SENTENZA N. 23
ANNO 2011
Commenti
alla decisione di
I. Tommaso F. Giupponi, L'illegittimo
impedimento e la tutela della funzione di governo, tra vecchi e nuovi conflitti,
per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali
II. Glauco Nori, Dopo
la sentenza sul legittimo impedimento: la ricerca di un punto di equilibrio,
per gentile concessione del Forum
di Quaderni costituzionali
III. Stefano Maria
Cicconetti, L’equivoco dell’art. 138
come parametro di legittimità costituzionale, nella Rubrica Studi di Consulta OnLine
IV. Alessandro Pace, La svolta della Corte
costituzionale in tema di legittimo impedimento e l’ambiguo richiamo all’art.
138 Cost., nella Rubrica Studi di Consulta OnLine
V. Francesco Gabriele, Ancora
sull’art. 138 Cost. come parametro violato (questa volta dal "legittimo
impedimento”), per gentile concessione del Forum di Quaderni costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria
Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo
Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni
in materia di impedimento a comparire in udienza) promossi dal Tribunale di
Milano, sezione I penale e sezione X penale, con ordinanze del 19 e del 16
aprile 2010 e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
Milano con ordinanza del 24 giugno 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 173, 180 e 304 del registro ordinanze 2010 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
24 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti gli atti di costituzione di S.B. nonché gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica
dell’11 gennaio 2011 il Giudice relatore Sabino Cassese;
uditi gli avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo per S.B. e gli avvocati dello Stato
Michele Dipace e Maurizio Borgo per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1. – Il Tribunale di
Milano, sezione I penale, con ordinanza del 19 aprile 2010 (reg. ord. n. 173
del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo
1, commi 1, 3 e 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni
in materia di impedimento a comparire in udienza), per violazione dell’art. 138
della Costituzione.
1.1. – Il collegio
rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha
dedotto e documentato, per l’udienza del 12 aprile 2010, un legittimo
impedimento a comparire, consistente nell’impegno dell’imputato stesso a
svolgere, nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei ministri, un
viaggio di Stato. Il Tribunale riporta inoltre che, a fronte della richiesta di
ulteriori date utili per la prosecuzione del giudizio, la difesa dell’imputato,
ai sensi della disciplina censurata, ha formulato richiesta di rinvio al 21
luglio 2010, producendo attestazione del Segretario generale della Presidenza
del Consiglio dei ministri di impedimento continuativo dell’imputato motivato
mediante riferimento esemplificativo a plurime attività governative da svolgere
nel periodo intercorrente fra il 9 aprile e il 21 luglio 2010.
Il giudice a quo espone che il
pubblico ministero si è opposto alla richiesta di rinvio, sulla base di una
interpretazione logica e sistematica della disciplina censurata, tale da
consentire al giudice di valutare l’assolutezza dell’impedimento a comparire
dedotto dal Presidente del Consiglio dei ministri. In particolare, secondo
l’interpretazione proposta dal pubblico ministero, «la mera attestazione di un
impegno continuativo e correlato all’esercizio delle funzioni» indicate dalla
disciplina censurata «non precluderebbe al giudice l’accertamento della
sussistenza in concreto dell’assoluto impedimento a comparire dell’imputato per
il periodo indicato nell’attestazione» stessa. In subordine, secondo quanto
riferisce il Tribunale rimettente, il pubblico ministero ha dedotto
l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nell’ipotesi in cui essa
dovesse intendersi come preclusiva di un sindacato del giudice in ordine alla
sussistenza in concreto del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ad avviso del giudice a quo, l’interpretazione
del pubblico ministero non può essere condivisa, in quanto la disciplina
censurata qualifica come legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420-ter del
codice di procedura penale, «non solo le varie attribuzioni previste dalle
leggi o dai regolamenti con riguardo alla funzione ministeriale», ma anche le
relative «attività preparatorie e consequenziali», nonché ogni «attività
comunque coessenziale alle funzioni di governo», imponendo, inoltre, il rinvio
del processo ove
Alla luce di tali circostanze, il
Tribunale rimettente ritiene che la disciplina censurata non si limiti
«ad integrare la previsione di cui all’art. 420-ter del c.p.p.»,
introducendo «casi ulteriori di legittimo impedimento legati a situazioni
specificamente individuate» e tipizzando «taluni atti o attività di governo
come integranti la fattispecie legale di impedimento», ma sostanzialmente identifichi
l’intera attività di governo «(peraltro mediante un meccanismo di
autocertificazione) con l’assoluta impossibilità a comparire». Ciò si traduce,
ad avviso del giudice a quo, nella privazione del potere-dovere del
giudice di verificare la sussistenza dell’impedimento con riferimento ad uno
specifico impegno correlato alla singola udienza. In altri termini – osserva
ancora il collegio rimettente – la definizione di legittimo impedimento di cui
alla disciplina censurata è talmente ampia e generica da risolversi in una
«presunzione assoluta di impedimento», considerata quale situazione legata non
già ad un «fatto contingente», ma ad uno «status permanente», con
conseguente venir meno della possibilità del giudice di accertare la
«sussistenza in concreto» dell’impedimento stesso.
L’impossibilità di seguire
l’interpretazione proposta dal pubblico ministero rende rilevante, ad avviso
del Tribunale rimettente, la questione di legittimità costituzionale della
disciplina censurata. Secondo il giudice a
quo, tale questione sarebbe non manifestamente infondata, dal momento che
«le disposizioni in esame, introducendo una presunzione iuris et de iure
di impedimento continuativo per un lungo periodo di tempo connessa alle
funzioni di governo si sostanziano in una norma di status derogatoria
dell’ordinaria giurisdizione e dunque in una prerogativa che richiede una
copertura costituzionale».
Ad avviso del Tribunale rimettente,
infatti, la disciplina censurata, stabilendo a priori e in modo
vincolante che la titolarità e l’esercizio di funzioni pubbliche costituiscono
sempre legittimo impedimento per rilevanti periodi di tempo, prescindendo da
qualsiasi valutazione del caso concreto, si tradurrebbe nella «statuizione di
una vera e propria prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a
tutelarne non già il diritto di difesa nel processo bensì lo status o la
funzione», realizzandosi, in tal modo, «la medesima situazione già analizzata
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 262 del
2009». Inoltre, secondo il giudice a
quo, la circostanza che la stessa legge censurata indichi espressamente la
propria «funzione di legge ponte», in vista della successiva entrata in vigore
di una organica disciplina costituzionale delle prerogative del Presidente del
Consiglio dei ministri e dei ministri, ne renderebbe esplicita «la ratio
di anticipazione di una disciplina innovativa in una materia che deve essere
necessariamente introdotta con procedimento costituzionale» e confermerebbe,
quindi, la violazione dell’art. 138 Cost.
1.2. – È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità
costituzionale sollevata sia dichiarata non fondata.
1.2.1. – Secondo l’Avvocatura generale
dello Stato, il giudice a quo deduce l’illegittimità costituzionale
della disciplina censurata erroneamente presupponendo che essa introduca una prerogativa
o immunità in favore del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri,
ciò che, per pacifica giurisprudenza costituzionale, potrebbe avvenire solo
mediante legge costituzionale. In realtà, ad avviso della difesa dello Stato,
la finalità delle disposizioni oggetto di censura, come emergerebbe anche dai
lavori preparatori, sarebbe quella di «identificare normativamente le attività,
esercitate da soggetti che rivestono cariche pubbliche di rilievo
costituzionale, che costituiscono impedimento a comparire nelle udienze del
procedimento penale nel quale risultano imputati». Tali disposizioni – osserva
l’Avvocatura generale dello Stato – sono quindi dirette ad integrare la
disciplina generale contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen. e a «tipizzare gli atti, o meglio le attività di
governo, che si traducono in altrettante fattispecie di legittimo impedimento».
Simile tipizzazione legislativa si rivelerebbe necessaria, secondo il punto di
vista della difesa dello Stato, allo scopo di adattare le soluzioni indicate da
questa Corte con riferimento all’impedimento a comparire dei membri del
Parlamento (sentenza
n. 225 del 2001, secondo cui in particolare il giudice «ha l’onere di programmare
il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di
riunione degli organi parlamentari») alla diversa fattispecie del legittimo
impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, le cui
attività, rispetto a quelle dei parlamentari, «si svolgono con modalità e
cadenze temporali […] più eterogenee e non facilmente preventivabili» e sono
«più soggett[e] a variazioni, atteso che l[e] stess[e] dev[ono]
tenere conto di svariate evenienze». L’intervento legislativo della cui
legittimità si dubita, secondo la difesa dello Stato, sarebbe dunque rivolto a
tipizzare, anche a fini di certezza del diritto e allo scopo di evitare
divergenti interpretazioni giurisprudenziali, «le ipotesi in cui lo svolgimento
dell’attività governativa rende assolutamente impossibile, al Presidente del
Consiglio dei Ministri e ai Ministri», la comparizione in giudizio, in quanto
essa precluderebbe «lo svolgimento di attività istituzionali non delegabili».
L’Avvocatura generale dello Stato
ritiene, inoltre, che la disciplina censurata, a differenza della legge 23
luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale
nei confronti delle alte cariche dello Stato), non determini «in via
automatica» la sospensione del processo. In primo luogo, essa si limiterebbe a
consentire all’imputato di ottenere, «volta per volta», il rinvio dell’udienza.
