SENTENZA N. 124
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1,
comma 489, della legge
27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», promossi dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio con sette ordinanze del 17 aprile 2015, quattro
del 21 aprile 2015, sette del 7 aprile 2016, una dell’8 aprile 2016, una del 6
aprile 2016, rispettivamente iscritte ai nn. da 220 a 230 del
registro ordinanze 2015 e ai nn. da 172 a 180 del registro
ordinanze 2016, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2015 e nn.
39 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2016, e nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 23-ter del decreto-legge
6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla
legge 22 dicembre 2011, n. 214, e dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge
24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia
sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89,
promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del
21 luglio 2016, iscritta
al n. 211 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2016;
Visti gli atti di costituzione di S. B., di R. V., di G.
Z., di M. C., di S. D.V., di P. V., di L. P., di C. G., di F. M. ed altri, di
F. D.I. ed altri, di D. C., di M. M., di M. Z., di A. P., di V. S., di E. T.,
di P. L.R., di C. B. ed altri, di F. I., dell’Istituto nazionale della
previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento di C. B. ed altri e
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2017 il Giudice relatore
Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Federico Sorrentino per F. M. ed altri, F.
D.I. ed altri e D. C., Massimo Luciani per M. M., M. Z., A. P., V. S., E. T., P.
L.R., C. B. ed altri, Mario Sanino e Paola Salvatore per S. B., R. V., G. Z.,
M. C., S. D.V., P. V., L. P. e C. G., Federico Tedeschini e Gianmaria Covino
per F. I., Flavia Incletolli per l’INPS e l’avvocato
dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio,
sezione prima, con le ordinanze iscritte ai nn. 220,
221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 228, 229 e 230 del reg. ord.
2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma
489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità
2014)», in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione.
I giudizi traggono origine dai ricorsi
proposti dai consiglieri della Corte dei conti, di nomina governativa, contro i
provvedimenti del Segretariato generale della Corte dei conti, che ha applicato
il limite tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche, sancito
dalla norma censurata, e ha disposto per l’avvenire la sospensione delle
retribuzioni superiori a tale limite e, per il passato, la restituzione delle
somme indebitamente riscosse.
1.1.– I ricorrenti nei giudizi
principali hanno chiesto di accertare il diritto di percepire integralmente gli
emolumenti connessi al servizio prestato come giudici contabili, senza le
decurtazioni stabilite dall’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, e
il diritto al versamento dei contributi previdenziali e degli accantonamenti
per il trattamento di fine servizio, con condanna dell’amministrazione a
corrispondere le somme indebitamente trattenute e a restituire quelle
recuperate senza titolo.
A sostegno di tali richieste, i
ricorrenti hanno argomentato che la norma censurata non si applica ai contratti
e agli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza e che una diversa
interpretazione, volta ad escludere tale deroga, contrasterebbe con gli artt. 3
e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In subordine, i ricorrenti hanno
eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge n.
147 del 2013, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.
In particolare, il tetto massimo agli
emolumenti determinerebbe la forte decurtazione o l’azzeramento della
retribuzione di consiglieri della Corte dei conti, con conseguente decurtazione
anche dei contributi previdenziali che concorrono a comporre il trattamento
pensionistico.
La norma censurata pregiudicherebbe
l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, garanzia che assiste anche la
magistratura contabile, e si tradurrebbe nell’imposizione di un prelievo
fiscale illegittimo, in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.
I ricorrenti soggiungono che la
previsione censurata si porrebbe in contrasto con il buon andamento della
pubblica amministrazione, penalizzando coloro che vantano la professionalità
più elevata.
I ricorrenti si dolgono della violazione
dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, in quanto, ai fini del
superamento del limite retributivo, si sarebbe computata l’indennità
integrativa speciale e giudiziaria di cui all’art. 3 della legge 19 febbraio
1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), pur sprovvista di
natura retributiva.
Nei giudizi, in cui sono state emesse le
ordinanze nn. 221 e 222 del 2015, i ricorrenti hanno
formulato ulteriori motivi di ricorso, riguardanti l’illegittima applicazione
retroattiva dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013: i
provvedimenti, adottati nel giugno 2014, hanno prodotto effetti a decorrere dal
gennaio 2014.
Sarebbe censurabile, inoltre, la scelta
di calcolare il trattamento di quiescenza corrisposto dal Senato al lordo del
contributo di solidarietà.
