non rinviabili - lungi dal comprovare una
reciproca implicazione tra tali istituti e le indagini preliminari - vale
solo a rimarcare il necessario presupposto dell’assunzione di tali prove, e
cioè il connotato dell’urgenza.
3.3.
– Ulteriori considerazioni confortano un’interpretazione diversa da quella del
rimettente.
A
prescindere, infatti, dall’inequivoca volontà manifestata dal legislatore
storico, quale si trae dai lavori preparatori (ad esempio, l’intervento del
Ministro della giustizia nella seduta antimeridiana del 22 luglio 2008
dell’Assemblea del Senato), ai fini dell’esclusione della fase delle indagini
preliminari dal meccanismo sospensivo, è decisivo il rilievo delle conseguenze
irragionevoli che originerebbero dalla diversa opzione interpretativa. Infatti,
se la sospensione fosse applicata fin dalla fase delle indagini, vi sarebbe un
grave pregiudizio all’esercizio dell’azione penale, perché tale esercizio sarebbe
non soltanto differito, ma sostanzialmente alterato, per l’estrema difficoltà
di reperire le fonti di prova a distanza di diversi anni. Cosí
interpretata, la disposizione censurata comporterebbe il rischio di una
definitiva sottrazione dell’imputato alla giurisdizione; e ciò anche dopo la
cessazione dall’alta carica.
La
stessa interpretazione avrebbe poi il paradossale ed irragionevole effetto -
anche sul diritto di difesa della persona sottoposta alle indagini - di
non consentire lo svolgimento delle indagini preliminari neanche nel caso in
cui altre attività procedimentali per le quali non è applicabile la sospensione
prevista dalla norma denunciata (come, ad esempio, l’applicazione di misure
cautelari e l’arresto obbligatorio in flagranza) fossero già state poste in
essere.
3.4.
– Può, quindi, affermarsi che l’interpretazione del giudice rimettente
contrasta con il tenore letterale della disposizione e conduce a risultati
disarmonici rispetto al principio costituzionale di ragionevolezza. Da ciò
deriva che le questioni prospettate con l’ordinanza di rimessione r.o. n. 9 del 2009 dal Giudice delle
indagini preliminari presso il Tribunale di Roma sono inammissibili per difetto
di rilevanza, perché il rimettente non deve fare applicazione della norma
oggetto del dubbio di costituzionalità.
4.
– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità per
irrilevanza di tutte le questioni sollevate, per la parte in cui esse
riguardano disposizioni non applicabili al Presidente del Consiglio dei
ministri, sul rilievo che nei giudizi principali è imputato solo il titolare di
quest’ultima carica e non i titolari delle altre cariche dello Stato cui si
riferisce l’articolo censurato.
L’eccezione
non è fondata.
Si
deve, infatti, rilevare che le disposizioni censurate costituiscono, sul piano
oggettivo, una disciplina unitaria, che riguarda inscindibilmente le alte
cariche dello Stato in essa previste, con la conseguenza che un’eventuale
pronuncia di illegittimità costituzionale limitata alle norme riguardanti solo
una di tali cariche aggraverebbe l’illegittimità costituzionale della
disciplina, creando ulteriori motivi di disparità di trattamento. Pertanto, ove
questa Corte riscontrasse profili di disparità di trattamento della disciplina
censurata che riguardassero tutte le alte cariche dello Stato, la pronuncia di
illegittimità costituzionale dovrebbe necessariamente estendersi a tutte le
disposizioni denunciate.
A
tali considerazioni si deve aggiungere che la sentenza n. 24 del 2004 ha implicitamente
– ma chiaramente − ritenuto sussistente l’indicata inscindibilità della
disciplina relativa alle alte cariche dello Stato, perché, in un caso analogo,
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 1 della legge 20
giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della
Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte
cariche dello Stato), con riferimento a tutte le cariche dello Stato in esso
menzionate, nonostante che il giudizio principale riguardasse solo il
Presidente del Consiglio dei ministri.
5.
– Occorre ora passare all’esame del merito delle questioni prospettate.
Il
Tribunale di Milano (r.o. n. 397 del 2008) censura i commi 1 e
7 dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008, in riferimento all’art. 136 Cost., per violazione del giudicato costituzionale
formatosi sulla sentenza n. 24 del 2004. Il rimettente
lamenta che i commi censurati hanno «riproposto la medesima disciplina»
prevista dalla legge n. 140 del 2003, dichiarata incostituzionale con detta
sentenza.
La
questione non è fondata.
Come
questa Corte ha piú volte affermato (ex multis, sentenze n. 78 del 1992, n. 922 del 1988), perché vi sia violazione
del giudicato costituzionale è necessario che una norma ripristini o preservi
l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale.
Nel
caso di specie, il legislatore ha introdotto una disposizione che non riproduce
un’altra disposizione dichiarata incostituzionale, né fa a quest’ultima rinvio.
