SENTENZA N. 46
ANNO 2013
Commento
alla decisione di
Dario Immordino
(per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Gaetano SILVESTRI Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale l’articolo
25, comma 1, lettera a), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni
urgenti per me concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività), convertito, con
modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27,
promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 23 maggio 2012,
depositato in cancelleria il 29 maggio 2012 ed iscritto al n. 83 del registro
ricorsi 2012.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2013 il Giudice relatore Paolo Maria
Napolitano;
uditi gli avvocati Luigi Manzi e Daniela Palumbo per la Regione Veneto e
l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in
fatto
1.– La Regione Veneto, con ricorso notificato il 23
maggio del 2012 e depositato nella cancelleria di questa Corte il successivo 29
maggio, ha impugnato, insieme ad altre disposizioni dello stesso provvedimento
normativo, la cui trattazione è stata riservata a separato giudizio, l’articolo 25, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per me
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla
legge 24 marzo 2012, n. 27.
1.1.– La disposizione impugnata inserisce nel decreto-legge 13 agosto
2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per
lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n.
148, l’articolo 3-bis, il quale
ridetermina le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici
locali, per meglio garantire l’efficienza e la concorrenzialità degli stessi.
La ricorrente Regione ritiene che i commi 2, 3,
4, e 5 del citato articolo 3-bis del decreto-legge n. 138 del 2011 siano
costituzionalmente illegittimi per contrasto con gli artt. 3, 5, 97, 114, 117,
commi primo, secondo, lettera e), terzo, quarto e sesto, 118 e 119,
commi secondo, terzo, quarto e quinto, della Costituzione, nonché dell’art. 9, comma 2, della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione), della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione),
e del principio di leale collaborazione.
2.– La Regione Veneto, preliminarmente, sottolinea che, seppure la
giurisprudenza costituzionale abbia costantemente affermato che la disciplina
dei servizi pubblici locali rientra nella materia «tutela della concorrenza»,
di competenza statale esclusiva, pur tuttavia ritiene che primaria esigenza
continui ad essere, nella materia oggetto della norma censurata, quella di dare
«centralità ai destinatari del servizio, destinatari di cui è l’ente ad essere esponenziale
e responsabile».
2.1.– Ciò premesso, la Regione ricorrente espone
analiticamente il contenuto dei sopra ricordati commi dell’art. 3-bis, di cui lamenta l’illegittimità
costituzionale e le motivazioni riguardo alle singole censure.
2.2.– Secondo la ricorrente, il comma 2 del nuovo art. 3-bis che dispone che «In sede di affidamento del servizio mediante procedura ad evidenza
pubblica, l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione costituisce
elemento di valutazione dell’offerta», si porrebbe, innanzitutto, in contrasto
con l’art. 3 Cost., quanto al profilo della ragionevolezza, e con l’art.
117 Cost., poiché – prevedendo l’adozione del solo strumento di tutela
dell’occupazione quale elemento di valutazione dell’offerta, e, non prendendo,
irragionevolmente, in considerazione «nessun ulteriore requisito dei candidati
aspiranti pur utile alla buona gestione del servizio a livello locale» –
concretizzerebbe un intervento ingiustificato e non proporzionato rispetto alla
tutela della concorrenza.
Inoltre, tale disposizione violerebbe anche l’art. 118 Cost., in quanto essa determinerebbe
«una compressione dell’autonomia regionale nell’esercizio delle funzioni
amministrative […] sotto il profilo di gestire liberamente l’affidamento
e il servizio magari tenendo in conto, alla luce dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza, delle specificità territoriali proprie».
2.3.– Anche il comma 3 del nuovo art. 3-bis, aggiunto al d.l. n. 138 del 2011,
presenterebbe, secondo la Regione Veneto, profili di illegittimità
costituzionale.
2.3.1.– Al riguardo, la ricorrente ritiene che la norma impugnata – nel
prevedere che l’applicazione di
procedure di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di Regioni,
Province e Comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino
costituisca elemento di valutazione della virtuosità degli stessi, ai sensi
dell’art. 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111 – avrebbe
introdotto una nuova forma di controllo sull’attività della Regione, in
contrasto sia con il principio autonomistico di cui all’art. 5 Cost., sia con
quello di equiordinazione tra enti della Repubblica, di cui all’art. 114 Cost.,
nonché con quanto previsto dall’art. 9, comma 2, della legge costituzionale n.
3 del 2001, che ha abrogato le forme di controllo previste dagli artt. 125 e
130 Cost., in quanto non più coerenti con il nuovo assetto delle autonomie
territoriali dopo la revisione costituzionale.
Infatti, prosegue la Regione, un tipo di controllo come quello previsto
dalla normativa censurata non appare avere natura collaborativa e comporta
pesanti conseguenze economico-finanziarie per la Regione, aggravando la
responsabilità di questa ultima nel concorso alla realizzazione degli obiettivi
di finanza pubblica, oltre ad un aumento del contributo dell’ente medesimo alla
manovra annuale. Essendo, in più, tale tipo di controllo svolto dal Ministero
dell’economia e delle finanze (soggetto non imparziale), peraltro su
«comunicazione» del Presidente del Consiglio dei ministri, esso verrebbe ad
incidere negativamente sull’autonomia finanziaria della Regione, così come
regolata dall’art. 119 Cost. e dalla legge n. 42 del 2009, che vi ha dato
applicazione, nonché con gli artt. 117, commi primo, secondo, lettera e), 118 e 97 Cost.
2.3.2.– Secondo la ricorrente, la disposizione impugnata – che, di fatto,
obbliga la Regione e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la procedura ad
evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, e non le procedure in house, al fine di evitare le deteriori conseguenze derivanti
dall’eventuale mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi – sarebbe
altresì in contrasto ai sensi dell’art. 117, comma primo, Cost. con la
disciplina comunitaria, che non esclude affatto la possibilità dell’affidamento
in house.
Sottolinea ancora la Regione che, se è indubbio che il legislatore
nazionale, relativamente ai sistemi di affidamento dei servizi, gode,
relativamente alla normativa comunitaria, «di un certo margine di
apprezzamento», è altrettanto indubbio che, secondo quanto previsto
dall’ordinamento UE, l’affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica non
sia l’unico possibile, potendo essere lo stesso supportato da altre forme di
attribuzione della responsabilità del servizio, quali quelle in house, potendo queste ultime considerarsi più ragionevoli ed
efficienti.
La disposizione impugnata violerebbe, poi, l’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost., in
relazione al riparto delle competenze tra il legislatore statale e quello
regionale, avendo il primo esorbitato dalla sua potestà legislativa esclusiva
nell’ambito della «tutela della concorrenza», per manifesta sproporzione
rispetto al fine (vengono citate le sentenze n. 270 del 2010
e n. 326 del
2008).
La normativa in esame, infatti, – a detta della ricorrente – «finisce con
l’escludere nei fatti la possibilità di affidamenti in house, in seguito
ad una valutazione negativa operata ex ante, mentre è ben possibile, in
concreto, che questa tipologia di affidamento di servizi si dimostri in
concreto più efficiente e virtuosa», tenendo, altresì, presente che il
controllo operato dal Ministero sulla base della comunicazione della Presidenza
del Consiglio si svolge addirittura senza alcuna forma di contraddittorio.
In tal modo, conclude la Regione Veneto, si priverebbero gli enti
territoriali della possibilità di valutare le proprie esigenze e di scegliere
la modalità di gestione dei servizi a loro più convenienti, violando
l’autonomia regionale, prevista dall’art. 118 Cost., nell’esercizio delle funzioni amministrative. Tale parametro sarebbe leso
anche in riferimento al principio di sussidiarietà, essendo il Governo il
soggetto che valuta le modalità di affidamento.
Quest’ultima considerazione, sempre secondo la Regione, determinerebbe la
violazione dell’art. 97 Cost., poiché la disciplina impugnata non rispetterebbe
il principio di buon andamento dell’amministrazione, anche in relazione ai
principi di efficienza, efficacia ed economicità.
2.4.– Il disfavore che il legislatore nazionale, inoltre, con la normativa
in esame dimostra verso i sistemi di affidamento diversi dall’evidenza
pubblica, contraddice – prosegue la ricorrente – con quanto disposto dal comma
4 dello stesso articolo 3-bis.
2.4.1.– Il comma 4, difatti, prevede che i gestori di servizi non
selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica possano accedere a
finanziamenti speciali, con la sola condizione che l’Autorità abbia verificato
l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso. Esso, infatti,
stabilisce che «Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai
servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i
finanziamenti a qualsiasi titolo
concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’art. 119, comma
quinto, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di
governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi
gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui
comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza
gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti
dall’Autorità stessa».
A parere della ricorrente, tale disposizione –
prevedendo la prioritaria attribuzione agli enti di governo degli ambiti o dei
bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio,
selezionati attraverso la procedura ad evidenza pubblica o di cui, in ogni
caso, l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza della
gestione, nonché la qualità del servizio reso, in base, peraltro, a parametri
stabiliti dall’Autorità stessa – si porrebbe, innanzitutto, in contrasto con
l’art. 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, Cost., venendo a violare
l’autonomia finanziaria regionale.
Secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, difatti – prosegue la
Regione Veneto –, soltanto due tipologie di fondi possono essere considerate
rispettose del dettato dell’art. 119
Cost., e precisamente: 1) un
fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, comma terzo, Cost.), che, insieme
ad entrate e tributi propri e compartecipazione al gettito di tributi erariali
riferibile al proprio territorio (in particolare, art. 119, comma secondo, Cost.), serva a finanziare integralmente le
funzioni pubbliche attribuite a Regioni ed enti locali (art. 119, comma quarto, Cost.); 2) «risorse
aggiuntive» ed «interventi speciali» in favore di determinate Regioni, Province,
Città metropolitane e Comuni, al fine di «promuovere lo sviluppo economico, la
coesione e la solidarietà sociale, [...] rimuovere gli squilibri economici e
sociali, [...] favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, [...]
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (art. 119, comma quinto, Cost.).
La Regione sottolinea che, relativamente a
questa seconda tipologia di interventi
– tra i quali sembra rientrare la fattispecie in esame –, la giurisprudenza
costituzionale ha precisato che essi «non
solo debbono essere aggiuntivi rispetto al finanziamento integrale [...]
delle funzioni spettanti ai Comuni o agli altri enti, e riferirsi alle
finalità di perequazione e di garanzia enunciate nella norma costituzionale, o comunque
a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, ma debbono essere
indirizzati a determinati Comuni o categorie di Comuni (o Province, Città metropolitane, Regioni)», precisando che «l’esigenza di rispettare il riparto
costituzionale delle competenze legislative fra Stato e Regioni comporta
altresì che, quando tali finanziamenti riguardino ambiti di competenza delle Regioni, queste siano
chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di riparto dei fondi
all’interno del proprio territorio» (sentenze n. 22 del 2005
e n. 16 del 2004).
I finanziamenti di cui all’impugnato comma 3 dell’art. 3-bis del decreto-legge n. 138 del
2011, conclude la ricorrente, non possono ritenersi aggiuntivi
relativamente all’integrale finanziamento delle funzioni in materia di servizi
pubblici, in conseguenza della sottostima del fabbisogno degli enti sul punto,
né essi sono indirizzati esclusivamente agli enti territoriali (peraltro non
predeterminati con sufficiente precisione).
Inoltre, sempre a parere della ricorrente, essendo tali finanziamenti
rientranti nell’ambito di competenze regionali, e non essendo contemplato,
dalla normativa in esame, alcun coinvolgimento delle Regioni, risulterebbe
violato anche il principio di leale
collaborazione.
2.5.– Infine, per la
difesa regionale, anche il comma 5 dell’art.
3-bis – stabilendo
l’assoggettamento delle società affidatarie in
house al Patto di stabilità interno secondo le modalità definite dal
decreto ministeriale previsto dall’articolo 18, comma 2-bis, del decreto-legge
25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, violerebbe l’art. 117, commi
terzo e sesto, Cost.
2.5.1.– Rileva, al riguardo, la ricorrente Regione, che, con l’impugnato
comma 5, il legislatore statale è venuto sostanzialmente a riproporre il
contenuto della prima parte della lettera a)
del comma 10 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, così come modificato dall’art. 15, comma l, del
decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni
urgenti per l’attuazione di obblighi
comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle
Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20
novembre 2009, n. 166.
L’art. 23-bis, ricorda la
Regione Veneto, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole:
«l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali
al patto dì stabilità interno e», con la sentenza n. 325 del
2010, con conseguente venir meno del presupposto legislativo per potersi
affermare l’assoggettabilità delle società in
house al Patto di stabilità interno.
Quindi, con l’abrogazione dell’intero art. 23-bis a seguito
dell’esito del referendum popolare del 2-13 giugno 2011, sarebbe rimasto
privo di base normativa anche l’intero decreto del Presidente della Repubblica
7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in
materia di servizi pubblici locali di
rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla
legge 6 agosto 2008, n. 133), attuativo del medesimo articolo. In
particolare, ciò si sarebbe verificato per ciò che riguarda l’art. 5, rubricato
«Patto di stabilità interno».
Ma, continua la ricorrente, anteriormente alla legge n. 166 del 2009 che,
come ricordato, aveva modificato l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008
e, altresì, prima della pubblicazione della citata sentenza n. 325 del
2010, l’art. 19, comma l, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78
(Provvedimento anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni,
dalla legge 3 agosto 2009, n. 102,
aveva aggiunto, all’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, il comma 2-bis, il quale – in sostanziale
continuità con l’originale formulazione dell’art. 23-bis – confermava l’assoggettabilità al
Patto di stabilità interna delle società in
house previa definizione delle relative modalità per via ministeriale.
Pertanto, il nuovo comma 2-bis dell’art. 18, a seguito della declaratoria di
illegittimità costituzionale e del conseguente parziale annullamento del citato
art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008,
si sarebbe posto in antinomia con il contenuto della pronuncia: l’una
disposizione, infatti, assoggettava le società in house al patto di stabilità rinviando ad un «adottando
decreto ministeriale», e l’altra disposizione annullata «assoggettava le
medesime società in house al
patto di stabilità con la stessa tecnica del rinvio ad uno o più adottandi
regolamenti governativi».
Inoltre, il legislatore statale – nonostante l’esito referendario e la
dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, con la dichiarata finalità di «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum
popolare e alla normativa dell’Unione Europea», ha disposto, al
comma 14 dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, che «Le società cosiddette "in house” affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali sono
assoggettate al patto di stabilità
interno secondo le modalità definite, con il concerto del Ministro per le riforme per il federalismo, in sede di attuazione dell’articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112, convertito con legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive
modificazioni. Gli enti locali
vigilano sull’osservanza, da parte dei soggetti indicati al periodo precedente
al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno», con le espresse
limitazioni di cui al comma 34 che esclude dall’intera disciplina dell’art. 4 i
settori del servizio idrico integrato (tranne i commi da 19 a 27), del servizio
di distribuzione di gas naturale (salvo il comma 33), del servizio di
distribuzione dell’energia elettrica, del servizio di trasporto ferroviario
regionale, della gestione delle farmacie comunali.
2.5.2.– In questo contesto normativo, secondo la Regione, va considerata la legittimità
costituzionale della norma qui in esame, che, di fatto, ripristinerebbe la
normativa abrogata, demandando nuovamente ad una fonte sub-legislativa la
definizione delle modalità per l’assoggettamento al patto di stabilità interno
delle società in house.
La citata disposizione – conclude la Regione ricorrente – avendo già la
Corte costituzionale ritenuto fondate le doglianze regionali contro la
disciplina statale prevista dal comma 10, lettera a), prima parte, dell’art. 23-bis
del d.l. n. 112 del 2008, sarebbe costituzionalmente illegittima, violando i
commi terzo e sesto dell’art. 117 Cost., sulla base del presupposto che «l’àmbito di applicazione del patto di
stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica
(sentenze n. 284
e n. 237 del
2009; n. 267
del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di
competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’art. 117,
sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare».
Inoltre, la disposizione impugnata violerebbe
anche l’art. 117, commi terzo e sesto, Cost., in quanto, non avendo lo Stato
potestà legislativa esclusiva in tale materia, esso «è privo anche della potestà regolamentare e ad essa non
può far rinvio, né ipotizzando regolamenti governativi ex art. 17, secondo comma, l. n. 400/1988, né ipotizzando
decreti ministeriali ex art.
18, comma 2-bis, d.l. n. 112/2008».
2.6.– Infine, la ricorrente – dopo aver
ricordato il percorso cronologico delle varie norme statali che hanno, di
fatto, previsto l’assoggettamento delle
società in house al patto di
stabilità interno secondo modalità da definirsi per via regolamentare (in
particolare, per quanto qui rileva, l’art.18, comma 2-bis, del d.l. n.
112 del 2008 e l’art. 4, comma 14, del d.l. n. 138 del 2011) – chiede alla
Corte di estendere il giudizio, mediante autorimessione, a queste due ultime
disposizioni ricordate, costituenti gli "antecedenti storici” di quella qui
impugnata.
In particolare, si sottolinea che, relativamente
all’art. 18, comma 2-bis, esso
avrebbe già dovuto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo da questa
Corte in conseguenza dell’intervenuto annullamento dell’art. 23-bis, essendo le due disposizioni
sostanzialmente identiche.
Quanto, poi, all’autorimessione dell’art. 4, comma
14, del d.l. n. 138 del 2011, essa sarebbe giustificata dai profili di
autonomia che tale norma, pur viziata dalle stesse illegittimità sanzionate con
la sentenza n.
325 del 2010, presenta rispetto all’art. 25, comma 1, lettera a), ora censurata.
2.7.– Alla luce di quanto esposto, la Regione ricorrente chiede, pertanto,
che la Corte costituzionale dichiari l’illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 25, comma l, lettera a), del d.l. n. 1 del 2012, così come risultante dalla conversione
in legge 24 marzo 2012, n. 27, per violazione degli artt. 3, 97, 117 (commi
primo, secondo, terzo, quarto e sesto), 118, 119 Cost., nonché del principio di
leale collaborazione, previo accoglimento dell’istanza di sospensione.
3.– Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto, per
la parte che qui interessa, del ricorso promosso dalla Regione Veneto.
3.1.– L’Avvocatura generale ritiene che la disposizione impugnata – nel
fissare nuove modalità di organizzazione e di affidamento dei servizi pubblici
locali, al fine di garantirne l’efficienza e la concorrenzialità – non comprima
gli ambiti di autonomia organizzativa regionale, in quanto la stessa permette
comunque alle Regioni di individuare, purché «con adeguata motivazione, i
bacini territoriali di tali servizi aventi un ambito diverso da quello
prescritto dalla norma».
Inoltre, secondo la resistente, il comma 5 dell’impugnato art. 3-bis non vieterebbe in alcun modo gli
affidamenti in house, ma si
preoccuperebbe semplicemente di garantire che tali tipi di società rientrino
nella disciplina della finanza pubblica allargata, ricomprendendoli nel patto
di stabilità, conformemente «alla loro necessaria natura di mera "longa manus” dell’ente pubblico
erogatore del servizio, che sola può giustificare la sottrazione dei relativi
servizi al mercato».
La normativa impugnata, quindi, conclude la difesa pubblica, risulta conforme
alla consolidata giurisprudenza costituzionale, che ritiene l’organizzazione e
l’affidamento dei servizi pubblici locali rientranti nella materia «tutela
della concorrenza», di competenza esclusiva statale.
4.– In prossimità dell’udienza, la Regione Veneto ha
depositato memoria in replica all’atto di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri.
La Regione ricorrente – dopo aver rilevato che
l’Avvocatura dello Stato è venuta ad argomentare in merito al contenuto del
comma 1 dell’art. 3-bis del d.l. n.
138 del 2011 (travalicando così i limiti del thema decidendum, in quanto il comma non è oggetto di impugnazione)
ed aver sottolineato che la resistente ha, invece, omesso di replicare alle
censure mosse dalla Regione relativamente ai primi tre commi dell’art. 3-bis, venendo ad appuntare le sue
argomentazioni in merito al solo comma 5 –
rinvia integralmente a quanto già esposto nel ricorso, insistendo per
l’accoglimento.
Considerato
in diritto
1.– La Regione Veneto, ha promosso – nell’ambito di una
più vasta impugnativa – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 25, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), così come convertito, con
modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, il quale inserisce nel
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, l’articolo 3-bis, inerente a «Ambiti
territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici
locali».
Quest’ultimo ridetermina
le modalità di organizzazione e affidamento dei servizi pubblici locali, per
meglio garantire l’efficienza e la concorrenzialità degli stessi.
La ricorrente Regione ritiene che i commi 2, 3, 4, 5 del citato articolo 3-bis del d.l. n. 138 del 2011 siano
costituzionalmente illegittimi per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, 117,
commi primo, secondo, lettera e),
terzo, quarto e sesto, 118 e 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, della
Costituzione, nonché dell’art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione),
della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo
fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione), e del principio di
leale collaborazione.
2.– In particolare, il comma 2 dell’art. 3-bis, introdotto nel citato d.l. n. 138 del 2011 dall’art 25, comma
1, lettera a), del d.l. n. 1 del 2012, come risultante a
seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, stabilisce che:
«In sede di affidamento del servizio
mediante procedura ad evidenza pubblica, l’adozione di strumenti di tutela
dell’occupazione costituisce elemento di valutazione dell’offerta».
Secondo la ricorrente, tale disposizione violerebbe l’art. 3 Cost., quanto al
profilo della ragionevolezza, l’art.
117 Cost., in quanto – prevedendo l’adozione del solo strumento di tutela
dell’occupazione quale elemento di valutazione dell’offerta, e, non prendendo,
irragionevolmente, in considerazione «nessun ulteriore requisito dei candidati
aspiranti pur utile alla buona gestione del servizio a livello locale» –
concretizzerebbe un intervento ingiustificato e non proporzionato rispetto alla
tutela della concorrenza. La disposizione in esame violerebbe altresì, per la
ricorrente, l’art 118 Cost., perché determinerebbe «una compressione
dell’autonomia regionale nell’esercizio delle funzioni amministrative».
2.1.– La censura relativa all’art. 3 Cost., è inammissibile, in quanto non
sufficientemente motivata né riguardo all’asserita lesione del principio di
ragionevolezza, invocato a parametro di giudizio, né per ciò che riguarda la
ridondanza sul riparto di competenze tra Stato e Regioni sancito dal Titolo V
della parte II della Costituzione, così come richiesto da questa Corte (da
ultimo, sentenze n.
8 del 2013, n.
311 e n. 299
del 2012).
2.2.– In riferimento alla violazione dell’art. 117 Cost., la censura non è
fondata.
La disposizione impugnata attiene alla disciplina delle procedure ad
evidenza pubblica, che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente ricondotto alla materia «tutela
della concorrenza», con la conseguente titolarità da parte dello Stato della
potestà legislativa esclusiva, di cui all’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost. (ex plurimis, sentenze n. 62 e n. 32 del 2012;
n. 339, n. 320, n. 187 e n. 123 del 2011;
n. 325 del 2010).
In particolare, per quanto riguarda il caso di specie, questa Corte ha
anche sottolineato che nell’ambito della disciplina delle procedure di gara
rientra «la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti,
delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione» (sentenza n. 339 del
2011).
La Regione ricorrente – pur riconoscendo l’afferenza
della norma impugnata all’ambito materiale della «tutela della concorrenza» –
tuttavia ritiene che il legislatore statale non avrebbe rispettato, nel caso di
specie, «il bilanciamento fra le ragioni della concorrenza e quelle […]
dell’utenza attraverso il necessario vaglio di ragionevolezza, proporzionalità
e adeguatezza della disciplina impugnata»,
peraltro con una normativa estremamente dettagliata.
A prescindere dall’erroneo assunto interpretativo della Regione Veneto la
quale ritiene che il contenuto della disposizione censurata preveda quale unico
elemento di valutazione nell’affidamento dei servizi lo strumento della tutela
dell’occupazione, questa Corte ha più volte affermato che l’art. 117, comma
secondo, lettera e), Cost.,
attribuendo allo Stato, in via esclusiva, il compito di regolare la
concorrenza, consente allo stesso, nell’ambito di tale competenza, di porre in
essere una disciplina dettagliata (sentenze n. 148 del 2009,
n. 411 e n. 320 del 2008).
È stato anche affermato che tale normativa ha carattere prevalente (sentenza n. 325 del
2010).
Pertanto, nell’ambito di questa attribuzione, il legislatore statale, con
la norma impugnata, è venuto, non irragionevolmente, a prevedere quale
ulteriore elemento di valutazione dell’offerta da tenere presente
nell’affidamento dei servizi mediante procedure ad evidenza pubblica anche
l’adozione di strumenti di tutela dell’occupazione. Conseguentemente, la
censura mossa dalla regione Veneto al comma 2 dell’art. 3-bis, del d.l. n. 138 del 2011 non è fondata.
2.3.– Alla luce delle sopra indicate considerazioni, consegue anche la non
fondatezza della questione in relazione alla violazione dell’art. 118 Cost.,
avendo lo Stato agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva di cui
all’art. 117, comma secondo, lettera e),
Cost.
3.– La regione Veneto ha altresì impugnato il comma 3 del citato art. 3-bis del d.l. n. 138 del 2011.
3.1.– La disposizione impugnata prevede che, a decorrere dal 2013, l’applicazione delle procedure di affidamento ad evidenza pubblica da parte di Regioni, Province e Comuni o degli enti di governo locali o del bacino costituisca elemento di valutazione della "virtuosità” degli stessi enti, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.
Inoltre, lo stesso comma stabilisce che la Presidenza del Consiglio comunichi perentoriamente, a fine gennaio di ogni anno, al Ministero dell’economia gli enti che hanno attuato tale procedura e che, in assenza della comunicazione nel termine stabilito, «si prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosità» .
Per la ricorrente, la disposizione censurata viola: a) gli artt. 5 e 114 Cost., poiché il legislatore nazionale avrebbe introdotto, con la normativa impugnata, una forma di controllo sull’attività legislativa regionale, in contrasto con il principio autonomistico e con quello di equiordinazione tra gli enti della Repubblica; b) l’art. 9, comma 2, della legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha abrogato le forme di controllo sulle Regioni previste dagli artt. 125 e 130 Cost.; c) l’art. 119 Cost. e la legge 5 maggio 2009, n. 42, che vi ha dato applicazione (in particolare, gli artt. 1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z e ll), sia perché la disposizione censurata non sembra essere di natura collaborativa e comporta pesanti conseguenze economiche per la Regione, sia perché il previsto tipo di controllo è svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze (soggetto non imparziale), su comunicazione del Presidente del Consiglio dei ministri, venendo così ad incidere negativamente sull’autonomia finanziaria regionale; d) l’art. 117, comma primo, Cost., perché, obbligando di fatto le Regioni e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi, al fine di evitare le deteriori conseguenze derivanti dalla mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi, sarebbe in contrasto con la disciplina comunitaria, la quale non esclude la possibilità degli affidamenti in house «qualora quest(i) si rivelino, di fatto, più ragionevoli ed efficienti»; e) l’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost., poiché eccederebbe dalla potestà statale esclusiva in materia di «tutela della concorrenza» per manifesta sproporzione rispetto al fine; f) l’art. 118 Cost., perché violerebbe l’autonomia regionale nell’esercizio delle funzioni amministrative, ponendosi in contrasto con il principio di sussidiarietà, dal momento che la valutazione sulle modalità di affidamento avverrebbe ad opera del livello di governo centrale; g) l’art. 97 Cost., quanto al buon andamento della pubblica amministrazione, perché – stante il dettato della disposizione impugnata – non verrebbero rispettati i principi di efficienza, efficacia ed economicità.
3.1.1.– Le questioni
prospettate in riferimento agli artt. 5 e 114 Cost., e al principio di cui
all’art. 9, comma 2, della legge costituzionale n. 3 del 2001 sono
inammissibili.
Ad identica conclusione
questa Corte è già pervenuta nel decidere una questione di legittimità
costituzionale promossa dall’odierna ricorrente nel medesimo ricorso, relativa
all’art. 1, comma 4, sempre del d.l. n. 1 del 2012, che presenta stretta
analogia con quella ora in esame.
Infatti con la recente sentenza n. 8 del
2013, si è ritenuto che «Dette censure sono esclusivamente vòlte a
rivendicare la posizione equiordinata di cui godrebbero le Regioni rispetto
allo Stato, che renderebbe illegittima l’introduzione di qualsiasi strumento di
controllo statale sulle Regioni, senza che siano addotte specifiche
argomentazioni in ordine alla asserita illegittimità costituzionale della
disposizione impugnata. La motivazione, oltre che insufficiente, appare anche
inconferente, in quanto la norma censurata non ripristina alcun controllo sugli
atti legislativi o amministrativi delle Regioni, in contrasto con la legge
costituzionale n. 3 del 2001, invocata a parametro del presente giudizio».
3.1.2.– Considerazioni analoghe valgono per quanto
riguarda le censure relative all’art. 119 Cost. e all’art. 1, comma 1, e 2,
comma 2, lettere z) e ll), della legge n. 42 del 2009.
Nella sopra citata sentenza, infatti, si è affermato
che: «è inammissibile, per carenza assoluta di motivazione, il ricorso della
Regione Veneto nella parte in cui ritiene violati l’art. 119 Cost. e gli artt.
1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z)
e ll), della legge n. 42 del 2009.
Sul punto, il ricorso è privo di qualunque svolgimento argomentativo,
limitandosi a richiamare le suddette norme, senza mostrare in quale senso esse
risultino incise dalle disposizioni impugnate e senza neppure offrire ragioni a
sostegno della possibilità di far valere l’evocata legge n. 42 del 2009 come
parametro nei giudizi davanti a questa Corte» (sentenza n. 8 del
2013).
Le motivazioni poste a fondamento della sopra ricordata
decisione vanno ribadite anche nell’odierno caso.
3.1.3.– Infine, parimenti inammissibile deve essere ritenuta la censura
relativa all’art. 97 Cost., sia per carenza e genericità delle motivazione, sia
per il già ricordato principio (più volte affermato dalla giurisprudenza
costituzionale) che le Regioni sono legittimate a censurare le leggi dello
Stato esclusivamente in base a parametri relativi al riparto delle rispettive
competenze legislative. Esse possono dedurre altri parametri soltanto ove la loro
violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite. Tale circostanza non ricorre nel caso di specie,
«in quanto la violazione del principio del buon andamento della pubblica
amministrazione non si risolve in una questione sul riparto delle competenze
legislative» (ex plurimis, sentenza n. 128 del
2011).
3.2.– Le restanti questioni non sono fondate.
Innanzitutto, in relazione alla violazione degli artt. 117, comma secondo,
lettera e), e 118 Cost., sembra
opportuno premettere alcune considerazioni di massima, estensibili anche alle
censure mosse dalla ricorrente Regione al successivo comma 4 del medesimo art.
3-bis del d.l. n. 138 del 2011 per
violazione dell’autonomia finanziaria regionale, di cui all’art. 119 Cost.
L’intervento normativo statale, con il d.l. n. 1 del 2012, si prefigge la
finalità di operare, attraverso la tutela della concorrenza (liberalizzazione),
un contenimento della spesa pubblica.
Per quello che qui interessa, con la norma impugnata, il legislatore
statale ritiene che tale scopo si realizzi attraverso l’affidamento dei servizi
pubblici locali al meccanismo delle gare ad evidenza pubblica, individuato come
quello che dovrebbe comportare un risparmio dei costi ed una migliore
efficienza nella gestione.
Da qui l’opzione – in coerenza con la normativa comunitaria – di
promuovere l’affidamento dei servizi pubblici locali a terzi e/o a società
miste pubblico/private e di contenere il fenomeno delle società in house.
Le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica, secondo consolidata giurisprudenza della Corte, attengono
alla materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale,
tenuto conto della sua diretta incidenza sul mercato e «perché strettamente
funzionale alla gestione unitaria del servizio» (ex plurimis:sentenze
n. 62 e n. 32 del 2012;
n. 339, n. 320, n. 187 e n. 128 del 2011;
n. 325 e n. 142 del 2010;
n. 246 e n. 148 del 2009).
Peraltro, per pervenire a questo obiettivo, il legislatore si è trovato di
fronte al problema di coordinare la competenza esclusiva dello Stato in materia
di «tutela della concorrenza»
con le competenze concorrenti regionali. Da qui l’opzione, già sperimentata in
altri contesti, di utilizzare una tecnica «premiale», dividendo gli enti pubblici territoriali in due classi,
secondo un giudizio di "virtuosità” ai sensi dell’art. 20, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011,
n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito dall’art.
1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, «sulla base della valutazione ponderata» di parametri di virtuosità, ai
fini del rispetto del Patto di stabilità (sentenza n. 8 del
2013).
Nel caso di specie, «l’applicazione di procedure di affidamento dei
servizi ad evidenza pubblica da parte di regioni, province e comuni o degli
enti di governo locali dell’ambito o del bacino», previsto dalla disposizione impugnata, è stato inserito dal
legislatore statale – quale ulteriore elemento di valutazione di "virtuosità”
degli enti che ad esso si adeguano, al fine di consentire a questi ultimi di
sottostare a vincoli finanziari meno pesanti rispetto agli altri enti – tra
quelli già previsti dal citato art. 20, comma 2, del d.l. n. 98 del 2011.
Secondo questa tecnica, dunque, riguardo al tema in esame, risultano più
virtuosi gli enti che si conformano alle indicazioni del legislatore statale
(indicazioni fornite in virtù della competenza esclusiva in materia di
concorrenza) nell’affidamento dei servizi pubblici locali tramite gare ad
evidenza pubblica.
Questa tecnica ha, in generale, il pregio di non privare le Regioni e gli
altri enti territoriali delle loro competenze e di limitarsi a valutare il loro
esercizio ai fini dell’attribuzione del «premio», ovvero della coerenza o meno alle indicazioni del legislatore
statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia
di concorrenza. Infatti, «grazie alla tecnica normativa prescelta i principi di
liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitano ad esercitare le
proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche». Ne consegue, dunque, che le
Regioni «non risultano menomate nelle, né tantomeno private delle, competenze
legislative e amministrative loro spettanti, ma sono orientate ad esercitarle
in base ai principi indicati dal legislatore statale, che ha agito
nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia della concorrenza» (sempre sentenza n. 8 del
2013).
3.2.1. – In base alla precedenti considerazioni, conseguentemente, le
censure formulate in relazione all’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost. ed anche in riferimento all’art. 118 Cost. non sono fondate: con
la disposizione impugnata il «legislatore nazionale non ha occupato gli spazi
riservati a quello regionale, ma ha agito presupponendo invece che le singole
Regioni continuino ad esercitare le loro competenze, conformandosi tuttavia ai
principi stabiliti a livello statale» (sentenze
n. 8 del 2013
e n. 200 del
2012). In particolare, in riferimento all’art. 118 Cost., non sussiste la
lamentata violazione dell’autonomia regionale nell’esercizio delle sue funzioni
da parte del comma 3 del citato art. 3-bis,
in quanto la capacità amministrativa degli enti non può ritenersi limitata da
un sistema che garantisce ad essi la
piena autonomia di gestione.
Quanto, poi, al comma secondo, lettera e), dell’art. 117 Cost. e alla non
fondatezza della sua lamentata violazione, si può ancora ricordare quanto è
stato sottolineato da questa Corte sulle finalità perseguite dal decreto-legge
n. 1 del 2012: e cioè che esso si colloca nel solco di un’evoluzione normativa
diretta ad attuare «il principio generale della liberalizzazione delle attività
economiche, richiedendo che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera
iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di
rango costituzionale» (sentenza n. 200 del
2012).
Tale intervento normativo, conformemente ai principi
espressi dalla giurisprudenza costituzionale, «prelude a una razionalizzazione
della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio
dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro,
mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si
svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi
costituzionali» (sentenza
n. 200 del 2012, citata dalla sentenza n. 8 del
2013).
3.2.2.– In relazione all’art. 117, comma primo, Cost., poi, la censura
risulta ugualmente non fondata, in quanto nella disciplina di cui trattasi «non
emerge alcun profilo di contrasto con il diritto dell’Unione europea», tanto più che la stessa si
qualifica in termini di tutela della concorrenza (sentenze n. 299 e n. 200 del 2012),
«rientrando dunque pienamente all’interno delle competenze di pertinenza
esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. senza nulla togliere alle Regioni in materia di
attuazione del diritto europeo» (sentenza n. 8 del
2013; analogamente, sul punto, la sentenza n. 325 del
2010).
4.– La Regione Veneto dubita, poi, della legittimità
costituzionale del comma 4 dell’art. 3-bis
del d.l. n. 138 del 2011 per violazione dell’art. 119 Cost. e del principio di
leale collaborazione.
4.1.– Il comma 4 stabilisce che, «Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di
rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a
valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’art. 119, comma quinto, della
Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti
o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio
selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità
di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità
del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa».
4.1.1.– A
parere della ricorrente Regione Veneto, tale disposizione – prevedendo la
prioritaria attribuzione agli enti di governo degli ambiti o dei bacini
territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio, selezionati
attraverso la procedura ad evidenza pubblica o a quelli di cui
l’Autorità di settore che abbia verificato la qualità e l’efficienza in base a
specifici parametri dalla stessa definiti, e privilegiando, quindi, i più
efficienti – poiché non
stabilisce la riconducibilità dei predetti finanziamenti ai tipi di fondi
consentiti dall’art. 119 Cost., violerebbe
l’autonomia finanziaria regionale ivi prevista.
La stessa, inoltre, sempre secondo la ricorrente, violerebbe anche il
principio di leale collaborazione, in quanto i finanziamenti ivi previsti
rientrerebbero in ambiti di competenza regionale, mentre la normativa in esame
non sembra aver previsto alcun coinvolgimento delle Regioni.
4.2.–
Entrambe le censure non sono fondate per i motivi qui di seguito esposti.
4.2.1.– Relativamente alla violazione dell’autonomia finanziaria della
Regione, di cui all’art. 119, comma quinto, Cost., una corretta analisi
letterale della norma impugnata porta a ritenere che il legislatore statale – in linea con le finalità perseguite dal
decreto-legge n. 1 del 2012, sopra
ricordate in riferimento alle censure relative al precedente comma 3 della medesima
disposizione – ha, anche nel caso di specie, fatto ricorso ai principi propri
della «tecnica premiale», la
quale, appunto, come già evidenziato, non comporta l’assorbimento delle
competenze regionali. Gli enti territoriali, infatti, conservano le loro
competenze che esercitano in conformità ai principi di liberalizzazione dettati
dallo Stato, il quale, nell’erogare i finanziamenti di sua competenza,
privilegia le amministrazioni più "virtuose”.
Del resto, è stato già affermato da questa
Corte che «non è irragionevole che il legislatore abbia
previsto un trattamento differenziato fra enti che decidono di perseguire un
maggiore sviluppo economico attraverso politiche di ri-regolazione dei mercati
ed enti che, al contrario, non lo fanno, purché, naturalmente, lo Stato operi
tale valutazione attraverso strumenti dotati di un certo grado di oggettività e
comparabilità, che precisino ex ante
i criteri per apprezzare il grado di adeguamento raggiunto da ciascun ente
nell’ambito del processo complessivo di razionalizzazione della regolazione,
all’interno dei diversi mercati singolarmente individuati. Introdurre un regime
finanziario più favorevole per le Regioni che sviluppano adeguate politiche di
crescita economica costituisce, dunque, una misura premiale non incoerente
rispetto alle politiche economiche che si intendono, in tal modo, incentivare» (sentenza n. 8 del
2013).
Né sembra essere di ostacolo l’eccepita non riconducibilità della norma impugnata alle ipotesi di cui all’art. 119 Cost.
È
infatti vero che la giurisprudenza costituzionale ha affermato che «gli
interventi statali fondati sulla differenziazione tra Regioni, volti a
rimuovere gli squilibri economici e sociali, devono seguire le modalità fissate
dall’art. 119, quinto comma, Cost., senza alterare i vincoli generali di
contenimento della spesa pubblica, che non possono che essere uniformi» (sentenza n. 284 del
2009), e che « Da ciò deriva l’implicito riconoscimento del principio di
tipicità delle ipotesi e dei procedimenti attinenti alla perequazione
regionale, che caratterizza la scelta legislativa di perequazione "verticale”
effettuata in sede di riforma del Titolo V della Costituzione mediante la legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione)» (sentenza n. 176 del
2012). Ma è necessario sottolineare che la stessa giurisprudenza ha
evidenziato in numerose sentenze che «Il rispetto di detto principio di
tipicità non impedisce certamente – allo stato della legislazione – che possano
essere adottati interventi perequativi a favore delle collettività
economicamente più deboli. Ciò potrà tuttavia avvenire solo attraverso quei
moduli legislativi e procedimentali non collidenti con il dettato dell’art. 119
Cost., alcuni dei quali sono già stati scrutinati favorevolmente da questa
Corte (sentenze n.
71 del 2012, n.
284 e n. 107
del 2009, n.
216 del 2008, n.
451 del 2006 e n. 37 del 2004)».
Nel caso di specie deve, infatti, escludersi che il dettato del comma 4 possa prevedere misure perequativo-solidaristiche non previste dal comma quinto dell’art. 119 Cost. («risorse aggiuntive» e «interventi speciali»), che non integrino, come precisato da questa Corte, interventi straordinari, aggiuntivi e diretti a garantire i servizi indispensabili alla tutela di diritti fondamentali (sentenze n. 71 del 2012; n. 45 del 2008, n. 105 del 2007, n. 451 del 2006, n. 222 del 2005, n. 49 e n. 16 del 2004).
Non sussiste, pertanto, alcuna violazione sotto
l’invocato profilo dell’art. 119 Cost.
4.2.2.– Anche in merito alla censura di violazione
del principio di leale collaborazione, lamentata dalla Regione, la questione –
prescindendo dalla carenza e genericità della motivazione – non è fondata.
Questa Corte ha più volte sottolineato che tale
principio «non trova applicazione in
riferimento al procedimento legislativo e, inoltre, che esso non opera allorché
lo Stato eserciti la propria competenza esclusiva in materia di "tutela della
concorrenza”» (così le sentenze n. 8 del 2013; n. 299 e n. 234 del 2012;
n. 88 del 2009
e n. 219 del
2005).
5.– Infine, per la difesa regionale, anche il
comma 5 dell’art. 3-bis, così come inserito nel d.l. n.
138 del 2011, stabilendo l’assoggettamento delle società affidatarie in house al Patto di stabilità interno
secondo le modalità definite dal decreto ministeriale previsto dall’articolo
18, comma 2-bis, del d.l. n. 112 del
2008, violerebbe l’art. 117, commi terzo e sesto, Cost.
5.1.– Al riguardo, la
Regione Veneto, preliminarmente, chiede
che la Corte voglia sollevare davanti a se stessa, mediante autorimessione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
18, comma 2-bis, del d.l. n. 112 del
2008 e dell’art. 4, comma 14, del d.l. n. 138 del 2011, costituenti quelli che
definisce «antecedenti storici» della disposizione in oggetto.
Per ciò che riguarda la richiesta di autorimessione della questione di legittimità costituzionale del comma 2-bis dell’art. 18 del d.l. n. 112 del 2008, si premette che si tratta di una sollecitazione – formulata per ovviare alla intervenuta decorrenza dei termini perentori entro i quali può essere presentato il ricorso – che questa Corte non è tenuta ad esaminare. Nel caso in oggetto, ad essa si darà comunque, per la stretta connessione che tale normativa viene ad avere con quella attualmente impugnata, una più ampia risposta in sede di esame del merito della questione di legittimità costituzionale del suddetto comma 5 dell’art. 3-bis.
Per quanto, poi, riguarda il comma 14 dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, esso (congiuntamente all’intero articolo) è stato già dichiarato da questa Corte costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 199 del 2012, peraltro decisa e pubblicata dopo l’instaurazione del presente giudizio, a seguito dell’impugnazione del medesimo comma da parte delle Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e Sardegna.
5.2.–
Nel merito, anche la questione di legittimità costituzionale del comma 5
dell’art. 3-bis, del d.l. n. 138 del
2011, per violazione dell’art. 117, commi terzo e sesto, Cost., non è fondata.
5.3.–
Ad avviso della ricorrente, tale disposizione, prevedendo che gli affidatari in house siano soggetti
al Patto di stabilità interno, secondo le modalità previste dall’art. 18, comma
2-bis, del d.l. n. 112 del 2008, avrebbe sostanzialmente riproposto il
dettato della prima parte della lettera a)
del comma 10 dell’art. 23-bis del medesimo decreto- legge (come
modificato dall’art. 15, comma l, del d.l. n. 135 del 2009), dichiarato
costituzionalmente illegittimo da questa Corte con sentenza n. 325 del
2010, limitatamente alle parole:
«l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali
al patto dì stabilità interno e».
La disposizione in esame – secondo la Regione ricorrente – avrebbe
ripristinato, di fatto, la normativa dichiarata costituzionalmente illegittima,
demandando nuovamente ad una fonte sub-legislativa la definizione delle modalità
per l’assoggettamento al Patto di stabilità interno delle società in house. Anche essa sarebbe, pertanto,
costituzionalmente illegittima, venendo a violare la competenza regolamentare
della Regione nelle materie di competenza legislativa concorrente, di cui
all’art. 117, comma sesto, Cost.
La ricorrente sottolinea che la sentenza sopra richiamata ha ritenuto che
l’ambito di applicazione del Patto di stabilità interno attiene alla materia
del coordinamento della finanza pubblica, di competenza legislativa
concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale per le
quali soltanto l’art. 117, comma sesto, Cost., attribuisce allo Stato la
potestà regolamentare.
Il nucleo argomentativo di questa decisione di illegittimità
costituzionale, sostiene la Regione, è incentrato sul fatto che, in relazione
alla coordinata lettura dell’art. 117, commi terzo e sesto, Cost. e, poiché si
verte in materia di competenza legislativa concorrente, non sussiste una
potestà regolamentare dello Stato che consenta a quest’ultimo di prescrivere
l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al
Patto di stabilità interno.
5.3.1.– Se il comma 5 dell’art. 3-bis
, norma in esame, si leggesse nel senso che lo Stato avesse previsto l’utilizzazione
della sua potestà regolamentare (e non quella legislativa) per assoggettare le
società affidatarie in house al Patto
di stabilità interno o avesse previsto, come nel precedente giurisprudenziale
sopra richiamato, l’uso dello strumento regolamentare per intervenire nella
suddetta materia, dovrebbe concludersi per la fondatezza della questione.
Ma non è questa la corretta interpretazione da attribuire alla disposizione impugnata. È ben noto, al riguardo, il costante insegnamento di questa Corte – espresso soprattutto nei giudizi incidentali, ma che vale, per ciò che attiene alla decisione di merito, anche nei giudizi in via principale (sentenza n. 21 del 2013, ordinanze n. 255 del 2012, n. 287 del 2011 e n.110 del 2010) – che di una disposizione legislativa non si pronuncia l’illegittimità costituzionale quando se ne potrebbe dare un’interpretazione in violazione della Costituzione, ma quando non se ne può dare un’interpretazione conforme a Costituzione.
È, quindi, necessario esaminare sia il contenuto della lettera a) del comma 10 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e della disposizione legislativa impugnata col presente ricorso, sia l’esatto percorso argomentativo della sentenza n. 325 del 2010.
Con riferimento alle diverse e contrapposte tesi che le parti ricorrenti e la parte resistente avevano in quel giudizio formulato circa il rapporto che la disposizione censurata veniva ad avere con la analoga disciplina comunitaria, nella citata sentenza si afferma che «Nessuna di tali due opposte prospettazioni è condivisibile, perché le disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una violazione né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed internazionale, ma sono semplicemente con questa compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare l’evocato primo comma dell’art. 117 Cost.».
A seguito, poi, di un analitico esame delle due normative, questa Corte conclude che «Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario».
Esclusa, quindi, qualunque possibile violazione della disciplina comunitaria, che potesse venire a vulnerare il comma primo dell’art. 117 Cost., questa Corte inquadra la disposizione nell’ambito della materia, di competenza concorrente, del «coordinamento della finanza pubblica» e, poiché il comma 10 del più volte citato art. 23-bis prevedeva che il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni e sentita la Conferenza unificata, adottasse «uno o più regolamenti, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di: a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», ha sancito l’illegittimità costituzionale di quest’ultimo periodo.
Infatti la disposizione legislativa, prevedendo l’adozione, da parte del Governo, di un atto regolamentare in una materia di legislazione concorrente violava il comma sesto dell’art. 117 Cost.
Ma, ed è questa l’erronea prospettazione della ricorrente, con la citata sentenza non si è certo affermato che, in mancanza del previsto regolamento, le società in house non fossero assoggettate al patto di stabilità interno. In essa, infatti, si afferma chiaramente che «Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di "contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo».
Quindi, una diversa disciplina che favorisca le società in house rispetto all’aggiudicante Amministrazione pubblica si potrebbe porre in contrasto con la stessa disciplina comunitaria, in quanto verrebbe a scindere le due entità e a determinare un ingiustificato favor nei confronti di questo tipo di gestione dei servizi pubblici dato che il bilancio delle società in house non sarebbe soggetto alle regole del patto di stabilità interno. Le suddette regole, invece, debbono intendersi estese a tutto l’insieme di spese ed entrate dell’ente locale sia perché non sarebbe funzionale alle finalità di controllo della finanza pubblica e di contenimento delle spese permettere possibili forme di elusione dei criteri su cui detto "Patto” si fonda, sia perché la maggiore ampiezza degli strumenti a disposizione dell’ente locale per svolgere le sue funzioni gli consente di espletarle nel modo migliore, assicurando, nell’ambito complessivo delle proprie spese, il rispetto dei vincoli fissati dallo stesso Patto di stabilità.
Chiariti, quindi, il percorso motivazionale della sentenza n. 325 del 2010 e la portata della declaratoria di illegittimità costituzionale in essa contenuta, occorre valutare se analogo vizio è riscontrabile nella disposizione legislativa attualmente impugnata, partendo da quanto espressamente prevede l’art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112 del 2008 cui essa rinvia per ciò che riguarda le modalità alle quali il decreto ministeriale si deve attenere in merito all’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno.
Quest’ultimo prevede che: «Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e per i rapporti con le regioni, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, da emanare entro il 30 settembre 2009, sono definite le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al patto di stabilità interno delle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgano attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica».
Si tratta, come già precisato, della disposizione alle cui modalità di
attuazione il censurato comma 5 dell’art. 3-bis
del d.l. n. 1 del 2012 rinvia e nei cui confronti la ricorrente chiedeva
l’autoremissione, ritenendo che avesse, in via legislativa, sottoposto le
società in house al Patto di
stabilità interno e che, quindi, già con la suddetta sentenza n. 325 del
2010 questa Corte avrebbe dovuto estendere, ex art. 27 della legge n. 87
dell’11 marzo 1953, la pronuncia di illegittimità. Al riguardo, il punto di
partenza della ricorrente (cioè che con tale disposizione si è prevista la
sottoposizione delle società in house al
patto di stabilità interno) è esatto, ma sono errate le conclusioni. Con tale
disposizione si è, infatti, reso legislativamente esplicito un adempimento di
origine comunitaria rientrante in quei contenuti minimi non derogabili cui fa
riferimento la sentenza
n. 325 del 2010 e proprio la mancata estensione ad essa della pronuncia di
illegittimità di parte del comma 10 dell’art. 23-bis dimostra che questa Corte, già dalla citata sentenza, ha ben
differenziato tra l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno, che era fuori dal giudizio,
e gli strumenti per renderlo normativamente o amministrativamente più
facilmente gestibile che costituivano, invece, l’oggetto della pronuncia.
È a tali strumenti, o, per meglio dire, alla loro natura, che occorre fare
riferimento, dato che la materia cui le due disposizioni legislative attengono
è la stessa, vale a dire quella del «coordinamento della finanza pubblica» di
cui al comma terzo dell’art. 117 Cost., nella quale lo Stato non può ricorrere
alla potestà regolamentare.
Nel comma 10 dell’art. 23-bis si
prevedeva il ricorso, da parte del Governo, ad uno o più regolamenti di cui
all’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, cioè ad un atto di
normazione secondaria generale ed astratto, idoneo a determinare, nel rispetto
dei principi che regolano la gerarchia delle fonti di produzione del diritto,
innovazioni nella materia. Invece, nella disciplina legislativa attualmente
impugnata ed in quella cui questa fa riferimento si prevede il ricorso ad un
decreto ministeriale che, per quello che costituisce il suo oggetto, ha la
natura di atto non regolamentare. Mentre, difatti, nel comma 10 dell’art. 23-bis si precisava che il regolamento
avrebbe avuto come oggetto quello di «prevedere l’assoggettamento dei soggetti
affidatari così detti in house di
servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», con possibilità,
quindi, di dettare regole che disciplinassero anche nel merito questo
assoggettamento o che, in ogni caso, potessero, nel limite del rispetto di
quanto contenuto nella legge che lo prevedeva, determinare innovazioni
normative, nella disposizione legislativa cui rinvia il censurato comma 5
dell’art. 3-bis è previsto che il
decreto ministeriale definisca esclusivamente le «modalità e la modulistica»
dell’assoggettamento al patto di stabilità. Si tratta, quindi, di un atto che
non ha contenuti normativi, ma che adempie esclusivamente ad un compito di
coordinamento tecnico, volto ad assicurare l’uniformità degli atti contabili in
tutto il territorio nazionale.
Per ciò, poi, che riguarda il secondo dei termini usati per delimitare la
materia del decreto ministeriale, cioè la «modulistica», ci si trova di fronte
ad una materia che rientra nella legislazione esclusiva dello Stato (cioè il
«coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell’amministrazione statale, regionale e locale» di cui alla lettera r del comma secondo dell’art. 117 Cost.)
e, quindi, poiché era possibile, per lo Stato, anche il ricorso allo strumento
regolamentare, non può ravvisarsi un’illegittimità nel ricorso ad una fonte non
regolamentare.
Con la norma impugnata, pertanto, il legislatore statale non ha
oltrepassato i limiti posti dall’art. 117, comma terzo, Cost., né è venuto a
ledere la competenza regolamentare della Regione, di cui al comma sesto
dell’art. 117 Cost.
6.– L’istanza di sospensione dell’efficacia delle norme impugnate, formulata dalla Regione Veneto, rimane assorbita dalla decisione circa la non fondatezza nel merito delle censure proposte con il ricorso (ex plurimis, sentenza n. 299 del 2012).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti le altre disposizioni contenute nel decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27;
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 25, comma 1, lettera a), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui introduce l’art. 3-bis, comma 3, nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, promosse dalla Regione Veneto, con riferimento agli articoli 3, 5, 97, 114 e 119 della Costituzione, all’articolo 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), agli articoli 1, comma 1, e 2, comma 2, lettere z) e ll), della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), con il ricorso in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del citato articolo 25, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 1 del 2012, quale convertito dalla legge n. 27 del 2012, nella parte in cui introduce l’art. 3-bis, commi 2, 3, 4 e 5, nel decreto-legge n. 138 del 2011, promosse dalla Regione Veneto, con riferimento agli articoli 117, commi primo, secondo, lettera e), terzo, e sesto, 118, 119, commi secondo, terzo, quarto e quinto, Cost. e al principio di leale collaborazione, con il ricorso in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 13 marzo 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 marzo 2013.