Nel giudizio in cui è stata emessa
l’ordinanza n. 221 del 2015, i ricorrenti hanno dedotto di essere esclusi
dall’àmbito di applicazione della norma censurata, in quanto i trattamenti di
quiescenza sono erogati direttamente dalla Camera dei deputati e dal Senato
della Repubblica, che non si configurano come gestioni previdenziali pubbliche.
Tale assunto non è stato condiviso dal
TAR rimettente, sulla scorta del rilievo che il limite posto dall’art. 1, comma
489, della legge n. 147 del 2013 non attiene tanto al trattamento
previdenziale, quanto piuttosto ai compensi corrisposti da altre
amministrazioni.
Nel giudizio in cui è stata emessa
l’ordinanza n. 228 del 2015, il ricorrente ha evidenziato che il trattamento
previdenziale, in quanto corrisposto dal Comando generale della Guardia di
Finanza, non può considerarsi erogato da gestioni previdenziali pubbliche, e da
tale rilievo ha ritenuto di evincere l’inapplicabilità della norma citata.
Il giudice a quo, tuttavia, ha disatteso anche questo argomento.
1.2.– Nel giudizio in cui è stata emessa l’ordinanza
iscritta al n. 221 del reg. ord. 2015, sono
intervenuti ad adiuvandum
numerosi consiglieri di Stato di nomina governativa, titolari di trattamento di
quiescenza erogato dalla Camera dei deputati, dal Senato o da gestioni
previdenziali pubbliche, che hanno già impugnato dinanzi al TAR i provvedimenti
adottati dalle amministrazioni di appartenenza.
L’intervento è stato dichiarato
inammissibile dal TAR, che ha reputato ammissibile nel giudizio amministrativo
solo l’intervento di tipo adesivo dipendente, volto a tutelare un interesse
riflesso rispetto a quello del ricorrente, e non già un interesse direttamente
pregiudicato dall’atto impugnato dal ricorrente principale.
1.3.– Il giudice rimettente muove dalla premessa che la
limitazione dei trattamenti retributivi e pensionistici a carico delle risorse
pubbliche non sia di per sé irragionevole e miri a razionalizzare la «c.d.
"giungla retributiva”», che caratterizza l’amministrazione pubblica.
Quanto alla deroga, prevista per i
contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza, essa non
riguarderebbe «l’esercizio in atto di una funzione giurisdizionale "togata” e
non onoraria, ovverosia svolta a seguito dell’inserimento a pieno titolo in un
plesso giurisdizionale, con la conseguente creazione di un rapporto d’ufficio
caratterizzato non già da una prefissata temporaneità bensì – al contrario –
dalla stabilità ed anzi dalla garanzia della inamovibilità».
Tale interpretazione non determinerebbe
alcuna arbitraria disparità di trattamento: si dovrebbe semmai sottoporre al
sindacato di legittimità costituzionale la deroga accordata ai contratti in
corso, per l’indebita posizione di vantaggio che essa determina.
Il giudice a quo non ravvisa alcuna violazione del «principio di tutela
dell’affidamento, di cui agli artt. 3 e 117, comma 1, della Costituzione e 6
della CEDU», in quanto i ricorrenti, all’atto dell’accettazione dell’incarico,
conoscevano o avrebbero comunque potuto agevolmente conoscere le misure di
contenimento della spesa pubblica, adottate dallo stesso Governo che aveva
conferito loro l’incarico, e non avrebbero potuto confidare in una deroga a
tali previsioni restrittive.
Peraltro, al legislatore non sarebbe
preclusa una modificazione sfavorevole dei rapporti di durata, nel rispetto del
principio di eguaglianza e della tutela dell’affidamento. La disciplina in
esame, lungi dal porsi in contrasto con tali precetti costituzionali,
costituirebbe attuazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e dei princìpi di buon
andamento della pubblica amministrazione e perseguirebbe finalità di interesse
generale, nell’ottica della trasparenza e della congruità della spesa pubblica.
Il giudice rimettente esclude che la limitazione
in esame integri un prelievo di natura tributaria: il legislatore stabilirebbe
un limite generale all’erogazione di retribuzioni a carico delle finanze
pubbliche, senza imporre alcun prelievo forzoso sulle somme che il singolo
interessato percepisce oltre tale limite.
Da tali considerazioni discenderebbe
l’infondatezza delle censure che fanno leva sul contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.
1.4.– Il giudice rimettente dubita della legittimità
costituzionale della norma citata, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100,
101, 104 e 108 Cost.