La disposizione presenta, invece, significative novità normative, quali, ad
esempio, la rinunciabilità e la non reiterabilità della sospensione dei processi penali (commi
2 e 5), nonché una specifica disciplina a tutela della posizione della parte
civile (comma 6), cosí mostrando di prendere in
considerazione, sia pure parzialmente, la sentenza n. 24 del 2004. È, del resto, sul
riconoscimento di tali novità che si basano le note del Presidente della
Repubblica -
richiamate dal rimettente e dalle parti - che hanno accompagnato
sia l’autorizzazione alla presentazione alle Camere del disegno di legge in
materia di processi penali alle alte cariche dello Stato sia la successiva
promulgazione della legge. Né può sostenersi che, nel caso di specie, la
violazione del giudicato costituzionale derivi dal fatto che alcune
disposizioni dell’art. 1 – quali i censurati commi 1 e 7 – riproducono le
disposizioni già dichiarate incostituzionali. Si deve infatti rilevare, in
contrario, che lo scrutinio di detta violazione deve tenere conto del complesso
delle norme che si succedono nel tempo, senza che abbia rilevanza l’eventuale
coincidenza di singole previsioni normative.
6.
– Con le due citate ordinanze di rimessione, il Tribunale di Milano solleva altresí questioni di legittimità costituzionale, evocando a
parametro, ora congiuntamente ora disgiuntamente, le norme costituzionali in
materia di prerogative (artt. 68, 90 e 96 Cost.) e
gli artt. 3 e 138 Cost. Tali questioni – al di là
della loro formulazione testuale, piú o meno precisa
– debbono essere distinte in due diversi gruppi, a seconda dell’effettivo
contenuto delle censure: a) un primo gruppo è prospettato con riferimento alla
violazione del combinato disposto degli artt. 3, primo comma, e 138 Cost., in relazione alle norme costituzionali in materia di
prerogative, sotto il profilo della parità di trattamento rispetto alla
giurisdizione, sia in generale sia nell’àmbito delle alte cariche dello Stato;
b) un secondo gruppo è prospettato anch’esso con riferimento alla violazione
dell’art. 3 Cost., sotto il profilo, però,
dell’irragionevolezza intrinseca della disciplina denunciata. Tali diverse
prospettazioni devono essere trattate separatamente.
7.
– Quanto al primo dei suddetti gruppi di questioni, il rimettente Tribunale
muove dalla premessa che la Costituzione disciplina i rapporti tra gli organi
costituzionali (o di rilievo costituzionale) e la giurisdizione penale,
prevedendo, a tutela della funzione svolta da quegli organi, un numerus clausus di
prerogative, derogatorie rispetto al principio dell’uguaglianza davanti alla
giurisdizione. Da tale premessa il giudice a
quo deriva la conseguenza che la disposizione censurata si pone
contemporaneamente in contrasto sia con l’art. 3 Cost.,
perché -
con riferimento alle norme costituzionali in materia di prerogative -
introduce una ingiustificata eccezione al suddetto principio di uguaglianza
davanti alla giurisdizione, sia con l’art. 138 Cost.,
perché tale eccezione si sarebbe dovuta introdurre, se mai, con disposizione di
rango costituzionale.
7.1.
– Con riguardo al medesimo primo gruppo di questioni, la difesa erariale ne
eccepisce l’inammissibilità per l’inadeguata indicazione del parametro evocato
ed afferma, a sostegno di tale eccezione, che l’evocazione, da parte del
rimettente, del solo art. 138 Cost. – il quale si
limita a disciplinare il procedimento di adozione ed approvazione delle leggi
di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali – non è
sufficiente ad individuare le altre disposizioni costituzionali dalle quali
possa essere desunto l’interesse che il giudice a quo ritiene incompatibile con la norma censurata.
L’eccezione
non è fondata.
Come
si è sopra osservato, entrambe le ordinanze di rimessione non si limitano a
denunciare la violazione dell’art. 138 Cost. quale
mera conseguenza della violazione di una qualsiasi norma della Costituzione.
Esse, infatti, non si basano sulla considerazione – di carattere generico e
formale – che, in tal caso, solo una fonte di rango costituzionale sarebbe
idonea (ove non violasse a sua volta princípi
supremi, insuscettibili di revisione costituzionale) ad escludere il contrasto
con la Costituzione. Al contrario, il Tribunale rimettente prospetta una
questione specifica e di carattere sostanziale, in quanto denuncia - con
adeguata indicazione dei parametri - la violazione del principio di uguaglianza facendo
espresso riferimento alle prerogative degli organi costituzionali.
7.2.
– La difesa della parte privata e la difesa erariale deducono, inoltre, che
questioni sostanzialmente identiche a quelle riferite all’art. 138 Cost. ed oggetto dei presenti giudizi di costituzionalità
sono state già scrutinate e dichiarate non fondate da questa Corte con la sentenza n. 24 del 2004, riguardante
l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, del tutto analogo, sul punto, al
censurato art. 1 della legge n. 124 del 2008. In proposito, le suddette difese
affermano che la citata sentenza, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003 per la violazione solo degli artt. 3 e
24 Cost., ha implicitamente rigettato la pur
prospettata questione, riferita all’art. 138 Cost.,
circa l’inidoneità della legge ordinaria a disporre la sospensione del processo
penale instaurato nei confronti delle alte cariche dello Stato. In particolare,
le medesime difese sostengono che tale ultima questione costituiva un punto
logicamente e giuridicamente pregiudiziale della decisione e, perciò, non era
suscettibile di assorbimento nella pronuncia di illegittimità costituzionale
per la violazione di altri parametri. In questa prospettiva, viene
ulteriormente osservato che la suddetta sentenza n. 24 del 2004: a) là dove
afferma che è legittimo che il «legislatore» preveda una sospensione del
processo penale per esigenze extraprocessuali, va interpretata nel senso che
anche il "legislatore ordinario” può prevedere una sospensione del processo
penale a tutela delle alte cariche dello Stato; b) là dove afferma che
l’«apprezzabile» interesse «pubblico» ad «assicurare il sereno svolgimento
delle funzioni» inerenti alle alte cariche dello Stato deve essere tutelato «in
armonia con i princípi fondamentali dello Stato di
diritto», va intesa nel senso che la legge ordinaria può ben essere adottata in
materia, anche se deve operare un bilanciamento con i princípi
di cui agli artt. 3 e 24 Cost. Su queste premesse, la
difesa della parte privata e la difesa erariale eccepiscono che le ordinanze n.
