SENTENZA N. 21
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Andrea Cabiale
La Corte non prende posizione sui presupposti della connessione teleologica
(per gentile concessione della Rivista telematica Diritto Penale Contemporaneo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Gaetano SILVESTRI Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16 del codice di procedura penale promosso dal Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di G. V. ed altri, con ordinanza del 3 novembre 2011, iscritta al n. 36 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di G. V., K. R. e M. F., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 gennaio 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Francesco Centonze e Giovanni Briola per G. V., Jacopo Pensa e Paola Boccardi per K. R., Paolo Trombetti per M. F. e l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.– Con ordinanza del 3 novembre 2011, il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dal giudice rimettente – prevede che, in caso di connessione teleologica, la competenza spetti per tutti i reati e nei confronti di tutti gli imputati al giudice del luogo in cui è stato commesso il reato più grave, anche se di questo non debbano rispondere tutti gli imputati del reato meno grave.
Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di numerose persone, imputate dei delitti di falso ideologico e truffa aggravata. In relazione al reato di falso ideologico descritto nel primo dei capi di imputazione, addebitato ad uno solo degli imputati, era stata contestata l’aggravante del nesso teleologico, di cui all’art. 61, numero 2), del codice penale, trattandosi – secondo l’ipotesi accusatoria – di reato strumentale alla commissione di quello di truffa.
Come questione preliminare, i difensori di alcuni degli imputati avevano riproposto l’eccezione – già formulata nel corso dell’udienza preliminare – di incompetenza per territorio del Tribunale rimettente, rilevando come i loro assistiti fossero chiamati a rispondere del solo reato di truffa, da ritenere consumato in Milano (ivi essendo avvenuta la percezione del profitto), onde la competenza a conoscere del fatto loro ascritto sarebbe spettata al Tribunale di quella città. Secondo i difensori, sarebbe rimasta inoperante la regola di cui all’art. 16 cod. proc. pen., in forza della quale, nel caso di connessione di procedimenti, la competenza per territorio appartiene al giudice competente per il reato più grave (nella specie, il delitto di falso ideologico, commesso in Lecce). La circostanza che tale reato fosse stato contestato, non a tutti gli imputati, ma ad uno solo di essi, non avrebbe consentito, infatti, di ravvisare l’ipotesi della connessione teleologica prevista dall’art. 12, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.
Al riguardo, il giudice a quo – premesso che il reato di truffa, quale descritto nel caso di imputazione, deve considerarsi effettivamente consumato in Milano – osserva come la previsione del citato art. 12, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. (secondo la quale si ha connessione di procedimenti «se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri») costituisca oggetto di due contrastanti interpretazioni nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.
In base all’orientamento prevalente, la connessione teleologica prevista dalla norma censurata presupporrebbe – conformemente a quanto sostenuto dai difensori – che vi sia identità fra gli autori del reato-fine e quelli del reato-mezzo. Quando tali reati siano stati commessi da soggetti diversi, mancando l’unità del processo volitivo tra il reato-mezzo e il reato-fine, ricorrerebbe, al più, solo un’ipotesi di connessione di natura probatoria, inidonea a determinare spostamenti di competenza, tanto più che l’interesse di un imputato alla trattazione unitaria di procedimenti connessi teleologicamente non potrebbe pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza.
A tale indirizzo interpretativo si contrappongono due sentenze della Corte di cassazione (la sentenza 13 giugno 1998-22 settembre 1998, n. 10041 e la sentenza 23 settembre 2010-15 ottobre 2010, n. 37014), secondo le quali la connessione teleologica si baserebbe invece sulla sola relazione oggettiva tra i reati, a prescindere dalla comunanza dei relativi autori.
Ad avviso del rimettente, andrebbe adottata questa seconda lettura, in quanto più aderente al testo della norma e all’intenzione del legislatore. Con riguardo all’ipotesi della continuazione, infatti, la lettera b) dell’art. 12, comma 1, cod. proc. pen. subordina espressamente la configurabilità della connessione alla condizione che i reati commessi con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso siano attributi alla stessa persona. L’analogo riferimento al medesimo autore di più reati originariamente presente nella lettera c) è stato, di contro, rimosso dall’art. 1 del decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367 (Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8. Tale modifica normativa, ove non la si voglia privare di significato, andrebbe ritenuta indicativa della volontà legislativa di attribuire rilievo al solo legame oggettivo tra gli illeciti.
Alla luce di tale ricostruzione – l’unica rispondente a corretti criteri di ermeneutica giuridica, secondo il giudice a quo – la disposizione combinata degli art. 12, comma 1, lettera c), e 16 cod. proc. pen. violerebbe, tuttavia, il principio del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall’art. 25 Cost.