In secondo luogo, le funzioni di governo in grado di giustificare la richiesta
di rinvio troverebbero un «esplicito fondamento normativo in fonti di rango
primario o secondario» espressamente richiamate, o sarebbero comunque
«adeguatamente determinate e agevolmente individuabili atteso il loro carattere
strettamente strumentale rispetto a quelle specificamente indicate con il richiamo
delle rispettive fonti normative» (attività preparatorie, consequenziali o
comunque coessenziali alle funzioni di governo). Infine, il giudice non sarebbe
privato del potere di accertare «la sussistenza in concreto» del legittimo
impedimento, perché egli potrebbe comunque valutare «se l’attività governativa
dedotta quale legittimo impedimento rientri fra le ipotesi previste dalle
disposizioni» censurate. Al giudice, pertanto, resterebbe solo precluso il
potere di «sindacare se le attività istituzionali indicate» da tali
disposizioni siano, «una volta provatane in fatto l’esistenza, causa di
legittimo impedimento»: se così non fosse, si avrebbe, ad avviso
dell’Avvocatura generale dello Stato, un inammissibile sindacato del giudice
penale sulle ragioni politiche sottese all’esercizio delle attività
istituzionali degli organi costituzionali.
La difesa dello Stato esclude, quindi,
che la disciplina censurata costituisca, come invece affermato dal giudice a
quo, una prerogativa o immunità tale da richiedere copertura
costituzionale. Si tratterebbe, invece, di un intervento legislativo di
«modulazione» dell’istituto generale del legittimo impedimento, che, in
definitiva: «non comporta esenzione dalla giurisdizione penale»; «non prevede
una sospensione generale e automatica del procedimento penale»; «ha, quale
unico effetto processuale, quello del rinvio del processo ad altra udienza su
richiesta di parte»; prevede un rinvio che «non ha una durata indeterminata» e,
nell’ipotesi di impedimento continuativo, comunque «non può essere superiore a
sei mesi»; «non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento, ma
soltanto l’indicazione di categorie di attività istituzionali che possono
comportare la richiesta del rinvio dell’udienza a tutela del diritto di difesa
dell’imputato in coerenza con l’esercizio dei propri doveri costituzionali»;
«contiene un ragionevole bilanciamento dei due valori costituzionali, quello
dell’esercizio della giurisdizione e quello dell’esercizio delle attività
politico-istituzionali dei membri del Governo, senza far prevalere l’uno
sull’altro e soprattutto senza sacrificarne nessuno».
Né può sostenersi, secondo la difesa
dello Stato, che il rinvio effettuato dall’art. 2 della legge n. 51 del 2010 ad
una successiva organica disciplina costituzionale delle prerogative del
Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri dimostri il carattere di
prerogativa di quanto disposto dalla disciplina censurata. Tale richiamo, ad
avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, «vuol significare soltanto che –
correttamente – sarà una legge costituzionale a disciplinare le vere
prerogative dei membri del Governo», mentre, fino a quel momento, «rimarranno
in vigore specifiche previsioni di legge ordinaria (come quella in esame)
inerenti a specifici aspetti della materia che al concetto di prerogativa non
sono certo riconducibili». Del resto, il disegno di legge costituzionale
effettivamente presentato (A.S. n. 2180, recante «Disposizioni in materia di
sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato»),
costituisce, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, un intervento
legislativo che ha un contenuto ben diverso rispetto a quello della disciplina
censurata. Il disegno di legge, infatti, disporrebbe «la sospensione della
giurisdizione nei confronti delle alte cariche dello Stato al fine di fornire
una obiettiva protezione del regolare svolgimento delle attività connesse alla
carica stessa». La legge n. 51 del 2010, invece, prevederebbe
un impedimento a comparire «in caso di concomitante esercizio di una o più
attribuzioni previste dalle leggi e dai regolamenti» per le alte cariche, senza
«sospende[re] l’esercizio della giurisdizione», né «crea[re] un particolare status giuridico per tale carica», ma
limitandosi a disporre un «rinvio dell’udienza con conseguente sospensione
della prescrizione per l’intera durata del rinvio».
Infine, secondo l’Avvocatura generale
dello Stato, la scelta normativa, «particolarmente stigmatizzata dal giudice a quo», di attribuire alla Presidenza
del Consiglio dei ministri il compito di attestare la continuatività
e la correlazione con lo svolgimento delle funzioni governative
dell’impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, troverebbe invece
giustificazione «nella necessità ed opportunità di attribuire tale delicato
compito ad un soggetto […] distinto rispetto al Presidente del Consiglio dei
Ministri coinvolto nel processo penale come imputato», mentre sarebbe stato
«irragionevole» lasciare a quest’ultimo «il compito di autocertificare che
l’impedimento presenta carattere continuativo».
1.2.2. – In data 23 novembre 2010,
l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, per il Presidente del
Consiglio dei ministri, memoria illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con
l’atto di intervento e insistendo per l’inammissibilità e l’infondatezza della
questione di legittimità costituzionale sollevata.
La difesa dello Stato deduce
l’inammissibilità della questione sostenendo, in primo luogo, che l’ordinanza
di rimessione non preciserebbe i fatti del processo a quo, né indicherebbe i reati per i quali esso viene celebrato, in
tal modo non permettendo a questa Corte di valutare la rilevanza della
questione, se non violando il principio di autosufficienza dell’atto di
rimessione. Il giudice rimettente, in secondo luogo, ad avviso della difesa
statale, non avrebbe «spiegato perché non potesse decidere sulla richiesta di
rinvio dell’udienza, formulata dalla difesa dell’imputato […] in quanto
quest’ultimo era assolutamente impossibilitato a presenziare alla medesima
udienza per legittimo impedimento concretatesi in impegni istituzionali
specificamente indicati dall’attestazione del Segretario generale della
Presidenza del Consiglio dei ministri e facilmente accertabili da parte del
Tribunale indipendentemente dalla risoluzione della pregiudiziale
costituzionale avente ad oggetto l’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51
del 2010». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, quindi, il giudice a quo non avrebbe fornito alcuna
giustificazione in relazione al fatto che l’istanza difensiva non potesse
essere valutata e decisa alla stregua della disciplina di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen.
La questione, pertanto, sarebbe stata proposta non all’esito della necessaria
verifica della sua rilevanza, bensì «per sindacare la legittimità
costituzionale di una norma di legge senza fornire la prova della incidenza
della stessa in concreto sul processo in corso».
Nel merito, la difesa dello Stato
ribadisce quanto dedotto nell’atto di intervento, rimarcando che le
disposizioni della legge n. 51 del 2010 non si discosterebbero dalla logica
dell’art. 420-ter cod. proc. pen., «di cui precisano soltanto alcune fattispecie di
impedimento e pertanto non hanno la finalità di proteggere la funzione
pubblica, in sé e per sé considerata, creando una prerogativa ovvero
un’immunità per specifici imputati, ma sono volte a tutelare il diritto di
difesa dell’imputato che in un determinato periodo di tempo (es. giorno
dell’udienza) è impedito a partecipare al processo per un proprio impegno
istituzionale non prorogabile». La normativa censurata, secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, non introduce alcuna forma di immunità, ma «specifica,
tipizzandola (e, peraltro, riducendola significativamente)» la portata
dell’istituto dell’impedimento a comparire già previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen.
Né potrebbe dirsi, sostiene la difesa dello Stato, che si sia dinanzi a una
presunzione iuris et de iure, in base
alla quale la legge n. 51 del 2010 avrebbe privato il giudice del potere di
qualsiasi valutazione con riferimento al caso concreto, dal momento che «il
giudice è tenuto ad accertare quando ricorrono le ipotesi previste dall’art. 1,
comma 1, della legge e rinviare il processo solo accertata la sussistenza di
tali casi».
1.3. – Si è costituito
in giudizio, con atto depositato in data 5 luglio 2010, l’imputato nel giudizio
principale, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata
sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
1.3.1. – L’imputato nel giudizio
principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione
sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del
giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne
compiutamente la rilevanza. Egli nega che, in relazione alle norme processuali,
risulti attenuato l’obbligo del giudice a
quo di descrivere puntualmente la fattispecie sottoposta al suo esame e
comunque ritiene che, ove pure si volesse aderire a tale tesi, la mancata
descrizione della fattispecie sarebbe, nel caso in esame, così «drastica» da
determinare comunque l’inammissibilità della questione. Sostiene la parte
privata, infatti, che l’ordinanza di rimessione: non chiarisce a quali reati si
riferisce l’imputazione, né dove e quando gli stessi sarebbero stati commessi,
né se siano contestate ipotesi di concorso con altre persone; non fornisce una
puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione
» della norma censurata; non indica lo stato in cui si trova il processo che si
sta celebrando dinanzi al giudice a quo.
Ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di
autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui
L’imputato nel giudizio principale,
inoltre, deduce, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della
rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente, per
aversi la quale sarebbe «necessario che l’interpretazione non costituzionale
della legge, oltre ad essere l’unica possibile, supporti ed orienti
l’applicazione che nel medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne».
Ciò non accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato,
all’udienza del 12 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo
impedimento per il giorno stesso, rappresentato da un viaggio di Stato a
Washington D.C., negli Stati Uniti d’America, e, dall’altro lato, ha prodotto
attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei
ministri di legittimo impedimento continuativo fino al successivo 21 luglio.
Alla luce di tali circostanze, secondo
l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per
due ragioni.
In primo luogo, la questione sarebbe
stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva
applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza
dell’impedimento puntuale, valevole hic
et nunc per l’udienza del 12 aprile 2010, dato
dal viaggio di Stato a Washington». L’imputato nel giudizio principale
chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri è
stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i
giorni del 21 e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non
avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e
quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della
disciplina censurata.
In secondo luogo, l’imputato nel
giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la mera esibizione
dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa,
pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno
dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si è limitata
ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di
tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla
disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe avuto quindi, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la
questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in
relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè di una
disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre mesi, mentre il
giudice a quo – rileva la parte
privata - «discetta in astratto di "rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe
essere fatto valere il legittimo impedimento».
Nel merito, l’imputato nel giudizio
principale ritiene che il Tribunale rimettente abbia sollevato la questione di
legittimità costituzionale della disciplina censurata sulla base dell’erroneo
presupposto che essa abbia introdotto un meccanismo che, «al di là
dell’evocazione del nomen di
legittimo impedimento, costituirebbe in realtà una prerogativa connessa alla
carica costituzionale di Presidente del Consiglio dei ministri e richiederebbe
pertanto una fonte di rango costituzionale».