397 e n. 398 del 2008 non prospettano profili nuovi o diversi da quelli già
implicitamente valutati dalla Corte, con conseguente inammissibilità o
manifesta infondatezza delle questioni riferite al combinato disposto degli
artt. 3 e 138 Cost., in relazione alle norme
costituzionali in materia di prerogative.
Anche
tale eccezione non è fondata.
In
primo luogo, è indubbio che la Corte non si è pronunciata sul punto. La sentenza n. 24 del 2004, infatti, non
esamina in alcun passo la questione dell’idoneità della legge ordinaria ad
introdurre la suddetta sospensione processuale.
In
secondo luogo, non si può ritenere che tale sentenza contenga un giudicato
implicito sul punto. Ciò perché, quando si è in presenza di questioni tra loro
autonome per l’insussistenza di un nesso di pregiudizialità, rientra nei poteri
di questa Corte stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui
affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre (sentenze n. 464 del 1992 e n. 34 del 1961). In tal caso,
l’accoglimento di una qualunque delle questioni, comportando la caducazione
della disposizione denunciata, è infatti idoneo a definire l’intero giudizio di
costituzionalità e non implica alcuna pronuncia sulle altre questioni, ma solo
il loro assorbimento. È quanto avvenuto, appunto, con la citata sentenza n. 24 del 2004, la quale, in
applicazione di detti princípi e in relazione alle
stesse modalità di prospettazione delle questioni, ha privilegiato l’esame dei
fondamentali profili di uguaglianza e ragionevolezza ed ha dichiarato
«assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale», lasciando cosí impregiudicata la questione riferita all’art. 138 Cost. La violazione di princípi e
diritti fondamentali, particolarmente sottolineati dal rimettente dell’epoca –
come il diritto di difesa, l’uguaglianza tra organi costituzionali e la
ragionevolezza –, emergeva, infatti, in modo immediato e non discutibile dalla
stessa analisi del meccanismo intrinseco di funzionamento del beneficio, cosí da rendere non necessaria ogni ulteriore indagine in
merito alle altre questioni sollevate e, quindi, anche a quelle concernenti
l’idoneità della fonte, sia essa di rango ordinario o costituzionale.
In
terzo luogo, la mancata trattazione del punto consente in ogni caso al
rimettente la proposizione di una questione analoga a quella già sollevata nel
giudizio di cui alla sentenza n. 24 del 2004. Trova infatti
applicazione, nella specie, il principio giurisprudenziale secondo cui le
questioni di legittimità costituzionale possono essere riproposte sotto profili
diversi da quelli esaminati dalla Corte con la pronuncia di rigetto (ex plurimis:
sentenze n. 257 del 1991, n. 210 del 1976; ordinanze n. 218 del 2009, n. 464 del 2005, n. 356 del 2000). Ne consegue che la
questione riferita all’art. 138 Cost., posta dal
Tribunale di Milano, non può essere risolta con il mero richiamo alla sentenza n. 24 del 2004, ma deve essere
scrutinata funditus
da questa Corte, tanto piú che detta questione ha ad
oggetto una mutata disciplina legislativa.
7.3.
– La denunciata violazione degli artt. 3 e 138 Cost.
è argomentata dal Tribunale rimettente sulla base dei seguenti due distinti
assunti: a) tutte le prerogative di organi costituzionali, in quanto
derogatorie rispetto al principio di uguaglianza, devono essere stabilite con
norme di rango costituzionale; b) la norma denunciata introduce un’ipotesi di
sospensione del processo penale, che si risolve in una prerogativa, perché è
diretta a salvaguardare il regolare funzionamento non già del processo, ma di
alcuni organi costituzionali.
Ciascuno
di tali assunti esige uno specifico esame da parte di questa Corte.
7.3.1.
– Il primo, relativo alla necessità che le prerogative abbiano copertura
costituzionale, è corretto.
Sul
punto va precisato che le prerogative costituzionali (o immunità in senso lato,
come sono spesso denominate) si inquadrano nel genus degli istituti diretti a
tutelare lo svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali attraverso
la protezione dei titolari delle cariche ad essi connesse. Esse si sostanziano
– secondo una nozione su cui v’è costante e generale consenso nella tradizione
dottrinale costituzionalistica e giurisprudenziale – in una specifica
protezione delle persone munite di status
costituzionali, tale da sottrarle all’applicazione delle regole ordinarie. Le
indicate prerogative possono assumere, in concreto, varie forme e denominazioni
(insindacabilità; scriminanti in genere o immunità sostanziali; inviolabilità;
immunità meramente processuali, quali fori speciali, condizioni di
procedibilità o altro meccanismo processuale di favore; deroghe alle formalità
ordinarie) e possono riguardare sia gli atti propri della funzione (cosiddetti
atti funzionali) sia gli atti ad essa estranei (cosiddetti atti extrafunzionali), ma in ogni caso presentano la duplice
caratteristica di essere dirette a garantire l’esercizio della funzione di
organi costituzionali e di derogare al regime giurisdizionale comune. Si
tratta, dunque, di istituti che configurano particolari status protettivi dei componenti degli organi; istituti che sono,
al tempo stesso, fisiologici al funzionamento dello Stato e derogatori rispetto
al principio di uguaglianza tra cittadini.
