SENTENZA N. 200
ANNO 2012
Commento alla decisione di
Francesco Saitto
(per gentile concessione della Rivista telematica dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo
Maria NAPOLITANO
"
- Giuseppe FRIGO
"
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA
"
- Mario
Rosario MORELLI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’articolo 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure
urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, promossi con ricorsi
delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria, Calabria
e della Regione autonoma Sardegna, notificati il 12 ottobre, il 14-18, il
14-16, il 15, il 17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 21
ottobre, il 17, il 18, il 23 ed il 24 novembre 2011 e rispettivamente iscritti
ai nn. 124, 133, 134, 144, 145, 147, 158 e 160 del
registro ricorsi 2011.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2012 il
Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Giandomenico Falcon
e Franco Mastragostino per le Regioni Emilia-Romagna
e Umbria, Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna, Renato Marini per
la Regione Lazio, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Luigi Manzi per la
Regione Veneto, Graziano Pungì per la Regione
Calabria, Ugo Mattei ed Alberto Lucarelli per la Regione Puglia e l’avvocato
dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1. — Le Regioni Puglia, Toscana, Lazio,
Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e Calabria, e la Regione autonoma Sardegna hanno
impugnato l’articolo 3, oltre ad altre disposizioni, del decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo), come convertito dalla legge 14 settembre 2011,
n. 148, con ricorsi notificati rispettivamente il 12 ottobre, il 14-18, il 14-16,
il 15, il 17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 21 ottobre, il
17, il 18, il 23 ed il 24 novembre 2011 e iscritti ai nn.
124, 133, 134, 144, 145, 147, 158 e 160 del registro ricorsi 2011.
2. — L’articolo 3 impugnato, come risultante dalla
legge di conversione, al comma 1 stabilisce il «principio secondo cui
l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò
che non è espressamente vietato dalla legge», imponendo allo Stato e all’intero
sistema delle autonomie di adeguarvisi entro un termine prestabilito,
inizialmente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge di
conversione. Tale termine è stato successivamente individuato nel 30 settembre
2012, in base all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1
(Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n.
27. Dopo aver enunciato il principio summenzionato, il medesimo art. 3, comma
1, impugnato elenca una serie di principi, beni e ambiti che possono
giustificare eccezioni al principio stesso: limitazioni all’iniziativa e
all’attività economica possono essere giustificate per garantire il rispetto
dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali» e dei «principi fondamentali della Costituzione»; per
assicurare che l’attività economica non arrechi «danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana» e non si svolga in «contrasto con l’utilità sociale»;
per garantire «la protezione della salute umana, la conservazione delle specie
animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale»; e
dare applicazione alle «disposizioni relative alle attività di racconta di
giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica».
Il comma 2, del medesimo art. 3, qualifica tale
intervento quale «principio fondamentale per lo sviluppo economico» e
attuazione della «piena tutela della concorrenza tra le imprese».
Il comma 3 prevede che siano «in ogni caso
soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1, le disposizioni
normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con
conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di
attività e dell’autocertificazione con controlli successivi», e consente al
Governo, nelle more della decorrenza di detto termine, di adottare strumenti di
semplificazione normativa attraverso norme di natura regolamentare. A questo
scopo «Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare uno o più
regolamenti ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n.
400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di
quanto disposto nel presente comma ed è definita la disciplina regolamentare
della materia ai fini dell’adeguamento al principio di cui al comma 1».
Il successivo comma 4 stabilisce che «L’adeguamento
di Comuni, Province e Regioni all’obbligo di cui al comma 1 costituisce
elemento di valutazione della virtuosità dei predetti enti ai sensi dell’art.
20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15
luglio 2011, n. 111». Tale comma 4 è stato successivamente abrogato
dall’articolo 30, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di
stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012.
I successivi commi dell’art. 3 implementano la
liberalizzazione dell’esercizio delle professioni ed eliminano una serie di
restrizioni all’accesso alle medesime.
I commi 10 e 11, infine, rispettivamente consentono
la revoca di ulteriori restrizioni all’esercizio delle attività economiche e
all’accesso alle medesime, attraverso norme regolamentari e permettono, invece,
di mantenere le restrizioni per singole attività, con decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri, in presenza di ragioni di interesse generale,
rispetto alle quali le restrizioni costituiscono una misura indispensabile,
proporzionata, idonea e non discriminatoria sotto il profilo della concorrenza.
Più specificamente l’esclusione di un’attività economica dall’abrogazione delle
restrizioni è giustificata qualora: «a) la limitazione sia funzionale a ragioni
di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della
salute umana; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e,
dal punto di vista del grado di interferenza nella libertà economica,
ragionevolmente proporzionato all’interesse pubblico cui è destinata; c) la
restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla
nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale dell’impresa».
3. — La Regione Puglia, con il ricorso citato in
epigrafe, ha impugnato l’intero art. 3 del decreto-legge sopra citato, per
violazione degli articoli 41, 42, 43, 114, secondo comma, e 117 Cost.
La ricorrente ritiene che tale articolo – stabilendo
che le Regioni e gli enti locali debbano adeguare i propri ordinamenti al
principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica private sono libere
ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge, e
apponendo un elenco tassativo di ipotesi in cui il legislatore, statale o
regionale, può espressamente limitare l’esercizio dell’attività economica –
contrasti con l’art. 41 della Costituzione. In base alla disposizione impugnata
gli enti territoriali dovrebbero, dunque, adeguarsi ad una disciplina che
sovvertirebbe il quadro costituzionale dell’iniziativa e dell’attività
economica, introducendo «un assetto decisamente sbilanciato a favore
dell’iniziativa privata».
Inoltre, l’obbligo diffuso di adeguamento all’art. 3
censurato, equiparando Regioni ed enti locali, rappresenterebbe una forzatura
del disegno costituzionale, in quanto, a differenza degli enti locali, le
Regioni detengono una potestà legislativa autonoma garantita ex art. 117 Cost.,
che dunque non potrebbe soffrire l’inserimento, per via di legge statale
ordinaria, di un nuovo principio che ne limiti la "sovranità legislativa”.
4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato atto di costituzione e memoria difensiva relativamente alle
doglianze della Regione Puglia, il 21 novembre 2011.
Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che
l’art. 3 del decreto-legge impugnato sia una norma finalizzata a ridurre gli
oneri amministrativi e procedimentali a limitazione della libertà d’impresa e
per favorire la ripresa economica. Per tale ragione, la disposizione sarebbe
coerente con l’art. 41 Cost. e con il suo orientamento a favore della libera
iniziativa economica, delimitata dal rispetto dei principi fondamentali. Essa
sarebbe stata adottata dal legislatore con l’obiettivo di sviluppare la
competitività delle imprese sul piano internazionale, in base alla competenza
legislativa statale in materia di concorrenza.
5. — La Regione Puglia ha depositato, il 23 maggio
2012, memoria a sostegno delle proprie doglianze, tuttavia senza aggiungere
ulteriori argomenti con riferimento all’art. 3 impugnato.
6. — La Regione Toscana, con ricorso citato in
epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 4, per violazione degli articoli 117,
commi terzo e quarto, e 119 Cost. La ricorrente sostiene che la legislazione
statale, stabilendo il principio secondo cui, in ambito economico, è permesso
tutto ciò che non è espressamente vietato e prevedendo che l’adeguamento a tale
principio sia considerato elemento di valutazione della virtuosità delle
Regioni ai fini del patto di stabilità, costituirebbe un intervento normativo
«del tutto estraneo alle finalità di coordinamento della finanza pubblica»,
esorbitando dunque dai limiti che il legislatore statale incontra in tale
materia. La virtuosità, criterio sorto nell’ambito del contenimento e
razionalizzazione della spesa pubblica, diverrebbe quindi uno strumento capace
di coartare la «volontà delle Regioni» nella disciplina dell’attività
economica, travalicando così le sue originarie finalità: tramite le
disposizioni impugnate verrebbe, infatti, vincolata la potestà legislativa
regionale per fini estranei all’obiettivo del contenimento della spesa.
7. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato memoria avverso l’impugnazione della Regione Toscana il giorno 27
dicembre 2011, sostenendo che la doglianza sia stata superata a seguito
dell’entrata in vigore dell’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011, che
ha abrogato il comma 4 dell’art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011, oggetto
di censura. Pertanto, Il Presidente del Consiglio dei ministri ha richiesto che
sia dichiarata la cessazione della materia del contendere.