In senso contrario, non varrebbe obiettare che la citata disposizione, da un lato, è una «legge precostituita al fatto» e, dall’altro, individua comunque il giudice competente sulla base della «natura del fatto» stesso, sia pure valutato «nel suo complesso», tenendo conto anche dei suoi rapporti (in specie, quello di mezzo a fine) con altro reato più grave.
In primo luogo, una simile tesi «proverebbe troppo». Se il parametro cui ragguagliare la «naturalità» del giudice fosse il fatto «ampliato al complesso del suo contesto», il medesimo regime normativo dovrebbe essere adottato anche in rapporto all’ipotesi della continuazione, soggetta invece alla differente disciplina di cui alla lettera b) dell’art. 12, comma 1, cod. proc. pen. Per questo verso, la normativa censurata violerebbe, dunque, l’art. 3 Cost., non essendo ravvisabile alcuna ragione atta a giustificare un diverso trattamento delle due ipotesi, sostanzialmente assimilabili sotto il profilo considerato.
In secondo luogo, la tesi in discorso attenuerebbe eccessivamente il legame tra giudice e fatto, «ponendolo nelle mani di una incontrollabile discrezionalità non solo del legislatore ordinario, ma anche del titolare del potere di definizione del fatto oggetto del processo», e cioè del pubblico ministero.
Il principio del giudice naturale precostituito per legge tutelerebbe, in effetti, anzitutto l’interesse delle parti a che la loro controversia sia giudicata da un giudice imparziale, e dunque da «un giudice che nessuna parte possa scegliersi in danno dell’altra». A tale esigenza assolverebbe segnatamente il principio della precostituzione, che affida in via esclusiva alla legge l’individuazione, in via generale ed astratta, del giudice chiamato a conoscere di determinate categorie di cause.
Valendosi dell’aggettivo «naturale», l’art. 25 Cost. avrebbe posto, peraltro, anche un limite alla discrezionalità del legislatore, richiedendo che la controversia venga decisa da un giudice «“naturalmente” competente rispetto al fatto», da identificare, «per convenzione diffusa», nel giudice del luogo ove il fatto è avvenuto.
Deroghe all’esigenza costituzionale di uno «stretto legame naturalistico» tra il giudice e il luogo di verificazione del fatto sarebbero tollerabili nei soli casi eccezionali in cui sia necessario evitare la lesione di altri valori di rilievo costituzionale. In questa prospettiva, sarebbe costituzionalmente legittima, ad esempio, la disciplina in tema di rimessione del processo, che sottrae la decisione ad un giudice condizionabile dal contesto ambientale, come pure quella relativa ai processi riguardanti magistrati, intesa a prevenire le possibili «influenze distorsive» connesse alla qualità di una delle parti del giudizio.
La speditezza del processo – cui è ispirata la disciplina della connessione dei procedimenti – non rientrerebbe, per converso, tra le ragioni idonee a legittimare deroghe al principio in questione, potendo giustificare, semmai, solo la previsione di limiti temporali alla rilevabilità delle questioni di competenza. L’art. 111, secondo comma, Cost. demanda, infatti, il compito di assicurare la ragionevole durata del processo alla legge, la quale deve sempre muoversi nel rispetto dei principi costituzionali, a cominciare da quello – da reputare prioritario – del giudice naturale, posto a garanzia dell’imparzialità e dell’indipendenza dell’organo giudicante, quali connotati essenziali del «giusto» processo.
Ciò posto, e rilevato altresì come, per costante giurisprudenza, la competenza debba essere determinata in relazione al fatto quale contestato nell’imputazione, il rimettente osserva come tale metodo garantisca il pieno rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge, anche con riferimento all’ipotesi della connessione teleologica, solo nei limiti in cui, da un lato, «si accolga una nozione delimitata e ristretta del fatto quale singolo fatto reato», e, dall’altro, si prevedano meccanismi processuali idonei ad evitare che il pubblico ministero possa strumentalmente scegliere di contestare un fatto diverso da quello effettivamente realizzato, al solo fine di incidere sulla competenza.
Entrambe tali condizioni non sarebbero riscontrabili nel caso considerato. Le norme censurate introdurrebbero, infatti, ai fini della determinazione della competenza per connessione, una «nozione di fatto-reato» che, in quanto comprensiva anche del nesso di strumentalità che lo lega ad altri reati, risulterebbe troppo ampia e, dunque, lesiva del principio del giudice naturale. Al tempo stesso, il sistema processuale non offrirebbe adeguate tutele contro il rischio che il pubblico ministero influisca sulla individuazione del giudice competente tramite un’arbitraria formulazione dell’imputazione e, in particolare, tramite la strumentale contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61, numero 2), cod. pen. Del tutto insufficiente sarebbe, in specie, la tutela offerta dall’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. – in forza del quale il giudice deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ove accerti che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione – dovendosi escludere, alla luce dei correnti indirizzi giurisprudenziali, che dia luogo a diversità del fatto, ai sensi della disposizione ora citata, la mera esclusione di una circostanza.
Alla luce di tali considerazioni, il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata e rilevante nel processo principale, in quanto condizionante la decisione sull’eccezione di incompetenza sollevata dalle difese, la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 12, comma 1, lettera c), e 16 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di connessione teleologica, attribuirebbe la competenza per tutti i reati e per tutti gli imputati al giudice del luogo in cui è stato commesso il reato più grave, anche se questo non risulti contestato a tutti gli imputati del reato meno grave.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
La difesa dello Stato rileva come la giurisprudenza di legittimità abbia da tempo fornito una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, giungendo a conclusioni opposte a quelle del giudice rimettente. Nella quasi totalità delle decisioni sul tema, la Corte di cassazione ha, infatti, affermato che lo spostamento della competenza derivante dalla connessione teleologica si determina solo nei confronti di coloro cui sia contestata anche l’imputazione dotata di vis actractiva. In materia, dovrebbe ritenersi, infatti, prevalente l’interesse dell’imputato a non essere sottratto al suo giudice naturale, rispetto all’interesse ordinamentale alla trattazione unitaria del processo.
La questione sarebbe, di conseguenza, inammissibile, non avendo il rimettente verificato la possibilità di una interpretazione secundum Constitutionem della normativa censurata, e avendo anzi disatteso il «diritto vivente» enucleabile dal consolidato orientamento giurisprudenziale dianzi ricordato.
Anche aderendo all’esegesi del rimettente, la questione sarebbe comunque infondata.
Il principio del giudice naturale precostituito per legge risponderebbe, infatti, essenzialmente all’esigenza che, a garanzia di una rigorosa imparzialità degli organi giudicanti, la loro competenza sia stabilita in base a criteri generali fissati in anticipo, e non in vista di singole controversie. Nel caso in esame, tale esigenza risulterebbe pienamente soddisfatta, essendo chiaramente determinato a priori, in sede legislativa, il criterio attributivo della competenza territoriale derivante dalla connessione.
D’altro canto, se è vero che, nell’assegnazione della competenza, il legislatore privilegia generalmente il criterio del locus commissi delicti, onde soddisfare esigenze di economia processuale, di più agevole esercizio del diritto di difesa e di più pronta raccolta delle prove, ciò non escluderebbe che sia costituzionalmente legittima qualsiasi deroga a tale criterio, ove finalizzata – come nella specie – alla salvaguardia di interessi ritenuti, non irragionevolmente, meritevoli di tutela.
3.– Si è costituito altresì G. V., imputato nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
La difesa della parte privata, dopo avere ricordato le motivazioni dell’eccezione di incompetenza per territorio formulata nel giudizio principale, sottolinea come il giudice rimettente, nel sollevare la questione, abbia ritenuto di non poter aderire all’orientamento giurisprudenziale nettamente preponderante e conforme a Costituzione, ritenendo preferibile la contraria interpretazione delle norme censurate offerta da due isolate sentenze della Corte di cassazione: interpretazione della quale ha poi contestato la compatibilità con gli artt. 3 e 25 Cost.
L’omessa considerazione dell’esistenza di un indirizzo alternativo conforme a Costituzione sarebbe, già di per sé, motivo di inammissibilità della questione. Peraltro, essendo detto indirizzo quello largamente maggioritario, la questione finirebbe per assumere una finalità meramente interpretativa: il rimettente chiederebbe, in sostanza, alla Corte costituzionale un avallo alla propria scelta di disattendere tale orientamento, in favore di una interpretazione minoritaria da lui stesso ritenuta costituzionalmente illegittima. Ciò, in contrasto con il principio, più volte affermato dalla Corte, in forza del quale «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne) ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali».
4.– Si è costituito anche K. R., altro imputato nel giudizio a quo, il quale ha chiesto che la questione venga dichiarata infondata, essendo possibile una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme denunciate, peraltro adottata dalla dominante giurisprudenza di legittimità.
5.– Si è costituito, infine, M. F. – anch’egli imputato nel giudizio principale – il quale, dopo aver ripercorso in termini adesivi le argomentazioni del rimettente, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata.
1.– Il Tribunale di Lecce dubita della legittimità costituzionale della disposizione combinata degli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16 del codice di procedura penale, nella parte in cui – alla stregua dell’interpretazione accolta dal giudice rimettente – attribuirebbe, nel caso di connessione teleologica, la competenza per tutti i reati connessi e per tutti gli imputati al giudice del luogo di commissione del reato più grave, anche quando di quest’ultimo non siano chiamati a rispondere tutti gli imputati del reato meno grave.
Ad avviso del giudice a quo, tale regime normativo contrasterebbe con il precetto posto a tutela del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 della Costituzione), sotto un duplice profilo. Da un lato, le norme censurate renderebbero rilevante, ai fini della determinazione della competenza, il generale «contesto» in cui il fatto di reato è maturato, comprensivo del nesso di strumentalità che lo lega ad altri reati: con ciò derogando, senza adeguata ragione giustificativa – non ravvisabile nella mera esigenza di speditezza dei processi – alla regola costituzionale, in assunto desumibile dal predicato di «naturale», per cui il giudice competente deve identificarsi in quello del luogo in cui è stato commesso il fatto. Dall’altro lato, le medesime disposizioni comprometterebbero anche l’esigenza della precostituzione per legge del giudice, consentendo al pubblico ministero di incidere sulla competenza tramite la strumentale contestazione dell’aggravante prevista dall’art. 61, numero 2), del codice penale.
La normativa denunciata violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost., sottoponendo la connessione teleologica ad un trattamento ingiustificatamente differenziato rispetto a quello riservato all’ipotesi affine della continuazione, la quale, in forza della lettera b) dell’art. 12, comma 1, cod. proc. pen., produce spostamenti di competenza per connessione solo quando i reati esecutivi di un medesimo disegno criminoso siano contestati alla stessa persona.
2.– La questione è inammissibile.
Alla radice del dubbio di legittimità costituzionale prospettato dal Tribunale leccese vi è il problema interpretativo generato dal vigente testo della lettera c) dell’art. 12, comma 1, cod. proc. pen., concernente le condizioni di operatività dell’ipotesi di connessione di procedimenti ivi delineata.
Giova al riguardo ricordare come, nella sua versione originaria, la norma in esame stabilisse che vi è connessione di procedimenti «se una persona è imputata di più reati, quando gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare altri» (cosiddetta connessione teleologica). La formula d’esordio («se una persona») non lasciava dubbi sul fatto che il nesso teleologico fosse idoneo a determinare spostamenti della competenza per materia o per territorio, nei termini delineati dagli artt. 15 e 16 cod. proc. pen., solo con riguardo a reati ascrivibili alla stessa o alle stesse persone.
La disposizione è stata, peraltro, oggetto di due successive modifiche.
La prima è conseguita al decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367 (Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 20 gennaio 1992, n. 8. L’art. 1 di tale decreto, per un verso, ha soppresso l’esplicito riferimento all’identità dell’autore dei fatti in connessione, sostituendolo con una locuzione impersonale («se dei reati per cui si procede»); per altro verso, ha ampliato i legami tra reati rilevanti, aggiungendovi la cosiddetta connessione occasionale (reati commessi in occasione di altri) e ulteriori profili finalistici (la finalità di conseguimento, anche per «altri», del profitto, del prezzo, del prodotto o dell’impunità rispetto ad altri reati).
A distanza di un decennio, è intervenuta la legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’articolo 111 della Costituzione), il cui art. 1 ha espunto, in senso regressivo, il riferimento alla connessione occasionale e ai profili finalistici introdotti nel 1991, senza tuttavia ripristinare la formula evocativa dell’esigenza che i reati siano stati realizzati dalla stessa persona. La norma stabilisce, pertanto, attualmente che vi è connessione «se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri».
In sostanza, per quanto qui rileva, a partire dal 1991 la legge non richiede più, almeno a livello testuale, che l’autore del reato-mezzo corrisponda a quello del reato-fine. Ciò, a differenza di quanto avviene per le ipotesi di concorso formale e di continuazione fra reati, riguardo alle quali la lettera b) dello stesso art. 12, comma 1, cod. proc. pen. – anche dopo la modifica operata dal citato decreto-legge n. 367 del 1991 – continua a fare uso della primigenia espressione «se una persona».
3.– Con orientamento formatosi all’indomani della riforma del 1991 e ancora di recente ribadito (da ultimo, Cass., 29 febbraio 2012-5 marzo 2012, n. 8552), la giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, ritenuto che – non ostante il dato letterale dianzi evidenziato – l’identità tra gli autori del reato-mezzo e gli autori del reato-fine resti una condizione imprescindibile per la configurabilità della connessione teleologica e, dunque, per la produzione dei suoi effetti tipici, sul piano dello spostamento di competenza.