Il
problema dell’individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle
prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché,
da un lato, come già rilevato da questa Corte, «alle origini della formazione
dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto
alla giurisdizione» (sentenza n. 24 del 2004) e, dall’altro,
gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga
al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed
essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla
funzione politica propria dei diversi organi. Questa complessiva architettura
istituzionale, ispirata ai princípi della divisione
dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative
contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico
sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi
costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare
né in peius
né in melius.
Tale
conclusione, dunque, non deriva dal riconoscimento di una espressa riserva di
legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative sono
sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale. Tali sono, ad
esempio, le norme che attengono alle funzioni connesse alle alte cariche
considerate dalla norma denunciata, come: l’art. 68 Cost.,
il quale prevede per i parlamentari (e, quindi, anche per i Presidenti delle
Camere) alcune prerogative sostanziali e processuali in relazione sia a reati
funzionali (primo comma) sia a reati anche extrafunzionali
(secondo e terzo comma); l’art. 90 Cost., il quale
prevede l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o
per attentato alla Costituzione; l’art. 96 Cost., il
quale prevede per il Presidente del Consiglio dei ministri e per i ministri,
anche se cessati dalla carica, la sottoposizione alla giurisdizione ordinaria
per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, secondo modalità
stabilite con legge costituzionale.
In
coerenza con siffatta impostazione, questa Corte ha chiaramente e costantemente
affermato, in numerose pronunce emesse sia anteriormente che successivamente
alla sentenza n. 24 del 2004, il principio –
che va qui ribadito – secondo cui il legislatore ordinario, in tema di
prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo
per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli
preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato. Al riguardo,
la Corte ha affermato che: sono «eccezionalmente dettati, e da norme
costituzionali, i casi di deroga al principio dell’obbligatorietà dell’azione
penale» (sentenza n. 4 del 1965); è esclusa la
competenza del legislatore ordinario in materia di immunità (sentenza n. 148 del 1983); vi è «concordia
della giurisprudenza, della dottrina e dello stesso legislatore, nell’escludere
che, attraverso legge ordinaria, sia ammissibile un’integrazione dell’art. 68,
secondo comma, Cost., e comunque la posizione di una
norma che attribuisca analoghe prerogative» idonee a derogare all’art. 112 Cost. (sentenza n. 300 del 1984); l’art. 3 della legge
n. 140 del 2003, nella parte in cui costituisce attuazione del primo comma
dell’art. 68 Cost., non víola
la Costituzione, perché non comporta «un indebito allargamento della garanzia
dell’insindacabilità apprestata dalla norma costituzionale», ma «può
considerarsi di attuazione, e cioè finalizzata a rendere immediatamente e
direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo
comma, della Costituzione» (sentenza n. 120 del 2004); il medesimo
art. 3 della legge n. 140 del 2003 è una norma finalizzata «a garantire, sul
piano procedimentale, un efficace e corretto funzionamento della prerogativa
parlamentare» di cui al primo comma dell’art. 68 Cost.
(sentenza n. 149 del 2007, che richiama la
citata sentenza n. 120 del 2004).
Né
può obiettarsi che le prerogative possono essere introdotte anche dalla legge
ordinaria, come avverrebbe per le immunità diplomatiche previste da convenzioni
internazionali, le quali, secondo la difesa della parte privata, non trovano
copertura nell’art. 10 Cost., in quanto previste non
dalle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», ma da
trattati internazionali recepiti con legge ordinaria. In proposito, va
osservato che la questione posta all’esame di questa Corte attiene
esclusivamente alle prerogative dei componenti e dei titolari di organi
costituzionali e non alle immunità diplomatiche, le quali ultime, oltretutto,
sono contemplate in leggi ordinarie che riproducono o, comunque, attuano norme
internazionali generalmente riconosciute e, quindi, trovano copertura nell’art.
10 Cost. (sulla riconducibilità delle immunità
diplomatiche previste da convenzioni internazionali alla categoria delle norme
internazionali generalmente riconosciute, ex
multis, sentenza n. 48 del 1979). Anche la
disciplina speciale sulle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri
e dei ministri in ordine ai reati funzionali commessi da costoro e da soggetti
concorrenti, prevista dalla legge ordinaria 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme
in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’art. 90 della
Costituzione) – anch’essa invocata a conforto della tesi della parte privata –,
costituisce, del resto, mera attuazione della legge costituzionale 16 gennaio
1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della
legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti
per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione) ed ha, dunque, copertura
costituzionale.
Neppure
può invocarsi, a sostegno della tesi dell’idoneità della legge ordinaria a
prevedere prerogative di organi di rilievo costituzionale, la citata sentenza di questa Corte n. 148 del 1983,
la quale ha ritenuto conforme a Costituzione la legge ordinaria sulla
insindacabilità delle opinioni espresse dai componenti del Consiglio superiore
della magistratura nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto
della discussione. Detta sentenza ha affermato il principio secondo cui il
legislatore ordinario non ha competenza nella materia delle immunità, perché
queste «abbisognano di un puntuale fondamento, concretato dalla Costituzione o
da altre leggi costituzionali». La Corte, con tale pronuncia, ha infatti
ritenuto che la legge ordinaria è fonte idonea a prevedere l’indicata
insindacabilità solo in considerazione del fatto che quest’ultima trova una
precisa copertura costituzionale, essendo «rigorosamente circoscritta» alle
«sole manifestazioni del pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri
costituzionalmente spettanti ai componenti il Consiglio superiore» della
magistratura e realizza un «ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali
in gioco».