8. — La Regione Toscana ha, con memoria depositata
il 29 maggio 2012, evidenziato che la previsione abrogata sarebbe stata
«integralmente riproposta» dall’art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio
2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge
24 marzo 2012, n. 27 e ugualmente impugnato dalla Regione Toscana.
9. — La Regione Lazio, con ricorso citato in
epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 1, in combinato disposto con il comma 4
dello stesso articolo 3 del decreto-legge più volte richiamato.
La disposizione contenuta nel comma 1, secondo la
ricorrente, interverrebbe in un ambito prevalentemente attinente alla
disciplina del commercio e delle attività produttive, materie che la Corte
avrebbe costantemente ritenuto riconducibili alla competenza residuale
regionale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. La legislazione
impugnata, in violazione del riparto di competenze stabilito dall’art. 117
Cost. introdurrebbe una disciplina che impone alla Regione di regolare tali
settori secondo i principi dettati dal legislatore statale, per di più
prevedendo un meccanismo sanzionatorio in caso di mancato adeguamento, che
penalizzerebbe la Regione in relazione al patto di stabilità interno.
A detta della ricorrente Regione Lazio, non sarebbe
conferente la qualificazione dell’intervento normativo quale strumento di
"tutela della concorrenza”, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e).
Infatti, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, un intervento
normativo regionale, che limitasse l’iniziativa economica privata per ragioni
non coincidenti con quelle indicate dalla norma impugnata, efficaci erga omnes e fondate su presupposti ragionevoli, non
confliggerebbe con la libera concorrenza, purché non privilegi alcun operatore
economico, né alteri la competizione tra essi. La disposizione impugnata,
dunque, introdurrebbe costrizioni al legislatore regionale non giustificate
sulla base delle esigenze della tutela della concorrenza.
Infine, anche qualora si ritenesse di qualificare il
comma 1 – e, per relationem, il comma 4 – quale
misura a tutela della concorrenza, la disciplina statale, a detta della Regione
Lazio, risulterebbe in ogni caso costituzionalmente illegittima e lesiva delle
competenze regionali, in quanto non rispettosa del principio di leale
collaborazione. Infatti, nelle disposizioni impugnate, i profili della tutela
della concorrenza s’intreccerebbero inevitabilmente con altri aspetti
riconducibili alle materie delle "attività produttive” e del "commercio”, di
competenza regionale. Pertanto, si verificherebbe un’ipotesi di intreccio di
competenze statali e regionali, che esige il ricorso a forme di leale
collaborazione, coinvolgendo le Regioni nella produzione della legislazione
statale – forme che tuttavia la legislazione statale censurata non prevede.
10. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato, il 27 dicembre 2012, atto di
costituzione e memoria.
Con riferimento alla censura relativa all’art. 3,
comma 1, la difesa erariale sostiene che la disposizione si ponga all’interno
della competenza esclusiva statale in tema di tutela della concorrenza, poiché
le limitazioni diverse da quelle consentite dal comma impugnato comprimerebbero
il carattere concorrenziale dei mercati.
Viceversa, gli interventi legislativi regionali in
materia di commercio e attività produttive sarebbero in ogni caso possibili a
seguito dell’introduzione della legislazione impugnata, con l’ovvio limite del
principio di proporzionalità ex art. 3 Cost.
11. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria, con i
ricorsi indicati in epigrafe, hanno impugnato per identiche ragioni, anche
nelle enunciazioni, l’art. 3, commi 2, 3, 4, 10 e 11.
11.1. — Entrambe le Regioni muovono dal presupposto
che il comma 1 dell’articolo 3 stabilisce un «ovvio principio di libertà»,
imponendo eccezioni dai caratteri ampi e determinati, evocativi di un principio
di ragionevolezza, per cui si potrebbe «affermare senza paura di sbagliare che
tutti i divieti oggi esistenti potrebbero giustificarsi in base ad una o più
delle categorie enunciate». Tuttavia, proprio per questa ragione,
quell’enunciazione di principio non sarebbe né in grado di fungere da norma
parametro per l’abrogazione di regimi amministrativi eventualmente
incompatibili, né di indicare quali percorsi normativi si possano attivare per
il suo recepimento.
11.2. — In particolare, l’art. 3, comma 2,
qualificando il comma 1 quale principio fondamentale per lo sviluppo economico
e la tutela della concorrenza, violerebbe la competenza legislativa regionale,
considerato che lo sviluppo economico rientrerebbe tra le materie residuali
regionali. Del resto, a detta delle ricorrenti, il medesimo comma 1 sembrerebbe
escludere l’invasione delle competenze regionali, poiché, dal momento che
impone loro di adeguarsi al principio enunciato, ne riconosce le competenze in
tale ambito.
11.3. — Il nucleo centrale dell’impugnazione, per
espressa affermazione delle ricorrenti, si individuerebbe nell’art. 3, comma 3,
il quale stabilisce che, alla scadenza del termine di un anno, le disposizioni
di normative statali incompatibili sono «soppresse», con conseguente diretta
applicazione degli istituti di segnalazione d’inizio di attività e
autocertificazione, con le eccezioni a protezione dei principi fondamentali
stabiliti all’art. 3, comma 1. Tale previsione risulterebbe generica e
inapplicabile e pertanto irragionevole, in base all’art. 3 Cost., oltre che contraria
al buon andamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 Cost., e infine in
conflitto con il principio di certezza del diritto, a causa dell’incertezza
sulla disciplina vigente che ne deriverebbe.
Il secondo e terzo periodo del medesimo art. 3,
comma 3, prevedono che, nelle more della decorrenza del termine annuale,
l’adeguamento al principio di liberalizzazione possa avvenire anche attraverso
la semplificazione normativa e che il Governo, entro il 31 gennaio 2012, possa
adottare uno o più regolamenti con i quali individuare le disposizioni abrogate
e definire la disciplina regolamentare applicabile. Secondo le ricorrenti,
questi strumenti rappresenterebbero la chiave di volta del sistema, dal momento
che l’abrogazione implicita imposta dal primo periodo dell’art. 3, comma 3,
sarebbe di impossibile applicazione per la vaghezza dei principi invocati.
Tuttavia, la previsione di strumenti di delegificazione e semplificazione
sarebbe costituzionalmente illegittima, secondo le due ricorrenti, innanzitutto
per violazione del principio di legalità sostanziale. Infatti, i regolamenti di
delegificazione interverrebbero in mancanza di una "cornice legislativa”
all’interno della quale dovrebbero esplicarsi. Pertanto, la disciplina
regolamentare finirebbe per essere «meramente potestativa da parte del potere
esecutivo». In secondo luogo, l’assenza di qualunque delimitazione di materia
estenderebbe il potere regolamentare del Governo anche alle materie di
competenza legislativa regionale, sia concorrente che residuale, e pertanto
sarebbe in violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost. Infine, qualora, a
detta delle ricorrenti, l’intervento statale fosse inquadrabile in termini di
sussidiarietà, e dovesse ammettersi l’attribuzione della potestà regolamentare
in capo allo Stato, la disciplina permarrebbe illegittima per mancata
previsione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni per i profili di
competenza regionale.
11.4. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria censurano
inoltre l’art. 3, comma 4, ritenendolo illegittimo per due ordini di ragioni.
In primo luogo, esso esprimerebbe un dovere di adeguamento indefinito e
generico da parte delle Regioni nei confronti della disposizione di principio
statale, mancando di individuare i parametri di giudizio attraverso i quali
accertare l’adeguamento. Ciò configurerebbe complessivamente un tratto
d’incertezza e di irrazionalità della disciplina, sottoponendo la potestà
legislativa regionale a limiti diversi da quelli costituzionalmente previsti.
Inoltre, anche qualora i criteri ai quali adeguarsi
fossero definiti, non sussisterebbe un nesso razionale tra il principio di
liberalizzazione e gli effetti sulla finanza regionale che il comma censurato
ricollega al suo inadempimento, sicché sarebbe incongruo penalizzare finanziariamente
le Regioni per «presunti mancati adeguamenti ai principi statali».
11.5. — L’art. 3, comma 10, viene impugnato dalle
Regioni Emilia-Romagna e Umbria poiché la previsione che un regolamento
dell’esecutivo possa eliminare eventuali restrizioni all’esercizio delle
attività economiche violerebbe ugualmente il principio di legalità sostanziale,
per assenza di qualunque criterio idoneo a circoscrivere l’esercizio del potere
regolamentare. La medesima disposizione confliggerebbe inoltre con l’art. 117,
sesto comma, Cost., ove si ritenesse che il regolamento ivi previsto può
estendersi ad oggetti ed ambiti di competenza regionale. Infine, essa sarebbe
illegittima per violazione del principio di leale collaborazione, poiché non
prevede la conclusione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni,
laddove i regolamenti governativi dovessero interferire con materie di
competenza regionale.