A sostegno di tale conclusione si adducono essenzialmente due argomenti. Da un lato, si rileva che, in caso di eterogeneità degli autori, mancherebbe l’unità del processo volitivo tra il reato-mezzo e il reato-fine, che dell’ipotesi di connessione in esame rappresenterebbe comunque il presupposto logico. Dall’altro, si osserva che l’interesse di un solo imputato alla trattazione unitaria dei reati legati da vincolo teleologico – così come dei reati commessi in continuazione fra loro – non potrebbe pregiudicare l’interesse del coimputato (o dei coimputati) a non essere sottratti al giudice naturale, secondo le ordinarie regole di competenza.
Dalla linea interpretativa testé ricordata, ormai quasi ventennale, si discostano due pronunce della Corte di cassazione – notevolmente divaricate tra loro sul piano temporale – secondo le quali il nesso teleologico rileverebbe invece in termini oggettivi, a prescindere dalla coincidenza fra gli autori dei reati in concorso (Cass., 13 giugno 1998-22 settembre 1998, n. 10041; Cass., 23 settembre 2010-15 ottobre 2010, n. 37014). A conforto di tale lettura, si valorizza precipuamente la variazione lessicale operata nel 1991 e mantenuta ferma dalla riforma del 2001, e si evidenzia, altresì, come essa debba ritenersi espressiva di una precisa volontà legislativa, in quanto sintonica con il generale obiettivo del legislatore del tempo di ampliare il perimetro di operatività dell’istituto della connessione rispetto all’impostazione originaria del nuovo codice di rito, giudicata troppo restrittiva. Si osserva, inoltre, come anche in rapporto ai profili sostanziali (art. 61, numero 2, cod. pen.), la configurabilità della connessione teleologica in caso di diversi autori sia stata riconosciuta tanto in sede dottrinale che giurisprudenziale.
4.– In sintesi, può dirsi, dunque, che sul tema oggetto dell’odierno quesito di costituzionalità si fronteggiano due indirizzi interpretativi: il primo, adottato dalla giurisprudenza di legittimità maggioritaria, esige l’identità tra gli autori dei reati; il secondo, accolto dalle due sentenze diversamente orientate di cui si è detto, viceversa ne prescinde.
Nella specie, il giudice rimettente – dopo essersi correttamente rappresentato il quadro giurisprudenziale ora sintetizzato – reputa di dover aderire alla seconda soluzione. Ma lamenta – di qui l’odierna questione – che essa renderebbe costituzionalmente illegittime le norme coinvolte e chiede, quindi, a questa Corte una pronuncia che le allinei a quanto postulato dal primo indirizzo interpretativo.
A prescindere, peraltro, da ogni rilievo circa la reale fondatezza delle censure formulate dal giudice a quo (quelle riferite all’art. 25 Cost., se valide, imporrebbero a rigore la rimozione dell’intero istituto della connessione di procedimenti; quella relativa all’art. 3 Cost. trascura i tratti differenziali tra le figure poste a confronto, cioè connessione teleologica e continuazione), è pregiudiziale e dirimente rilevare che l’operazione dianzi descritta implica un uso improprio dell’incidente di costituzionalità.
Come reiteratamente affermato da questa Corte, «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (ex plurimis, sentenze n. 301 del 2003 e n. 356 del 1996; ordinanze n. 98 del 2010 e n. 85 del 2007).
Alla luce di tale regola basilare, deve escludersi che questa Corte possa essere chiamata a scrutinare una determinata norma di legge assumendola nel significato attribuitole da un indirizzo interpretativo minoritario, cui il giudice rimettente non è vincolato ad aderire e che egli stesso sostiene rendere costituzionalmente illegittima la norma denunciata, quando invece l’orientamento giurisprudenziale prevalente fornisce una lettura della norma conforme all’assetto auspicato dal giudice a quo. In tale situazione, la questione proposta non mira realmente a risolvere un dubbio di legittimità costituzionale, ma viene piuttosto a configurarsi come un improprio tentativo di ottenere dalla Corte un avallo a favore dell’una scelta interpretativa contro l’altra, «senza che da ciò conseguano» – nella prospettiva dello stesso rimettente – «differenze in ordine alla difesa dei principi e delle regole costituzionali, ciò in cui, esclusivamente, consiste il compito della giurisdizione costituzionale»: il che rende inammissibile la questione stessa (tra le altre, sentenza n. 356 del 1996 e ordinanza n. 85 del 2007).
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2013.