È,
infine, irrilevante il fatto che il titolare di un’alta carica potesse addurre,
anche prima della entrata in vigore della norma denunciata ed in mancanza di
una specifica norma costituzionale di prerogativa, il proprio legittimo
impedimento a comparire nel processo penale in ragione dei propri impegni
istituzionali. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della parte
privata, ciò non dimostra affatto l’erroneità dell’assunto secondo cui le
prerogative dei componenti e dei titolari degli organi costituzionali devono
essere previste da norme di rango costituzionale. La deducibilità del legittimo
impedimento a comparire nel processo penale, infatti, non costituisce
prerogativa costituzionale, perché prescinde dalla natura dell’attività che
legittima l’impedimento, è di generale applicazione e, perciò, non deroga al
principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione. Si tratta,
dunque, di uno strumento processuale posto a tutela del diritto di difesa di
qualsiasi imputato, come tale legittimamente previsto da una legge ordinaria
come il codice di rito penale, anche se tale strumento, nella sua pratica
applicazione, va modulato in considerazione dell’entità dell’impegno addotto
dall’imputato (sentenze richiamate infra al
punto 7.3.2.1.).
7.3.2.
– Il rimettente prosegue la sua argomentazione a sostegno della sollevata
questione di legittimità costituzionale assumendo altresí,
come sopra detto, che la norma denunciata costituisce una prerogativa, perché
introduce, tramite una legge ordinaria, un’ipotesi di sospensione del processo
penale che si risolve in una deroga al principio di uguaglianza.
Anche
tale assunto è corretto.
Per
giungere a tale conclusione occorre, in primo luogo, individuare – come messo
in evidenza sia dai rimettenti che dalle difese – la ratio della disposizione censurata e, in secondo luogo, valutare la
sussistenza della denunciata disparità di trattamento. In relazione ad entrambi
tali aspetti, occorre prendere le mosse dalla citata sentenza n. 24 del 2004, la quale – pur
avendo limitato l’esame dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003, analogo
all’art. 1 della legge n. 124 del 2008, ai soli profili relativi alla
violazione del diritto di difesa, all’irragionevolezza e all’uguaglianza tra
organi costituzionali (come sopra rilevato al punto 7.2.) – fornisce importanti
e precise indicazioni al riguardo.
7.3.2.1.
– Quanto all’individuazione della ratio,
va rilevato che, con riferimento al citato art. 1 della legge n. 140 del 2003,
la sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 ha
chiarito che: a) la sospensione del processo penale prevista da quella norma
per le alte cariche dello Stato (caratterizzata dalla generalità, automaticità
e dalla durata non determinata) è finalizzata alla «soddisfazione di esigenze
extraprocessuali»; b) tali esigenze consistono nella «protezione della serenità
dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione», e cioè
nell’«apprezzabile interesse» ad assicurare «il sereno svolgimento delle rilevanti
funzioni che ineriscono a quelle cariche»; c) detto interesse va tutelato in
armonia con i princípi fondamentali dello «Stato di
diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale»; d) la
sospensione, dunque, è «predisposta […] alla tutela delle importanti funzioni
di cui si è detto»; e) ove si ritenesse (in base ad «un modo diverso, ma non
opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma») che il
legislatore, in considerazione dell’«interesse pubblico allo svolgimento delle
attività connesse alle alte cariche», abbia stimato tale svolgimento alla
stregua di «un legittimo impedimento a comparire» nel processo penale ed abbia,
perciò, «voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento»,
la misura della sospensione processuale «anche sotto questo aspetto […] appare
diretta alla protezione della funzione».
Da
tali inequivoche affermazioni discende il corollario che la sospensione
processuale prevista dalla legge n. 140 del 2003 ha la ratio di proteggere la
funzione pubblica, assicurando ai titolari delle alte cariche il sereno
svolgimento delle loro funzioni (e, indirettamente, di quelle dell’organo al
quale essi appartengono) attraverso l’attribuzione di uno specifico status protettivo. Non viene in rilievo,
dunque, l’aspetto psicologico, individuale e contingente, della soggettiva
serenità del singolo titolare della carica statale, ma solo l’obiettiva
protezione del regolare svolgimento delle attività connesse alla carica stessa.
Dalle sopra citate affermazioni discende, altresí,
l’ulteriore corollario che è inesatto sostenere che l’istituto della
sospensione processuale e quello della prerogativa costituzionale sono tra loro
incompatibili. Infatti, anche una sospensione processuale può essere prevista
dall’ordinamento per soddisfare l’esigenza extraprocessuale di proteggere lo
svolgimento della funzione propria di un organo costituzionale e, pertanto, può
costituire lo strumento di una specifica prerogativa costituzionale.
Perché
queste conclusioni riferite alla sospensione prevista dall’art. 1 della legge
n. 140 del 2003 possano considerarsi valide anche per la sospensione prevista
dalla norma censurata, è necessario, però, valutare se le due norme abbiano la
medesima ratio.