11.6. — L’art. 3, comma 11, dispone che singole
attività economiche possano essere escluse dall’abrogazione delle restrizioni
con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso una procedura
che deve coinvolgere il ministro competente per materia, il Ministro
dell’economia e delle finanze e l’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, entro quattro mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione
del decreto-legge, purché a) si sia in presenza di ragioni di interesse
pubblico, in particolare di quelle legate alla salute umana, b) tale
limitazione alla libertà economica sia indispensabile, idonea e proporzionata,
c) e tale restrizione non generi una discriminazione diretta o indiretta.
Tale disposizione, secondo l’impugnativa delle
Regioni Emilia-Romagna e Umbria, sarebbe illegittima, in quanto consentirebbe
soltanto allo Stato e non alle Regioni di far valere ragioni di interesse
pubblico per consentire limitazioni alle attività economiche. Inoltre, anche
qualora ragioni di uniformità e sussidiarietà consentissero l’attrazione di
tali competenze in capo allo Stato, gli interessi regionali dovrebbero trovare
spazio attraverso il modello dell’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni,
che la disposizione non prevede. Per tale ragione, verrebbe pertanto violato
anche il canone della leale collaborazione.
12. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato il 27 dicembre 2011 due distinti atti d’intervento e memoria
d’identico contenuto, nei confronti delle doglianze delle Regioni
Emilia-Romagna e Umbria, chiarendo, con riferimento all’art. 3, comma 1, che si
tratta di una «disposizione programmatica», come tale inidonea a recare lesione
alle competenze legislative regionali e che il medesimo art. 3, commi 3, 10 e
11, si riferisce alle sole disposizioni statali; quindi tali commi, così
interpretati, sono insuscettibili di impingere nelle competenze regionali. In
ogni caso, il legislatore statale avrebbe agito in base all’art. 41 Cost., che
gli attribuirebbe, in tesi, il potere di attuare gli interventi opportuni per
il coordinamento dell’attività economica; il suo intervento si situerebbe, inoltre,
nel quadro della sua competenza esclusiva statale a tutela della concorrenza.
Conseguentemente, la normativa non sarebbe neppure viziata d’irragionevolezza.
13. — La Regione Emilia-Romagna e la Regione Umbria,
con memorie distinte, ma di identico contenuto, depositate entrambe il 29
maggio 2012, hanno evidenziato, da un lato, che l’abrogazione dell’art. 3,
comma 4, effettuata dall’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011, ha
determinato la cessazione della materia del contendere, in quanto l’effetto
abrogativo si sarebbe realizzato prima dello scadere del termine previsto per
l’adeguamento regionale; dall’altro, che i commi 3, 10 e 11, invece, non recano
contenuti meramente programmatici, ma potrebbero incidere su competenze
legislative regionali. Inoltre, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa
erariale ad esclusione della illegittimità della normativa censurata, l’art. 41
Cost. non attribuirebbe una competenza esclusiva allo Stato nel campo della
regolazione delle attività economiche, sicché gli interventi normativi di
attuazione di tale principio costituzionale si distribuirebbero invece tra
Stato e Regioni, sulla base dell’ordine delle competenze determinate dall’art.
117 Cost.
14. — La Regione Veneto, con il ricorso citato in
epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011,
con riferimento agli articoli 5, 117 e 120 Cost., e al principio di leale
collaborazione.
14.1. — La ricorrente muove anzitutto dalla
ricostruzione della materia "sviluppo economico”, che dovrebbe rientrare tra le
competenze esclusive regionali o, comunque, strutturarsi quale "materia
trasversale” e pertanto investire tutti gli ambiti, anche di competenza
regionale. La Corte, con sentenza n. 165 del
2007, avrebbe già precisato i limiti delle attribuzioni statali in tema di
sviluppo economico, anche con riferimento alle pressanti esigenze di natura
finanziaria, riconoscendo che tali attribuzioni interferiscono con quelle
regionali.
Tuttavia, la Corte medesima, con sentenza n. 64 del
2007, avrebbe già riconosciuto la competenza del legislatore regionale a fissare
limiti alla libera concorrenza e all’accesso al mercato, purché non
irragionevoli e giustificati al fine di ridurre gli effetti negativi che si
possano produrre nel tessuto economico preesistente.
14.2. — L’obbligo di adeguamento, imposto in modo indifferenziato
e corredato di sanzione ai sensi dell’art. 3, comma 4, interferirebbe, dunque,
con ambiti di attribuzione regionale, vulnerando il riparto di competenze ex
art. 117 Cost. Inoltre, anche a voler ammettere la necessità di rispondere a
preminenti esigenze di solidarietà nazionale, tali da giustificare l’esercizio
unitario di una funzione statale in materia di liberalizzazione delle attività
economiche in deroga al normale riparto sancito dall’art. 117 Cost.,
risulterebbe comunque necessario rispettare il principio di leale
collaborazione.
La sanzione prevista dall’art. 3, comma 4, infine,
risulterebbe sproporzionata in relazione alla condotta eventualmente difforme
dal precetto. Il sistema individuato dal legislatore nel decreto-legge n. 138
del 2011, all’art. 3, richiamerebbe per alcuni aspetti quanto previsto dalla
legge 10 febbraio 1953, n. 62 (Costituzione e funzionamento degli organi
regionali), all’art. 10, primo comma, il quale stabiliva che i principi della
legislazione statale innovativi abrogassero le norme regionali con essi
contrastanti, ma, a differenza dalle disposizioni oggi in discussione,
mantenevano intatta la facoltà delle Regioni di continuare ad esercitare le
proprie competenze legislative, adeguandosi alle nuove normative statali di
principio. Del resto, un’ulteriore alternativa ad uno strumento tanto pervasivo
quale un principio generale corredato di una sanzione di natura finanziaria si
ritroverebbe nell’art. 117, quinto comma, Cost., già attuato dall’art. 84 del
decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), che disciplina la
cedevolezza delle normative incompatibili, prevedendo che le disposizioni del
medesimo decreto si applichino anche in materie legislative regionali sino
all’entrata in vigore delle disposizioni regionali attuative della normativa.
Per tali ragioni, il comma 4 dell’articolo impugnato
prevedrebbe, conclusivamente, uno strumento sanzionatorio eccessivo e lesivo
delle prerogative di autonomia garantite all’art. 5 Cost.
15. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato atto di costituzione il 27 dicembre 2012, sostenendo che la
doglianza relativa all’art. 3, comma 4, risulta inammissibile per sopravvenuta
carenza d’interesse, a seguito dell’abrogazione intervenuta con la legge n. 183
del 2011 (art. 30, comma 6).
16. — La Regione Calabria, con il ricorso citato in
epigrafe, ha impugnato l’art. 3, commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 138 del
2011, più volte menzionato, in riferimento alle competenze regionali in tema di
tutela della salute.
L’attuazione di tali disposizioni del decreto-legge
in discussione, secondo la ricorrente, determinerebbe una significativa
innovazione nel sistema sanitario. Infatti, in base a giurisprudenza costante
della Corte di giustizia dell’Unione europea, le prestazioni mediche
rientrerebbero nell’ambito di applicazione delle disposizioni relative alla
libera prestazione dei servizi e pertanto sarebbero interessate dall’intervento
normativo. La ricorrente evidenzia l’impatto della normativa sul sistema
sanitario calabrese, alla luce del fatto che, con legge regionale 18 luglio del
2008, n. 24 (Norme in materia di autorizzazione, accreditamento, accordi
contrattuali e controlli delle strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche
e private), la Regione Calabria ha disciplinato il sistema di erogazione delle
prestazioni sanitarie, prevedendo l’autorizzazione sanitaria, quale
provvedimento con cui si consente l’esercizio dell’attività sanitaria o socio-sanitaria,
da parte di strutture pubbliche, private o di professionisti (art. 3, comma 1),
mentre ha consentito alle strutture pubbliche e private ed ai professionisti
già autorizzati di erogare prestazioni sanitarie o socio-sanitarie per conto
del sistema sanitario nazionale tramite accreditamento (art. 11, comma 1),
stabilendo altresì che quest’ultimo possa essere concesso in relazione alle
necessità della Regione, evidenziate nel Piano Sanitario Regionale (art. 11,
comma 4). Questa sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie seguiva del
resto gli articoli 8-ter e 8-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992,
n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1
della legge 23 ottobre 1992, n. 421).