Innanzitutto, la circostanza su cui il
Tribunale rimettente fonderebbe questo assunto, cioè l’asseritamente
prevista sottrazione del potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza
dell’impedimento, è negata dall’imputato nel giudizio principale. Questi
infatti osserva come «nulla viet[i] al giudice, al
quale venga esibita l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri»
di cui alla disciplina censurata, «sia di controllare l’autenticità della
stessa, sia di chiedere […] ulteriori precisazioni in merito all’attività di
governo che deve essere compiuta», restandogli soltanto preclusa la possibilità
«di sindacare il merito dell’attività di governo, giudicandola più o meno
importante e necessaria», ciò che peraltro contrasterebbe anche con il
principio di separazione dei poteri.
Inoltre, la «facoltà del giudice di
entrare nel merito della fondatezza del legittimo impedimento», ad avviso
dell’imputato nel giudizio principale, non sarebbe «così coessenziale alla
natura stessa dell’istituto» da far escludere che possa rientrare nella
categoria del legittimo impedimento (e non in quella della prerogativa
costituzionale) anche «un’ipotesi di impedimento qualificato a monte come
legittimo da una fonte di rango ordinario, rispetto al quale il giudice possa
solo verificare se si versi o meno nei casi previsti dalla legge». Ragionando
in via analogica, l’imputato nel giudizio principale ritiene che non potrebbe
ritenersi preclusa al legislatore ordinario «la compilazione di un elenco di
patologie invalidanti in presenza delle quali il giudice fosse costretto a
riconoscere il legittimo impedimento dell’imputato che ne sia affetto», potendo
«disporre accertamenti sulla veridicità del certificato», ma senza «sindacare
la ragionevolezza della scelta legislativa di inserire nell’elenco una
patologia piuttosto che un’altra». Una simile disciplina, infatti, «non
cancellerebbe la natura di legittimo impedimento» dell’imputato «affetto da una
delle patologie legislativamente previste, per trasformare questa evenienza in
una prerogativa per quel tipo di malati».
Ad avviso dell’imputato nel giudizio
principale, dunque, il Tribunale rimettente, nel negare che la disciplina
censurata preveda una ipotesi di legittimo impedimento, muoverebbe da un
presupposto giuridico errato e, di conseguenza, evocherebbe un parametro
costituzionale (art. 138 Cost.) non pertinente, dal momento che «nessuno può
seriamente dubitare che una tipizzazione da parte del legislatore di alcuni
casi di legittimo impedimento debba e possa avvenire con legge ordinaria».
Quest’ultima – osserva ancora l’imputato nel giudizio principale – deve
realizzare un ragionevole bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco
(diritto di difesa e obbligatorietà dell’azione penale e ragionevole durata del
processo), che è oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale. Ma l’ordinanza
di rimessione trascurerebbe completamente di considerare il profilo della
«ragionevolezza del concreto bilanciamento di interessi operato» dalla
disciplina censurata, rimanendo invece «ancorata al pregiudizio della
"prerogativa dei titolari delle cariche pubbliche diretta a tutelare non già il
diritto di difesa del processo bensì lo status
e le funzioni”».
La tesi che la disciplina censurata
introduca una prerogativa costituzionale sarebbe ulteriormente contraddetta, ad
avviso della parte privata, dal suo carattere temporaneo: una normativa
destinata «a dispiegare i propri effetti nell’ordinamento al più per i diciotto
mesi successivi alla sua pubblicazione», infatti, non potrebbe «integrare una
prerogativa costituzionale, a meno di non voler pensare che le prerogative
costituzionali possano avere una scadenza».
Né la tesi della prerogativa
costituzionale potrebbe trarre conforto dalla circostanza che la disciplina
censurata «preannuncia una riforma costituzionale» delle prerogative del
Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. Secondo l’imputato nel
giudizio a quo, tale argomento,
adoperato dal giudice rimettente, «equipara in modo del tutto arbitrario il
contenuto» della normativa oggetto di censura con quello della futura
disciplina costituzionale. Quest’ultima, secondo l’imputato nel giudizio
principale, nel dettare una disciplina costituzionale organica delle
prerogative dei membri del Governo potrà regolare «anche […] l’interazione fra
le suddette prerogative e […] istituti
previsti da leggi ordinarie […] quali il legittimo impedimento». Ma ciò non
significa che le disposizioni censurate intendano «anticipare a livello di
legge ordinaria gli effetti di una riforma costituzionale». Esse, invece,
secondo la parte privata, risponderebbero allo scopo di «regolare in modo
estremamente equilibrato un lasso di tempo intermedio fra la mancanza assoluta
di una disciplina che si occupi delle eventuali difficoltà che il Presidente
del Consiglio dei ministri e i Ministri possono trovare a difendersi
efficacemente in un processo penale che li veda imputati e l’approvazione di
una legge costituzionale che ridefinisca lo status
di queste cariche».
Il carattere equilibrato del
contemperamento di interessi realizzato dalla disciplina transitoria censurata
sarebbe inoltre dimostrato, ad avviso dell’imputato nel giudizio a quo, dalle seguenti ulteriori
circostanze. In primo luogo, la disciplina prevede la sospensione del decorso
della prescrizione, con la conseguenza che per effetto del legittimo impedimento
«la situazione processuale viene semplicemente congelata senza alcun effetto
pregiudizievole sul piano sostanziale». In secondo luogo, l’applicazione
concreta di tale disciplina nel giudizio a
quo permetterebbe presumibilmente di realizzare un equo bilanciamento degli
interessi in gioco, atteso che l’imputato nel processo principale si è
raramente avvalso dell’istituto del legittimo impedimento, permettendo così la
celebrazione di ben 83 udienze. Infine, il periodo massimo di differimento del
processo, consentito dalle disposizioni oggetto di censura, è di appena sei
mesi, che è intervallo di tempo assai più breve rispetto al periodo di
sospensione che si determina per effetto della remissione alla Corte
costituzionale della questione di legittimità sollevata dal giudice a quo.
1.3.2. – In data 22
novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria
illustrativa, ribadendo l’infondatezza della questione. Nella memoria, la parte
privata illustra le vicende del processo a
quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di
rinvio fino al giorno 19 aprile 2010, al dichiarato fine di consentire a questa
Corte di «valutare la ragionevolezza di quanto deciso dal Tribunale di Milano a
fronte di una richiesta di rinvio corredata anche dall’indicazione di possibili
date per la celebrazione delle successive udienze». Dalle vicende del giudizio
principale emergerebbe come «la difesa abbia rigorosamente interpretato quei
canoni ermeneutici offerti» dalla Corte «per individuare il concetto di leale
collaborazione processuale, concordando le date, non frapponendo impedimenti
pretestuosi, consentendo la celebrazione delle udienze anche quando l’imputato
era impedito, se la sua partecipazione non era oggettivamente necessaria». Con
osservazioni estese anche ai giudizi di cui al reg. ord. nn.
180 e 304 del 2010, inoltre, la parte privata sostiene che i rinvii richiesti
per legittimo impedimento sarebbero stati sempre limitati e rispettosi
dell’attività giudiziaria e che le attestazioni fornite sono state sempre assai
inferiori al termine massimo dei sei mesi. Sarebbe quindi stato sufficiente,
conclude la difesa dell’imputato nel giudizio principale, applicare i canoni di
cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. per poter continuare i processi.
2. – Il Tribunale di
Milano, sezione X penale, con ordinanza del 16 aprile 2010 (reg. ord. n. 180
del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e
2 della legge n. 51 del 2010, per violazione
degli artt. 3 e 138 Cost.
2.1. – Il collegio
rimettente riferisce che la difesa dell’imputato nel giudizio principale, al
quale è contestato il reato di cui agli artt. 110, 319, 319-ter e 321 del codice penale, ha
anticipato via fax, in data 14 aprile 2010, una richiesta di rinvio dell’udienza
del 16 aprile (data che era stata indicata dal Tribunale, nel corso della
precedente udienza del 27 febbraio 2010, insieme a quelle, successive, del 30
aprile, 7 maggio, 12 maggio e 29 maggio del 2010), deducendo legittimo
impedimento consistente nell’impegno a presiedere il Consiglio dei ministri
convocato per lo stesso giorno. Il Tribunale rimettente espone che, nel corso
dell’udienza del 16 aprile, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha
prodotto copia dell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri (datato 14
aprile 2010) e ha esibito l’originale, producendo copia, «dell’attestazione del
Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri relativa alla continuatività dell’impedimento correlato allo svolgimento
delle funzioni di governo» ai sensi della legge censurata. Il giudice a quo riferisce, inoltre, che il
pubblico ministero ha domandato il rigetto della richiesta di rinvio, negando
il carattere assoluto dell’impedimento alla luce dei punti posti all’ordine del
giorno della seduta del Consiglio dei ministri del 14 aprile 2010 e della
circostanza per cui l’impedimento è intervenuto successivamente alla fissazione
concordata del calendario del processo, mentre la difesa dell’imputato ha
ribadito la rilevanza dei temi posti all’ordine del giorno del Consiglio dei
ministri e, dunque, il carattere assoluto dell’impedimento.
Ad avviso del Tribunale rimettente, ai
fini della decisione sulla richiesta di rinvio e della prosecuzione del
dibattimento, è «imprescindibile» accertare preliminarmente se, in applicazione
della disciplina legislativa censurata, il giudice «mantenga», conformemente
alla natura stessa dell’«istituto generale» del legittimo impedimento di cui
all’art. 420-ter cod. proc. pen., «il potere-dovere di verificare l’effettiva
sussistenza dell’impedimento», mediante un «accertamento di fatto da
effettuarsi caso per caso e in concreto». La disciplina censurata, secondo il
collegio rimettente, sottrae al giudice tale potere di valutazione. Essa,
infatti, non contiene una «disciplina[..] presuntiva[…]» dell’istituto «in
relazione a specifiche situazioni di fatto» e «coerente[…] con il sistema
delineato dall’art. 420-ter di
applicazione generale». L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, ad
avviso del giudice a quo, «stila[…]
un elenco» di impedimenti legittimi che include anche le «attività preparatorie
e consequenziali, nonché […] ogni attività comunque coessenziale alle funzioni
di governo». La «genericità» di tale formulazione limiterebbe la possibilità
del giudice di apprezzare l’effettività dell’impedimento rispetto alla singola
udienza, ciò che risulterebbe rafforzato dal dettato del comma 4 del medesimo
art. 1, secondo cui «il giudice rinvia il processo a seguito di certificazione
che attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle
funzioni» di governo. Da tutto ciò il collegio rimettente conclude che, in base
alla disciplina censurata, «il rinvio è imposto da ragioni genericamente
indicate e insindacabili dalla autorità giudiziaria e si traduce in una causa
automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del
diritto di difesa, per il quale l’istituto del legittimo impedimento a
comparire è previsto». Né può seguirsi, secondo il Tribunale rimettente, una diversa
interpretazione della legge censurata, tale da «salvaguarda[re] il sindacato
del giudice in ordine alla natura dell’impedimento e alla sua continuatività»: una simile interpretazione, infatti, «si
risolverebbe in una sostanziale disapplicazione della nuova legge» e
contrasterebbe con la volontà del legislatore, quale espressamente palesata
dall’art. 2 della legge censurata, secondo il quale «le nuove disposizioni si
applicano al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai
Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla
Costituzione e dalla legge».
Alla luce di tali circostanze, il
Tribunale rimettente ritiene che il meccanismo processuale previsto dalla
disciplina censurata, sebbene qualificato come legittimo impedimento,
rappresenti in realtà una «nuova prerogativa», «connessa all’esercizio delle
cariche costituzionali di Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ministro»,
e consistente in una «causa di sospensione del processo». Ma – osserva il
giudice a quo – la previsione di una
simile prerogativa, in quanto «derogatoria al principio di eguale
sottoposizione alla legge e alla giurisdizione di tutti i cittadini», non può
avvenire con legge ordinaria. Essa richiede necessariamente una fonte
costituzionale, come affermato da questa Corte con la sentenza n. 262 del
2009 e come del resto riconosciuto dalla medesima disciplina censurata, che
ha carattere temporaneo ed è rivolta ad anticipare gli effetti di una legge
costituzionale recante una disciplina organica delle prerogative del Presidente
del Consiglio dei ministri e dei ministri.
2.2. – È intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che
2.2.1. – Quanto all’asserita lesione
dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce preliminarmente
la manifesta inammissibilità della questione, per non avere «il Tribunale
rimettente esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione». Nel
merito, la difesa dello Stato ritiene che le disposizioni censurate prevedano
un «trattamento differenziato per i titolari delle cariche ivi indicate del
tutto conforme al richiesto requisito della ragionevolezza e proporzionalità»,
essendo tali disposizioni dirette a pervenire, con specifico riferimento alla
fattispecie del legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri
imputato «ad un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze, entrambe di
valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità
funzionale dell’organo costituzionale». Né può ritenersi, secondo l’Avvocatura
generale dello Stato, che la violazione dell’art. 3 Cost. dipenda da una
illegittima differenziazione della posizione del Presidente del Consiglio dei
ministri rispetto a quella dei ministri, dal momento che la disciplina
censurata si riferisce ad entrambe le cariche.
Con riguardo, invece, alla lamentata
violazione dell’art. 138 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato deduce la non
fondatezza della censura sulla base di argomenti testualmente identici a quelli
svolti nell’atto di intervento riferito all’ordinanza di rimessione di cui al
reg. ord. n. 173 del 2010.
2.2.2. – In data 23 novembre 2010,
l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, per il Presidente del
Consiglio dei ministri, memoria illustrativa, ribadendo le ragioni dedotte con
l’atto di intervento a sostegno dell’inammissibilità e dell’infondatezza della
questione di costituzionalità sollevata. La difesa dello Stato formula
ulteriori osservazioni in ordine alla manifesta inammissibilità e alla
infondatezza della questione, sulla base di argomenti testualmente identici a
quelli dedotti nella memoria riferita all’ordinanza di rimessione di cui al
reg. ord. n. 173 del 2010.
2.3. – Si è costituito in
giudizio, con atto depositato in data 5 luglio 2010, l’imputato nel giudizio
principale, chiedendo che
2.3.1. – L’imputato nel giudizio
principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione
sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del
giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne
compiutamente la rilevanza. In particolare, l’ordinanza di rimessione
conterrebbe, ad avviso dell’imputato nel giudizio principale, una «laconica
indicazione degli articoli del codice penale contestati all’imputato e delle
coordinate spazio-temporali del capo di imputazione» e non fornirebbe una
puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione»
della norma censurata, né dello stato in cui si trova il processo che si sta
celebrando dinanzi al giudice a quo.
Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di
autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui
L’imputato nel giudizio principale
deduce poi, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della
rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente, per
aversi la quale sarebbe «necessario che l’interpretazione non costituzionale
della legge, oltre ad essere l’unica possibile, supporti ed orienti
l’applicazione che nel medesimo contesto il giudice si accingerebbe a farne».
Ciò non accadrebbe nel caso in esame, nel quale la difesa dell’imputato,
all’udienza del 16 aprile 2010, da un lato, ha prospettato un legittimo
impedimento per il giorno stesso, costituito dalla concomitante riunione del
Consiglio dei ministri, e, dall’altro lato, ha prodotto attestazione del
Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri di legittimo
impedimento continuativo fino al 21 luglio 2010.
Sulla base di tali circostanze, secondo
l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per
due ragioni.
In primo luogo, la questione sarebbe
stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva
applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza
dell’impedimento puntuale, valevole hic
et nunc per l’udienza del 16 aprile 2010, dato
dalla concomitante riunione del Consiglio dei Ministri». L’imputato nel
giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio
dei ministri è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del
giudizio, i giorni del 21 e del 28 luglio 2010, date che però il Tribunale
rimettente non avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece
direttamente – e quindi prematuramente – la questione di legittimità
costituzionale della disciplina censurata.
In secondo luogo, l’imputato nel
giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la mera esibizione
dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa,
pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno
dell’udienza in cui avviene detta esibizione», tale attestazione si è limitata
ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di
tre mesi, inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla
disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la
questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in
relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè di una
disciplina che produce una sospensione del dibattimento per tre mesi, mentre il
giudice a quo «discetta in astratto
di "rilevanti periodo di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il
legittimo impedimento».
Nel merito, la parte privata sostiene
che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale
rimettente in relazione all’art. 138 Cost., sia manifestamente infondata, per
le ragioni indicate, con argomenti testualmente identici, nell’atto di
costituzione relativo al giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.
Relativamente, invece, all’asserita
violazione dell’art. 3 Cost., la parte privata osserva che «manca
nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis
[…] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato» dalla
disciplina censurata.
Sotto il primo profilo, viene rilevato
che l’ordinanza di rimessione non chiarisce quali siano i soggetti rispetto ai
quali la disciplina censurata «creerebbe sperequazioni: se rispetto al semplice
cittadino, o ad altre cariche dello Stato, o a un Presidente del Consiglio dei
Ministri e a dei Ministri tutelati da vere immunità costituzionali».
Sotto il secondo profilo, si osserva
come il giudice a quo si limiti ad
affermare che il meccanismo processuale denunciato è «causa automatica di
rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di
difesa», senza però impiegare alcuna altra argomentazione «per dare sostanza e
contenuto all’asserita sproporzione» e, soprattutto, senza considerare il
carattere temporaneo e transitorio della disciplina denunciata, suscettibile di
influenzare significativamente il giudizio sulla ragionevolezza del
bilanciamento di interessi da essa operato.
2.3.2. – In data 22
novembre 2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria
illustrativa, insistendo perché la questione di legittimità costituzionale
sollevata sia dichiarata non fondata. La parte privata, in particolare,
illustra le vicende del processo a quo,
in relazione alla celebrazione delle udienze e alle richieste di rinvio,
riproducendo le medesime argomentazioni svolte nella memoria riferita al
giudizio di cui al reg. ord. n. 173 del 2010.
3. – Il Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Milano, con ordinanza del 24 giugno 2010
(reg. ord. n. 304 del 2010), ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1 della legge n. 51 del
2010, per violazione dell’art. 138 Cost.
3.1. – Il giudice rimettente riferisce che
la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha avanzato, ai sensi della
disciplina censurata, istanza di differimento dell’udienza preliminare alla
data del 27 luglio 2010, producendo una attestazione della Segreteria della
Presidenza del Consiglio dei ministri in cui viene dato atto di un impedimento
continuativo, fino alla suddetta data, correlato alle funzioni di governo che
l’imputato stesso è chiamato a svolgere nella sua qualità di attuale Presidente
del Consiglio dei ministri. Il giudice a
quo espone, inoltre, che, a fronte di tale richiesta di differimento, il
pubblico ministero ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per i
successivi mesi di settembre e ottobre e la difesa dell’imputato ha offerto la
propria disponibilità, tuttavia precisando che «un’eventuale programmazione
delle udienze dovrà comunque essere modulata sulla base dei futuri impegni
istituzionali del proprio assistito, allo stato non individuabili».
Il giudice rimettente ritiene che, ai
fini della decisione sull’istanza di differimento dell’udienza preliminare,
occorra preliminarmente stabilire se, alla luce della disposizione legislativa
censurata, «il giudice conservi il potere, stabilito dall’art. 420-ter del codice di procedura penale, di
sindacare caso per caso se l’impedimento legittimo possa ritenersi assoluto per
tutto il periodo in cui viene rappresentato e, come tale, legittimare la
richiesta di rinvio dell’udienza». A tal fine, ad avviso del giudice a quo, la legge censurata deve essere
interpretata tenendo conto della «ratio»
dalla medesima indicata all’art. 2, cioè quella di regolare «le prerogative del
Presidente del Consiglio dei Ministri e degli stessi Ministri in vista del
sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite […] in attesa di una legge di
rango costituzionale che valga ad attuarne un’organica e definitiva
regolamentazione». Alla luce di tale circostanza, il giudice rimettente ritiene
che, «a fronte di una certificazione governativa in cui vengano indistintamente
richiamati gli impegni istituzionali non rinviabili presenti nell’agenda del
Presidente del Consiglio dei ministri per un determinato arco temporale, senza
alcun preciso riferimento in ordine alla relativa natura, frequenza e durata,
al giudice sia precluso ogni sindacato in merito al carattere assoluto
dell’impedimento così rappresentato».
Tuttavia, una simile qualificazione
legislativa, vincolante per il giudice, di «legittimo impedimento continuativo
correlato alle funzioni governo», si tradurrebbe in pratica, ad avviso del
giudice rimettente, in una «sorta di temporanea esenzione dalla giurisdizione
penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui l’incarico governativo
viene ad essere ricoperto». Tale deroga al comune regime giurisdizionale
costituirebbe una prerogativa in favore dei componenti di un organo
costituzionale che, secondo quanto affermato da questa Corte, può essere
introdotta solo con legge costituzionale. Del resto – osserva ancora il giudice
a quo – lo stesso art. 2 della legge
censurata, «nel rappresentarne il carattere temporaneo, pare essere consapevole
della necessità che l’organico assetto delle prerogative dei componenti del
Consiglio dei ministri sia attuato attraverso il meccanismo previsto dall’art.
138 Cost.». L’asserita violazione di quest’ultima disposizione costituzionale
induce pertanto il giudice rimettente a sollevare d’ufficio, ritenendola
rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità
costituzionale della disciplina censurata, la quale, in quanto legge ordinaria,
non potrebbe, «neppure per un periodo di tempo limitato, anticipare gli effetti
di una legge di rango costituzionale».
3.2. – È intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale
sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.
La difesa dello Stato eccepisce
innanzitutto l’inammissibilità «per difetto di rilevanza in concreto della
questione di costituzionalità dedotta». L’Avvocatura generale dello Stato
osserva, infatti, che, come emerge della stessa ordinanza di rimessione, alla
richiesta di differimento dell’udienza preliminare per l’attestato impedimento
dell’imputato, nessuna delle parti si è opposta, compreso il pubblico
ministero, che ha chiesto la fissazione di un calendario di udienze per i
successivi mesi di settembre e ottobre. In tale contesto, ad avviso della
difesa dello Stato, il giudice rimettente avrebbe dovuto preliminarmente
valutare la richiesta di rinvio ai sensi della norma generale di cui all’art.
420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta inapplicabilità di tale
disposizione, verificare l’applicabilità della norma speciale censurata.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, invece, il giudice rimettente
avrebbe proceduto, «in astratto» e «senza fornire alcuna indicazione in ordine
alla rilevanza della stessa con riferimento al processo in questione», a
sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, che
si rivelerebbe, pertanto, inammissibile.
Nel merito, l’Avvocatura generale dello
Stato deduce la non fondatezza della questione sollevata sulla base di
argomenti testualmente identici a quelli svolti nell’atto di intervento
riferito all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord. n. 173 del 2010. La
difesa dello Stato esclude, in particolare, che la disciplina censurata possa
costituire una prerogativa costituzionale. Essa infatti sarebbe rivolta ad
integrare la disciplina dell’istituto processuale generale del legittimo
impedimento, il quale può ben essere regolato con legge ordinaria in quanto
«prescinde dalla natura dell’attività che legittima l’impedimento medesimo, [è]
di generale applicazione e pertanto non deroga al comune regime
giurisdizionale».
3.3. – Si è costituito
in giudizio, con atto depositato in data 26 ottobre 2010, l’imputato nel
giudizio principale, chiedendo che
3.3.1. – L’imputato nel giudizio
principale eccepisce, innanzitutto, l’inammissibilità della questione
sollevata, in ragione della omessa descrizione della fattispecie oggetto del
giudizio principale, tale da non permettere alla Corte di valutarne
compiutamente la rilevanza. In particolare, l’ordinanza di rimessione, ad
avviso dell’imputato nel giudizio principale, non indicherebbe i reati
contestati e il luogo e tempo della loro commissione, né fornirebbe una
puntuale descrizione della «condizione soggettiva che legittima l’applicazione»
della norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta
celebrando dinanzi al giudice a quo.
Secondo l’imputato nel giudizio principale, in virtù del principio di
autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, tali elementi, di cui
L’imputato nel giudizio principale
deduce poi, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto della
rilevanza in concreto della questione sollevata dal giudice rimettente. Rileva
al proposito la parte privata, integrando la descrizione asseritamente
imprecisa contenuta nell’ordinanza di rimessione, che, nel caso in esame, la
difesa dell’imputato, all’udienza del 24 giugno 2010, da un lato, ha
prospettato un legittimo impedimento per il giorno stesso, costituito dalla
concomitante riunione del Consiglio dei ministri e dalla successiva partenza
per un vertice internazionale in Canada, e, dall’altro lato, ha prodotto
attestazione del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei
ministri di legittimo impedimento continuativo fino al 27 luglio 2010.
Sulla base di tali circostanze, secondo
l’imputato nel giudizio principale, la rilevanza in concreto difetterebbe per
due ragioni.
In primo luogo, la questione sarebbe
stata sollevata «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva
applicazione» alla disciplina censurata, in considerazione della «sussistenza
dell’impedimento puntuale, valevole hic
et nunc per l’udienza del 24 giugno 2010, dato
dal Consiglio dei ministri e dal viaggio di Stato in Canada». L’imputato nel
giudizio principale chiarisce che l’attestazione della Presidenza del Consiglio
è stata prodotta al solo fine di indicare, per la prosecuzione del giudizio, i
giorni del 21 e del 28 luglio, date che però il Tribunale rimettente non
avrebbe neppure preso in considerazione, sollevando invece direttamente – e
quindi prematuramente – la questione di legittimità costituzionale della
disciplina censurata.
In secondo luogo, l’imputato nel
giudizio principale rileva che, ove pure «si ritenesse che la produzione
dell’attestazione […] equivalga a una richiesta di applicazione della stessa,
pur in presenza di un legittimo impedimento valido ed operante per il giorno
dell’udienza in cui avviene detta produzione», tale attestazione si è limitata
ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo di poco più di
un mese, ben inferiore quindi al periodo massimo di sei mesi previsto dalla
disciplina censurata. Quest’ultima avrebbe quindi avuto, nel giudizio a quo, una «applicazione parziale» e la
questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere formulata in
relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, cioè ad una
disciplina che produce una sospensione del dibattimento per poco più di un
mese, mentre il giudice a quo
«discetta in modo astratto ed impreciso di "una sorta di temporanea esenzione
dalla giurisdizione penale destinata a perdurare per tutto il tempo in cui
l’incarico governativo viene ad essere ricoperto”».
Nel merito, la parte privata sostiene
che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale
rimettente sia manifestamente infondata per le ragioni indicate, con argomenti
testualmente identici, nell’atto di costituzione relativo al giudizio di cui al
reg. ord. n. 173 del 2010.
3.3.2. – In data 22 novembre
2010, l’imputato nel giudizio principale ha depositato memoria illustrativa,
insistendo perché la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata non
fondata. La parte privata illustra le vicende del processo a quo, in relazione alla celebrazione delle udienze e alle
richieste di rinvio, riproducendo le medesime argomentazioni svolte nelle
memorie riferite ai giudizi di cui al reg. ord. nn.
173 e 180 del 2010.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Milano, con tre distinte ordinanze della sezione I penale (reg. ord. n. 173 del 2010), della sezione X penale (reg. ord. n. 180 del 2010) e del Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n. 304 del 2010), solleva questione di legittimità costituzionale della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza). In particolare, la sezione X ha censurato l’intero testo della legge n. 51 del 2010, mentre il Giudice per le indagini preliminari ha censurato il solo articolo 1 e la sezione I soltanto i commi 1, 3 e 4 di tale articolo.
Tutte le ordinanze di rimessione sollevano questione di legittimità costituzionale della predetta disciplina in quanto essa introdurrebbe, con legge ordinaria, una prerogativa in favore dei titolari di cariche governative, in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e con l’art. 138 Cost. Tali disposizioni costituzionali sono entrambe esplicitamente indicate quali parametri violati nell’ordinanza di rimessione della sezione X e risultano implicitamente evocati, in congiunzione fra loro, anche nelle altre due ordinanze, benché queste ultime, testualmente, richiamino soltanto l’art. 138 Cost. La sezione X, inoltre, censura la legge n. 51 del 2010 anche in relazione all’art. 3 Cost., considerato autonomamente e sotto il profilo della ragionevolezza.
1.1.
– La legge n. 51 del 2010 disciplina il legittimo impedimento a comparire in
udienza, ai sensi dell’art. 420-ter
del codice di procedura penale, del Presidente del Consiglio dei ministri (art.
1, comma 1) e dei ministri (art. 1, comma 2), in qualità di imputati. In
particolare, in base all’art. 1, comma 3, di tale legge, il giudice, su
richiesta di parte, rinvia il processo ad altra udienza quando ricorrono le
ipotesi di impedimento a comparire individuate dal comma 1 (per il Presidente
del Consiglio) e dal comma 2 (per i ministri) della medesima legge. In base a
tale disciplina, costituisce legittimo impedimento «il concomitante esercizio
di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in
particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e
successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30
luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del
Consiglio dei ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15
novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie
e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni
di Governo». Inoltre, l’art. 1, comma 4, della medesima legge, dispone che «ove
1.2.
– I giudici a quibus
ritengono, in particolare, che la disciplina censurata individui con formule
generiche e indeterminate le attività costituenti legittimo impedimento del
titolare di una carica governativa e sottragga al giudice il potere di valutare
in concreto l’impossibilità a comparire connessa allo specifico impegno
addotto, soprattutto nell’ipotesi di impedimento continuativo, nella quale
l’imputato potrebbe ottenere il rinvio mediante un «meccanismo di
autocertificazione» di legittimo impedimento. Ciò costituirebbe, ad avviso dei
rimettenti, una «presunzione assoluta di impedimento», collegata allo «status
permanente» della titolarità della carica, o comunque una prerogativa o
immunità del titolare, la quale, come ha stabilito
L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa dell’imputato nei giudizi principali escludono che la disciplina censurata sia costituzionalmente illegittima, osservando, in particolare, come essa sia diretta ad «integrare» la disciplina processuale comune, contenuta nell’art. 420-ter cod. proc. pen., mediante una «tipizzazione» delle attività di governo che costituiscono legittimo impedimento a comparire in udienza.
2. – In ragione della loro connessione oggettiva, i giudizi devono essere riuniti, per essere congiuntamente trattati e decisi con un’unica pronuncia.
3. – Devono essere preliminarmente esaminati i profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate.
3.1.
– Vanno dichiarate inammissibili le censure prospettate dalla sezione X (reg.
ord. n. 180 del 2010) e dal Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n.
304 del 2010) del Tribunale di Milano, nella parte in cui si riferiscono all’art. 1, commi 2, 5 e 6, nonché all’art. 2
della legge n. 51 del 2010. Le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 2, della legge censurata non assumono rilevanza nei giudizi a quibus, nei
quali tale disposizione non può trovare applicazione, in quanto riferita
esclusivamente ai ministri e non al Presidente del Consiglio dei ministri, cioè
alla carica di cui è titolare l’imputato nei giudizi principali. Le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 5 e 6, e dell’art. 2 della
legge n. 51 del 2010 sono inammissibili, atteso che tali norme non risultano in
alcun modo investite dalle censure svolte nelle motivazioni delle ordinanze di
rimessione.
3.2. – Vanno disattese le eccezioni
dell’Avvocatura generale dello Stato e della difesa della parte privata, con le
quali si deduce l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
riferite all’art. 1, commi 1, 3 e 4, della legge n. 51 del 2010.
3.2.1. – La difesa della parte privata e l’Avvocatura generale dello Stato eccepiscono, innanzitutto, relativamente a tutti e tre i giudizi, la insufficiente e lacunosa descrizione, compiuta dai giudici a quibus, delle fattispecie sottoposte al loro esame. Le denunciate carenze atterrebbero, in particolare, alla mancata indicazione del tipo di reati cui si riferisce l’imputazione, del luogo e data di commissione degli stessi, delle eventuali ipotesi di concorso con altre persone, della condizione soggettiva che legittima l’applicazione della norma censurata e dello stato in cui si trova il processo che si sta celebrando dinanzi ai giudici a quibus.
L’eccezione non è fondata.
In primo luogo, va rilevato che l’ordinanza di rimessione della sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010) contiene tutte le informazioni di cui si lamenta la mancanza. In secondo luogo, le altre due ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 173 e n. 304 del 2010) indicano quale sia la condizione soggettiva che legittima l’applicazione della disciplina censurata (cioè la carica di Presidente del Consiglio dei ministri rivestita dall’imputato) e chiariscono che la richiesta di rinvio si riferisce ad una «udienza» disposta nel corso di un processo penale. Infine, l’indicazione del tipo, luogo e data di commissione dei reati contestati non costituisce un elemento necessario per la valutazione della rilevanza della questione sollevata, atteso che la disciplina censurata dispone la propria applicabilità a tutti i processi penali, anche in corso, senza distinguere in base alle caratteristiche del reato commesso, salvo il caso, pacificamente escluso dai rimettenti e dalla stessa parte privata, di applicazione dell’art. 96 Cost.
3.2.2. – L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, che i giudici rimettenti avrebbero dovuto preliminarmente valutare la richiesta di rinvio dell’udienza ai sensi della norma generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. e, solo in caso di ritenuta inapplicabilità di tale disposizione, essi avrebbero dovuto verificare l’applicabilità della norma speciale censurata. Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe, pertanto, irrilevante, perché il giudice avrebbe potuto risolverla a prescindere dalla norma censurata.
L’eccezione non è fondata.
Il giudice non avrebbe potuto, applicando soltanto l’art. 420-ter cod. proc. pen., ignorare la disciplina censurata, che regola la fattispecie sottoposta al suo esame. Alla luce del comune regime processuale, il giudice avrebbe potuto rinviare l’udienza, riconoscendo l’assoluta impossibilità a comparire dovuta allo specifico impegno istituzionale addotto, ma in tal caso il rinvio sarebbe stato comunque subordinato all’esito di un accertamento giudiziale, che i rimettenti ritengono di non poter compiere a causa della intervenuta disciplina speciale, che proprio per tale ragione essi hanno censurato.
3.2.3. – La difesa della parte privata eccepisce, poi, l’inammissibilità per difetto di rilevanza in concreto della questione sollevata. Viene osservato, al riguardo, che nei giudizi a quibus il Presidente del Consiglio dei ministri ha addotto sia un impedimento puntuale per il giorno dell’udienza, sia un impedimento continuativo, attestato dalla Presidenza del Consiglio. Ad avviso della difesa dell’imputato nei giudizi principali, l’impedimento puntuale sarebbe stato prospettato per ottenere il rinvio dell’udienza specifica in relazione alla quale è stato presentato, mentre l’attestato di impedimento continuativo sarebbe stato prodotto solo ai fini della individuazione delle date utili per la prosecuzione del giudizio. Di conseguenza, ad avviso della parte privata, i giudici rimettenti avrebbero dovuto, prima, valutare l’impedimento puntuale ai fini del rinvio dell’udienza e, solo successivamente, «sindacare la fondatezza o meno della richiesta di rinvio per l’ulteriore periodo indicato con le modalità previste dalla legge in discussione». Al contrario, secondo la difesa dell’imputato, i giudici a quibus avrebbero sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata immediatamente e, pertanto, «prematuramente rispetto alla necessità di dare effettiva applicazione» alla medesima.
L’eccezione non è fondata.
In primo luogo, va osservato che il giudice non è chiamato ad applicare la disciplina censurata solo nel caso in cui venga addotto dall’imputato un impedimento continuativo, mediante l’attestato della Presidenza del Consiglio dei ministri, previsto dall’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010, ma anche quando sia dedotto un impegno specifico e puntuale, che il giudice deve valutare sulla base dell’art. 1, commi 1 e 3, della medesima legge. Queste ultime, quindi, sono disposizioni in relazione alle quali la questione di legittimità costituzionale sollevata deve ritenersi comunque rilevante. Inoltre, l’attestato della Presidenza del Consiglio dei ministri, presentato nei giudizi a quibus, comprende in realtà anche il giorno dell’udienza cui si riferisce la richiesta di rinvio. Esso, pertanto, non rileva nei giudizi principali solo ai fini della programmazione delle udienze future, ma anche ai fini del rinvio della specifica udienza nel corso della quale è stato presentato. Ne deriva che, sotto il profilo considerato, è rilevante la questione di legittimità costituzionale sia dei commi 1 e 3 dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, sia del comma 4 del medesimo articolo.
3.2.4. – La difesa della parte privata eccepisce, ancora, l’inammissibilità delle questioni sollevate per difetto di rilevanza, asserendo che, nei giudizi a quibus, l’attestazione della Presidenza del Consiglio si è limitata ad indicare un impedimento continuativo per un periodo di tempo inferiore al periodo massimo di sei mesi previsto dalla disciplina censurata. Alla luce di ciò, secondo la difesa dell’imputato, la disciplina censurata avrebbe ricevuto una «applicazione parziale» e la questione di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere conseguentemente formulata in relazione alla disciplina che ha avuto concreta applicazione, determinando la sospensione del dibattimento per il tempo indicato in concreto nell’attestazione, e non per il tempo indicato in astratto dalla norma. Al contrario, la difesa dell’imputato lamenta che i giudici a quibus avrebbero «discett[ato] in astratto di "rilevanti periodi di tempo” in cui potrebbe essere fatto valere il legittimo impedimento».
L’eccezione non è fondata.
I giudici rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della disciplina censurata in quanto consente all’imputato di dedurre un impedimento continuativo per un «rilevante periodo di tempo». Tale formula si adatta sia al tempo massimo di sei mesi previsto dalla norma in astratto, sia al tempo inferiore, ma comunque significativo, previsto dall’attestato che in concreto è stato prodotto nei giudizi principali, in evidente applicazione, nel caso di specie, della norma censurata.
3.2.5. – Sia l’Avvocatura generale dello Stato, sia la difesa della parte privata, infine, eccepiscono l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, sollevata dalla sezione X del Tribunale di Milano (reg. ord. n. 180 del 2010), in relazione all’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza. Viene lamentato, in particolare, che il giudice a quo non avrebbe «esplicitato i motivi che fonderebbero la predetta violazione» e che mancherebbe «nell’ordinanza di rimessione qualunque valutazione relativa al tertium comparationis […] nonché alla ragionevolezza del bilanciamento di interessi operato» dalla disciplina censurata.
L’eccezione non è fondata.
In primo luogo, il giudice rimettente motiva la censura di irragionevolezza, osservando che «il rinvio [dell’udienza] è imposto da ragioni genericamente indicate e insindacabili dalla autorità giudiziaria e si traduce in una causa automatica di rinvio del dibattimento sproporzionata rispetto alla tutela del diritto di difesa, per il quale l’istituto del legittimo impedimento a comparire è previsto». In secondo luogo, gli argomenti in base ai quali il rimettente afferma esservi lesione degli artt. 3 e 138 Cost., tra cui in particolare il carattere generale e automatico delle presunzioni di legittimo impedimento introdotte dalla disciplina censurata, sorreggono anche la prospettata irragionevolezza di quest’ultima. Né, in tale ultimo caso, si pone un problema di indicazione del tertium comparationis.
4. – Al fine di decidere nel merito le questioni sollevate dai giudici a quibus, è necessario, preliminarmente, inquadrare il problema generale del legittimo impedimento del titolare di un organo costituzionale, alla luce dei principi al riguardo affermati da questa Corte.
4.1. – Sotto tale profilo assumono rilievo, innanzitutto, le pronunce con le quali è stata valutata la legittimità costituzionale di norme sulla sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato (sentenze n. 262 del 2009 e n. 24 del 2004). Questa Corte ha stabilito che una presunzione assoluta di legittimo impedimento del titolare di una carica governativa, quale meccanismo generale e automatico introdotto con legge ordinaria, è costituzionalmente illegittima, in quanto rivolta a tutelare lo stesso mediante una deroga al regime processuale comune e, quindi, a creare una prerogativa, in violazione degli artt. 3 e 138 Cost. Una simile presunzione, secondo il ragionamento sviluppato nella sentenza n. 262 del 2009, costituisce deroga e non applicazione delle regole generali sul processo, le quali, in particolare, consentono di differenziare «la posizione processuale del componente di un organo costituzionale solo per lo stretto necessario, senza alcun meccanismo automatico e generale».
Devono poi essere considerate le pronunce sui conflitti di attribuzione proposti dalla Camera dei deputati nei confronti dell’autorità giudiziaria e riguardanti il mancato riconoscimento, da parte di quest’ultima, di legittimi impedimenti dell’imputato consistenti nella partecipazione ai lavori parlamentari (sentenze n. 451 del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). Questa Corte ha chiarito che la posizione dell’imputato parlamentare «non è assistita da speciali garanzie costituzionali» e nei suoi confronti trovano piena applicazione «le generali regole del processo» (sentenza n. 225 del 2001). Essa ha tuttavia anche affermato che, nell’applicazione di tali comuni regole processuali, il giudice deve esercitare il suo potere di «apprezzamento degli impedimenti invocati» dall’imputato parlamentare, «tene[ndo] conto non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri» (sentenza n. 225 del 2001), operando quindi un «ragionevole bilanciamento fra le due esigenze […] della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento» (sentenza n. 263 del 2003), in particolare programmando «il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari» (sentenza n. 451 del 2005). Non vi può essere, dunque, applicazione di regole derogatorie, ma il diritto comune deve applicarsi secondo il principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato.
4.2. – Alla luce di tali principi, è rilevante, ai fini della verifica della legittimità costituzionale della disciplina censurata, stabilire se quest’ultima, a prescindere dal suo carattere temporaneo, rappresenti una deroga al regime processuale comune, che è in particolare quello previsto dall’art. 420-ter cod. proc. pen. Esso rappresenta il termine di riferimento per valutare se la normativa censurata, derogando alle ordinarie norme processuali, introduca, con legge ordinaria, una prerogativa la cui disciplina è riservata alla Costituzione, violando il principio della eguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione e ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost. La disciplina oggetto di censura sarà dunque da ritenersi illegittima se, e nella misura in cui, alteri i tratti essenziali del regime processuale comune. In base ad esso, l’impedimento dedotto dall’imputato non può essere generico e il rinvio dell’udienza da parte del giudice non può essere automatico. Sotto il primo profilo, l’imputato ha l’onere di specificare l’impedimento, potendo egli addurre come tale un preciso e puntuale impegno e non già una parte della propria attività genericamente individuata o complessivamente considerata. Sotto il secondo profilo, il giudice deve valutare in concreto, ai fini del rinvio dell’udienza, lo specifico impedimento addotto.
5. – Per quanto le censure dei giudici a quibus si riferiscano alle disposizioni della legge n. 51 del 2010 considerate nel loro insieme, e sebbene tali disposizioni rispondano ad un comune motivo ispiratore, tuttavia la disciplina censurata non si presenta come unitaria sotto il profilo strutturale.
Essa, infatti, si articola in più componenti, ciascuna delle quali è suscettibile di ricevere una autonoma qualificazione dal punto di vista della coerenza con la disciplina processuale comune e, quindi, anche una diversa valutazione dal punto di vista della verifica di legittimità costituzionale. Questa deve essere condotta separatamente, in relazione alle disposizioni contenute nei tre distinti commi dell’art. 1 della legge n. 51 del 2010, cui si riferiscono le censure dei giudici rimettenti: il comma 1, che indica le attribuzioni del Presidente del Consiglio dei ministri costituenti legittimo impedimento; il comma 3, che disciplina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, quando ricorrono le ipotesi previste dai precedenti commi; il comma 4, che regola l’ipotesi di impedimento continuativo e attestato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.
5.1. – L’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 prevede quanto segue: «Per il Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce legittimo impedimento, ai sensi dell’articolo 420-ter del codice di procedura penale, a comparire nelle udienze dei procedimenti penali, quale imputato, il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti e in particolare dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, dagli articoli 2, 3 e 4 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, e successive modificazioni, e dal regolamento interno del Consiglio dei Ministri, di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 novembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 268 del 15 novembre 1993, e successive modificazioni, delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo».
Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus non sono fondate, nei termini di seguito precisati.
Ad avviso dei rimettenti, la disciplina censurata, anziché identificare alcune ipotesi rigorosamente e tassativamente circoscritte di impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, contemplerebbe una presunzione assoluta di legittimo impedimento riferita ad una serie ampia e indeterminata di funzioni, in definitiva coincidenti con l’intera attività del titolare della carica governativa.
Non
vi è dubbio che, ove fosse in tal modo intesa, la disposizione in esame sarebbe
illegittima, in quanto derogatoria rispetto al regime processuale comune e,
quindi, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost., per le ragioni indicate da
questa Corte nella sentenza n. 262 del
2009. Tuttavia, una disposizione legislativa può essere dichiarata
illegittima solo quando non sia possibile attribuire ad essa un significato
compatibile con
Ciò è possibile in considerazione del fatto che l’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen., nonché del fatto che, con la disposizione censurata, il legislatore sembra aver voluto introdurre – come risulta dai lavori preparatori – una «mera norma interpretativa dell’ambito di applicazione di un istituto processuale» (relazione in aula, Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 25 gennaio 2010, e Senato della Repubblica, Assemblea, 347a seduta pubblica antimeridiana, martedì 9 marzo 2010).
Come ha sostenuto la difesa dell’imputato, sia negli atti scritti, sia nel corso dell’udienza pubblica, la disposizione censurata «non comporta una presunzione assoluta di legittimo impedimento» e «non impone alcun automatismo». Essa introduce un criterio volto ad orientare il giudice nell’applicazione dell’art. 420-ter cod. proc. pen., e segnatamente del comma 1 di tale disposizione, mediante l’individuazione, in astratto, delle categorie di attribuzioni governative a tal fine rilevanti. Il legislatore, peraltro, sembra aver recepito al riguardo, sviluppandolo, un orientamento della Corte di cassazione, secondo cui costituiscono legittimo impedimento, in base all’art. 420-ter cod. proc. pen., le attività del titolare di una carica governativa che siano «coessenziali alla funzione tipica del Governo» (sentenza della Corte di cassazione, sez. sesta penale, 9 febbraio 2004 – 9 marzo 2004, n. 10773). Questa espressione è ripresa dall’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010 e assurge ad elemento qualificativo di tutte le ipotesi di legittimo impedimento da tale disposizione previste, come è dimostrato dalla circostanza che le attività coessenziali alla funzione di governo sono poste a chiusura della formulazione normativa e che l’avverbio «comunque» introduce un collegamento fra il requisito della coessenzialità e le attribuzioni governative previste da leggi e regolamenti (genericamente e specificamente indicate). Deve pertanto ritenersi che, in base a questo criterio posto dal legislatore, le categorie di attività qualificate, in astratto, come legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri sono solo quelle coessenziali alle funzioni di Governo, che siano previste da leggi o regolamenti (e in particolare dalle fonti normative espressamente citate nella disposizione censurata), nonché quelle rispetto ad esse preparatorie (cioè specificamente preordinate) e consequenziali (cioè immediatamente successive e strettamente conseguenti).
Simile criterio legislativo è compatibile con i tratti essenziali del regime processuale comune. La disposizione censurata non consente al Presidente del Consiglio dei ministri di addurre come impedimento il generico dovere di esercitare le attribuzioni da essa previste, occorrendo sempre, secondo la logica dell’art. 420-ter cod. proc. pen., che l’imputato specifichi la natura dell’impedimento, adducendo un preciso e puntuale impegno riconducibile alle ipotesi indicate. Ciò naturalmente vale anche per le attività «preparatorie e consequenziali», a proposito delle quali deve ritenersi che l’onere di specificazione, sempre gravante sull’imputato, si riferisca sia all’impedimento principale (l’esercizio di attribuzione coessenziale), sia a quello accessorio (l’attività preparatoria o consequenziale). In altri termini, il Presidente del Consiglio dei ministri dovrà indicare un preciso e puntuale impegno, che abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad altro preciso e puntuale impegno, quest’ultimo riconducibile ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo prevista dall’ordinamento.
Né può ritenersi che il criterio posto dal legislatore sia irragionevole o sproporzionato, dal momento che esso è ancorato alla elaborazione giurisprudenziale e non copre l’intera attività del titolare della carica, ma solo le attribuzioni che possano essere qualificate in termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo.
Tale criterio legislativo, infine, rispetto alla disciplina già ricavabile dall’art. 420-ter cod. proc. pen., ha un effetto di chiarificazione della portata dell’istituto processuale comune, nelle ipotesi in cui esso debba trovare applicazione in riferimento ad impedimenti consistenti nell’esercizio di funzioni di governo. In termini negativi, il giudice non riconoscerà come impedimenti legittimi, in applicazione del criterio legislativo, impegni politici non qualificati, cioè non riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo, pur previste da leggi o regolamenti. In termini positivi, ove venga addotto un impedimento riconducibile a tale tipologia di attribuzioni, il giudice non potrà disconoscerne il rilievo in astratto, fermo restando il suo potere, non sottrattogli dalla disposizione in esame, di valutare in concreto lo specifico impedimento addotto.
Deve
dunque concludersi che non sono fondate le questioni di legittimità
costituzionale sollevate, per la parte in cui si riferiscono all’art. 1, comma
1, della legge n. 51 del
5.2. – L’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti rinvia il processo ad altra udienza».
Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus sono fondate, nei termini di seguito precisati.
L’art. 1, comma 3, della legge censurata regola i poteri del giudice in ordine all’accertamento del legittimo impedimento, ai fini del conseguente rinvio dell’udienza, in relazione alla quale tale impedimento è dedotto. Occorre stabilire se la disciplina dettata da tale disposizione sia conforme alla corrispondente regolamentazione contenuta nell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., secondo la quale il giudice rinvia l’udienza quando «risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento». La norma censurata deve considerarsi legittima, in altri termini, a condizione che essa non sottragga al giudice, in relazione alle specifiche ipotesi di impedimento del titolare di funzioni di governo, i poteri di valutazione dell’impedimento addotto, che al giudice stesso sono riconosciuti in base al comune regime processuale.
L’Avvocatura generale dello Stato e la parte privata hanno sostenuto che la disciplina censurata non abbia privato il giudice del potere di valutazione dell’impedimento, previsto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Il giudice conserverebbe sia il potere di valutare la prova della sussistenza in fatto dell’impedimento, sia quello di accertare che tale impedimento «rientri fra le ipotesi previste» dalle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 della legge censurata. Ulteriori poteri di controllo risulterebbero, invece, preclusi al giudice, indipendentemente dalla legge n. 51 del 2010. Sarebbe infatti il principio della separazione dei poteri ad impedire che il giudice possa «sindacare il merito dell’attività di governo», valutando «le ragioni politiche sottese all’esercizio» delle attività del Presidente del Consiglio dei ministri, carica cui sarebbe oltretutto da riconoscere una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo». Tali affermazioni ricostruiscono correttamente gli effetti della disposizione di cui all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, ma non altrettanto correttamente colgono il significato e la portata dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri e del principio della separazione dei poteri.
Va osservato che l’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, subordina il rinvio dell’udienza, da parte del giudice, esclusivamente ad un duplice riscontro. Nel verificare che «ricorr[a]no le ipotesi di cui ai precedenti commi», il giudice dovrebbe infatti limitarsi ad accertare, da un lato, che l’impegno dedotto dall’imputato come impedimento sussista realmente in punto di fatto, e, dall’altro lato, che esso sia riconducibile ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo previste da leggi o regolamenti (o abbia carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad esse). Ma tali accertamenti non esauriscono lo spettro dei poteri di valutazione dell’impedimento, che sono esercitati dal giudice in base alla disciplina generale di cui all’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. Secondo tale disciplina, infatti, spetta al giudice, ai fini del rinvio dell’udienza, valutare in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il carattere assoluto e attuale dello stesso. Ciò implica in particolare, con riferimento alle ipotesi in esame, il potere del giudice di valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal Presidente del Consiglio dei ministri, pur quando riconducibile in astratto ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo ai sensi della legge censurata, dia in concreto luogo ad impossibilità assoluta (anche alla luce del necessario bilanciamento con l’interesse costituzionalmente rilevante a celebrare il processo) di comparire in giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante con l’udienza di cui è chiesto il rinvio. Tale potere di apprezzamento in concreto dell’impedimento, che è elemento essenziale della disciplina comune del legittimo impedimento, non è però previsto dalla disposizione censurata, né esso è ricavabile in via interpretativa, atteso che la norma in questione non richiama espressamente l’art. 420-ter cod. proc. pen. e detta una disciplina che, sul punto, sostituisce e non integra quella contenuta nella predetta norma del codice di rito. La mancanza di tale elemento, pertanto, attribuisce all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010 un carattere derogatorio rispetto al diritto comune. Per i motivi già chiariti, ciò si traduce in un vizio di costituzionalità di tale disposizione, che deve essere pertanto dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede siffatto potere di valutazione in concreto dell’impedimento.
Né può ritenersi che l’esercizio di un simile potere, nelle ipotesi in cui l’impedimento consista nello svolgimento di funzioni di governo, sia di per sé lesivo delle prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri, o si ponga in contrasto con il principio della separazione dei poteri. Va detto, innanzitutto, che la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politica» o il «capo della coalizione», non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione costituzionale di quest’ultimo. A prescindere da ciò, quando il giudice valuta in concreto, in base alle ordinarie regole del processo, l’impedimento consistente nell’esercizio di funzioni governative, si mantiene entro i confini della funzione giurisdizionale e non esercita un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo, né, più in generale, invade la sfera di competenza di altro potere dello Stato.
È vero, peraltro, che in simili ipotesi l’esercizio della funzione giurisdizionale ha una incidenza indiretta sull’attività del titolare della carica governativa, incidenza che è obbligo del giudice ridurre al minimo possibile, tenendo conto del dovere dell’imputato di assolvere le funzioni pubbliche assegnategli. Il principio della separazione dei poteri non è, dunque, violato dalla previsione del potere del giudice di valutare in concreto l’impedimento, ma, eventualmente, soltanto dal suo cattivo esercizio, che deve rispondere al canone della leale collaborazione. Quest’ultimo principio ha carattere bidirezionale, nel senso che esso riguarda anche il Presidente del Consiglio dei ministri, la programmazione dei cui impegni, in quanto essi si traducano in altrettante cause di legittimo impedimento, è suscettibile a sua volta di incidere sullo svolgimento della funzione giurisdizionale. Trova pertanto applicazione, anche nel caso del titolare di funzione governativa, quanto questa Corte ha affermato con riferimento al legittimo impedimento di membri del Parlamento, tanto più che, a differenza di questi ultimi, il Presidente del Consiglio dei ministri ha il potere di programmare una quota significativa degli impegni che possono costituire legittimo impedimento (sentenze n. 451 del 2005, n. 284 del 2004, n. 263 del 2003, n. 225 del 2001). La leale collaborazione deve esplicarsi mediante soluzioni procedimentali, ispirate al coordinamento dei rispettivi calendari. Per un verso, il giudice deve definire il calendario delle udienze tenendo conto degli impegni del Presidente del Consiglio dei ministri riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo e in concreto assolutamente indifferibili. Per altro verso, il Presidente del Consiglio dei ministri deve programmare i propri impegni, tenendo conto, nel rispetto della funzione giurisdizionale, dell’interesse alla speditezza del processo che lo riguarda e riservando a tale scopo spazio adeguato nella propria agenda.
Deve, dunque, concludersi che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti, in quanto si riferiscono all’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, sono fondate, nella parte in cui tale disposizione non prevede il potere del giudice di valutare in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto.
5.3.
– L’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 dispone: «Ove
Per la parte in cui si riferiscono a tale disposizione, le questioni sollevate dai giudici a quibus sono fondate.
La norma in esame, a differenza di quelle di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 1, non opera un diretto rinvio all’art. 420-ter cod. proc. pen. e introduce nell’ordinamento una peculiare figura di legittimo impedimento consistente nell’esercizio di funzioni di governo, connotata dalla continuatività dell’impedimento stesso e dalla attestazione di esso da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. Tali elementi rappresentano tuttavia una alterazione, e non già una integrazione o applicazione, della disciplina dell’istituto generale di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una disposizione derogatoria del regime processuale comune, che introduce una prerogativa in favore del titolare della carica, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost.
In primo luogo, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010, diversamente da quanto disposto dall’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., prevede che l’imputato possa dedurre, anziché un impedimento puntuale e riferito ad una specifica udienza, un impedimento continuativo riferito a tutte le udienze eventualmente programmate o programmabili entro un determinato intervallo di tempo, che non può essere superiore a sei mesi (ma la norma non vieta che alla scadenza possa essere rinnovato l’attestato di impedimento continuativo). In tal modo, la disposizione in esame esclude, almeno parzialmente, l’onere di specificazione dell’impedimento che, ai sensi dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., grava sull’imputato. Essa consente infatti a quest’ultimo di dedurre come impedimento il generico dovere di svolgere funzioni di governo in un determinato periodo di tempo. Ciò rende impossibile la verifica del giudice circa la sussistenza e consistenza di uno specifico e preciso impedimento. Né può ritenersi che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri debba specificare, giorno per giorno, tutti gli impegni che rendono assolutamente impossibile la presenza in udienza dell’imputato nel corso del periodo di tempo considerato. Una simile interpretazione della disposizione renderebbe inutile la previsione di una apposita figura di impedimento continuativo e, del resto, non è stata seguita, in sede applicativa, dalla Presidenza del Consiglio, le cui attestazioni, nelle fattispecie oggetto dei giudizi principali, hanno indicato succintamente e solo in via esemplificativa alcuni degli impegni del Presidente del Consiglio dei ministri compresi in un periodo di tempo considerato.
In
secondo luogo, va osservato che il tenore testuale della disposizione in esame
ricollega l’effetto del rinvio del processo, per la durata dell’impedimento
continuativo, alla attestazione della Presidenza del Consiglio. È previsto,
infatti, che il giudice rinvia il processo non già quando «risulti», ma «ove
Per tutte queste ragioni, l’art. 1, comma 4, della legge n. 51 del 2010 produce effetti equivalenti a quelli di una temporanea sospensione del processo ricollegata al fatto della titolarità della carica, cioè di una prerogativa disposta in favore del titolare. Si tratta, pertanto, di una previsione normativa costituzionalmente illegittima.
PER QUESTI MOTIVI
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 7 aprile 2010, n. 51 (Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza);
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge n. 51 del 2010, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., l’impedimento addotto;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, commi 2, 5 e 6, e all’art. 2 della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, comma 1, della legge n. 51 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 138 della Costituzione, dal Tribunale di Milano, sezione I penale e sezione X penale, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale, con le ordinanze indicate in epigrafe, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio
2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Sabino CASSESE, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2011.