Ad
avviso della difesa della parte privata, la diversità di disciplina della
sospensione di cui alla legge n. 140 del 2003 rispetto a quella di cui alla
legge n. 124 del 2008 comporta la radicale diversità delle rispettive rationes. Al
riguardo, la medesima difesa sottolinea che, a differenza della precedente, la
normativa denunciata prevede la rinunciabilità e la
non reiterabilità della sospensione del processo, con
la conseguenza che detta normativa ha la finalità di tutelare (in via esclusiva
o principale) non già la funzione inerente alla carica, ma il diritto di difesa
garantito all’imputato dalla Costituzione e, quindi, di soddisfare esigenze
proprie del processo. In forza della cosí individuata
ratio legis,
la parte privata esclude che la norma denunciata introduca una vera e propria
prerogativa costituzionale ed afferma che, pertanto, la sospensione processuale
in esame è stata legittimamente introdotta con legge ordinaria. A conferma
della sopra indicata ratio legis, la suddetta parte privata osserva che la
finalità della tutela della difesa dell’imputato non è contraddetta dal principio
della non reiterabilità della sospensione in caso di
assunzione di una nuova carica, perché la legge considera l’assunzione del munus publicum come
un legittimo impedimento solo per «la durata di un mandato», che rappresenta
«il periodo di tempo […] sufficiente […] per affrontare contemporaneamente gli
impegni istituzionali di un eventuale nuovo incarico e il processo penale».
Tale
ricostruzione delle finalità della norma non può essere condivisa, per una
pluralità di ragioni.
Va
innanzitutto osservato che la stessa relazione al disegno di legge AC 1442 (che
si è poi tradotto nella legge n. 124 del 2008) identifica espressamente la ratio della sospensione nell’esigenza di tutelare i princípi
di «continuità e regolarità nell’esercizio delle piú
alte funzioni pubbliche» e non nella soddisfazione di esigenze difensive.
In
secondo luogo, va rilevato che la disposizione denunciata non può avere la
finalità, prevalente o esclusiva, di tutelare il diritto di difesa degli
imputati, perché in tal caso – data la generalità di tale diritto, quale
espressamente prevista dall’art. 24 Cost. in
relazione al principio di uguaglianza – avrebbe dovuto applicarsi a tutti gli
imputati che, in ragione della propria attività, abbiano difficoltà a
partecipare al processo penale. Inoltre, sarebbe intrinsecamente irragionevole
e sproporzionata, rispetto alla suddetta finalità, la previsione di una
presunzione legale assoluta di legittimo impedimento derivante dal solo fatto
della titolarità della carica. Tale presunzione iuris et de iure impedirebbe, infatti, qualsiasi verifica circa
l’effettiva sussistenza dell’impedimento a comparire in giudizio e renderebbe
operante la sospensione processuale anche nei casi in cui non sussista alcun
impedimento e, quindi, non vi sia, in concreto, alcuna esigenza di tutelare il
diritto di difesa. La scelta del legislatore di aver riguardo esclusivamente ad
alcune alte cariche istituzionali e di prevedere l’automatica sospensione del
processo, senza alcuna verifica caso per caso dell’impedimento, evidenzia,
dunque, che l’unica ratio compatibile
con la norma censurata è proprio la protezione delle funzioni connesse
all’«alta carica».
In
terzo luogo, va ulteriormente osservato che il legittimo impedimento a
comparire ha già rilevanza nel processo penale e non sarebbe stata necessaria
la norma denunciata per tutelare, sotto tale aspetto, la difesa dell’imputato
impedito a comparire nel processo per ragioni inerenti all’alta carica da lui
rivestita. Come questa Corte ha rilevato, la sospensione del processo per
legittimo impedimento a comparire disposta ai sensi del codice di rito penale
contempera il diritto di difesa con le esigenze dell’esercizio della
giurisdizione, differenziando la posizione processuale del componente di un
organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo
automatico e generale (sentenze n. 451 del 2005, n. 391 e n. 39 del 2004 e
n. 225 del 2001). E se l’esigenza della tutela
del diritto di difesa è già adeguatamente soddisfatta in via generale
dall’ordinamento con l’istituto del legittimo impedimento, non può che
conseguirne anche la irrilevanza della rinunciabilità
della sospensione quale elemento per individuare la ratio della disposizione.
In
quarto luogo, va infine sottolineato che anche la caratteristica della non reiterabilità della sospensione in caso di assunzione di
una nuova alta carica da parte della stessa persona fisica non è elemento
idoneo a individuare la ratio della
normativa denunciata, perché è incoerente rispetto a entrambe le rationes ipotizzate. Infatti, sia l’esigenza
della tutela della difesa dell’imputato, sia quella della tutela della funzione
permarrebbero anche in caso di assunzione della nuova carica. La normativa
censurata, inoltre, fissa solo un limite massimo di durata del beneficio e non
garantisce affatto – contrariamente a quanto afferma la parte privata – un
periodo minimo per approntare la difesa, né tantomeno garantisce il periodo
minimo pari alla «durata di un mandato» (si consideri, ad esempio, il caso in
cui il giudizio penale venga instaurato nei confronti del titolare della carica
poco prima della cessazione di essa ed il medesimo soggetto persona fisica
assuma, subito dopo, una nuova carica).
Deve
perciò concludersi che la ratio della
norma denunciata, al pari di quella della norma oggetto della sentenza di questa Corte n. 24 del 2004,
va individuata nella protezione delle funzioni di alcuni organi costituzionali,
realizzata attraverso l’introduzione di una peculiare sospensione del processo
penale.