La Regione Calabria, oggetto di commissariamento per
deficit sanitario (delibera del Consiglio dei ministri del 30 luglio 2010), ha
adottato un apposito piano di rientro (delibera della Giunta regionale n.
845/09), approvato con accordo Stato-Regione stipulato il 17 dicembre 2009 e a
sua volta oggetto di delibera regionale n. 908 del 2009. Tale piano di rientro
prevede, tramite un cronoprogramma, di riorganizzare la rete di ospedali e
strutture pubbliche e private, mediante analisi della domanda e dell’offerta.
Il sistema sanitario regionale, così sommamente delineato, troverebbe un
supporto nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, e
in particolare nella sentenza
10 marzo 2009, in causa C-169/07, Hartlauer, che
ha ritenuto non incompatibili con il diritto comunitario le restrizioni allo
svolgimento di attività, giustificate da ragioni di sanità pubblica, purché non
discriminino gli operatori in base alla nazionalità e, qualora la limitazione
sia volta alla realizzazione di un livello elevato di tutela della salute,
contemperando tale obiettivo con la necessità di prevenire il rischio di una
grave alterazione dell’equilibrio finanziario.
Le norme impugnate, secondo la ricorrente,
violerebbero pertanto gli articoli 41, terzo comma, e 97 Cost., invadendo
inoltre la competenza concorrente regionale in materia di tutela della salute,
prevista dall’art. 117 Cost., dal momento che la normativa sembrerebbe imporre
di accogliere «senza alcun filtro tutte le istanze di autorizzazione ed
accreditamento», in contrasto con il sistema introdotto dalla Regione.
Inoltre, l’art. 3, commi 1 e 2, violerebbe gli artt.
41, terzo comma, e 97 Cost., anche con riferimento ad altri tipi di attività
(ad esempio, vendita al pubblico dei farmaci da banco o di automedicazione,
aperture di strutture di grande e media distribuzione), pregiudicando
l’ordinato funzionamento dell’ordinamento regionale. Esso, inoltre, invaderebbe
la competenza concorrente ex art. 117 Cost. in materia di governo del
territorio, di tutela della salute, di commercio, vietando sostanzialmente – ad
esempio – «di subordinare il rilascio delle autorizzazioni alla determinazione
di requisiti quali la superficie minima che deve avere l’apposito reparto
destinato allo svolgimento della riferita attività», o alla «idonea
pianificazione territoriale degli insediamenti delle attività commerciali», o
di condizionare «l’apertura di grandi strutture di vendita in base alla dimensione
demografica del territorio comunale di insediamento».
L’art. 3, commi 1, 2 e 4, porrebbe la Regione
Calabria nell’alternativa di ottemperare a tali norme liberalizzanti, in
violazione del piano di rientro, oppure di mantenere il proprio ordinamento, rischiando
di non essere valutata come ente virtuoso, ex art. 3, comma 4. Tali commi
sarebbero pertanto complessivamente viziati da illegittimità costituzionale,
per violazione del principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e del
principio di leale collaborazione.
È anche dedotta – pur senza specifica motivazione –
la violazione degli artt. 70 e 77 Cost. in riferimento all’intero art. 3 del
menzionato decreto-legge.
17. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato atto di costituzione il 27 dicembre 2012, sviluppando argomentazioni
identiche a quelle svolte nei confronti delle Regioni Emilia-Romagna e Umbria,
di cui al punto 12, alle quali pertanto si rinvia.
18. — La Regione Calabria ha depositato ulteriore
memoria il 23 maggio 2012, ribadendo le conclusioni avanzate nel ricorso.
19. — La Regione autonoma Sardegna, con il ricorso
citato in epigrafe, ha impugnato l’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138
del 2011, con riferimento agli articoli 3, 4 e 7 dello statuto di autonomia
(Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3) e agli articoli 3, 117 e 119
della Costituzione.
19.1. — L’art. 3, comma 4, del decreto impugnato
trasformerebbe, secondo la ricorrente, in vincoli di finanza pubblica degli
adempimenti di carattere sostanziale privi di rilevanza finanziaria. Ci si
troverebbe dunque di fronte ad «un caso paradigmatico di eccesso di potere
legislativo e, comunque, di violazione del principio di ragionevolezza», in
contrasto con l’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli articoli 117 e 119 Cost.,
che, del resto, non contemplerebbero una tale competenza statale.
19.2. — Più precisamente, l’art. 3, comma 4,
attribuendo allo Stato il potere di valutare il livello di attuazione regionale
a fini di determinazioni di carattere finanziario, gli consentirebbe di
condizionare le scelte del legislatore regionale al di fuori del riparto di
competenze stabilito dall’art. 117, secondo e terzo comma, Cost. In
particolare, con tale disposizione lo Stato vincolerebbe nei fatti le Regioni
nelle materie di competenza legislativa concorrente pur senza dettarne i
principi fondamentali ex art. 117, comma terzo, Cost.
19.3. — L’articolo 3, comma 4, viene inoltre
impugnato dalla Regione autonoma Sardegna per contrasto con gli artt. 3, 4 e 7
dello statuto di autonomia, in quanto la disposizione limita indebitamente
l’autonomia regionale sia nelle materie di competenza esclusiva che in quelle
di competenza concorrente, sia, infine, in materia di bilancio. Infatti, la
regolamentazione dell’iniziativa economica privata interessa, oltre ad ambiti
materiali indicati all’art. 117, terzo comma, Cost., anche quelli elencati agli
articoli 3 e 4 dello statuto, ed in particolare all’art. 3, primo comma,
lettere d) (agricoltura e foreste) f) (edilizia e urbanistica), g) (trasporti
su linee automobilistiche e tramviarie), o) (artigianato), p) (turismo,
industria alberghiera) e all’art. 4, primo comma, lettere a) (industria,
commercio ed esercizio industriale delle miniere, cave e saline), b)
(istituzione ed ordinamento degli enti di credito fondiario ed agrario, delle
casse di risparmio), e) (produzione e distribuzione dell’energia elettrica), f)
(linee marittime ed aeree di cabotaggio fra i porti e gli scali della Regione),
m) (pubblici spettacoli), che allocano diverse competenze alla Regione. L’art.
7 dello statuto, infine, sarebbe violato in quanto assegna alla Regione
un’ampia autonomia finanziaria.
20. — Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
depositato atto di costituzione il 23 dicembre 2011, sostenendo che le
doglianze relative all’art. 3, comma 4, siano state superate dall’abrogazione
della norma impugnata dalla Regione autonoma Sardegna, effettuata con l’art.
30, comma 6, della legge n. 183 del 2011
21. — Con ulteriore memoria depositata il 29 maggio
2012, la Regione autonoma Sardegna riconosce che l’abrogazione dell’art. 3,
comma 4, determina l’inutilizzabilità del criterio dell’adeguamento regionale
al principio della liberalizzazione delle attività economiche al fine di
valutare la virtuosità dell’ente, rimettendosi alle conseguenze processuali che
riterrà la Corte.
22. — Con memoria depositata il 29 maggio 2012, il
Presidente del Consiglio dei ministri ha ulteriormente replicato in riferimento
alle diverse doglianze presentate dalle Regioni ricorrenti avverso l’art. 3 del
decreto-legge n. 138 del 2011.
22.1. — A detta della parte resistente, le Regioni
concentrano l’impugnazione sostanzialmente sul principio di liberalizzazione,
che, eccedendo dal limite della competenza statale esclusiva in tema di tutela
della concorrenza, interferirebbe con le competenze regionali a disciplinare il
commercio e le attività produttive.
Tuttavia, secondo il resistente, la tesi non sarebbe
correttamente impostata. Si tratterebbe invece di individuare i presupposti
costituzionali sostanziali della legislazione regionale in materia economica,
stabiliti dall’art. 41 Cost., il quale enuncerebbe la libertà d’iniziativa
economica innanzitutto come libertà "negativa”, «opponibile a qualsiasi
intervento autoritativo».
