SENTENZA N. 262
ANNO 2009
Commenti alla decisione di
I. Alessandro Pace, Le ragioni della Corte
costituzionale, per gentile concessione della Rivista telematica eius
II. Paolo Carnevale, "A futura memoria”: dalla
Corte segnali "per il dopo”, nella Rubrica Studi e commenti di Consulta OnLine
III. Claudio Chiola, Lamentatio sulla pietra tombale del Lodo Alfano,
per gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali
IV. Antonio Ruggeri, Il
"lodo” Alfano al bivio tra teoria delle fonti e teoria della giustizia
costituzionale (a margine di Corte cost. n. 262 del
2009), per gentile concessione dell’AIC (Associazione
Italiana dei Costituzionalisti)
V. Andrea Morrone, La
Corte costituzionale sul "lodo Alfano”: una risposta tardiva?, per gentile
concessione del Forum dei
Quaderni Costituzionali
VI. Tomaso F. Giupponi, La
sentenza sul "lodo Alfano”: le possibili prospettive di riforma, per gentile concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
VII. Francesca Sgrò, Dalla
sentenza n. 24/2004 alla sentenza n. 262/2009: un’opera in due atti, per
gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali
VIII. Andrea Pugiotto, La
seconda volta, per gentile concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
IX. Renzo Orlandi, Illegittimi
privilegi, per gentile concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
X. Glauco Giostra, Repetita non iuvant, per
gentile concessione dell’AIC (Associazione Italiana
dei Costituzionalisti)
XI. Giorgio Pelagatti, "Giudicato
implicito" e assorbimento di profili di illegittimità costituzionale. Nota
a margine di Corte cost. n. 262 del 2009., per gentile concessione di Amministrazione In Cammino
XII. Alessandro Pace, Sull’ammissibilità
della costituzione del pubblico ministero (penale) nel giudizio incidentale di
costituzionalità, per g.c. della Rivista AIC
e altri contributi al tema generale
"Tavola
rotonda" organizzata dal professor Mario
Chiavario, con i contributi
di Piero
Gualtieri, Renzo
Orlandi, Saulle
Panizza e Nicolò
Zanon per gentile concessione dell’AIC
(Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
A. Adele Anzon Demmig, Il
"lodo Alfano” alla prova del fuoco, per gentile concessione dell’AIC (Associazione Italiana
dei Costituzionalisti)
B. Gaetano Azzariti, Sospensione
dei processi per le Alte cariche dello Stato e comunicati irrituali della
Presidenza della Repubblica: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve
tacere”, per gentile concessione dell’AIC (Associazione Italiana
dei Costituzionalisti)
C. Fioravante Rinaldi, Lo
scudo processuale alle «alte cariche dello Stato»: dal lodo
"Maccanico-Schifani”, al lodo "Alfano”, al lodo "costituzionale”, per
gentile concessione del Forum
dei Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
-
Francesco
AMIRANTE
Presidente
-
Ugo
DE
SIERVO
Giudice
-
Paolo
MADDALENA
"
-
Alfio
FINOCCHIARO
"
-
Alfonso
QUARANTA
"
-
Franco
GALLO
"
-
Luigi
MAZZELLA
"
-
Gaetano
SILVESTRI
"
-
Sabino
CASSESE
"
-
Maria
Rita
SAULLE
"
-
Giuseppe
TESAURO
"
-
Paolo
Maria
NAPOLITANO
"
-
Giuseppe
FRIGO
"
-
Alessandro
CRISCUOLO
"
-
Paolo
GROSSI
"
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art.
1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione
del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi dal
Tribunale di Milano con ordinanze del 26 settembre e del
4 ottobre 2008
e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con
ordinanza del 26
settembre 2008 rispettivamente iscritte al n. 397 e al n. 398 del registro
ordinanze 2008, nonché al n. 9 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2008 e n.
4, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e
gli atti di costituzione dell’onorevole Silvio Berlusconi, nonché del
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto
della stessa Procura;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2009 il Giudice relatore
Franco Gallo;
uditi gli avvocati Alessandro Pace, per il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Milano e un sostituto della stessa Procura, Niccolò Ghedini, Piero Longo e Gaetano Pecorella, per l’onorevole
Silvio Berlusconi, e l’avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 26 settembre 2008 (r.o. n. 397 del 2008), pronunciata nel corso di un
processo penale in cui è imputato, fra gli altri, l’on. Silvio Berlusconi,
attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 136 e 138 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dei commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge
23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo
penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).
1.1. – Il primo dei commi censurati
prevede che: «Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione,
i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di
Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di
Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri
sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o
della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti
antecedenti l’assunzione della carica o della funzione». Il successivo comma 7
prevede che: «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai
processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in
vigore della presente legge». Gli altri commi dispongono che: a) «L’imputato o
il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla
sospensione» (comma 2); b) «La sospensione non impedisce al giudice, ove ne
ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del
codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili» (comma
3); c) si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale e la
sospensione, che opera per l’intera durata della carica o della funzione, non è
reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura,
né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle
funzioni (commi 4 e 5); d) «Nel caso di sospensione, non si applica la
disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale» e,
quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, «i termini per
comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile,
sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause
dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita» (comma 6).
Osserva innanzitutto il rimettente che
le questioni sono rilevanti perché le disposizioni censurate, imponendo la sospensione
del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei
ministri, trovano applicazione nel giudizio a quo.
1.1.1. – In punto di non manifesta
infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 138 Cost., il giudice a quo rileva che dette
disposizioni trovano un precedente nell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n.
140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in
materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato),
dichiarato incostituzionale con la sentenza della
Corte costituzionale n. 24 del 2004. Secondo quanto osservato dal
rimettente,
Da tale pronuncia della Corte emerge –
sempre ad avviso del giudice a quo – «che disposizioni normative
riguardanti le prerogative, l’attività e quant’altro di organi costituzionali
richiedono il procedimento di revisione costituzionale. E ciò in quanto la
circostanza che l’attività di detti organi sia disciplinata tramite la previsione
di un’ipotesi di sospensione del processo penale, non esclude che in realtà
essa riguardi non già il regolare funzionamento del processo, bensí le prerogative di organi costituzionali e comunque
materie già riservate dal legislatore costituente alla Costituzione». A tale
conclusione il rimettente giunge sul rilievo che le disposizioni denunciate
incidono su «plurimi ulteriori interessi di rango costituzionale quali la
ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e
l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.),
comunque vulnerata seppur non integralmente compromessa, per cui il loro
bilanciamento deve necessariamente avvenire con norma costituzionale».
Il giudice a quo sottolinea che
già dai lavori dell’Assemblea costituente si desume che la non perseguibilità
per reati extrafunzionali nei confronti del
Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere prevista con legge
costituzionale. Osserva, altresí, che il fatto che,
nella specie, si trattasse «di limitazione dell’azione penale piú pregnante di quell’attuale non rileva sulla necessità
di disciplinare la materia mediante norma costituzionale»; e ciò in quanto «non
può essere messo in dubbio che si tratta in ogni caso di materia riservata, ex
art. 138 Cost., al legislatore costituente, cosí come dimostrato dalla circostanza che tutti i rapporti
tra gli organi con rilevanza costituzionale ed il processo penale sono definiti
con norma costituzionale».