7.3.2.2.
– Chiarito che la protezione della funzione costituisce la ratio della norma censurata, occorre ora accertare se la
sospensione disciplinata dalla norma in questione abbia l’ulteriore
caratteristica delle prerogative, e cioè quella di derogare al principio di
uguaglianza creando una disparità di trattamento.
La
risposta a tale domanda deve essere positiva.
La
piú volte citata sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 ha
precisato, sia pure con riferimento all’art. 1 della legge n. 140 del 2003, che
la sospensione processuale per gli imputati titolari di alte cariche «crea un
regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione […]», regime
che va posto a raffronto con il principio – anch’esso richiamato dalla suddetta
sentenza – della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, fissato
dall’art. 3 Cost.
Non
vi è dubbio che tali rilievi valgono anche per il censurato art. 1 della legge
n. 124 del 2008. La denunciata sospensione è, infatti, derogatoria rispetto al
regime processuale comune, perché si applica solo a favore dei titolari di
quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei
loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in
qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali,
cioè estranei alle attività inerenti alla carica. La deroga si risolve, in
particolare, in una evidente disparità di trattamento delle alte cariche
rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la
Costituzione considera parimenti impegnative e doverose, come quelle connesse a
cariche o funzioni pubbliche (art. 54 Cost.) o,
ancora piú generalmente, quelle che il cittadino ha
il dovere di svolgere, al fine di concorrere al progresso materiale o
spirituale della società (art. 4, secondo comma, Cost.).
È
ben vero che il principio di uguaglianza comporta che, se situazioni uguali
esigono uguale disciplina, situazioni diverse possono richiedere differenti
discipline. Tuttavia, in base alla giurisprudenza di questa Corte citata al punto 7.3.1., deve ribadirsi che, nel
caso in cui la differenziazione di trattamento di fronte alla giurisdizione
riguardi il titolare o un componente di un organo costituzionale e si alleghi,
quale ragione giustificatrice di essa, l’esigenza di proteggere le funzioni di
quell’organo, si rende necessario che un tale ius singulare abbia una precisa copertura
costituzionale. Si è visto, infatti, che il complessivo sistema delle suddette
prerogative è regolato da norme di rango costituzionale, in quanto incide
sull’equilibrio dei poteri dello Stato e contribuisce a connotare l’identità
costituzionale dell’ordinamento.
7.3.2.3.
-
L’accertata violazione del principio di uguaglianza rileva, poi, sicuramente
anche con specifico riferimento alle alte cariche dello Stato prese in
considerazione dalla norma censurata: da un lato, sotto il profilo della
disparità di trattamento fra i Presidenti e i componenti degli organi
costituzionali; dall’altro, sotto quello della parità di trattamento di cariche
tra loro disomogenee.
7.3.2.3.1.
-
Quanto al primo profilo, va rilevato che le pur significative differenze che
esistono sul piano strutturale e funzionale tra i Presidenti e i componenti di
detti organi non sono tali da alterare il complessivo disegno del Costituente,
che è quello di attribuire, rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai
loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.)
e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.). Non è, infatti, configurabile una preminenza del
Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è
il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a
mantenerne l’unità, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri e
ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares.
Anche
la disciplina costituzionale dei reati ministeriali conferma che il Presidente
del Consiglio dei ministri e i ministri sono sullo stesso piano. Il sistema
dell’art. 96 Cost. e della legge costituzionale n. 1
del 1989 prevede, infatti, per tali cariche lo stesso regime di prerogative,
limitato ai reati funzionali; regime che risulta alterato dalla previsione per
il solo Presidente del Consiglio dei ministri della sospensione dei processi
per reati extrafunzionali. E ciò a prescindere
dall’ulteriore vulnus all’art. 3 Cost. derivante dal fatto che la normativa denunciata - al
pari di quella già dichiarata incostituzionale con la citata sentenza n. 24 del 2004 -
continua a prevedere, per tutti i reati extrafunzionali,
un meccanismo generale e automatico di sospensione del processo, che non può
trovare ragionevole giustificazione in un supposto maggiore disvalore dei reati
funzionali rispetto a tutti, indistintamente, gli altri reati.
Del
pari, non è configurabile una significativa preminenza dei Presidenti delle
Camere sugli altri componenti, perché tutti i parlamentari partecipano
all’esercizio della funzione legislativa come rappresentanti della Nazione e,
in quanto tali, sono soggetti alla disciplina uniforme dell’art. 68 Cost.
Questi
princípi sono già stati enunciati da questa Corte con
la citata sentenza n. 24 del 2004, dove si afferma,
in relazione all’art. 1 della legge n. 140 del 2003, che «La Corte ritiene che
anche sotto altro profilo l’art. 3 Cost. sia violato
dalla norma censurata. Questa, infatti, […] distingue, per la prima volta sotto
il profilo della parità riguardo ai princípi
fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei
ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli
organi da loro presieduti». Né a tali conclusioni può opporsi - come
fa la difesa della parte privata - che il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe
assunto una posizione costituzionale differenziata rispetto a quella dei
ministri in forza della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme
per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), che ha
introdotto nel d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione
del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei
deputati), l’art. 14-bis, secondo
cui, nel procedimento elettorale è necessaria la formale indicazione preventiva
del capo della forza politica o della coalizione. Si deve, infatti rilevare che
tale legge, in quanto fonte di rango ordinario, non è idonea a modificare la
posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri.