L’art. 3 impugnato, secondo la parte resistente, si
limiterebbe a ribadire il principio di libertà d’iniziativa economica di cui
all’art. 41, primo comma, Cost., precisando le situazioni nelle quali a questa
libertà si possano apporre limiti. Questa interpretazione dell’articolo 3 si
evincerebbe dalla lettura dei casi d’eccezione alla libertà di esercizio delle
attività economiche – lettere da a) ad e) del comma 1 dell’art. 3 del
decreto-legge n. 138 del 2011 – che ricalcano in gran parte le limitazioni già
previste dall’art. 41, secondo e terzo comma, Cost. ampliandole e precisandole.
Pertanto, il legislatore regionale non subirebbe alcuna limitazione delle sue
prerogative in forza dell’art. 3 del decreto-legge impugnato.
22.2. — Così inquadrato, dell’intervento del
legislatore statale andrebbe valutato lo scopo normativo di "tutela della
concorrenza”, esplicitamente statuito dall’art. 3, comma 2, del decreto-legge
impugnato. Secondo la sentenza di questa
Corte n. 430 del 2007, che ha puntualizzato i criteri per identificare un
legittimo intervento normativo statale in tale ambito, l’art. 3 avrebbe i
caratteri richiesti, poiché, come previsto dalla sentenza citata, perseguirebbe
fini promozionali della concorrenza, attraverso l’eliminazione di vincoli
all’esercizio dell’attività economica.
L’art. 3, comma 3, del decreto-legge impugnato,
prevedendo l’abrogazione implicita delle disposizioni di normative statali che
contengono restrizioni alla libera iniziativa economica non giustificate dai
principi elencati all’art. 3, comma 1, costituirebbe pertanto una declinazione
del principio pro-concorrenziale di liberalizzazione. La disposizione impugnata
si risolverebbe nel pretendere che le limitazioni all’attività economica si conformino
ai principi della tutela della concorrenza, secondo l’impostazione data
dall’Unione europea, e rispettino i canoni di proporzionalità ed effettiva
necessità. Pertanto, l’eventuale incidenza della legislazione statale sugli
ambiti di competenza regionale risulterebbe, conclusivamente, legittima.
Considerato
in diritto
1. — Le Regioni Puglia, Toscana, Lazio,
Emilia-Romagna, Veneto, Umbria e Calabria, e la Regione autonoma Sardegna, con i
ricorsi indicati in epigrafe, hanno impugnato numerose disposizioni del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), come convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
2. — Riservate a separate decisioni le questioni
sulle altre disposizioni del decreto-legge n. 138 del 2011, la Corte delimita
l’oggetto del presente giudizio alle censure relative all’articolo 3 del
decreto-legge citato, come risultante dalla legge di conversione, che detta
principi in tema di regolazione delle attività economiche.
I giudizi, così separati e delimitati, in
considerazione della loro connessione oggettiva, devono essere riuniti per
essere decisi con un’unica pronuncia.
3. — L’art. 3 impugnato, nel testo modificato dalla
legge di conversione, al comma 1 stabilisce il «principio secondo cui
l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò
che non è espressamente vietato dalla legge», imponendo allo Stato e all’intero
sistema delle autonomie di adeguarvisi entro un termine prestabilito,
inizialmente fissato in un anno dall’entrata in vigore della legge di
conversione. Tale termine è stato successivamente procrastinato fino al 30
settembre 2012, in base all’art. 1, comma 4-bis, del decreto-legge 24 gennaio
2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge
24 marzo 2012, n. 27. Dopo aver enunciato il principio summenzionato, il
medesimo art. 3, comma 1, elenca una serie di principi, beni e ambiti che
possono giustificare eccezioni al principio stesso: ai sensi di tali
proposizioni, limiti all’iniziativa e all’attività economica possono essere
giustificati per garantire il rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali» e dei «principi fondamentali della
Costituzione»; per assicurare che l’attività economica non arrechi «danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e non si svolga in «contrasto con
l’utilità sociale»; per garantire «la protezione della salute umana, la
conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e
del patrimonio culturale»; e dare applicazione alle «disposizioni relative alle
attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti
sulla finanza pubblica».
Il successivo comma 2 del medesimo art. 3 qualifica
le precedenti disposizioni come «principio fondamentale per lo sviluppo
economico» e attuazione della «piena tutela della concorrenza tra le imprese».
L’art. 3, comma 3, prevede che siano «in ogni caso
soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1, le disposizioni
normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con
conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di
attività e dell’autocertificazione con controlli successivi», e consente al
Governo, nelle more della decorrenza di detto termine, di adottare strumenti di
semplificazione normativa attraverso provvedimenti di natura regolamentare. A
questo scopo «Entro il 31 dicembre 2012 il Governo è autorizzato ad adottare
uno o più regolamenti ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto
1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per
effetto di quanto disposto nel presente comma ed è definita la disciplina
regolamentare della materia ai fini dell’adeguamento al principio di cui al
comma 1».
Il comma 4 dell’articolo impugnato stabilisce che
«L’adeguamento di Comuni, Province e Regioni all’obbligo di cui al comma 1
costituisce elemento di valutazione della virtuosità dei predetti enti ai sensi
dell’art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla
legge 15 luglio 2011, n. 111». Tale comma 4 è stato poi successivamente
abrogato dall’articolo 30, comma 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato.
Legge di stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012.
I successivi commi dell’art. 3 implementano la
liberalizzazione dell’esercizio delle professioni ed eliminano una serie di
restrizioni all’accesso alle medesime.
I commi 10 e 11, infine, rispettivamente consentono
la revoca di ulteriori restrizioni all’esercizio delle attività economiche e
all’accesso alle medesime attraverso norme regolamentari e permettono, invece,
di mantenere le restrizioni per singole attività, con decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri, in presenza di ragioni di interesse generale,
rispetto alle quali le restrizioni costituiscono una misura indispensabile,
proporzionata, idonea e non discriminatoria sotto il profilo della concorrenza.
Più specificamente, l’esclusione di un’attività economica dall’abrogazione
delle restrizioni è giustificata qualora: «a) la limitazione sia funzionale a
ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla
tutela della salute umana; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo,
indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella libertà
economica, ragionevolmente proporzionato all’interesse pubblico cui è
destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o
indiretta basata sulla nazionalità o, nel caso di società, sulla sede legale dell’impresa».
4. — Occorre preliminarmente esaminare le numerose
questioni relative all’art. 3, comma 4, del decreto-legge n. 138 del 2011, in
quanto l’Avvocatura dello Stato chiede che sia dichiarata cessata la materia
del contendere, alla luce della sopravvenuta abrogazione della norma impugnata,
in seguito all’entrata in vigore dell’art. 30, comma 6, della legge n. 183 del
2011.
4.1. — In effetti, tutte le Regioni ricorrenti – con
l’eccezione della Regione Puglia che, come si dirà tra breve, ha rivolto le
proprie doglianze all’intero art. 3, complessivamente inteso e senza ulteriori
precisazioni – hanno evidenziato specifici profili di illegittimità
costituzionale del comma 4, in quanto esso ricollega conseguenze di ordine
finanziario al tempestivo adeguamento, da parte delle Regioni e degli enti
locali, al principio della liberalizzazione delle attività economiche,
opportunamente bilanciato con le altre esigenze enunciate al precedente comma
1: l’ottemperanza di tali principi, ai sensi della disposizione qui in esame,
«costituisce elemento di valutazione della virtuosità dei predetti enti», ai
fini del riparto delle risorse finanziarie determinate annualmente con il Patto
di stabilità interno, ai sensi dell’art. 20, comma 3, del decreto- legge 6
luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111). In altri
termini, la disposizione impugnata, piuttosto che sanzionare le Regioni e gli
enti locali inadempienti, prevede forme di incentivazione finanziaria per gli
enti virtuosi, che modifichino la propria legislazione, in osservanza ai
principi stabiliti dal legislatore statale e nei termini previsti.
La disposizione contenuta nell’art. 3, comma 4, è
stata censurata in relazione agli artt. 3, 5, 117, 119 e 120 Cost., al
principio di leale collaborazione e, da parte della Regione autonoma Sardegna,
agli artt. 3, primo comma, lettere d), f), g), o) e p), 4, primo comma, lettere
a), b), e), f) ed m), e 7 dello statuto di autonomia (Legge costituzionale 26
febbraio 1948, n. 3).
4.2. — In ordine all’art. 3, comma 4, del
decreto-legge impugnato deve essere dichiarata la cessazione della materia del
contendere.