A tale conclusione non osta – ad avviso
del rimettente – la sentenza della
Corte costituzionale n. 148 del 1983, relativa alla previsione con legge
ordinaria dell’insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai
componenti del Consiglio superiore della magistratura, perché in essa
La necessità di una legge costituzionale
per disciplinare la materia oggetto delle norme denunciate non è messa in
dubbio – sempre ad avviso del rimettente – neanche dalla considerazione che
Né a diverse conclusioni – secondo il
rimettente – possono condurre le note del Presidente della Repubblica del 2 e
del 23 luglio 2008, perché le prerogative che si ritengono attribuite al Capo
dello Stato in sede di autorizzazione alla presentazione alle Camere di un disegno
di legge e in sede di promulgazione comportano solo un primo esame della
legittimità costituzionale, e cioè un controllo meno approfondito di quello
demandato al giudice ordinario prima ed alla Corte costituzionale poi.
1.1.2. – Quanto alle questioni proposte
in riferimento agli artt. 3 e 136 Cost., il Tribunale
sostiene che le norme denunciate violano sia il giudicato costituzionale
sia il principio di uguaglianza, perché, «avendo riproposto la medesima
disciplina sul punto», incorrono «nuovamente nella illegittimità
costituzionale, già ritenuta dalla Corte sotto il profilo della violazione
dell’art. 3 Cost.». Per il rimettente, infatti, esse
accomunano «in una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti
di investitura, ma anche per la natura delle funzioni» ed inoltre distinguono
irragionevolmente, e «per la prima volta sotto il profilo della parità
riguardo ai princípi fondamentali della
giurisdizione, i Presidenti [...] rispetto agli altri componenti degli organi
da loro presieduti». Non sarebbe sufficiente ad evitare le prospettate
illegittimità costituzionali il fatto che le disposizioni censurate,
diversamente dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003, non includono il
Presidente della Corte costituzionale tra le alte cariche per le quali opera la
sospensione dei processi. Infatti, tale differenza di disciplina – prosegue il
rimettente − non è idonea ad impedire la violazione dell’art. 136 Cost., cosí come interpretato
dalla Corte costituzionale «con la sentenza n.
922/1988».
1.2. – Si è costituito in giudizio il
suddetto imputato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate non
rilevanti e, comunque, manifestamente infondate.
1.2.1. – La difesa dell’imputato deduce,
quanto alla questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost.,
che: a) contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, la sentenza della
Corte costituzionale n. 24 del 2004, avente ad oggetto l’art. 1 della legge
n. 140 del 2003, non afferma né che la sospensione del processo penale sia una
«prerogativa di organi costituzionali» né che tale sospensione richieda il
procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.; b) nella stessa sentenza si rileva, anzi, che il
legislatore può legittimamente prevedere ipotesi di sospensione del processo
penale per esigenze extraprocessuali – ad esempio, come nella specie, per
soddisfare l’apprezzabile interesse al sereno svolgimento delle funzioni
pubbliche connesse alle alte cariche dello Stato −, dovendosi
intendere per "legislatore” quello ordinario e non quello costituzionale; c) la
sentenza accoglie la questione di legittimità costituzionale in relazione agli
artt. 3 e 24 Cost., dichiarando espressamente
assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale; d) l’assorbimento
dichiarato dalla Corte ha ad oggetto i soli profili di merito e non anche il
profilo relativo alla mancata approvazione della legge con il procedimento di
revisione costituzionale, perché tale ultimo profilo, avendo carattere formale
e non sostanziale, è logicamente antecedente rispetto all’accoglimento della
questione riferita agli artt. 3 e 24 Cost. e,
pertanto, non può essere assorbito; e) la sentenza ha, in conclusione,
implicitamente ritenuto non fondata ogni questione proposta in riferimento
all’art. 138 Cost.; f) non osta a tale conclusione il
richiamo fatto dalla sentenza alla necessità che l’apprezzabile interesse al
sereno svolgimento delle funzioni pubbliche connesse alle alte cariche dello
Stato vada tutelato «in armonia con i princípi
fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la
protezione è strumentale», perché tali princípi sono,
secondo la stessa sentenza, quelli di cui agli artt. 3 e 24 Cost.
e non quello di cui all’art. 138 Cost.; g) sulla
scorta della pronuncia della Corte, il giudice a quo avrebbe dovuto
evidenziare le peculiarità della nuova disciplina censurata rispetto a quella
dichiarata incostituzionale dalla Corte, specificando sotto quale profilo la
prima, a differenza della seconda, violi l’art. 138 Cost.
1.2.2. – Quanto alle finalità della
normativa censurata, la difesa dell’imputato deduce che: a) esse sono dirette
non tanto a garantire il sereno svolgimento delle funzioni inerenti alle alte
cariche dello Stato, quanto a tutelare il diritto di difesa dell’imputato nel
processo, che presuppone la possibilità di essere presente alle udienze e di
avere il tempo necessario per predisporre la propria difesa; b) la prevalenza
dell’esigenza della tutela del diritto di difesa rispetto a quella del sereno
svolgimento della funzione si ricava dalla previsione della rinunciabilità
della sospensione contenuta nel comma 2 dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008, perché se il legislatore avesse voluto creare «in primis […] una
prerogativa istituzionale, avrebbe dovuto dotare la sospensione di un profilo
di indisponibilità, sulla base del presupposto che l’interesse istituzionale trascende
anche l’eventuale interesse dell’imputato a farsi giudicare subito»; c) «non
osta a questa ricostruzione il fatto che
1.2.3. – Quanto, in particolare, alla
questione sollevata dal giudice a quo in riferimento all’art. 136 Cost., la parte privata rileva che: a) contrariamente
all’assunto del rimettente, la norma in esame non ha riproposto la medesima disciplina
già dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 24 del
2004, «né ha perseguito e raggiunto, anche indirettamente, esiti
corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione», ma ha un
contenuto del tutto differente, ad esempio laddove prevede la rinunciabilità della sospensione del processo; b) la nuova
disciplina è diversa dalla vecchia anche sotto il profilo del trattamento della
parte civile e della durata non indefinita della sospensione; c) i soggetti cui
la sospensione si applica non coincidono con quelli indicati nella disciplina
già dichiarata incostituzionale e la differenziazione del loro trattamento,
«sotto il profilo della parità riguardo ai princípi
fondamentali della giurisdizione, rispetto agli altri componenti degli organi
collegiali è giustificata dall’intero nuovo assetto normativo, comunque diverso
da quello già oggetto di censura costituzionale», anche perché «
1.3. – Si è costituito il pubblico
ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa
Procura.
1.3.1. – Il pubblico ministero sostiene,
in primo luogo, l’ammissibilità della sua costituzione, nonostante il contrario
indirizzo interpretativo della Corte costituzionale, espresso con le sentenze n. 361 del
1998, n. 1
e n. 375 del
1996 e con l’ordinanza
n. 327 del 1995. Secondo la sua ricostruzione, «gli argomenti contrari alla
legittimazione del p.m. sono i seguenti: 1) la distinta menzione del "pubblico
ministero” e delle "parti” nell’attuale disciplina della legge 11 marzo 1953,
n. 87 (artt. 20, 23 e 25); 2) la menzione delle sole "parti” nella disciplina
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (artt.
3 e 17 [ora 16]); 3) la peculiarità della posizione ordinamentale e processuale
del p.m. nonostante ad esso debba riconoscersi la qualità di parte nel processo
a quo».
Quanto all’art. 20 della legge 11 marzo
1953, n. 87, la difesa del pubblico ministero ritiene che esso, limitandosi a
prevedere che per gli organi dello Stato (tra cui gli uffici del pubblico
ministero) non è richiesta una difesa "professionale”, non riguardi né valga a
modificare la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire
in giudizio.
Parimenti non decisivi, contro la
legittimazione del pubblico ministero a costituirsi nel giudizio di
costituzionalità, sarebbero gli argomenti desumibili dagli artt. 23 e 25 della
legge n. 87 del 1953.
Il quarto comma dell’art. 23 dispone
che: «L’autorità giurisdizionale ordina che a cura della cancelleria
l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia
notificata, quando non se ne dia lettura nel pubblico dibattimento, alle parti
in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio».
Dispone, a sua volta, il secondo comma dell’art. 25 che: «Entro venti giorni
dall’avvenuta notificazione dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 23, le parti
possono esaminare gli atti depositati nella cancelleria e presentare le loro
deduzioni». Secondo la difesa del pubblico ministero, il quarto comma dell’art.
23, da un lato, non esclude espressamente che l’ordinanza debba essere
notificata al pubblico ministero che sia stato parte in giudizio e, dall’altro,
ne impone la notifica al pubblico ministero, proprio perché questo è stato
"parte"; e ciò a prescindere dal fatto che il suo intervento fosse o
no obbligatorio. A ciò conseguirebbe che il pubblico ministero, sia che sia
parte del giudizio principale, sia che debba obbligatoriamente intervenire in
tale giudizio, può costituirsi nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale.
Quanto agli artt. 3 e 17 delle
previgenti norme integrative (attuali artt. 3 e 16), il pubblico ministero
rileva che essi si limitano a riferirsi alle "parti”, non facendo «altro che
presupporre una nozione aliunde determinata».
Essi, quindi, non ostano alle «conclusioni (favorevoli) raggiunte alla luce
degli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953».
Quanto alla peculiarità della posizione
ordinamentale e processuale del pubblico ministero, la difesa rileva che il
fatto che tale organo giudiziario, «secondo la nota formula dell’art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, debba vegliare "alla
osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia,
alla tutela dei diritti di stato, delle persone giuridiche e degli incapaci
[…]” è indiscutibile, ma costituisce un argomento estraneo al problema».
Infatti, «un conto è l’imparzialità istituzionale del pubblico ministero, un
conto la sua parzialità funzionale», avendo rilevanza nel processo costituzionale
solo tale ultimo profilo, in considerazione del fatto che i princípi
costituzionali di parità delle parti e del contraddittorio sono stati
inequivocabilmente introdotti nell’ordinamento con la legge costituzionale 23
novembre 1999, n. 2, entrata in vigore successivamente alle decisioni della
Corte costituzionale che negano al pubblico ministero la legittimazione a
costituirsi. Tali princípi – prosegue la difesa del
pubblico ministero – esistevano nel nostro ordinamento già prima, «ma com’è
noto, essi venivano desunti in giurisprudenza e in dottrina dall’art. 24 Cost. e quindi, come per tutti i diritti costituzionali
previsti in Costituzione, di essi erano (e sono) titolari solo i soggetti
privati, non i pubblici poteri. Conseguentemente sia il principio della parità
delle armi che il principio del contraddittorio avevano una portata
unidirezionale. Garantivano il cittadino, ma non la pubblica accusa nel
processo penale e non la p.a. nel processo amministrativo». Ne deriverebbe che
solo la nuova formulazione dell’art. 111 Cost.
garantisce al pubblico ministero una piena qualità di parte, sotto il profilo
della parità processuale e del contraddittorio, con la conseguenza che
A tali considerazioni si dovrebbe
aggiungere che nei casi – come quello di specie – in cui proprio il pubblico
ministero abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale di fronte
al giudice a quo, sarebbe irragionevole escluderlo dalla partecipazione
al giudizio costituzionale.
1.3.2. – Nel merito, il pubblico
ministero chiede che siano accolte le questioni proposte dal rimettente.
1.4. – È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, rilevando che: a) la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. è infondata, perché non si ha violazione del
giudicato costituzionale qualora, come nel caso di specie, «il quadro normativo
sopravvenuto, nel quale si inserisce la nuova disposizione, sia diverso da
quello della legge precedente dichiarata costituzionalmente illegittima»; b) la
questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost.
è «inammissibile e comunque infondata», per i motivi esposti nell’atto di
intervento nel procedimento r.o.
n. 398 del 2008.
1.5. – Con memoria depositata in
prossimità dell’udienza, la parte privata ha chiesto che venga dichiarata
inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, fondando la
sua richiesta essenzialmente su due assunti.
1.5.1. – Tale parte sostiene, in primo
luogo, che il pubblico ministero non è assimilabile alle altre parti del
giudizio a quo, rilevando che: a) l’art. 20, secondo comma, della legge
n. 87 del 1953 deve essere interpretato nel senso che esso contiene una
previsione generale, volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa
nel giudizio davanti alla Corte costituzionale; b) l’oggetto del giudizio
costituzionale incidentale è la conformità alla Costituzione o ad una legge
costituzionale di una norma avente forza di legge ed il contraddittorio in tale
giudizio si articola in «correlazione […] con le posizioni soggettive che
quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso
possono venir coinvolte» (secondo quanto affermato dalla sentenza della
Corte costituzionale n. 163 del 2005); c) dalla correlazione del
contraddittorio con le suddette "posizioni soggettive” deriva l’estraneità al
giudizio del pubblico ministero, perché quest’ultimo – anche in base all’art.
73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – «non rappresenta mai, per
definizione, una posizione soggettiva, intendendosi con questa espressione, un
interesse che non sia quello […] della conformità alla legge»; d) «la difesa di
una parte privata […] non può mai eccepire l’illegittimità costituzionale di
una norma che sia di favore al proprio assistito, e ciò per due ordini di
ragioni: in primis perché sarebbe carente di interesse (ma questo non
rileverebbe perché non si tratta di una impugnazione), ma in secondo luogo
perché risponderebbe del reato di patrocinio infedele ai sensi dell’art. 380
del codice penale, oltre che di grave illecito deontologico sanzionabile dal
punto di vista disciplinare»; e) il pubblico ministero, per contro, ha natura
di parte pubblica e ha «il diritto/dovere di eccepire l’incostituzionalità di
una norma sia a favore sia contro ciascuna delle parti», anche nel processo
civile; g) gli artt. 23 e 25 della legge n. 87 del 1953 – come interpretati
dalla sentenza
della Corte costituzionale n. 361 del 1998 – distinguono espressamente le
parti dal pubblico ministero, escludendo che quest’ultimo possa costituirsi nel
giudizio costituzionale.
1.5.2. – La stessa difesa sostiene, in
secondo luogo, che al giudizio costituzionale non si applica il principio di
parità delle parti davanti al giudice sancito dall’art. 111 Cost.,
non essendo
1.6. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il pubblico ministero del giudizio a quo insiste per l’accoglimento delle questioni proposte nell’ordinanza di rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di costituzione.
2. – Con ordinanza del 4
ottobre 2008 (r.o. n. 398 del 2008), nel corso di
un processo penale in cui è imputato anche l’on. Silvio Berlusconi, attuale
Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 68, 90, 96, 111, 112 e 138 Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008.
2.1. – In punto di rilevanza, il
rimettente premette che l’articolo censurato, imponendo la sospensione del
processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio dei ministri,
trova necessaria applicazione nel giudizio a quo.
Quanto alla non manifesta infondatezza
delle questioni, il giudice a quo osserva che, con la sentenza n. 24 del
2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003,
Secondo quanto riferito dal rimettente,
Sempre ad avviso del giudice a quo,
nella menzionata sentenza
n. 24 del 2004
Il rimettente ritiene che il legislatore,
nell’adottare la disciplina censurata – la quale prevede la sospensione dei
processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di
Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di
Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri
–, non abbia tenuto conto di quanto affermato nella citata sentenza n. 24 del
2004, anche perché ha sostanzialmente riprodotto le previsioni della legge
n. 140 del
2.1.1. – Sulla scorta di tali
considerazioni, il Tribunale sostiene che l’articolo denunciato si pone in
contrasto, in primo luogo, con l’art. 138 Cost.,
perché lo status «dei titolari delle piú alte
istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente costituzionale, e la
ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o differiscono nel tempo
la loro responsabilità si pongono quali eccezioni rispetto al principio
generale dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge previsto
dall’articolo 3 della Costituzione, principio fondante di uno Stato di
diritto».
2.1.2. – In secondo luogo, il giudice a
quo rileva la violazione dell’art. 3 Cost.,
perché le «guarentigie concesse a chi riveste cariche istituzionali risultano
funzionali alla protezione delle funzioni apicali esercitate», con la
conseguenza che la facoltà di rinunciare alla sospensione processuale
riconosciuta al titolare dell’alta carica si pone in contrasto con la tutela
del munus publicum,
attribuendo una discrezionalità «meramente potestativa» al soggetto
beneficiario, anziché prevedere quei filtri aventi caratteri di terzietà e
quelle valutazioni della peculiarità dei casi concreti che soli, secondo la sentenza n. 24 del
2004, potrebbero costituire adeguato rimedio rispetto tanto all’automatismo
generalizzato già stigmatizzato dalla Corte quanto «al vulnus al diritto
di azione». Lo stesso parametro costituzionale sarebbe, altresí,
violato, perché «il contenuto di tutte le disposizioni in argomento incide su
un valore centrale per il nostro ordinamento democratico, quale è l’eguaglianza
di tutti i cittadini davanti all’esercizio della giurisdizione penale».
2.1.3. – È denunciata, in terzo luogo,
la violazione degli artt. 3, 68, 90, 96 e 112 Cost.,
per la disparità di trattamento tra la disciplina introdotta per i reati extrafunzionali e quella, di rango costituzionale, prevista
per i reati funzionali delle quattro alte cariche in questione. Tale disparità
sarebbe irragionevole: a) per la mancata menzione dell’art. 68 Cost. fra le norme costituzionali espressamente fatte salve
dalla legge n. 124 del 2008; b) per il fatto che «il bene giuridico considerato
dalla legge ordinaria, e cioè il regolare svolgimento delle funzioni apicali
dello Stato, è lo stesso che
2.1.4. – Il rimettente ritiene, infine,
che la norma censurata violi l’art. 111 Cost., sotto
il profilo della ragionevole durata del processo, perché: a) una sospensione
formulata nei termini di cui alla disposizione denunciata, «bloccando il
processo in ogni stato e grado per un periodo potenzialmente molto lungo,
provoca un evidente spreco di attività processuale»; b) non essendo stabilito
alcunché «sull’utilizzabilità delle prove già assunte» né all’interno dello
stesso processo penale al termine del periodo di sospensione né all’interno
della diversa sede in cui la parte civile abbia scelto di trasferire la propria
azione, vi è la necessità per la stessa parte «di sostenere ex novo
l’onere probatorio in tutta la sua ampiezza».
2.2. – Si è costituito in giudizio il
suddetto imputato, svolgendo rilievi in parte analoghi a quelli svolti nella
memoria di costituzione nel procedimento r.o.
n. 397 del 2008 e osservando, in particolare, che la sospensione prevista
dalla disposizione censurata non è un’immunità. Secondo l’imputato, infatti,
l’immunità è una circostanza scriminante, che «tutela in via esclusiva, diretta
ed immediata, il sereno e libero esercizio della funzione esercitata,
garantendone l’autonomia da altri poteri», avendo ad oggetto comportamenti per
i quali «viene esclusa ogni responsabilità penale che mai ed in nessun tempo
può sorgere, né durante l’esercizio della funzione né in un momento
successivo». Riguardo ai reati extrafunzionali –
prosegue la difesa – «sussiste certamente una reviviscenza della astratta
punibilità, a carica scaduta, sia nel caso di immunità che nel caso di
sospensione. Ma la ratio di questi due istituti è altrettanto
pacificamente diversa, poiché la seconda tutela, in via principale, diretta ed
immediata, lo svolgimento di un giusto processo attraverso la protezione del
diritto di difesa, che del giusto processo è condizione ineliminabile, il quale
subisce un arresto temporaneo sino al momento in cui cessa la carica
esercitata, ossia la causa di legittimo impedimento a comparire».
2.2.1. – In relazione al principio di
uguaglianza, la difesa della parte privata premette che l’ordinamento penale
prevede molti casi in cui la diversità di trattamento dipende da profili
soggettivi (come, ad esempio, per i reati dei pubblici ufficiali o i reati
militari). Con particolare riferimento all’asserita violazione degli artt. 68,
90 e 96 Cost., rileva che tali parametri nulla hanno
a che vedere con l’articolo denunciato, perché essi sono «rivolti, in via
esclusiva, diretta ed immediata, a tutelare il sereno svolgimento delle
funzioni rispetto al potere giurisdizionale, e dunque per tutelare un interesse
pacificamente esterno al processo». In particolare, gli articoli 68 e 90 Cost. prevedrebbero una immunità di natura funzionale, che
«sottrae un soggetto alla giurisdizione, poiché comporta l’esclusione, che si
protrae ad infinitum, di ogni responsabilità
penale», mentre l’art. 96 Cost. «non prevede una
immunità ma una condizione di procedibilità, ossia «una ulteriore ipotesi […]
di blocco definitivo dell’esercizio del potere giurisdizionale, qui derivante
da una valutazione di un organo politico in merito alla sussistenza dei
presupposti». Differentemente, la sospensione temporanea del processo penale
prevista dalla disciplina denunciata «non è un istituto che esclude la
giurisdizione e nemmeno l’eventuale responsabilità penale, non tutela in via
diretta ed immediata un interesse esterno al processo ma un diritto inviolabile
interno ed immanente allo stesso. Di talché il giudizio verrebbe sí sospeso, ma pacificamente rinizierebbe
nel momento in cui cessi la causa che nega il suo intangibile diritto di
difesa, ossia il perdurare della carica». L’assoluta eterogeneità tra la norma
censurata e i menzionati parametri costituzionali sarebbe, inoltre, confermata
dall’espressa previsione della salvezza dei «casi previsti dagli articoli 90 e
96 della Costituzione», la quale avrebbe la funzione di «accompagnare
l’interprete nella direzione esattamente opposta a quella seguita dal giudice a
quo, avvertendo che i beni giuridici tutelati non sono gli stessi per i
quali è stata approvata la legge 124/08, non vi è perfetta comunanza di
finalità e nemmeno di ratio».
2.2.2. – In relazione al principio di
ragionevolezza, la parte privata rileva che, poiché la disciplina censurata è
volta a tutelare il diritto di difesa dell’imputato, è irrilevante la
differenza di trattamento fra reati funzionali ed extrafunzionali,
in quanto ogni volta che
In conclusione, pare razionale alla
difesa della parte che l’art. 96 Cost., in quanto
diretto a garantire il sereno svolgimento del potere esecutivo, accomuni in
un’unica disciplina coloro che esercitano lo stesso potere, sebbene con
funzioni diverse e in posizione differenziata. Pare ugualmente razionale che la
norma censurata, in quanto diretta a tutelare il diritto inviolabile alla
difesa personale nel processo, tenga conto, invece, «delle disposizioni
costituzionali, e della legge ordinaria di attuazione, che attribuiscono
espressamente rilevantissimi poteri-doveri politici al Presidente del Consiglio
dei ministri di cui è il solo responsabile, valutando dunque, in maniera
altrettanto ragionevole, che solo i suoi impegni possono configurare un
costante legittimo impedimento a comparire nel processo penale, diretto ad
accertare una responsabilità giuridica esclusivamente personale». E ciò anche
perché – ad avviso della stessa difesa – «
2.2.3. – La difesa passa, poi, a
trattare specificamente il profilo soggettivo della disciplina censurata,
sostenendo che il Presidente della Repubblica, i Presidenti del Senato della
Repubblica e della Camera dei deputati e il Presidente del Consiglio dei
ministri sono «accomunati da quattro caratteristiche: ricoprono posizioni di vertice
in altrettanti organi costituzionali, sono titolari di funzioni istituzionali
aventi natura politica, hanno l’incarico di adempiere peculiari doveri che
Secondo la difesa dell’imputato, «le
alte cariche indicate dalla legge 124/08 si trovano tutte in una posizione
nettamente differenziata rispetto agli altri componenti degli organi che
eventualmente presiedono». In particolare, il Presidente della Camera dei
deputati: a) convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per
eleggere il nuovo Presidente della Repubblica (art. 85, secondo comma, Cost.); b) indice la elezione del nuovo Presidente della
Repubblica (art. 86, secondo comma, Cost.); c)
convoca il Parlamento in seduta comune per l’elezione di un terzo dei giudici
della Corte Costituzionale (art. 135, primo comma, Cost.);
d) presiede le riunioni del Parlamento in seduta comune (art. 63, secondo
comma, Cost.); e) rappresenta
In conclusione – prosegue la difesa
dell’imputato – «nella logica della valorizzazione del dettato costituzionale,
dei regolamenti di attuazione, e delle indicazioni della Consulta, il
legislatore ha ragionevolmente ritenuto che solo gli impegni di codeste
peculiari alte cariche politiche possano prospettare un costante legittimo
impedimento a comparire nel processo penale, diretto ad accertare una
responsabilità giuridica esclusivamente personale, e che solo nei loro
confronti sorga l’esigenza di tutelarne, in maniera specifica, la serenità di
azione».
Quanto alla facoltà di rinuncia alla
sospensione prevista dal censurato comma 2 dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008, la parte privata sostiene che essa «dà la riprova che la ratio oggettivizzata in questo dettato legislativo è sí quella di tutelare, in via indiretta, un interesse
politico, ma soprattutto, in via diretta ed immediata, l’inviolabile diritto di
difesa. Altrimenti una facoltà di rinuncia non sarebbe stata prevista». Ne conseguirebbe
che «non vi è allora nessuna necessità di prevedere un filtro per la tutela di
tale primario diritto, poiché la normativa in esame costituisce concreta
attuazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione».
2.2.4. – In relazione alla questione
proposta in riferimento all’art. 138 Cost., la difesa
dell’imputato, dopo avere premesso quanto dedotto nella memoria depositata nel
procedimento r.o. n. 397 del 2008, passa ad esaminare le cause di
sospensione regolate da leggi ordinarie e dirette a determinate categorie o a
soggetti specificati per funzione, qualifica o qualità. Sostiene, sul punto,
che «è assolutamente pacifico e notorio che la massima parte delle attribuzioni
dei compiti e delle specificazioni in tema sono stati sempre posti in essere
mediante leggi ordinarie», anche perché le riserve di legge costituzionale
devono essere espressamente previste dalla Costituzione. Esistono infatti –
prosegue la difesa – numerose cause di sospensione del processo previste con
legge ordinaria «ed indirizzate a determinate categorie o a soggetti
specificati per funzione, qualifica o qualità, alcune delle quali sono dirette
alla tutela di un diritto immanente al processo, altre di un interesse
esclusivamente esterno», come, ad esempio: nel codice di procedura penale «gli
articoli 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477, e 479, cosí
come nel codice penale gli articoli 159 e 371-bis»; in materia tributaria,
«quei molteplici decreti legge convertiti i quali, in correlazione con il
condono previsto dagli stessi, disponevano una sospensione processuale
estremamente lunga»; l’art. 243 del codice penale militare di guerra, «ove la
sospensione è correlata alla condizione soggettiva di appartenenza a reparti
mobilitati»; «l’art. 28 del D.P.R. 22.9.1988 n.
2.2.5. – Quanto alla natura delle «cause
di sospensione derivanti dalla sussistenza di immunità internazionali», la
medesima difesa sostiene che esse non trovano copertura nell’art. 10 Cost., perché sono previste da trattati internazionali
recepiti con legge ordinaria e non dalle «norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute». Sostiene, inoltre, che esse sono «squisitamente
soggettive, ovvero strettamente correlate alla funzione svolta dal soggetto
interessato», come ad esempio quelle previste dall’art. 31, primo comma,
seconda parte, della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18
aprile 1961 e dall’art. 43, primo comma, della Convenzione di Vienna
sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963. Sostiene, infine, che le immunità
hanno natura sia funzionale, sia extrafunzionale, in
quanto coprono «tutti gli atti, compiuti come persona privata o come carica
pubblica da parte del soggetto immune, siano quelli privati, precedenti o
concorrenti, rispetto alla sua condizione di alto rappresentante dello Stato»,
come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia
e della Corte di cassazione e confermato dalla dottrina.
2.2.6. – Quanto al parametro dell’art.
112 Cost., la difesa dell’imputato sostiene che: a)
l’orientamento della Corte costituzionale, secondo cui fra il diritto di essere
giudicato e il diritto di autodifendersi deve ritenersi prevalente
quest’ultimo, si attaglia perfettamente alla sospensione prevista dalla norma
censurata; b) l’art. 112 Cost. non impone un’assoluta
continuità nell’esercizio dell’azione penale una volta che questa viene
avviata, essendo ben possibile che vengano meno eventuali condizioni di
procedibilità oggettive o soggettive; c) «l’obbligatorietà dell’azione penale
non nasce dal semplice fatto storico antigiuridico, ma dal medesimo fatto
connotato da una condizione di procedibilità ex officio o su impulso di
parte privata» e «il pubblico ministero ha sí
l’obbligo di esercitare l’azione penale, ma sempre che non vi siano cause
ostative o sospensive dell’azione stessa, che possono liberamente essere
fissate dal legislatore, purché non confliggano con i princípi
di uguaglianza e di ragionevolezza»; d) l’ordinamento prevede la querela e la
remissione di querela, oltre a fattispecie come l’immunità o l’estradizione,
nelle quali l’azione penale è preclusa «totalmente o parzialmente,
temporaneamente o definitivamente», nonché fattispecie in cui «alcuni fatti di
reato, pur nell’obbligatorietà dell’azione penale e nell’antigiuridicità della
condotta, sono perseguibili soltanto a richiesta del Ministro della giustizia»
o «se il soggetto agente si trovi nel territorio dello Stato, per i reati
commessi all’estero» (artt. 8, 9 e 10 cod. pen.); e)
l’art. 260 del codice penale militare di pace subordina la procedibilità di una
notevole serie di reati alla richiesta del comandante del corpo; f) l’art. 313
cod. pen. «subordina l’esercizio dell’azione penale
per una lunga serie di delitti, alcuni di non certo modesta gravità,
addirittura all’autorizzazione del Ministro della Giustizia» e tale disciplina
è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla sentenza n. 22 del
1959, con la quale si è affermato che «l’istituto della autorizzazione a
procedere trova fondamento nello stesso interesse pubblico tutelato dalle norme
penali, in ordine al quale il procedimento penale potrebbe qualche volta
risolversi in un danno piú grave dell’offesa stessa»;
g) nel caso in esame, «contrariamente a quanto accade con l’art. 313 c.p.,
ritenuto costituzionalmente corretto, non vi è una inibizione definitiva
dell’azione penale bensí soltanto una temporanea
sospensione del processo», con la conseguenza che «la giurisdizione potrà poi
effettivamente esplicarsi».
2.2.7. – Quanto alla violazione
dell’art. 111 Cost., prospettata dal rimettente sotto
il profilo della ragionevole durata del processo, la difesa dell’imputato
osserva che: a) la disposizione censurata «segue alla lettera le indicazioni
date da codesta Corte nella sentenza n. 24 del
2004, perché impedisce che la stasi del processo si protragga per un tempo
indefinito e indeterminabile e prevede espressamente, nel contempo, la non reiterabilità delle sospensioni»; b) la giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo e quella costituzionale hanno
riconosciuto la rilevanza del canone della ragionevole durata del processo,
chiarendo, però, che esso «non costituisce un valore assoluto, da perseguire ad
ogni costo»; c) in particolare,
Piú in particolare, in relazione al rilievo del
rimettente secondo cui «la sospensione cosí
formulata, bloccando il processo in ogni stato e grado per un periodo
potenzialmente molto lungo, provoca un evidente spreco di attività
processuale», la parte privata osserva che «l’istruttoria dibattimentale, per
quanto riguarda la posizione dell’esponente, non è affatto conclusa mancando
l’audizione del consulente tecnico di parte e l’audizione di numerosissimi
testimoni».
Quanto, poi, all’affermazione del
giudice a quo per cui «la norma [...] nulla dice sull’utilizzabilità
delle prove già assunte, che potrebbero venire del tutto disperse qualora, al
termine dell’eventualmente lungo periodo di operatività della sospensione
[...], divenisse impossibile la ricostruzione del medesimo collegio», la difesa
dell’imputato sostiene che si tratta di «una ipotesi del tutto potenziale e
futura», con conseguente inammissibilità, per difetto di rilevanza, della
relativa questione di legittimità costituzionale. In ogni caso – prosegue la
difesa dell’imputato – non si comprende «per quali ragioni sia oggi sostenibile
dal rimettente l’affermazione che non sarà possibile ricostituire il medesimo
collegio», considerato che «la permanenza nello stesso ufficio giudiziario per
la durata massima della carica di un Presidente del Consiglio dei ministri non
è certamente infrequente, anzi, e comunque vi è sempre la possibilità di
ricostituzione mediante le opportune applicazioni». Se poi lo stesso Tribunale,
nella sua composizione attuale, proseguirà nel giudicare il coimputato
pronunciando sentenza, «si porrà, qualsiasi sia la decisione, in una situazione
di assoluta incompatibilità sancita dal codice di rito». La rinnovazione
dell’istruttoria «non avrebbe in alcun modo l’effetto di porre nel nulla
l’attività sino a quel momento compiuta, la quale invece si riverserebbe nel
nuovo fascicolo del dibattimento» e sarebbero «poi le parti a dover decidere se
richiedere l’espletamento di tutti o parte degli incombenti dibattimentali,
fermo restando il contenuto del fascicolo del dibattimento».
Quanto, infine, alla mancata previsione
di una disciplina dell’utilizzabilità in sede civile delle prove già assunte
nel processo penale, la difesa dell’imputato ritiene che essa non comporta
alcun divieto di utilizzabilità delle prove stesse, perché trovano applicazione
le regole generali, «potendo cosí il giudice civile,
in piena autonomia, utilizzarle e valutarle come semplici indizi o come prova
esclusiva del proprio convincimento».
2.3. – Si è costituito il pubblico
ministero del giudizio a quo, nelle persone del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Milano e di un sostituto della stessa
Procura.
Il pubblico ministero sostiene
l’ammissibilità della sua costituzione in giudizio e chiede, nel merito, che
siano accolte le questioni proposte dal rimettente, svolgendo considerazioni
analoghe a quelle contenute nella memoria depositata nel procedimento r.o.
n. 397 del 2008.
2.4. – È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato.
2.4.1. – La difesa erariale rileva, in
primo luogo, che la questione proposta in riferimento all’art. 138 Cost. è «inammissibile e comunque infondata», perché la
disposizione censurata ha la funzione di tutelare il sereno svolgimento delle
rilevanti funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato e la «materia,
considerata di per sé, non è preclusa alla legge ordinaria», come confermato
dal fatto che altre fattispecie di sospensione sono disciplinate dal codice di
procedura penale. «Il fatto che nella Costituzione si trovino alcune
"prerogative” degli organi costituzionali» – prosegue l’Avvocatura generale –
«non significa che non ne possano essere introdotte altre con legge ordinaria,
ma solo che le prime costituiscono deroghe a princípi
o normative posti dalla Costituzione stessa e che quindi solo nella
Costituzione possono trovare deroghe». Del resto – secondo la stessa difesa –
«per dimostrare la necessità della legge costituzionale si sarebbe dovuto
indicare l’interesse incompatibile, garantito dalla Costituzione, rispetto alla
quale la norma avrebbe dovuto costituire una deroga», mentre il rimettente non
ha indicato parametri costituzionali diversi dall’art. 138 Cost,
«perché in effetti non ce ne sono di utilizzabili». Tale conclusione troverebbe
conferma nella sentenza
n. 24 del 2004, avente ad oggetto la legge n. 140 del 2003, con cui
2.4.2. – In secondo luogo, la difesa
erariale sostiene che la questione sollevata con riferimento all’art. 112 Cost. «è inammissibile in quanto non compiutamente motivata
(e comunque è manifestamente infondata in quanto, all’evidenza, la meramente
disposta sospensione del processo […] non incide, limitandola, sulla
obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da parte del P.M.), al pari di
quella prospettata con riferimento all’art. 68 Cost.
(essendo le ragioni accennate nella ordinanza nella stessa non sviluppate,
anche per quanto attiene alla rilevanza nel giudizio a quo)».
2.4.3. – In terzo luogo, quanto alla
pretesa violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla
giurisdizione penale, l’Avvocatura generale rileva che sussiste una «posizione
particolarmente qualificata delle alte cariche contemplate dalla norma in
discussione, nella considerazione della possibile compromissione dello
svolgimento delle elevate funzioni alle stesse affidate anche per la
inovviabile risonanza, anche mediatica, ed in termini non limitati all’interno
del Paese, dello svolgimento del processo penale a loro carico durante il
periodo in cui le stesse funzioni sono esercitate». La deroga alla
giurisdizione prevista dalla norma denunciata sarebbe, del resto,
«proporzionata ed adeguata alla finalità perseguita, in termini sia di prevista
predeterminata e non reiterabile durata della sospensione […], sia di
consentita rinuncia dell’interessato […] sia, infine di tutela efficace ed
"immediata” delle ragioni della eventuale parte civile».
2.4.4. – In quarto luogo, sempre ad
avviso della difesa erariale, la norma censurata non è irragionevole, perché,
«in una logica conseguente ad una ponderazione e ad un bilanciamento degli
interessi "in giuoco”, non è certo arbitrario che la stessa sottoposizione alla
giurisdizione ordinaria del Presidente del Consiglio dei ministri per reati
commessi nell’esercizio delle proprie funzioni sia costituzionalmente garantita
dalla prevista autorizzazione del Parlamento, chiamato perciò a previamente
valutare se la condotta sia meritevole di essere sottoposta all’esame del
giudice ordinario, avanti al quale la ipotizzata immediatezza del perseguimento
del reato funzionale trova la sua giustificazione nella preminente rilevanza
istituzionale degli interessi di carattere generale coinvolti ed incisi dalla
contestata condotta (rilevanza che, contrariamente a quanto assume il
rimettente, non va valutata solo in termini di pena conseguente). All’incontro,
la stessa esigenza non è comunque prospettabile con riferimento ai reati
"comuni”, per i quali il processo è promosso dal P.M., senza necessità di alcun
previo "filtro politico”, e per il quale è prevista solo la sua sospensione,
temporanea e predeterminata, nella ragionevole e su evidenziata considerazione
del "pregiudizio” del suo svolgimento sull’esercizio delle funzioni
istituzionali proprie dell’alta carica». Non sarebbe, del pari, irragionevole
la «disposta limitazione della sospensione, tra gli Organi di governo, al solo
Presidente del Consiglio […], poiché è indiscutibile la posizione
costituzionalmente differenziata del primo rispetto agli altri componenti del
Governo, spettando al Presidente (art. 95 Cost.) il
dirigere la politica generale del Governo, essendone il responsabile, e il
mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e
coordinando l’attività dei Ministri».
2.4.5. – In quinto luogo, non
sussisterebbe neppure la prospettata violazione del principio della ragionevole
durata del processo di cui all’art. 111 Cost.,
perché: da un lato, «la previsione, da parte della legge ordinaria, di cause
che comportano, per ragioni oggettive o soggettive, il temporaneo arresto del
normale svolgimento del processo penale […] non mette in crisi il menzionato
principio della ragionevole durata; d’altro lato, la temporanea sospensione del
processo, quale delineata e come sopra "conformata" con la
disposizione in discussione, è congruamente e ragionevolmente finalizzata ad
evitare il rischio che sia pregiudicato il corretto e sereno esercizio delle
eminenti funzioni pubbliche delle quale sono investite le alte cariche ivi
considerate».
2.4.6. – In sesto luogo, non pare
decisivo alla difesa erariale «l’ulteriore rilievo della ordinanza che
evidenzia la carenza di esplicita previsione circa la utilizzabilità
nell’ulteriore fase del processo dei mezzi di prova già assunti», perché «la
disposizione de qua nulla espressamente dispone al riguardo» e spetterà
al giudice a quo «motivatamente optare per una non preclusa e perciò
possibile interpretazione dell’art. 511 c.p.p. che, tenendo conto della
"particolarità” del regime predisposto con la disposizione in discussione,
consenta comunque […] la utilizzazione delle prove già assunte nella precedente
fase».
2.5. – Con memoria depositata in
prossimità dell’udienza, la parte privata chiede che venga dichiarata
inammissibile la costituzione in giudizio del pubblico ministero, svolgendo
rilievi analoghi a quelli contenuti nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza nel procedimento r.o.
n. 397 del 2008.
2.6. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il pubblico ministero del giudizio a quo insiste per l’accoglimento delle questioni proposte nell’ordinanza di rimessione, ribadendo le argomentazioni già svolte nella memoria di costituzione.
3. – Con ordinanza del 26
settembre 2008 (r.o. n. 9 del 2009), nel corso di
un procedimento penale in cui è sottoposto alle indagini, tra gli altri, l’on.
Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Giudice
per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma ha sollevato, in
riferimento agli articoli 3, 111, 112 e 138 Cost.,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 124 del
2008.
3.1. – In punto di fatto, il rimettente
premette che: a) «in data 4 luglio 2008 il p.m. ha avanzato richiesta di
proroga dei termini di scadenza delle indagini preliminari (art. 406 c.p.p.)
per il periodo di sei mesi, nell’àmbito del procedimento iscritto al n. 1349/08
del Registro delle notizie di reato»; b) «decorso il periodo di sospensione
feriale dei termini di cui alla legge n. 742/1969, questo giudice si è trovato
nella necessità di procedere alla notificazione della richiesta del p.m. agli
indagati, in vista dell’instaurazione del contraddittorio cartolare di cui
all’art. 406, comma 3 c.p.p. che in via eventuale può instaurarsi prima della
relativa decisione»; c) in data 23 luglio 2008 è stata approvata dal Parlamento
la norma censurata, il cui comma 1 impone la sospensione generale ed automatica
dei processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di
Presidente della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica e di Presidente del Consiglio dei ministri dalla data
di assunzione e fino alla cessazione della carica, anche per processi penali
relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione.
Quanto alla rilevanza delle sollevate
questioni, il giudice a quo osserva che, anche se la locuzione «processi
penali», adoperata dal censurato comma 1, «lascerebbe intendere la non
operatività della legge per le fasi anteriori al giudizio propriamente inteso,
da celebrarsi cioè in pubblico dibattimento», un’attenta analisi del dato
normativo non autorizza una tale interpretazione restrittiva. E ciò perché –
prosegue il giudice a quo – il successivo comma 7 stabilisce che «le
disposizioni del presente articolo si applicano anche ai processi penali in
corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della
presente legge». Secondo lo stesso rimettente, «se è certamente concepibile la
circostanza che un processo, inteso come procedimento pervenuto alla fase del
dibattimento pubblico, possa pendere in diversi gradi (primo, secondo, di
legittimità) e se è certamente possibile individuare all’interno dei gradi, diversi
stati (quelli ad es. degli atti preliminari al dibattimento di primo, artt.
465-469 c.p.p. e di secondo grado, art. 601 c.p.p.; atti successivi alla
deliberazione della sentenza di primo grado, artt. 544-548 c.p.p.; atti
preliminari alla decisione del ricorso per Cassazione, art. 610 c.p.p.), non è
invece giuridicamente ipotizzabile per il giudizio dibattimentale una fase che
non sia quella in cui lo stesso è per l’appunto pervenuto». Ciò dimostrerebbe
«il carattere atecnico della locuzione adoperata
(processo) che copre in realtà e come del resto espressamente enunciato, ogni
fase, stato e grado del procedimento», anche perché altrimenti la previsione di
legge sarebbe priva di rilevanza «dispositiva, precettiva o anche solo
ermeneutica». Un ulteriore argomento testuale a favore dell’applicabilità della
disciplina denunciata anche alla fase delle indagini preliminari si rinverrebbe
nel disposto del censurato comma 3, il quale stabilisce che la sospensione non
impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi
degli articoli 392 e 467 cod. proc. pen., per l’assunzione delle prove non rinviabili. Tale
previsione comporta – sempre secondo il rimettente – due necessarie
implicazioni: a) la sospensione riguarda anche fasi precedenti il processo
inteso come giudizio dibattimentale pubblico, dal momento che solo nel corso
della fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare è consentito
il ricorso alla acquisizione anticipata delle prove mediante incidente
probatorio; b) nella fase delle indagini preliminari è vietata, in linea
generale, la raccolta delle prove e, al fine di permettere la celebrazione del
futuro processo che potrebbe avere luogo alla scadenza del periodo di durata
della carica dei soggetti considerati, è necessario ricorrere allo strumento
dell’incidente probatorio. In particolare, il giudice a quo osserva che,
«ove […] il legislatore avesse voluto consentire […] la raccolta delle prove
anche nella fase delle indagini preliminari, nulla avrebbe detto al riguardo,
laddove si è invece sentito in dovere di indicare espressamente le eccezioni
[…] al principio […] di vietare ogni acquisizione probatoria nei procedimenti a
carico dei soggetti che ricoprono le cariche pubbliche».
3.1.1. – Sul piano comparatistico, il
rimettente osserva che la disposizione censurata costituisce «un unicum»
rispetto a quanto previsto da altri ordinamenti e ricorda che «solo le
Costituzioni di pochi Stati (Grecia, Portogallo, Israele e Francia) prevedono
l’immunità temporanea per i reati comuni; essa è peraltro limitata alla figura
del Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale». La stessa
regola – prosegue il giudice a quo – non vale, invece, per i Presidenti
del Parlamento né tanto meno per il Capo dell’esecutivo, per il quale
l’immunità non è «mai estesa ai reati comuni» e «passa attraverso la tutela del
mandato parlamentare che quasi sempre […] si cumula nella figura del premier,
sotto forma di previsione di autorizzazioni a procedere concesse da organi
parlamentari (Spagna), Corti costituzionali (Francia) o tribunali comuni (Stati
Uniti)». Alla stessa logica sarebbero poi ispirate le soluzioni normative
proprie di quei sistemi costituzionali «che prevedono fori speciali o
particolari condizioni di procedibilità (in genere ed ancora: autorizzazione a
procedere della Camera di appartenenza) per l’esercizio dell’azione penale nei
confronti di alcune alte cariche dello Stato, per reati sia comuni che connessi
all’esercizio delle funzioni (come ad es. in Spagna nei confronti del Capo del
Governo e dei Ministri), mantenendo comunque la facoltà per
3.1.2. – Tanto premesso, il rimettente
afferma che la disposizione denunciata víola, in
primo luogo, l’art. 138 Cost., perché «la deroga al
principio di uguaglianza dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata […]
introdotta con lo strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle
fonti si colloca evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge
costituzionale, la quale […] è stata di per sé già ritenuta insuscettibile di
alterare uno dei connotati fondamentali dell’ordinamento dello Stato espresso
dal suddetto principio».
Rileva il giudice a quo che, «anche
solo per disciplinare l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei soggetti
rivestiti della carica di Ministri (tra cui lo stesso Presidente del Consiglio)
in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle relative finzioni, il
legislatore è ricorso allo strumento della legge costituzionale (legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1), in funzione derogatoria, tra
gli altri, proprio dell’art. 96 Cost.». Il silenzio
serbato sul punto dalla sentenza n. 24 del
2004, avente ad oggetto l’analoga disciplina della legge n. 140 del 2003,
non può «valere come precedente a favore della costituzionalità della scelta
dello strumento normativo allora come oggi adottato, dal momento che gli
effetti delle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale delle
disposizioni di legge sottoposte a scrutinio sono quelli espressamente previsti
dagli artt. 27 e 30 legge 11 marzo 1953, n. 87, e non si estendono anche alle
questioni meramente deducibili».
3.1.3. – È dedotta, in secondo luogo, la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., sul rilievo che la disciplina crea «"un regime differenziato riguardo alla giurisdizione [...] penale” (sent
. Cost. n. 24/2004