7.3.2.3.2.
-
In relazione all’ulteriore profilo della parità di trattamento di cariche
disomogenee, deve essere ribadito quanto già affermato da questa Corte con la
stessa sentenza n. 24 del 2004, secondo cui tale
disomogeneità è da ricondurre sia alle «fonti di investitura», sia alla «natura
delle funzioni».
Non
ostano a tale conclusione le opinioni espresse nel corso dei lavori preparatori
dell’articolo censurato in cui si osserva che l’elemento che accomuna tali
cariche è che tutte «trovano la propria legittimazione – in via diretta o
mediata – nella volontà popolare» e nella «natura politica» della funzione
esercitata. In contrario si deve rilevare, infatti, che la "legittimazione
popolare” e la "natura politica della funzione” sono elementi troppo generici,
perché comuni anche ad altri organi, statali e non statali (quali, ad esempio,
i singoli parlamentari o i ministri o i Presidenti delle Giunte regionali o i
consiglieri regionali), e pertanto inidonei a configurare un’omogeneità di
situazioni che giustifichi una parità di trattamento quanto alle prerogative.
7.3.3.
– In base alle osservazioni che precedono, si deve concludere che la sospensione
processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla
protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni
organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un’evidente disparità di
trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i
requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità
della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa
censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un
eccezionale ed innovativo status
protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e
che, pertanto, è privo di copertura costituzionale. Essa, dunque, non costituisce
fonte di rango idoneo a disporre in materia.
8.
-
Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della
legge n. 124 del 2008, per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e
138 Cost., in relazione alla disciplina delle
prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.
Restano
assorbite le questioni relative all’irragionevolezza intrinseca della
denunciata disciplina, indicate al punto 6, lettera b), e ogni altra questione
non esaminata.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti
i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della
legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del
processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato);
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge n. 124 del 2008, sollevate dal Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Roma, in riferimento agli articoli 3, 111,
112 e 138 Cost., con l’ordinanza r.o. n. 9 del 2009 indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2009.
F.to:
Francesco
AMIRANTE, Presidente
Franco
GALLO, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 19 ottobre 2009.
Allegato:
ordinanza
letta all’udienza del 6 ottobre 2009
ORDINANZA
Ritenuto
che il Procuratore della Repubblica ed il
sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con
memorie depositate il 7 gennaio 2009, si sono costituiti nei giudizi
incidentali di legittimità costituzionale introdotti dal Tribunale di Milano
con le ordinanze del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008) e del 4 ottobre 2008
(r.o. n. 398 del 2008);
che,
secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 361 del 1998, n. 1 e n. 375 del 1996; ordinanza n. 327 del 1995), la
costituzione del pubblico ministero nel giudizio incidentale di
costituzionalità è inammissibile;
che
tale giurisprudenza trae argomento, essenzialmente, dalle disposizioni che
disciplinano il processo costituzionale (articoli 20, 23 e 25 della legge 11
marzo 1953, n. 87; articoli 3 e 17 delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale del 16 marzo 1956 e successive modificazioni;
articoli 3 e 16 delle Norme integrative davanti alla Corte costituzionale del 7
ottobre 2008), le quali, per un verso, non prevedono espressamente la
costituzione del pubblico ministero nei giudizi incidentali di legittimità
costituzionale e, per altro verso, distinguono costantemente il «pubblico
ministero» dalle «parti» ed attribuiscono solo a queste ultime la facoltà di
costituirsi in detti giudizi di costituzionalità, impedendo, così, ogni
interpretazione estensiva od analogica volta ad attribuire la medesima facoltà
al pubblico ministero;
che
tali conclusioni vanno mantenute anche con riguardo all’attuale formulazione
dell’art. 111, secondo comma, della Costituzione, come sostituito dalla legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, il quale stabilisce che «ogni processo
si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità»;
che,
infatti, questa Corte ha più volte precisato che la parità tra accusa e difesa
affermata dal citato precetto costituzionale − il quale ha conferito
veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente
già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali» (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001) − non comporta
necessariamente, nel processo penale, l’identità tra i poteri processuali del
pubblico ministero e quelli dell'imputato, potendo una disparità di trattamento
«risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare
posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso
affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della
giustizia» (sentenza n. 26 del 2007; ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003 ed altre; nonché, sulla base
del previgente testo dell’art. 111 Cost.: sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 ed altre ancora);
che,
a maggior ragione, il principio costituzionale della parità delle parti –
dovendosi modulare in ragione sia della specificità della posizione dei diversi
soggetti processuali, sia delle particolarità delle fattispecie, sia delle
peculiari esigenze dei vari processi (nella specie, del processo innanzi a
questa Corte) – non implica necessariamente l’identità tra i poteri del
pubblico ministero e quelli delle parti nel processo costituzionale;
che
dunque, in armonia con tali princípi e con
riferimento al pubblico ministero, è da ritenersi «non irragionevole la scelta
discrezionale del legislatore di distinguere tale organo rispetto alle parti
del procedimento a quo, non
prevedendone la legittimazione a costituirsi nel giudizio sulle leggi» (sentenza n. 361 del 1998).
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la costituzione del Procuratore della
Repubblica e del sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Milano nei giudizi introdotti dalle ordinanze di rimessione registrate al n.
397 ed al n. 398 del 2008.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente