Sentenza n. 216 del 2008

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SENTENZA N. 216

ANNO 2008

 

Commento alla decisione

di

Michele Belletti

 

Prove (poco gradite) di regionalismo cooperativo Nota a sent. n. 216 del 2008

 

(per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-   Franco                    BILE                                                     Presidente

-   Giovanni Maria        FLICK                                                   Giudice

-   Francesco               AMIRANTE                                               

-   Ugo                        DE SIERVO                                               

-   Paolo                      MADDALENA                                          

-   Alfio                        FINOCCHIARO                                        

-   Alfonso                   QUARANTA                                             

-   Franco                    GALLO                                                      

-   Luigi                        MAZZELLA                                               

-   Gaetano                  SILVESTRI                                                

-   Sabino                    CASSESE                                                  

-   Maria Rita               SAULLE                                                    

-   Giuseppe                 TESAURO                                                 

-   Paolo Maria            NAPOLITANO                                         

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), sia nel testo originario che in quello risultante all’esito delle modifiche apportate dalla relativa legge di conversione 17 maggio 2007, n. 64, promossi con due ricorsi della Regione Veneto e con due ricorsi della Regione Lombardia notificati il 18 maggio ed il 13 ed il 19 luglio 2007, depositati in cancelleria il 24 e il 26 maggio 2007, il 19 ed il 26 luglio 2007 ed iscritti ai numeri 25, 26, 32 e 34 del registro ricorsi 2007.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato Raffaele Tamiozzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso depositato in cancelleria il 24 maggio 2007 (ricorso n. 25 del 2007), la Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario), per violazione degli artt. 3, 32, 97, 117 e 119 della Costituzione, nonché «del principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost. e 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2003, n. 3» (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

2.— Anche la Regione Lombardia, con ricorso depositato in cancelleria il 26 maggio 2007 (ricorso n. 26 del 2007), ha promosso questione di legittimità costituzionale del medesimo decreto-legge n. 23 del 2007, ipotizzandone l’illegittimità per contrasto con gli artt. 3, 32, 117, terzo e quarto comma, 119 e 120 della Costituzione, nonché «per violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), dell’obbligo di partecipare alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva (art. 53 Cost.) e della riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali» (art. 23 Cost.).

3.— Entrambe le Regioni hanno, inoltre, impugnato anche la legge 17 maggio 2007, n. 64 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 20 marzo 2007, n. 23, recante disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale).

In particolare, la Regione Veneto, con ricorso depositato in cancelleria della Corte il 19 luglio 2007 (ricorso n. 32 del 2007), censura la predetta legge assumendone la contrarietà agli artt. 3, 32, 97, 117, 118 e 119 Cost., nonché al principio di leale collaborazione «di cui agli artt. 5 e 120 Cost. e 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3».

Del pari, la Regione Lombardia, con ricorso depositato in cancelleria della Corte il 26 luglio 2007 (ricorso n. 34 del 2007), ha impugnato la legge n. 64 del 2007, limitatamente all’art. 1, ipotizzando il contrasto con gli artt. 3, 32, 77, secondo comma, 81, quarto comma, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 Cost., nonché la «violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), dell’obbligo di partecipare alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva (art. 53 Cost.) e della riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali» (art. 23 Cost.).

4.— Preliminarmente, entrambe le ricorrenti illustrano, nei suoi tratti essenziali, la disciplina oggetto di censura.

Sottolineano, pertanto, che le disposizioni oggetto di censura stabiliscono, innanzitutto, che lo Stato – in deroga all’obbligo per le Regioni di coprire gli eventuali disavanzi di gestione con oneri a proprio carico – concorre «al ripiano dei disavanzi del Servizio sanitario nazionale per il periodo 2001-2005», in favore delle Regioni che soddisfino, però, alcuni requisiti (art. 1, comma 1). Si richiede, in particolare, che «al fine della riduzione strutturale del disavanzo nel settore sanitario» le Regioni sottoscrivano «l’accordo con lo Stato per i piani di rientro», nonché accedano «al fondo transitorio di cui all’articolo 1, comma 796, lettera b), della legge 296 del 2006» (lettera a comma 1 del predetto art. 1). È necessaria, poi, «al fine dell’ammortamento del debito accumulato fino al 31 dicembre 2005», ed «in via ulteriore rispetto all’incremento nella misura massima dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’aliquota dell’imposta regionale sulle attività produttive», la destinazione, da parte delle Regioni, «al settore sanitario in modo specifico, anche in via alternativa», di «quote di manovre fiscali già adottate o quote di tributi erariali attribuiti alle regioni stesse», ovvero, «nei limiti dei poteri loro attribuiti dalla normativa statale di riferimento ed in conformità ad essa», di «misure fiscali da attivarsi sul proprio territorio, in modo tale da assicurare complessivamente risorse superiori rispetto a quelle derivanti dal predetto incremento nella misura massima» (lettera b del medesimo comma 1 dell’art. 1).

È stabilito, inoltre, che, «per il periodo di imposta successivo al 31 dicembre 2006 e per i periodi seguenti fino all’anno 2010», per quelle Regioni – le quali approvino l’accordo «stipulato con i Ministri della salute e dell’economia e delle finanze, ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e dell’articolo 1, comma 796, lettera b), secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296» – «l’addizionale all’IRPEF e le maggiorazioni dell’aliquota dell’IRAP si applicano nella misura prevista al comma 174, ultimo periodo, dell’articolo 1 della medesima legge 30 dicembre 2004, n. 311»; tali incrementi, invece, «non si applicano nelle regioni nelle quali sia scattato, in modo automatico, l’innalzamento dell’addizionale regionale all’IRPEF della maggiorazione dell’aliquota dell’IRAP» e – a seguito del raggiungimento dell’accordo con il Governo sulla copertura dei disavanzi di gestione del servizio sanitario regionale, accordo previsto «all’articolo 1, comma 1-bis, del decreto-legge 7 giugno 2006, n. 206, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 234» – «tale innalzamento non sia stato applicato» (comma 2 dell’art. 1).

Infine, è previsto che lo stanziamento per il ripiano delle situazioni debitorie accumulate dalle Regioni nel settore sanitario sia pari a 3.000 milioni di euro per l’anno 2007, da ripartire «tra le regioni interessate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute, sentito il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali»; in particolare, poi, i criteri per l’erogazione dello stanziamento verranno definiti «sulla base dei debiti accumulati fino al 31 dicembre 2005, della capacità fiscale regionale e della partecipazione delle regioni al finanziamento del fabbisogno sanitario», prevedendosi, conclusivamente, che alla copertura finanziaria degli oneri derivanti dal decreto si provveda «mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2007-2009, nell’ambito dell’unità previsionale di base di conto capitale "Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2007» (comma 3 dell’art. 1).

5.— Assumono le Regioni ricorrenti, nello svolgere censure per la massima parte coincidenti, che tale disciplina si porrebbe in controtendenza rispetto alla più recente evoluzione legislativa – la quale, sebbene non abbia «escluso l’intervento dello Stato nel percorso di risanamento del deficit sanitario delle Regioni», ha comunque subordinato tale partecipazione «a misure fortemente indicative della progressiva responsabilizzazione delle Regioni» (ciò in coerenza «con la soppressione dei trasferimenti erariali» in favore delle stesse relativi «al finanziamento della spesa sanitaria corrente e in conto capitale disposta dall’art. 1, lettera d), del d.lgs. n. 56 del 2000») – e sarebbe, inoltre, in contrasto con la Costituzione.

5.1.— Viene dedotta, in primo luogo, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo sia della disparità di trattamento che del difetto di ragionevolezza.

Ed invero, la contestata disciplina, «disconoscendo il principio di responsabilità finanziaria» delle Regioni, pregiudicherebbe «qualità e quantità delle prestazioni» rese da quelle tra di esse che, come le ricorrenti, hanno contenuto la spesa sanitaria «non dilatando oltre il lecito le proprie azioni concrete», chiamandole «alla sopportazione degli oneri generali di una spesa inefficiente ed eccessiva» alla quale non hanno concorso, ciò che determinerebbe una «discriminazione irragionevole» che «genera disuguaglianza» (così, in particolare, il ricorso n. 25 del 2007 della Regione Veneto).

Tale disciplina, difatti, «agendo con metodo selettivo, opera una vera e propria discriminazione fra soggetti istituzionalmente fra loro equiordinati quali sono le Regioni, selezionandone alcune nei confronti delle quali lo Stato concorre al ripiano del disavanzo nel settore del Servizio sanitario nazionale, escludendone altre che non avranno acceso ai benefici» (così, in particolare, i ricorsi nn. 26 e 34 della Regione Lombardia). In tal modo, dunque, si attribuiscono «risorse economiche solo ad alcune Regioni, pur oberate da gravi e tuttavia evitabili (doverosamente evitabili) situazioni di debito», non consentendo invece, proprio «alle Regioni che quei disavanzi hanno saputo evitare», di «utilizzare le risorse statali stanziate, per il miglioramento del proprio servizio sanitario, su basi di effettiva e reale parità istituzionale» (in tal senso, i ricorsi nn. 26 e 34 della Regione Lombardia).

Inoltre, la disciplina in esame risulterebbe affetta da irragionevolezza, sia perché la previsione del ripiano selettivo del disavanzo sanitario «sana retroattivamente i disavanzi di alcune Regioni senza preoccuparsi di agire sulle cause strutturali determinanti i risultati negativi di gestione», sia perché «tradisce il principio di responsabilità delle singole Regioni per la gestione della sanità e per la copertura degli eventuali relativi disavanzi, regola costantemente riaffermata dallo Stato stesso, sia nella propria produzione normativa sia in sede di accordo e intesa con le Regioni e le Province autonome, e divenuta ormai imprescindibile cardine per la corretta attuazione del disegno costituzionale» (così, in particolare, il ricorso n. 32 del 2007 della Regione Veneto).

Infine, il difetto di ragionevolezza sarebbe ulteriormente confermato dalla «genericità» e dalla «inadeguatezza» dei «criteri recati dal decreto ai fini della quantificazione del finanziamento attribuito alle Regioni» (in tal senso i ricorsi nn. 26 e 34 della Regione Lombardia).

5.2.— È dedotta, poi, dalla Regione Veneto la violazione degli artt. 32 e 97 Cost.

Si assume, difatti, che la scelta legislativa – già censurata ai sensi dell’art. 3 Cost. – di chiamare anche le Regioni "virtuose” «alla sopportazione degli oneri generali di una spesa inefficiente ed eccessiva» alla quale non hanno concorso, determinerebbe non solo una «discriminazione irragionevole» che «genera disuguaglianza», ma anche la mortificazione del buon andamento del Servizio sanitario nazionale, incidendo, infine, sul diritto alla salute di chi risiede in tali Regioni (ricorso n. 25 del 2007), giacché costoro soffrirebbero «della contrazione del livello qualitativo e quantitativo delle prestazioni sanitarie che inevitabilmente consegue al rilevante spreco delle risorse» complessivamente destinate a tale settore (ricorso n. 32 del 2007).

5.3.— Sempre l’art. 97 Cost. – ma in combinato disposto con l’art. 119, oltre che «in relazione agli artt. 23, 53 e 32» della medesima Carta fondamentale – è evocato pure dalla Regione Lombardia.

Si assume, infatti, che la contestata disciplina costituirebbe «un grave ostacolo al conseguimento di prassi amministrative ordinate, in grado di fronteggiare con efficacia la complessità delle richieste che i cittadini, in materia di tutela della salute, devono vedere soddisfatte», con conseguente «lesione del generale principio costituzionale relativo al "buon andamento” dell’amministrazione pubblica», nonché di quello «per il quale l’onere relativo alle spese pubbliche è finanziato in ragione della capacità contributiva di ciascuno» (art. 53 Cost.).

Detta disciplina inoltre violerebbe – dal momento che neppure precisa «l’entità delle misure fiscali da attivare» e, dunque, «l’entità della compartecipazione fiscale che verrà richiesta ai cittadini» – il principio (art. 23 Cost.) della «riserva di legge» in materia tributaria (ricorsi nn. 26 e 34 del 2007), il quale, esige che «la concreta entità della prestazione imposta sia chiaramente desumibile dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (ricorso n. 34 del 2007).

Infine, la violazione del principio del buon andamento dell’amministrazione deriverebbe anche dal fatto che, «a fronte dell’oggettiva rilevanza dello stanziamento» disposto dal censurato decreto-legge, «le modalità di monitoraggio e di riscontro dell’estinzione dei debiti» risultano disciplinate solo «nell’ambito dei piani di rientro», con conseguente omissione, pertanto, «degli indispensabili strumenti di monitoraggio e di controllo sull’uso delle risorse», delle «pur necessarie sanzioni in caso di mancato conseguimento degli obiettivi», nonché della «quantificazione dell’aumento del prelievo fiscale» e, soprattutto, della «eventuale riduzione del finanziamento in caso di mancato rientro delle situazioni deficitarie», oltre che delle «modalità di restituzione del finanziamento dalle Regioni allo Stato» (ricorsi nn. 26 e 34 del 2007).

5.4.— È dedotta, poi, da entrambe le ricorrenti la violazione dell’art. 117 Cost.

Si evidenzia, difatti, che la contestata disciplina non appare riconducibile a nessuno dei titoli di competenza, pur astrattamente invocabili dallo Stato (e cioè la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ovvero la competenza a porre principi fondamentali nell’ambito della tutela della salute e del coordinamento della finanza pubblica), ed in particolare: non al primo, in quanto gli interventi legislativi di ripiano dei disavanzi di gestione del Servizio sanitario nazionale andrebbero valutati «nel quadro della competenza legislativa regionale concorrente in materia di tutela della salute», né al secondo, visto che la disciplina in esame, lungi dal recare "principi fondamentali”, «si segnala, invece, per il suo carattere minuzioso, dettagliato, autoapplicativo, dal momento che indica quali Regioni e secondo quali modalità potranno beneficiare del finanziamento statale per ripianare i propri debiti sanitari» (così, in particolare, il ricorso n. 25 del 2007).

5.5.— La sola Regione Veneto, nel secondo dei suoi ricorsi, ipotizza il contrasto dell’impugnata disciplina anche con l’art. 118 Cost., atteso che la previsione di un intervento finanziario «del livello di governo centrale» si risolverebbe «in un’indebita interferenza nella gestione più propriamente organizzativa della sanità, ossia, in concreto, nell’esercizio delle funzioni amministrative che l’art. 118 Cost. vuole distribuire tra i diversi enti territoriali» (ricorso n. 32 del 2007).

5.6.— L’illegittimità costituzionale della censurata disciplina deriverebbe, poi, dal contrasto – dedotto da ambedue le ricorrenti, seppure con argomenti diversi – con l’art. 119 Cost.

Esclusa, difatti, la possibilità di ricondurre l’intervento realizzato dal censurato decreto-legge n. 23 del 2007 alla materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. (giacché «tale titolo di legittimazione legislativa non può essere invocato se non in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione»), entrambe le ricorrenti concordano nel ritenere che la contestata disciplina darebbe vita, in una materia – la tutela della salute – oggetto di potestà legislativa concorrente, ad un finanziamento vincolato, destinato, dunque, a risolversi in «uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (così, in particolare, i ricorsi nn. 26 e 34 del 2007).

La sola Regione Lombardia deduce, altresì, la violazione del comma sesto dell’art. 119 Cost., giacché la contestata disciplina – in contrasto, appunto, con la norma costituzionale che limita la «possibilità di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di ricorrere all’indebitamento per il solo finanziamento delle spese di investimento» – «autorizza l’indebitamento di talune Regioni per la copertura dei disavanzi sanitari pregressi per il periodo 2001-2005, autorizzando, a tal fine, una spesa ancora non determinata, ma sicuramente rilevante (ricavabile dalla sommatoria dei piani di rientro) a carico dello Stato, a titolo di "regolazione debitoria”» (ricorsi nn. 26 e 34 del 2007).

5.7.— Entrambe le ricorrenti deducono la violazione anche dell’art. 120 Cost., giacché la censurata disciplina, pur predisponendo un intervento «sostitutivo» ai sensi di detta norma costituzionale, «non pone per legge criteri oggettivi di monitoraggio del finanziamento e per l’estinzione del debito contratto dalle Regioni», né altresì individua «condizioni, garanzie e relative sanzioni».

Ad avviso delle ricorrenti, la giurisprudenza costituzionale, per contro, ha sottolineato la necessità che «che l’esercizio dei poteri sostitutivi sia previsto e disciplinato dalla legge, la quale deve altresì definirne i presupposti sostanziali e procedurali», evenienza non verificatasi nel caso in esame, con conseguente violazione dell’art. 120 Cost., in quanto, se è vero che i poteri sostituivi «concorrono a limitare l’autonomia dell’ente nei cui confronti opera la sostituzione, è evidente che tale compressione di autonomia debba sottostare da un lato a forme e procedure certe e, sotto altro profilo, debba svolgersi secondo modalità congrue alle finalità per le quali è posto in essere» (ricorso n. 26 del 2007).

5.8.— La sola Regione Lombardia, nel secondo dei suoi ricorsi (n. 34 del 2007), deduce, infine, la violazione di due ulteriori parametri, e cioè degli artt. 77, secondo comma, e 81, quarto comma, Cost.

5.8.1.— Quanto, in particolare, alla prima di tali censure, si ipotizza l’assenza dei presupposti previsti dalla Costituzione per il ricorso alla decretazione d’urgenza, vizio che la Corte costituzionale ha escluso possa ritenersi sanato dall’avvenuta conversione in legge del decreto (è citata la sentenza n. 171 del 2007)

Ed invero, a dire della ricorrente, «le situazioni di deficit che il provvedimento intende ripianare, non possono essere realisticamente riguardate come "caso straordinario”», atteso che «rappresentano l’esito non improvviso né imprevedibile, quindi scontato», di «crisi gestionali e amministrative evidenziate da talune amministrazioni regionali».

Né, d’altra parte, la sussistenza dei presupposti ai quali l’art. 77 Cost. subordina il ricorso alla decretazione d’urgenza potrebbe desumersi – sottolinea la Regione Lombardia – dal preambolo del censurato decreto-legge (che conterrebbe solo quell’apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità ed urgenza, già censurata dalla menzionata sentenza n. 171 del 2007), ovvero dalla relazione governativa al disegno di legge di conversione.

Non veritiera, in particolare, risulterebbe la circostanza riferita in detta relazione, secondo cui l’urgenza di provvedere sarebbe derivata dall’impossibilità di una tempestiva sottoscrizione di tutti i piani di rientro dai disavanzi, giacché proprio «alla data di emanazione del decreto-legge (20 marzo 2007), i piani di rientro delle Regioni ammesse al finanziamento risultavano ampiamente definiti», persino «sul punto dell’entità della partecipazione dello Stato al ripiano dei disavanzi regionali».

Significativo, poi, sarebbe il fatto che, mentre il piano intervenuto il 6 marzo 2007 tra lo Stato e la Regione Lazio subordinava l’efficacia dello stesso, tra le altre condizioni, al «concorso straordinario dello Stato in favore delle Regioni con elevati disavanzi» (e dunque ad un finanziamento statale, illo tempore, «non ancora autorizzato e regolato da alcun testo normativo»), tra i requisiti che il d.l. n. 23 del 2007 «richiede per l’accesso al finanziamento dello Stato» vi sia «proprio la stipula dei piani di rientro»; si assiste, così, «ad un irrisolvibile tecnica di rimando per cui i piani di rientro richiedono un provvedimento futuro del Governo con cui si dispone la partecipazione dello Stato al ripiano dei deficit regionali (ed anzi lo "presuppongono”) e il provvedimento del Governo (e cioè il decreto-legge convertito qui impugnato) subordina l’erogazione delle somme stanziate alla stipula dei piani di rientro».

5.8.2.— Quanto, poi, alla dedotta violazione anche dell’art. 81, quarto comma, Cost., a dire della Regione Lombardia la scelta compiuta dal censurato decreto-legge, di «non prevedere misure puntuali relative alla restituzione delle somme erogate», sarebbe destinata a tradursi «nella mancata previsione di una adeguata copertura finanziaria per i costi che il provvedimento comporterà».

Ed invero, le modalità di riscontro dell’estinzione del debito, assunto dalle «Regioni interessate» dall’erogazione del finanziamento, risultano disciplinate soltanto «nell’ambito» dei piani di rientro, ciò che significa che questi «dovranno semplicemente rendere conto dell’effettivo e progressivo ripiano», senza, invece, «nulla dire sulle modalità e sui tempi (che al contrario dovrebbero essere definiti e certi) circa la restituzione allo Stato delle somme erogate».

Risulterebbe, pertanto, violata la suddetta norma costituzionale, la cui finalità «non può essere solo quella volta ad assicurare che ad ogni spesa sostenuta corrisponda un’adeguata copertura», essendo, invece, «necessariamente più ampia» e consistendo, in particolare, «nel necessario bilanciamento tra flussi in uscita e flussi in entrata, volto a realizzare sul piano finanziario un equilibrio di sistema nel lungo periodo».

6.— Si è costituito in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e l’infondatezza di ciascuno dei ricorsi.

La difesa erariale evidenzia, difatti, come il contributo statale previsto dal censurato d.l. n. 23 del 2007 risulti «assolutamente necessario ad accompagnare finanziariamente le Regioni impegnate in piani di rientro dai deficit strutturali, affinché il peso del debito pregresso non comprometta il raggiungimento dell’equilibrio economico e finanziario della gestione corrente».

Detto contributo, poi, oltre a giustificarsi in ragione «del principio di leale collaborazione tra gli enti territoriali» (il quale «ha accompagnato il consolidarsi nel settore sanitario di un nuovo spirito cooperativo incentrato sulla stipula periodica di "patti di stabilità” tra lo Stato e le Regioni per la fissazione del fabbisogno sanitario e il riparto delle spese disponibili»), troverebbe il proprio fondamento costituzionale nella competenza esclusiva statale nelle materie di cui alle lettere e) ed m) del secondo comma dell’art. 117 Cost.

La disciplina censurata recherebbe, difatti, «disposizioni tese a perseguire il più efficiente funzionamento del Servizio sanitario nazionale», in un quadro nel quale «il concorso statale nel risanamento strutturale dei disavanzi pregressi è subordinato alla sottoscrizione, da parte delle Regioni interessate, di un apposito accordo con lo Stato per i piani di rientro, nonché all’attivazione di specifiche misure fiscali, ovvero all’utilizzo di quote di manovre fiscali già adottate o di tributi erariali».

Ciò premesso, la difesa dello Stato rileva come la giurisprudenza costituzionale abbia «in più occasioni affrontato le problematiche afferenti al concorso statale alla riduzione del deficit dei servizi sanitari regionali»; in particolare, con la sentenza n. 98 del 2007, la Corte costituzionale, «con specifico riferimento alla violazione dell’autonomia legislativa in materia di tutela della salute e dell’autonomia finanziaria regionale», avrebbe evidenziato che, «pur in deroga all’obbligo espressamente previsto dalla legislazione sul finanziamento del Servizio sanitario nazionale che siano le Regioni a coprire gli eventuali deficit del servizio sanitario regionale», è legittimo uno «speciale contributo finanziario dello Stato», purché sia «subordinato a particolari condizioni finalizzate a conseguire un migliore o più efficiente funzionamento del complessivo servizio sanitario».

Principio, questo, si rileva, già affermato sin dalla sentenza n. 36 del 2005, con la quale è stata ritenuta conforme a Costituzione la scelta del legislatore statale di subordinare «l’accesso delle Regioni al finanziamento integrativo del Servizio sanitario nazionale all’osservanza di determinate condizioni», e si è precisato in particolare – prosegue sempre la difesa erariale – «che l’incremento delle risorse per il Servizio sanitario nazionale, accompagnato da specifici adempimenti a carico delle Regioni, va letto in termini di "carattere incentivante del finanziamento statale ai fini del conseguimento degli obiettivi di programmazione sanitaria e del connesso miglioramento del livello di assistenza”».

Pertanto, quella censurata non sarebbe «un’invasione di competenze da parte dello Stato», bensì «un’erogazione condizionata al rispetto di obiettivi precisi stabiliti a livello centrale, la cui realizzazione sarà monitorata periodicamente attraverso appositi nuclei di affiancamento formati da rappresentanti del Governo e della Conferenza delle Regioni», da ritenere, quindi, costituzionalmente legittima, essendo oltretutto «prerogativa del Governo quella di garantire l’unità della Repubblica nella fruizione di un diritto costituzionale come quello della salute».

Ed invero, essendo compito dello Stato «garantire il diritto alla salute, agli stessi livelli, su tutto il territorio nazionale», risulterebbe «di tutta evidenza che negare il contributo straordinario» (previsto dalla censurata disciplina) equivarrebbe a vanificare tale compito, creando «un danno per l’intero sistema sanitario nazionale» e dando luogo «ad un perverso effetto a catena assolutamente negativo: il merito di credito delle Regioni in difficoltà crollerebbe visti i volumi delle cartolarizzazioni sanitarie, ne soffrirebbe inevitabilmente anche il merito di credito della Repubblica».

Inoltre, conclude l’Avvocatura generale dello Stato, «nelle Regioni in difficoltà il sistema sanitario rischierebbe di diventare ingovernabile e si potrebbero verificare fenomeni quali il fallimento delle aziende sanitarie e con esso dell’intero settore produttivo collegato», senza contare che i «governi regionali sarebbero disincentivati dall’intraprendere il grande sforzo codificato nei piani di rientro e il bisogno di salute resterebbe un problema di cui, in ogni caso, lo Stato centrale sarebbe chiamato a farsi carico»

6.1.— In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa dello Stato ha depositato, per ciascuno dei quattro giudizi, un’ulteriore memoria, ribadendo le eccezioni e difese già proposte.

Con riguardo alle specifiche censure formulate dalle Regioni ricorrenti la difesa dello Stato – previamente eccepita l’inammissibilità delle questioni «non direttamente riconducibili alle norme costituzionali che regolano la competenza regionale» – ha dedotto quanto segue.

Non sussisterebbe la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto il concorso al ripiano del disavanzo è disposto nei confronti delle Regioni che sottoscrivono l’accordo per il rientro dai deficit, che attivano la leva fiscale dell’IRAP sul loro territorio e l’addizionale regionale dell’IRPEF nella misura consentita dalla legislazione vigente, ed inoltre, che destinano al settore sanitario ulteriori risorse.

 In riferimento alla dedotta violazione dell’art. 97 Cost., si rileva come le norme impugnate, a differenza di quanto ritenuto dalle ricorrenti, sarebbero dirette ad eliminare definitivamente le condizioni di cattiva amministrazione che hanno dato luogo ai deficit in questione.

Con riguardo alla prospettata lesione dell’art. 117 Cost., si rileva che le disposizioni in esame, poiché non tendono a realizzare nuova offerta sanitaria, ma solo a consentite l’ammortamento di debiti cumulati fino al 31 dicembre 2005, non inciderebbero sulla materia della salute intesa in senso ampio.

Non appare, altresì, leso il principio della piena responsabilità ed autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti, ai sensi dell’ art. 119 Cost., in quanto, al fine della responsabilizzazione delle Regioni interessate, alle stesse sono state richieste misure di copertura pluriennale e di attivazione di risorse regionali ulteriori, mentre l’intervento statale ha la mera funzione di consentire la effettiva realizzazione dei piani di rientro.

Né sussiste violazione del divieto di indebitamento per il finanziamento della spesa corrente.

Con riguardo alla prospettata violazione dell’art. 23 Cost., si rileva che l’obiettivo dell’intervento statale sarebbe quello di consentire una gestione dei servizi regionali interessati improntata a principi di economicità e di buona amministrazione, al fine di garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di efficienza ed appropriatezza .

Né vi sarebbe la lesione del principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni, in quanto nessun accordo è stato cercato né raggiunto con tutte le Regioni a giustificazione dell’intervento statale.

Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato non può, altresì, condividersi la tesi dell’irragionevolezza della norma, desunta dal carattere "retroattivo” che si evince dal riferimento ai disavanzi pregressi.

In ordine alla prospettata assenza dei requisiti di necessità ed urgenza dell’impugnato decreto-legge, nella specie, l’esigenza di intervenire sul contenimento della spesa pubblica sarebbe, al contrario, del tutto idonea a giustificare lo strumento prescelto.

A sostegno di tali ultime argomentazione sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 171 del 2007 e n. 29 del 1995, che hanno affermato come l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità, ma quest’ultimo non si sovrappone né si sostituisce a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento.

Non si ravvisa, inoltre, contrasto con l’art. 119, sesto comma, Cost., in quanto detta norma pone un limite alle Regioni e non allo Stato che intervenga in loro ausilio.

Le norme impugnate, infine, sarebbero rispettose dei principi enunciati dagli artt. 23 e 53 Cost., in quanto la riserva di legge, in tal caso relativa, consentirebbe al legislatore statale di fissare i parametri contenuti nel testo censurato.

Non risulterebbe, in ultimo, né fondata, né ammissibile la censura basata sulla dedotta violazione dell’art. 81, quarto comma, Cost., poiché l’indebitamento previsto dalla norma impugnata concerne un impegno statale rispetto al quale ogni conseguenza esula dalla questione attinente al rispetto della sfera di competenza regionale.

7.¾ In data 23 aprile 2008, la Regione Veneto ha depositato due memorie, di identico contenuto.

Previamente ribadito il contenuto delle disposizioni censurate e le ragioni della proposte impugnazioni, la ricorrente reputa necessario prendere posizione sulla pregiudiziale eccezione di inammissibilità dei ricorsi sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato.

Evidenzia, pertanto, di aver «chiaramente indicato» quali siano le proprie competenze, costituzionalmente garantite, lese dalla censurata disciplina recata dal d.l. n. 23 del 2007 (e dalla successiva legge di conversione n. 64 del 2007), e segnatamente «quelle legislative, amministrative e finanziarie di cui agli artt. 117, 118 e 119 Cost.», precisando, inoltre, di avere anche evidenziato come le impugnate disposizioni risultino «in grado di incidere pesantemente sulla realtà e sulle potestà della Regione anche in via indiretta».

Difatti, la ricorrente e le altre Regioni che sono state in grado di controllare la propria spesa sanitaria, si vedrebbero «costrette a contribuire all’ennesima massiccia elargizione di risorse finanziarie a Regioni che, invece, per anni, hanno dimostrato di non operare in conformità ai principi di buon andamento e responsabilità», con la duplice conseguenza non soltanto di subire un immediato pregiudizio, dovendo provvedere in qualità di "coobbligate solidali” al finanziamento, ma anche di patire, nel prossimo futuro, le conseguenze dannose «determinate dalla diminuzione ulteriore delle risorse finanziarie a disposizione per l’erogazione dei Servizio sanitario».

Ciò premesso in via generale, la ricorrente precisa nuovamente i termini delle proposte questioni di legittimità costituzionale, illustrando le ragioni poste a fondamento delle singole censure.

In tale prospettiva, essa sottolinea – quanto, in primo luogo, alla dedotta violazione dell’art. 117 Cost. – che non condivisibile dovrebbe ritenersi la tesi sostenuta dalla difesa statale, secondo cui la disciplina in contestazione troverebbe il proprio titolo di legittimazione nelle previsioni di cui alle lettere e) ed m) del secondo comma dell’art. 117 Cost.

Al riguardo, premesso che gli interventi di ripiano dei disavanzi nel settore sanitario dovrebbero essere valutati «nel quadro della competenza legislativa regionale concorrente in materia di salute» (la Regione Veneto cita le già richiamate sentenze n. 98 del 2007 e n. 36 del 2005 della Corte costituzionale), la ricorrente deduce l’impossibilità di considerare la disposizioni censurate come espressive di un principio fondamentale di tale materia, giacché, se così fosse, le stesse «sancirebbero la irresponsabilità degli enti regionali in materia sanitaria, in aperto contrasto con la Costituzione e la legislazione, anche e soprattutto, nazionale sul punto». Esclude, poi, che l’ambito materiale interessato dall’intervento legislativo in esame possa essere identificato, oltre che in quello della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali (per le ragioni già esposte nei due ricorsi), nella perequazione delle risorse finanziarie (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), atteso che essa coinciderebbe con la «distribuzione di ricchezze che lo Stato opera prima ed in funzione della concreta gestione dei servizi regionali tra i diversi enti, non – come qui accade – a posteriori per sanare i bilanci in rosso».

In merito, poi, alla dedotta violazione dell’art. 119 Cost., nel ribadire che quello realizzato dalla censurata disciplina sarebbe un intervento finanziario a destinazione vincolata, la ricorrente esclude che lo stesso possa ritenersi giustificato, alternativamente, ai sensi dei commi terzo e quinto di detto articolo.

Per un verso, infatti, di tale intervento «beneficeranno Regioni i cui problemi finanziari non sono stati determinati da una minore capacità fiscale degli abitanti sul territorio» (come esige il terzo comma dell’art. 119 Cost.), «ma da una gestione della cosa pubblica inefficace, inefficiente e antieconomica»; per altro verso, poi, esso non risulta diretto «a "provvedere a scopi diversi dal normale esercizio” delle funzioni regionali», né può ritenersi idoneo a promuovere «la solidarietà sociale» (condizioni entrambe richieste dal quinto comma del medesimo art. 119), giacché, anzi, detto intervento minerebbe «alle radici il federalismo c.d. solidaristico», suscitando nelle Regioni, chiamate a contribuire alla produzione delle risorse distribuite con provvedimenti del tipo di quello impugnato, «una crescente ostilità nei confronti di quegli enti che di quel tesoro beneficiano, e che dovrebbero impegnarsi a gestirlo secondo il principio del buon andamento».

La Regione Veneto, poi, sottolinea nuovamente l’esistenza della dedotta violazione degli artt. 3, 32, 97 e 118 Cost., rimarcando in particolare l’irragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore statale, specialmente per aver previsto quello che appare «un finanziamento a "fondo perduto”, sprovvisto di controlli circa l’effettivo utilizzo a ripiano del deficit», ed oltretutto inidoneo ad attingere lo scopo avuto di mira. In tale prospettiva, difatti, la ricorrente segnala che l’art. 2, commi da 46 a 49, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008) ha previsto «l’ennesimo intervento finanziario statale di rientro di deficit sanitari regionali», mentre il decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 28 febbraio 2008, n. 31, «ha cancellato l’automatico incremento fiscale (di IRPEF e IRAP) previsto a carico delle Regioni inadempienti agli obblighi assunti nei propri piani di rientro del debito pregresso», eliminando, così, la regola «della responsabilità normativa-gestionale-finanziaria delle Regioni in materia sanitaria».

Infine, la ricorrente pone in luce quella che definisce come la «pesante violazione del principio di leale collaborazione operata dalla disciplina normativa impugnata», giacché l’amplissima competenza legislativa, ed ancor più amministrativa e finanziaria, delle Regioni in materia sanitaria avrebbe richiesto «che i diversi livelli di governo chiamati a gestire la salute collaborino lealmente tra loro». Di conseguenza, secondo la Regione Veneto, ogni decisione legislativa in materia avrebbe dovuto «essere oggetto di una preventiva verifica ed accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni, accordo che, invece, la normativa impugnata non contempla né nella fase di deliberazione del finanziamento, né in quella di concreta individuazione degli (e distribuzioni agli) enti beneficiari dello stesso».

8.— La Regione Lombardia ha depositato, egualmente in data 23 aprile 2008, un’unica memoria relativa ad entrambi i giudizi instaurati.

Essa, in particolare, dopo aver sinteticamente rammentato il contenuto della disciplina in contestazione – non senza evidenziare, peraltro, come nelle more della conversione in legge del d.l. n. 23 del 2007, con provvedimento ministeriale del 4 maggio 2007, siano state individuate le Regioni destinatarie delle misure di ripiano del disavanzo per il periodo dal 2001 al 2005 (essendosi destinate alle Regioni Campania, Lazio, Molise e Sicilia, rispettivamente, le somme di euro 144 milioni, 363 milioni, 2079 milioni, 202 milioni e 212 milioni) – ha inteso soprattutto sottolineare come tale disciplina costituisca «un grave episodio di "finanza derivata” in materia di risorse per la sanità, che va in direzione diametralmente opposta all’attuazione del cd. federalismo fiscale e allontana sempre di più il pur necessario (in quanto imposto dalla Costituzione) ripensamento dell’intero sistema di relazioni finanziarie tra i differenti livelli di governo».

Su tali basi, pertanto, la ricorrente ribadisce l’illegittimità costituzionale della censurata disciplina, rimarcando, in particolare, il grave vulnus che essa recherebbe all’art. 119, sesto comma, Cost., giacché, nell’autorizzare «a titolo di regolazione debitoria» la spesa statale di 3.000 milioni di euro per l’anno 2007, contravverrebbe a tale norma costituzionale che consente alle Regioni di ricorrere all’indebitamento per il solo finanziamento delle spese di investimento.

Né, d’altra parte, tale prospettiva risulterebbe corretta dalle successive scelte legislative, sé è vero che la già citata legge n. 244 del 2007 ha previsto lo stanziamento, da parte dello Stato ed in favore delle medesime Regioni Campania, Lazio, Molise e Sicilia, di un ammontare complessivo di 9.100 milioni di euro, al fine di anticipare alle stesse «la liquidità necessaria per l’estinzione dei debiti contratti sui mercati finanziari e dei debiti commerciali cumulati fino al 31 dicembre 2005, (…) al netto delle somme già erogate a titolo di ripiano dei disavanzi». Il tutto, nel dichiarato intento – secondo quanto riferito dal Ministro della salute, in sede di audizione parlamentare – di favorire «la trasformazione dei debiti contratti dalle regioni a tassi molto elevati in debiti trentennali verso lo Stato», ciò che imporrebbe di includere anche tale intervento legislativo – evidenzia la ricorrente – tra quelle «norme fortemente derogatorie del principio di finanziamento delle funzioni regionali con risorse regionali».

Del resto, osserva ancora la ricorrente, che il ripiano da parte dello Stato dei disavanzi regionali stia «programmaticamente tramutandosi in vero e proprio metodo ordinario di finanziamento statale, con valenza generale, da applicare in futuro a tutte le Regioni che dovessero trovarsi in situazioni deficitarie», è quanto avrebbe nuovamente confermato il Ministro della salute nel corso della menzionata audizione parlamentare, ciò che evidenzierebbe – conclude sul punto la Regione Lombardia – la definitiva vanificazione di «quel carattere "incentivante” più volte individuato dalla Corte costituzionale in relazione al finanziamento statale ai fini del conseguimento degli obiettivi della programmazione sanitaria e del connesso miglioramento del livello di assistenza» (è citata, in particolare, la sentenza n. 36 del 2005).

Alla medesima logica, infine, sarebbe da ricondurre l’intervento compiuto dal già citato d.l. n. 248 del 2007, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 31 del 2008, e segnatamente dal suo art. 8, comma 1, lettera a). Esso, nello stabilire che in quelle Regioni – per le quali si è verificato il mancato raggiungimento degli obiettivi programmati di risanamento e riequilibrio economico-finanziario contenuti nello specifico piano di rientro dai disavanzi sanitari (di cui all’accordo sottoscritto, ai sensi dell’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni) – non si applichino gli effetti previsti dall’art. 1, comma 796, lettera b), sesto periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ha sancito – osserva sempre la ricorrente – il venir meno, nell’ipotesi di mancato rispetto da parte delle Regioni delle obbligazioni assunte nei relativi piani di rientro dal debito pregresso, dell’automatica applicazione dell’addizionale IRPEF e dell’aliquota IRAP oltre i livelli massimi previsti dalla legislazione vigente, fino all’integrale copertura dei mancati obiettivi.

Risulterebbe, dunque, vieppiù confermata quella che la ricorrente definisce come la «insana propensione del legislatore ad un minore controllo della spesa, con ripercussioni gravi e facilmente prevedibili in riferimento alla esigibilità dei livelli essenziali di assistenza e alla effettiva attuazione, nel settore sanitario, del sempre rinviato federalismo fiscale».

Considerato in diritto

1.— Vengono all’esame della Corte quattro ricorsi, rispettivamente proposti, due dalla Regione Veneto (ricorsi nn. 25 e 32 del 2007) e due dalla Regione Lombardia (ricorsi nn. 26 e 34 del 2007), avverso il decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), impugnato sia nel testo originario, che in quello risultante all’esito delle modifiche apportate dalla relativa legge di conversione 17 maggio 2007, n. 64.

Dei suddetti ricorsi va disposta, preliminarmente, la riunione, attesa la loro connessione.

Le questioni qui in esame investono, nella sostanza, il solo art. 1 del citato decreto-legge, atteso che, per un verso, l’impugnativa dell’art. 1-bis – effettuata unicamente dalla Regione Veneto nel secondo dei suoi ricorsi (ricorso n. 32 del 2007) – forma oggetto di un separato giudizio, mentre, per altro verso, nessuna censura è indirizzata nei confronti dell’art. 2 (norma, peraltro, comunque richiamata, formalmente in entrambi i ricorsi della Regione Veneto, ed implicitamente nel primo di quelli proposti dalla Regione Lombardia, indirizzandosi lo stesso avverso l’intero testo dell’impugnato decreto-legge), che si limita a disciplinare le modalità di entrata in vigore del medesimo decreto.

Molteplici sono i profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle ricorrenti; la loro disamina, tuttavia, deve essere preceduta dalla specifica indicazione del contenuto delle disposizioni censurate.

È da premettere che, secondo le ricorrenti, il decreto-legge in questione si pone in controtendenza rispetto alla più recente evoluzione legislativa avutasi in materia, poiché, pur essendo stato ammesso, più volte, l’intervento dello Stato nel percorso di risanamento dei deficit sanitari regionali, tale partecipazione è stata, di regola, subordinata alla adozione di misure fortemente indicative della progressiva responsabilizzazione delle Regioni; ciò in coerenza con la soppressione dei trasferimenti statali in favore delle stesse, relativi al finanziamento della spesa sanitaria corrente e in conto capitale, disposta dall’art. 1, lettera d), del decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 56 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale, a norma dell’articolo 10 della legge 13 maggio 1999, n. 133).

Anche alla luce di tali rilievi, pertanto, si deve chiarire la portata delle disposizioni impugnate.

2.— Al riguardo, l’art. 1 del decreto-legge in esame stabilisce, innanzitutto, che lo Stato – in deroga all’obbligo per le Regioni «di coprire gli eventuali disavanzi di gestione con oneri a proprio carico» – concorre «al ripiano dei disavanzi del Servizio sanitario nazionale per il periodo 2001-2005», in favore delle Regioni che soddisfino, però, alcuni requisiti (comma 1). Si richiede, in particolare, che, «al fine della riduzione strutturale del disavanzo nel settore sanitario», le Regioni sottoscrivano «l’accordo con lo Stato per i piani di rientro», nonché accedano «al fondo transitorio di cui all’articolo 1, comma 796, lettera b), della legge 296 del 2006» (lettera a del predetto comma 1). È necessaria, poi, «al fine dell’ammortamento del debito accumulato fino al 31 dicembre 2005», ed «in via ulteriore rispetto all’incremento nella misura massima dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’aliquota dell’imposta regionale sulle attività produttive», la destinazione, da parte delle Regioni, «al settore sanitario in modo specifico, anche in via alternativa», di «quote di manovre fiscali già adottate o quote di tributi erariali attribuiti alle Regioni stesse», ovvero, nei limiti dei poteri loro assegnati dalla normativa statale di riferimento ed in conformità ad essa, di «misure fiscali da attivarsi sul proprio territorio, in modo tale da assicurare complessivamente risorse superiori rispetto a quelle derivanti dal predetto incremento nella misura massima» (lettera b sempre del comma 1).

È stabilito, inoltre, che, «per il periodo di imposta successivo al 31 dicembre 2006 e per i periodi seguenti fino all’anno 2010», per quelle Regioni – le quali approvino l’accordo «stipulato con i Ministri della salute e dell’economia e delle finanze, ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e dell’articolo 1, comma 796, lettera b), secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296» – «l’addizionale all’IRPEF e le maggiorazioni dell’aliquota dell’IRAP si applicano nella misura prevista al comma 174, ultimo periodo, dell’articolo 1 della medesima legge n. 311 del 2004)»; tali incrementi, invece, «non si applicano nelle regioni nelle quali sia scattato formalmente, in modo automatico, l’innalzamento dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche e della maggiorazione dell’aliquota dell’imposta regionale sulle attività produttive» e – a seguito del raggiungimento dell’accordo con il Governo sulla copertura dei disavanzi di gestione del servizio sanitario regionale previsto «all’articolo 1, comma 1-bis, del decreto-legge 7 giugno 2006, n. 206, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 234» – «tale innalzamento non sia stato applicato» (comma 2).

Infine, è previsto che lo stanziamento per il ripiano delle situazioni debitorie accumulate dalle Regioni nel settore sanitario sia pari a 3.000 milioni di euro per l’anno 2007, da ripartire «tra le regioni interessate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della salute, sentito il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali»; in particolare, poi, i criteri per l’erogazione dello stanziamento dovranno essere definiti «sulla base dei debiti accumulati fino al 31 dicembre 2005, della capacità fiscale regionale e della partecipazione delle regioni al finanziamento del fabbisogno sanitario», prevedendosi, conclusivamente, che alla copertura finanziaria degli oneri derivanti dallo stesso decreto si provvede «mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2007-2009, nell’ambito dell’unità previsionale di base di conto capitale "Fondo speciale” dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2007» (comma 3).

3.— Così precisato, nelle sue linee essenziali, il contenuto della disciplina in contestazione, deve osservarsi come le ricorrenti lamentino, in sostanza, che tale disciplina determinerebbe il paradossale risultato di penalizzare quelle Regioni «le cui capacità gestionali e amministrative» hanno garantito «situazioni di maggiore equilibrio e maggiore efficienza», non di rado «anche attraverso percorsi di responsabilizzazione della collettività regionale, come il ricorso alla leva fiscale». Per contro, il legislatore avrebbe compiuto una scelta che si traduce in «un forte disincentivo al reperimento di risorse nell’ambito della finanza regionale, finalizzate al mantenimento di un servizio sanitario efficiente ed economicamente sostenibile», tradendo così quel «carattere incentivante», più volte individuato dalla giurisprudenza costituzionale «in relazione al finanziamento statale ai fini del conseguimento degli obiettivi di programmazione sanitaria e del connesso miglioramento del livello di assistenza» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 98 del 2007 e n. 36 del 2005) e «finendo in realtà per incoraggiare soltanto politiche di minor rigore».

Orbene, su tali basi entrambe le ricorrenti ipotizzano, sotto svariati profili, l’illegittimità costituzionale della disciplina del decreto-legge n. 23 del 2007, anche nel testo emendato dalla legge di conversione n. 64 del 2007, per contrasto, complessivamente, con gli artt. 3, 23, 32, 53, 77, 81, 97, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, nonché con il principio di leale collaborazione.

4.— Ciò premesso in via generale, deve essere, innanzitutto, dichiarata la inammissibilità delle questioni prospettate con riferimento ai parametri diversi da quelli ricavabili dal titolo V della parte seconda della Costituzione non attinenti specificamente alla produzione di fonti normative, poiché la loro evocazione non risulta, prima facie, destinata a far valere una menomazione delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle ricorrenti; ciò vale, in particolare, per i parametri di cui agli artt. 3, 23, 32, 53 e 97 della Costituzione.

Secondo, infatti, «un consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale (si vedano, tra le altre, le sentenze numeri 116 del 2006; 383 del 2005; 287, 196, e 4 del 2004; 274 del 2003), le Regioni sono legittimate a censurare, in via di impugnazione principale, leggi dello Stato esclusivamente per questioni attinenti al riparto delle rispettive competenze», essendosi «ammessa la deducibilità di altri parametri costituzionali soltanto ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite» (così, in particolare, oltre quelle già richiamate, la sentenza n. 401 del 2007); l’evenienza da ultimo indicata deve, però, escludersi nel caso di specie, atteso che la dedotta violazione, da parte delle ricorrenti, di parametri diversi da quelli contenuti nel titolo V della parte seconda della Costituzione non si risolve nella denuncia di una menomazione delle proprie competenze legislative, amministrative o finanziarie.

Allo stesso esito, sostanzialmente per le medesime ragioni, sono destinate anche le questioni relative al sistema di produzione delle fonti normative, proposte dalla sola Regione Lombardia in ordine alla legge n. 64 del 2007, di conversione del decreto-legge n. 23 del 2007, sospettata di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 77, secondo comma, e 81, quarto comma, Cost.

Quanto, infatti, al primo di tali parametri, se è vero che – come rammenta la stessa ricorrente – il sindacato della Corte sulla sussistenza dei presupposti della necessità ed urgenza, ai quali è subordinato l’esercizio del potere di decretazione d’urgenza, è venuto ulteriormente precisandosi (essendosi in particolare escluso, con la sentenza n. 171 del 2007, che l’avvenuta conversione in legge di un decreto-legge valga, di per sé, a sanare tale vizio; nello stesso senso, di recente, anche la sentenza n. 128 del 2008), nondimeno anche tale profilo di illegittimità deve tradursi – nei giudizi in via principale promossi dalle Regioni – nella lesione di competenze regionali (ex multis, sentenza n. 116 del 2006).

Gli stessi rilievi valgono anche per il dedotto contrasto con l’art. 81, quarto comma, Cost., in relazione al quale, peraltro, deve notarsi che il comma 2 dell’art. 1 del censurato decreto-legge n. 23 del 2007, comunque, individua i mezzi per fare fronte all’onere finanziario derivante dal contributo statale al ripiano dei disavanzi maturati in sede regionale nel settore della sanità.

5.— Del pari inammissibili, ma per motivi diversi da quelli sopra indicati, sono anche le questioni di legittimità costituzionale fondate sulla diretta evocazione di disposizioni contenute nel titolo V della parte seconda della Costituzione.

6.— In proposito, va premesso, in linea generale, che nei giudizi di legittimità costituzionale proposti in via principale, deve necessariamente sussistere, nel soggetto ricorrente, un interesse, attuale e concreto, a proporre l’impugnazione, in mancanza del quale il ricorso stesso è inammissibile.

In particolare, ai sensi dell’art. 127, secondo comma, Cost., la Regione è legittimata a promuovere questione di legittimità costituzionale quando una legge o un atto avente forza di legge, dello Stato o di altra Regione, «leda la sua sfera di competenza». Allo stesso modo l’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, dispone che quando una Regione «ritenga che una legge od atto avente forza di legge della Repubblica invada la sfera della competenza ad essa assegnata dalla Costituzione», può «promuovere l’azione di legittimità costituzionale davanti alla Corte».

E nella medesima prospettiva si pone l’art. 32 della legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale la «questione della legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge dello Stato può essere promossa dalla Regione che ritiene dalla legge o dall’atto invasa la sfera della competenza assegnata alla Regione stessa dalla Costituzione e da leggi costituzionali».

Analoga previsione, nei giudizi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni è contenuta nell’art. 39 della medesima legge n. 87 del 1953.

Dall’esame delle suddette disposizioni, in sostanza, emerge come l’unico interesse che le Regioni sono legittimate a far valere sia quello alla salvaguardia del riparto delle competenze delineato dalla Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare soltanto le violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in via diretta ed immediata, sulle prerogative costituzionali loro riconosciute dalla Costituzione.

Da ciò consegue che è in tale quadro – caratterizzato dalla necessità che l’iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente diretta a conseguire l’utilità propria, ovviamente, del tipo di giudizio che, di volta in volta, venga in rilievo – che deve essere valutata la sussistenza dell’interesse ad agire, da postulare soltanto quando esso presenti le caratteristiche della concretezza e dell’attualità, consistendo in quella utilità diretta ed immediata che il soggetto che agisce può ottenere con il provvedimento richiesto al giudice.

7.— Alla luce dei suddetti principi, deve ritenersi che i quattro ricorsi oggi all’esame della Corte – anche laddove essi evocano parametri desumibili dal titolo V della parte seconda della Costituzione – siano inammissibili.

In sostanza, le ricorrenti non lamentano la violazione, ad opera della normativa statale impugnata, delle norme sul riparto della competenza legislativa tra lo Stato e le Regioni, qual è delineato dall’art. 117 Cost.

Esse, in particolare, non si dolgono di una presunta ingerenza dello Stato, mediante l’adozione del contestato decreto-legge e della relativa legge di conversione, nella potestà legislativa loro riconosciuta dalla Costituzione; né deducono la menomazione di alcuna loro prerogativa legislativa nella materia della tutela della salute. E neppure deducono che, in via di principio, lo Stato non avrebbe avuto alcuna legittimazione a dettare la normativa impugnata, ma si limitano a contestarne il contenuto senza l’affermazione di un loro autonomo titolo ad emanare quella stessa normativa.

Le Regioni Veneto e Lombardia, in definitiva, si limitano a contestare la scelta legislativa di destinare, ad altre Regioni, determinate risorse finanziarie, sul presupposto che essa pregiudicherebbe la «qualità e quantità delle prestazioni» rese dalle ricorrenti nel settore sanitario, chiamandole, inoltre, «alla sopportazione degli oneri generali di una spesa inefficiente ed eccessiva» (alla quale non hanno concorso) che pertanto determinerebbe una «discriminazione irragionevole» che «genera disuguaglianza».

A questo riguardo, pertanto, non può che rilevarsi come non spetti a questa Corte effettuare valutazioni diverse da quelle afferenti, sul piano costituzionale, al corretto riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.

Ciò premesso, proprio le considerazioni poc’anzi svolte, circa i limiti della legittimazione delle Regioni ad impugnare leggi dello Stato, inducono a ritenere che i quattro ricorsi in esame, non investendo il riparto di competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, non possano essere considerati ammissibili.

Sotto altro aspetto, non meno rilevante, va osservato – ancora con riferimento al suindicato parametro costituzionale – come nessuna utilità diretta ed immediata le ricorrenti potrebbero trarre, sul piano sostanziale, da una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della contestata disciplina legislativa statale, per violazione del parametro in questione.

Una tale declaratoria, infatti, non sarebbe comunque idonea ad arrecare alcun vantaggio, giuridicamente rilevante, né per le finanze delle ricorrenti, né per la loro capacità gestionale in materia sanitaria, né per il miglioramento dei livelli di assistenza sanitaria alla popolazione che esse già assicurano, ma si tradurrebbe unicamente in un danno per quelle «Regioni interessate» (cui fa riferimento il comma 3 dell’art. 1 del contestato decreto-legge) alle quali viene imputata, dalle ricorrenti, una gestione dei servizi sanitari di propria competenza non oculata e, dunque, causa principale, se non esclusiva, dei deficit di bilancio oggetto di parziale ripiano mediante l’intervento finanziario dello Stato.

In definitiva, dunque, la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della normativa statale oggetto di censura presenterebbe, sul piano effettuale, quella portata di puro principio, di massima o accademica, inidonea ad integrare l’interesse ad agire.

Neanche può ritenersi sussistente una astratta idoneità della disciplina in contestazione ad influire sull’autonomia finanziaria delle Regioni ricorrenti, di cui all’art. 119 Cost., in particolare limitando il reperimento di risorse da destinare alla gestione del servizio sanitario regionale. Quello previsto dalle norme impugnate è, infatti, un intervento che, da un lato, favorisce altre Regioni e, dall’altro, è effettuato con oneri a carico della fiscalità generale, sicché la eventuale caducazione di tali norme non comporterebbe – anche per l’assenza di un fondo sanitario nazionale (ora soppresso, come rammentano le stesse ricorrenti) destinato esclusivamente al finanziamento della spesa sanitaria la ridistribuzione di maggiori risorse in favore di tutte le Regioni (Veneto e Lombardia comprese).

Infine, nella stessa prospettiva, assume valore la constatazione, più volte ribadita da questa Corte, che l’autonomia finanziaria delle Regioni delineata dal novellato testo dell’art. 119 Cost. si presenta, in larga misura, ancora in fieri. Ed è evidente come, nell’attuale fase di perdurante inattuazione della citata disposizione costituzionale, le Regioni siano legittimate a contestare interventi legislativi dello Stato, concernenti il finanziamento della spesa sanitaria, soltanto qualora lamentino una diretta ed effettiva incisione della loro sfera di autonomia finanziaria; evenienza, questa, neppure dedotta in giudizio dalle due ricorrenti.

Resta, tuttavia, fermo che, a prescindere dalla stessa attuazione dell’art. 119 Cost., potrà pur sempre trovare applicazione la disposizione del quinto comma di detto articolo, secondo cui, al fine di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni».

Da ultimo, il riferimento anche agli artt. 118 e 120 della Costituzione, pure prospettati come parametri violati, si presenta del tutto inconferente e parimenti inammissibili sono le censure.

Quanto al primo, deve rilevarsi come, nella specie, si versi non in un’ipotesi di allocazione a livello statale di funzioni regionali o di altri enti territoriali, bensì di un intervento diretto dello Stato, a livello legislativo, destinato ad interessare soggetti diversi dalla Regioni ricorrenti, e quindi privo di un’incidenza – se non mediata – sulle funzioni da esse svolte.

Analogamente, quanto al secondo, deve rilevarsi che il monitoraggio del finanziamento di cui alla normativa impugnata (monitoraggio, in particolare, previsto dal comma 3 dell’art. 1 del decreto-legge n. 23 del 2007), nemmeno astrattamente può integrare un intervento di controllo sostitutivo dello Stato sulle Regioni, costituendo, invece, una misura diretta alla verifica della regolarità della utilizzazione, da parte delle Regioni interessate, del finanziamento stesso, concesso dallo Stato per il parziale ripiano dei deficit di bilancio verificatisi nel settore sanitario nel periodo preso in considerazione dallo stesso decreto-legge.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separata pronuncia la decisione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1-bis del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 maggio 2007, n. 64, promossa dalla Regione Veneto con il ricorso n. 32 del 2007;

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), sia nel loro testo originario, che in quello risultante all’esito delle modifiche apportate dalla legge di conversione 17 maggio 2007, n. 64, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento agli articoli 3, 32, 97, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del testo originario del decreto-legge n. 23 del 2007, e dell’art. 1 del medesimo decreto-legge n. 23 del 2007, come modificato dalla legge di conversione n. 64 del 2007, promosse dalla Regione Lombardia, in riferimento agli articoli 3, 23, 32, 53, 77, secondo comma, 81, quarto comma, 97, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 giugno 2008.