In effetti, come è stato sottolineato
dall’Avvocatura dello Stato e da alcune Regioni ricorrenti, la norma in esame è
stata abrogata dall’articolo 30, comma 6, della legge n. 183 del 2011, a
decorrere dal 1° gennaio 2012. L’abrogazione è, dunque, intervenuta prima che
scadesse il termine di adeguamento al principio imposto alle Regioni,
individuato nel 30 settembre 2012, e prima che la disposizione medesima potesse
esplicare effetti, previsti a partire dall’anno 2012. Ne consegue che la norma
non ha potuto ricevere alcuna applicazione durante il periodo in cui è rimasta
in vigore.
5. — Venendo alle singole questioni residue portate
all’esame della Corte, va considerata una prima ragione di doglianza, mossa
dalla Regione Calabria, che riguarda l’intero articolo 3.
5.1. — Sono evocati a parametro gli articoli 70 e 77
Cost., in quanto il contenuto normativo della disposizione impugnata non
presenterebbe i caratteri di straordinaria necessità e urgenza prescritti dalla
Costituzione affinché il Governo possa legittimamente adottare decreti-legge.
Pertanto, secondo la ricorrente, la legge di conversione sarebbe viziata, sia
per violazione dei requisiti costituzionalmente previsti per la decretazione
d’urgenza, sia perché il Governo avrebbe indebitamente usurpato il potere
legislativo al Parlamento, attraverso il ricorso allo strumento del
decreto-legge.
5.2. — Tale censura è inammissibile, per difetto di
motivazione.
Infatti, a parte una mera evocazione degli articoli
70 e 77 Cost., né l’atto introduttivo del giudizio, né la successiva memoria
offrono alcun argomento a suffragio della censura, che documenti l’asserita
mancanza di presupposti per la decretazione d’urgenza. Inoltre, deve
richiamarsi il consolidato orientamento di questa Corte, in base al quale le
Regioni possono invocare, nel giudizio di costituzionalità in via principale, parametri
diversi da quelli contenuti nel Titolo V della Parte II della Costituzione a
condizione che la lamentata violazione ridondi sul riparto di competenze
legislative tra Stato e Regioni (sentenze n. 33 del 2011,
n. 156, n. 52 e n. 40 del 2010,
n. 341 del 2009).
Nel caso di specie la ricorrente non spiega in che modo l’asserita violazione
degli artt. 70 e 77 Cost. determini una compressione delle competenze costituzionali
delle Regioni.
6. — Una seconda ragione di doglianza, avanzata
dalla Regione Puglia ed avente parimenti ad oggetto l’art. 3 nella sua
interezza, evoca, quali parametri del giudizio, gli articoli 41, 42, 43, 114,
secondo comma, e 117 Cost.
6.1. — Ad avviso della ricorrente, la disposizione
impugnata, stabilendo che le Regioni e gli enti locali debbano adeguare i
propri ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica
private sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato
dalla legge, e ponendo un elenco tassativo di ipotesi in cui il legislatore,
statale o regionale, può espressamente limitare l’esercizio dell’attività
economica, contrasta con l’art. 41 della Costituzione e con gli altri principi
costituzionali in materia economica. In base alla disposizione impugnata, gli
enti territoriali dovrebbero, dunque, adeguarsi ad una disciplina che
sovvertirebbe il quadro costituzionale dell’iniziativa e dell’attività
economica, introducendo «un assetto decisamente sbilanciato a favore
dell’iniziativa privata». Inoltre, l’obbligo diffuso di adeguamento all’art. 3
censurato, equiparando Regioni ed enti locali, rappresenterebbe una forzatura
del quadro costituzionale, in quanto, a differenza degli enti locali, le Regioni
detengono una potestà legislativa autonoma garantita ex art. 117 Cost., che
dunque non potrebbe soffrire l’inserimento, per via di legge statale ordinaria,
di un nuovo principio che ne limiti la «sovranità legislativa».
6.2. — Anche tali censure risultano inammissibili,
in quanto generiche e indeterminate.
Infatti, in primo luogo, la censura si appunta
sull’intero art. 3, senza puntualizzare ulteriormente quali disposizioni di
esso intenda investire, sebbene l’art. 3 abbia un contenuto complesso. Inoltre,
il richiamo ai parametri di cui agli artt. 41, 42 e 43 Cost. risulta generico e
indeterminato. Si asserisce, senza argomentare, la sussistenza di un conflitto
tra tali previsioni costituzionali e il principio di liberalizzazione delle
attività economiche statuito nella disposizione impugnata, principio che tra
l’altro non è affermato in termini assoluti, ma deve essere modulato al fine di
soddisfare una serie di esigenze, alcune delle quali riproducono anche
testualmente i contenuti dell’art. 41 Cost., e ne annoverano di ulteriori; né
viene spiegato per quali ragioni le previsioni costituzionali e quella
legislativa, mirata alla liberalizzazione, non sarebbero armonizzabili.
Per la medesima ragione attinente alla genericità e
alla insufficiente motivazione del ricorso, risultano inammissibili anche le
censure basate sugli artt. 114, terzo comma, e 117 Cost., parametri che sono
evocati genericamente, senza neppure specificare quali aspetti delle
disposizioni costituzionali richiamate, che hanno un contenuto particolarmente
complesso e articolato, dovrebbero rilevare nel presente giudizio.
7. — Proseguendo l’esame delle questioni portate
all’esame della Corte in relazione ai singoli commi dell’art. 3 del
decreto-legge n. 138 del 2011, vengono anzitutto in rilievo le censure rivolte
all’art. 3, comma 1, e al principio ivi statuito per cui nell’ambito delle
attività economiche «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla
legge», principio che, come si è già ricordato più volte, subisce limitazioni a
tutela di altre esigenze indicate dalla medesima disposizione oggetto di esame.
7.1. — La Regione Lazio e la Regione Calabria
contestano la legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del
decreto-legge impugnato, per violazione del riparto di competenze stabilito
all’art. 117 Cost., perché esso interferirebbe con ambiti di pertinenza della
legislazione regionale.
In particolare, la Regione Lazio sottolinea
l’incidenza della normativa impugnata nelle materie del commercio e attività produttive,
che sarebbero riservate alle Regioni a titolo di competenza legislativa
residuale. Inoltre, secondo la Regione, anche a voler concedere che
l’intervento del legislatore statale possa essere giustificato in ragione delle
competenze ad esso riconosciute nell’ambito della tutela della concorrenza, non
si potrebbe comunque superare il vizio della legge sotto il profilo del mancato
rispetto del principio di leale collaborazione, considerato il fitto
intersecarsi di competenze statali e regionali sul terreno delle attività
economiche.
Per quanto riguarda la Regione Calabria, le censure
si appuntano piuttosto sulla violazione delle competenze regionali in materia
di tutela della salute, commercio, governo del territorio, oltre che sul
mancato rispetto del principio di leale collaborazione, richiamando, quali
parametri del giudizio, gli artt. 41, 97 e 117 Cost. La ricorrente teme che,
per conformarsi al principio di liberalizzazione introdotto dal legislatore
statale, l’organizzazione del sistema sanitario regionale debba essere
radicalmente modificata, dal momento che, nell’interpretazione della
ricorrente, il suddetto principio imporrebbe di accogliere «senza alcun filtro
tutte le istanze di autorizzazione e accreditamento» presentate dagli operatori
sanitari. Inoltre, sotto l’impatto della liberalizzazione voluta dal
legislatore statale, la Regione non potrebbe continuare a regolare la vendita
al pubblico di farmaci da banco o automedicazione, o l’apertura di strutture di
media o grande distribuzione, valutando l’insediamento di tali attività in base
alla distribuzione demografica o imponendo dei requisiti per il loro
svolgimento.
7.2. — L’asserita invasione delle competenze
regionali da parte del legislatore statale si evidenzierebbe più chiaramente
alla luce del comma 2 del medesimo art. 3, che qualifica il precedente comma 1
come «principio fondamentale per lo sviluppo economico», rivolto all’attuazione
della «piena tutela della concorrenza».
Le Regioni Calabria, Emilia-Romagna e Umbria,
infatti, rilevano che il legislatore statale, evocando le esigenze della «piena
tutela della concorrenza», intenderebbe giustificare l’imposizione da parte
dello Stato del principio della liberalizzazione anche in ambiti di competenza
regionale; d’altra parte, la qualifica del medesimo principio come attinente
allo «sviluppo economico» appaleserebbe l’invasione delle competenze regionali,
in quanto la materia "sviluppo economico” apparterrebbe ai titoli di competenza
residuale regionale.
7.3. — Le questioni relative all’art. 3, commi 1 e
2, non sono fondate.
Con la normativa censurata, il legislatore ha inteso
stabilire alcuni principi in materia economica orientati allo sviluppo della
concorrenza, mantenendosi all’interno della cornice delineata dai principi
costituzionali. Così, dopo l’affermazione di principio secondo cui in ambito
economico «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge»,
segue l’indicazione che il legislatore statale o regionale può e deve mantenere
forme di regolazione dell’attività economica volte a garantire, tra l’altro –
oltre che il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari e la piena
osservanza dei principi costituzionali legati alla tutela della salute,
dell’ambiente, del patrimonio culturale e della finanza pubblica – in
particolare la tutela della sicurezza, della libertà, della dignità umana, a
presidio dell’utilità sociale di ogni attività economica, come l’art. 41 Cost.
richiede. La disposizione impugnata afferma il principio generale della
liberalizzazione delle attività economiche, richiedendo che eventuali
restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbano trovare
puntuale giustificazione in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori
interessi che il legislatore statale ha elencato all’art. 3, comma 1.
Complessivamente considerata, essa non rivela elementi di incoerenza con il
quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a
una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli
al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o
sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che
le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale
(sentenze n. 247
e n. 152 del
2010, n. 167
del 2009 e n.
388 del 1992).
7.4. — Rispetto alla pretesa invasione delle
competenze regionali in materia di commercio, attività produttive e tutela
della salute, ex art. 117 Cost., occorre anzitutto osservare che il legislatore
statale ha agito nell’ambito, ad esso spettante, della tutela della
concorrenza, come correttamente specificato dall’art. 3, comma 2, del
decreto-legge n. 138 del 2011.
Infatti, per quanto l’autoqualificazione
offerta dal legislatore non sia mai di per sé risolutiva (ex multis, sentenze n. 164 del 2012,
n. 182 del 2011
e n. 247 del
2010), in questo caso appare corretto inquadrare il principio della
liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito della competenza statale
in tema di «tutela della concorrenza». Quest’ultimo concetto, la concorrenza,
ha un contenuto complesso in quanto ricomprende non solo l’insieme delle misure
antitrust, ma anche azioni di liberalizzazione, che mirano ad assicurare e a
promuovere la concorrenza "nel mercato” e "per il mercato”, secondo gli
sviluppi ormai consolidati nell’ordinamento europeo e internazionale e più
volte ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis,
sentenze n. 45
e n. 270 del
2010, n. 160
del 2009, n.
430 e n. 401
del 2007). Pertanto, la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione
della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della
concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una
politica di "ri-regolazione” tende ad aumentare il
livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di
operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze.
D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono
della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori
sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente
intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni
costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010,
n. 167 del 2009)
– genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli
interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori
e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione
degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela
di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e
rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale.
7.5. — Inquadrato, dunque, l’intervento statale
censurato nel campo delle competenze statali di portata trasversale relative
alla tutela della concorrenza, occorre ancora osservare il particolare tenore
normativo della disposizione impugnata: in questo caso il legislatore statale
non si è sovrapposto ai legislatori regionali dettando una propria compiuta
disciplina delle attività economiche, destinata a sostituirsi alle leggi
regionali in vigore. L’atto impugnato, infatti, non stabilisce regole, ma
piuttosto introduce disposizioni di principio, le quali, per ottenere piena
applicazione, richiedono ulteriori sviluppi normativi, da parte sia del
legislatore statale, sia di quello regionale, ciascuno nel proprio ambito di
competenza. In virtù della tecnica normativa utilizzata, basata su principi e
non su regole, il legislatore nazionale non ha occupato gli spazi riservati a
quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole Regioni
continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai principi
stabiliti a livello statale. L’intervento del legislatore, statale e regionale,
di attuazione del principio della liberalizzazione è tanto più necessario alla
luce della considerazione che tale principio non è stato affermato in termini
assoluti, né avrebbe potuto esserlo in virtù dei vincoli costituzionali, ma
richiede di essere modulato per perseguire gli altri principi indicati dallo
stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali. Di
conseguenza, per rispondere ad alcune precise osservazioni delle ricorrenti, le
discipline della vendita al pubblico di farmaci da banco o automedicazione,
dell’apertura di strutture di media e grande distribuzione, o
dell’organizzazione sanitaria, non vengono assorbite nella competenza
legislativa dello Stato relativa alla concorrenza, ma richiedono di essere
regolate dal legislatore regionale, tenendo conto dei principi indicati nel
censurato art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011.
8. — Sono invece fondate le questioni aventi ad
oggetto l’art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2011.
8.1. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno
censurato l’art. 3, comma 3, il quale, al primo periodo, dispone che siano
«soppresse», alla scadenza del termine di un anno dall’entrata in vigore della
legge di conversione – termine poi prorogato al 30 settembre 2012 –, le
«normative statali incompatibili» con i principi disposti al comma 1 del
medesimo art. 3, con conseguente applicazione diretta degli istituti di
segnalazione di inizio attività e dell’autocertificazione. Al secondo periodo,
il comma 3 dispone che, fino alla scadenza del termine, l’adeguamento al
principio di cui al comma 1 possa avvenire anche attraverso strumenti di
semplificazione normativa; infine, al terzo periodo, il comma 3 autorizza, a
tal fine, il Governo ad adottare uno o più regolamenti ai sensi dell’art. 17,
comma 2, della legge n. 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di
Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri),
individuando le disposizioni abrogate e definendo la disciplina regolamentare
ai fini dell’adeguamento al principio di cui al comma 1.
Le ragioni di doglianza, con riferimento all’art. 3,
comma 3, primo periodo, evocano a parametro gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto
l’automatica soppressione delle normative statali incompatibili con la
disposizione di principio di cui al comma 1 genererebbe una situazione di grave
incertezza normativa e sarebbe, perciò, irragionevole e contraria al buon
andamento della pubblica amministrazione. Con riferimento al terzo periodo, si
lamenta anzitutto la violazione del principio di legalità sostanziale, dal
momento che i regolamenti di delegificazione verrebbero introdotti in assenza
di una necessaria cornice legislativa; inoltre, la medesima disposizione
sarebbe in contrasto anche con l’art. 117, sesto comma, Cost., in quanto
l’esercizio del potere regolamentare sarebbe autorizzato senza delimitazioni di
materia, potendo esplicarsi anche nell’ambito di competenze concorrenti e
residuali regionali, rispetto alle quali la potestà regolamentare è attribuita
alla Regione; infine, anche qualora si ritenesse che si sia in presenza di una
ipotesi di attrazione in sussidiarietà della potestà regolamentare regionale,
con riferimento alle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.,
la legislazione statale sarebbe egualmente costituzionalmente illegittima, in
quanto non avrebbe previsto alcuna forma d’intesa in sede di Conferenza
Stato-Regioni, che attui il principio di leale collaborazione con riferimento
alle materie concorrenti e residuali regionali.
8.2. — L’art. 3, comma 3, è costituzionalmente
illegittimo, in quanto dispone, allo scadere di un termine prestabilito,
l’automatica «soppressione», secondo la terminologia usata dal legislatore, di
tutte le normative statali incompatibili con il principio della
liberalizzazione delle attività economiche, stabilito al comma 1.
Alla luce delle precedenti considerazioni relative
al tenore normativo dell’art. 3, comma 1, che contiene disposizioni di
principio, e non prescrizioni di carattere specifico e puntuale, la
soppressione generalizzata delle normative statali con esso incompatibili
appare indeterminata e potenzialmente invasiva delle competenze legislative
regionali. Infatti, sebbene la disposizione abbia ad oggetto le sole normative
statali, la «soppressione» di queste per incompatibilità con principi così ampi
e generali come quelli enunciati all’art. 3, comma 1, e che richiedono una
delicata opera di bilanciamento e ponderazione reciproca, a parte ogni
considerazione sulla sua praticabilità in concreto, non appare suscettibile di
esplicare effetti confinati ai soli ambiti di competenza statale. Altro è
prevedere l’abrogazione di normative statali, altro è asserire che gli effetti
dell’abrogazione di tali normative restino circoscritti ad ambiti di competenza
statale. Vi sono normative statali che interessano direttamente o
indirettamente materie di competenza regionale, come accade nel caso delle
leggi dello Stato relative a materie di competenza concorrente, o di competenza
statale di carattere trasversale, che di necessità s’intrecciano con le
competenze legislative regionali. L’effetto della soppressione automatica e
generalizzata delle normative statali contrarie ai principi di cui all’art. 3,
comma 1, oltre ad avere una portata incerta e indefinibile, potrebbe riguardare
un novero imprecisato di atti normativi statali, con possibili ricadute sul
legislatore regionale, nel caso che tali atti riguardino ambiti di competenza
concorrente o trasversali, naturalmente correlati a competenze regionali.
Inoltre, l’automaticità dell’abrogazione, unita
all’indeterminatezza della sua portata, rende impraticabile l’interpretazione
conforme a Costituzione, di talché risulta impossibile circoscrivere sul piano
interpretativo gli effetti della disposizione impugnata ai soli ambiti di
competenza statale.
Infine, poiché la previsione censurata dispone la
soppressione per incompatibilità, senza individuare puntualmente quali
normative risultino abrogate, essa pone le Regioni in una condizione di obiettiva
incertezza, nella misura in cui queste debbano adeguare le loro normative ai
mutamenti dell’ordinamento statale. Infatti, le singole Regioni, stando alla
norma censurata, dovrebbero ricostruire se le singole disposizioni statali, che
presentano profili per esse rilevanti, risultino ancora in vigore a seguito
degli effetti dell’art. 3, comma 3, primo periodo. La valutazione sulla
perdurante vigenza di normative statali incidenti su ambiti di competenza
regionale spetterebbe a ciascun legislatore regionale, e potrebbe dare esiti
disomogenei, se non addirittura divergenti. Una tale prospettiva determinerebbe
ambiguità, incoerenza e opacità su quale sia la regolazione vigente per le
varie attività economiche, che potrebbe inoltre variare da Regione a Regione,
con ricadute dannose anche per gli operatori economici.
Di conseguenza, l’art. 3, comma 3, appare viziato
sotto il profilo della ragionevolezza, determinando una violazione che si
ripercuote sull’autonomia legislativa regionale garantita dall’art. 117 Cost.,
perché, anziché favorire la tutela della concorrenza, finisce per ostacolarla,
ingenerando grave incertezza fra i legislatori regionali e fra gli operatori
economici.
8.3. — Per le medesime ragioni, la dichiarazione
d’illegittimità costituzionale del primo periodo dell’art. 3, comma 3,
coinvolge anche i periodi successivi della disposizione in esame, dato che
l’ambito di intervento degli strumenti di semplificazione, previsti dal secondo
periodo, nonché quello dei regolamenti di delegificazione di cui al terzo
periodo, è determinato per relationem al primo
periodo. La stessa indeterminatezza che vizia la prima proposizione si
riverbera anche sui successivi contenuti dell’art. 3, comma 3, che deve,
dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
9. — Le Regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno poi
impugnato l’art. 3, comma 10. Questo si colloca a seguito di una serie di
disposizioni abrogative di restrizioni all’esercizio di attività economiche. Il
comma 10 consente l’eliminazione di ulteriori restrizioni, attraverso
«regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23
agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del Ministro competente entro quattro
mesi dall’entrata in vigore» del decreto oggetto di censura.
9.1. — A detta delle ricorrenti, tale comma sarebbe
viziato sotto vari profili: anzitutto non risponderebbe al principio di
legalità sostanziale, in quanto l’esercizio della potestà regolamentare da
parte del Governo, sarebbe autorizzato senza specificazioni e in assenza di
criteri capaci di circoscriverlo; inoltre, contrasterebbe con l’art. 117 sesto
comma, Cost., nella misura in cui la potestà regolamentare cui il comma fa
riferimento venga esercitata in ambiti di competenza regionale; infine, ed in
subordine, nelle ipotesi in cui vengano in rilievo materie di competenza
regionale e si ritenga che queste siano state attratte in sussidiarietà alla
competenza statale, sarebbe del tutto assente la previsione di strumenti
applicativi del principio di leale collaborazione.
9.2. — Le questioni aventi ad oggetto l’art. 3,
comma 10, non sono fondate.
A prescindere da ogni considerazione circa la
conformità della disposizione impugnata al modello di delegificazione delineato
all’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, per quanto riguarda la
violazione delle competenze regionali occorre osservare che, a differenza
dell’art. 3, comma 3, precedentemente esaminato, il comma 10 ha un ambito di
applicazione circoscrivibile alle sole materie di competenza statale e pertanto
legittimamente consente al Governo di esercitare la potestà regolamentare per
eliminare ulteriori – rispetto a quelle stabilite dai commi precedenti –
restrizioni al libero esercizio delle attività economiche. Questa lettura della
disposizione censurata è l’unica compatibile sia con il testo costituzionale,
che vieta l’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo al di
fuori delle competenze esclusive statali, sia con il contesto normativo in cui
la disposizione in esame si colloca.
10. — Anche l’art. 3, comma 11, è impugnato dalle
Regioni Emilia-Romagna e Umbria. Tale comma prevede che eccezioni
all’abrogazione delle restrizioni all’esercizio delle attività economiche
possano essere concesse «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri,
su proposta del Ministro competente di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, sentita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato,
entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore» della legge di conversione
del decreto-legge impugnato, e in ipotesi indicate espressamente.
10.1. — Le ricorrenti lamentano che tale
disposizione, da un lato, violerebbe l’art. 117 Cost., in quanto consentirebbe
soltanto allo Stato, e non anche alle Regioni, di mantenere delle limitazioni
alle libertà economiche, per ragioni di pubblico interesse. In subordine, anche
qualora si ritenesse necessario, per ragioni di uniformità e sussidiarietà,
consentire l’attrazione di tale potere regolatorio in capo allo Stato,
mancherebbe la previsione di un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni, con
conseguente violazione del principio di leale collaborazione.
10.2. — Anche le censure relative all’art. 3, comma
11, non sono fondate.
La disposizione qui censurata, al pari del
precedente art. 3, comma 10, deve essere intesa come dotata di un ambito di
applicazione delimitato alle sole materie di competenza statale. Consentendo di
mantenere alcune eccezioni alla liberalizzazione e pertanto giustificando
alcune restrizioni all’iniziativa economica, da individuarsi con decreto del
Presidente della Repubblica, l’art. 3, comma 11, si rivolge alle sole normative
statali e, tra queste, soltanto a quelle che non interferiscono con le
competenze regionali. La disposizione censurata, non riguardando materie di
competenza legislativa regionale, è pertanto inidonea a vulnerare gli interessi
regionali.
per
questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione sulle
altre disposizioni impugnate su ricorso delle Regioni Puglia, Toscana, Lazio, Emilia-Romagna,
Veneto, Umbria e Calabria e della Regione autonoma della Sardegna, con ricorsi
indicati in epigrafe,
riuniti i giudizi,
1) dichiara la cessazione della materia del
contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo
3, comma 4, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, proposte,
complessivamente, dalle Regioni Calabria, Emilia-Romagna, Lazio, Sardegna,
Toscana, Umbria e Veneto, in riferimento agli articoli 3, 5, 117, 119 e 120
della Costituzione, nonché in riferimento al principio di leale collaborazione
e – dalla Regione autonoma Sardegna – in riferimento agli articoli 3, primo
comma, lettere d), f), g), o) e p), 4, primo comma, lettere a), b), e), f) ed
m), e 7 dello statuto di autonomia (Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.
3);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 3, comma 3, del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013], convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011;
3) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 3 del medesimo decreto-legge n. 138
del 2008 [rectius:
2011 cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalla Regione Calabria in riferimento agli articoli 70 e 77 Cost.;
4) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 3 del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalla Regione Puglia in riferimento agli articoli 41, 42, 43, 114, secondo
comma, 117 Cost.;
5) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalla Regione Lazio in riferimento all’articolo 117 della Costituzione e al
principio di leale collaborazione;
6) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalla Regione Calabria in riferimento agli articoli 41, 97 e 117 Cost. e al
principio di leale collaborazione;
7) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalle Regioni Emilia-Romagna ed Umbria in riferimento all’articolo 117 Cost.;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, comma 10, del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria in riferimento al principio di legalità
sostanziale, all’art. 117 Cost. e al principio di leale collaborazione;
9) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 3, comma 11, del decreto-legge n. 138 del 2008 [rectius: 2011
cfr. ord. n. 15/2013],, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, proposta
dalle Regioni Emilia-Romagna e Umbria in riferimento all’art. 117 Cost. e al
principio di leale collaborazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 luglio 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2012.