1.4.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che i provvedimenti
impugnati «trovano la loro indefettibile base normativa» nell’art. 1, comma
489, della legge n. 147 del 2013: la declaratoria di illegittimità
costituzionale travolgerebbe i provvedimenti impugnati e condurrebbe
all’accoglimento del ricorso.
Quanto ai motivi di ricorso, che vertono
sulle modalità applicative della norma censurata, essi presuppongono la
legittimità costituzionale della norma in oggetto e il giudice rimettente si
riserva di approfondirli nell’ulteriore corso del giudizio.
1.4.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della
questione, il giudice rimettente non reputa decisivo l’elemento dell’elevata
qualità professionale dell’attività svolta da funzionari pubblici di assoluta
eccellenza.
È lo svolgimento continuativo della
funzione di consigliere della Corte dei conti, con l’assunzione di tutte le
prerogative e di tutte le notevoli responsabilità, di natura professionale e
civile, che riveste rilievo cruciale: l’inserimento a pieno titolo nei ruoli
della magistratura togata, con peculiari garanzie di stabilità e di
inamovibilità, è la premessa che accomuna le censure proposte.
Il giudice rimettente appunta le censure
sulla scelta del legislatore di richiedere l’apporto professionale dei
ricorrenti, senza prevedere incompatibilità, decadenze, o l’opzione per
funzioni gratuite o retribuite in misura inferiore, e di negare al tempo stesso
la retribuzione per l’attività svolta.
La scelta sarebbe irragionevole e lesiva
del diritto al lavoro dei ricorrenti.
Sarebbe anche evidente il contrasto con
il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del
lavoro svolto (art. 36 Cost.): non si potrebbero
considerare «fungibili il trattamento pensionistico per un’attività precedente
e il compenso per un’attività in atto, ove consentita nell’ambito dei diritti
di libertà garantiti dalla Costituzione».
Sarebbe violato anche il diritto a una
tutela assistenziale e previdenziale adeguata (art. 38 Cost.),
poiché la diminuzione e l’azzeramento della retribuzione si tradurrebbero nella
decurtazione dei contributi previdenziali e, conseguentemente, del trattamento
pensionistico che deriva dall’accumulo del montante contributivo.
La norma citata entrerebbe in conflitto
con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.):
pur disciplinando in maniera omogenea attribuzioni e responsabilità dei consiglieri
per concorso e dei consiglieri di nomina governativa, determinerebbe
un’ingiustificata disparità di trattamento sotto il profilo retributivo, con
ripercussioni sul buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), per l’indifferenziata attribuzione, a titolo
oneroso o gratuito, di funzioni
salienti.
La normativa censurata, per altro verso,
recherebbe un vulnus all’autonomia e
all’indipendenza della magistratura, tutelate dagli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost. anche con riguardo alla progressione
in carriera e al trattamento economico.
1.5.– Nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 220, 223, 224, 225, 226,
227, 229 e 230 del 2015, si sono costituiti, con distinte memorie depositate il
21 ottobre 2015, S. B., R. V., G. Z., M. C., S. D.V., P. V., L. P. e C. G.,
parti ricorrenti nei giudizi principali, e hanno chiesto di accogliere la
questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo
per il Lazio.
Le parti hanno posto l’accento sulla
disparità di trattamento tra consiglieri di nomina governativa e consiglieri
per concorso, che pure svolgono le medesime funzioni, e sulla violazione
dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. La norma censurata
determinerebbe un indebito condizionamento della funzione giurisdizionale,
menomando il prestigio di cui il magistrato deve godere presso la comunità dei
cittadini.
L’illegittimità costituzionale della
normativa si coglierebbe anche nel carattere definitivo e permanente del
sacrificio imposto, in violazione del diritto a una retribuzione proporzionata
alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, visto che quest’ultima sarebbe
commisurata alla pensione percepita per una pregressa e oramai conclusa
attività lavorativa.
L’incarico di magistrato si tramuterebbe
in incarico onorario, a titolo gratuito, secondo un meccanismo atto a
disincentivare il diritto al lavoro del pensionato.
La decurtazione del trattamento
fondamentale inciderebbe anche sull’ammontare della pensione, in contrasto con
l’art. 38 Cost.
La disciplina in esame, in violazione
del principio di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica
amministrazione, limiterebbe la libertà dell’esecutivo di designare alla Corte
dei conti le figure «di maggiore spicco», che si sono segnalate per l’attività
già prestata a favore dell’amministrazione.
Il Governo sarebbe costretto a
indirizzare altrove le sue scelte, trascurando le «figure più qualificate».
1.5.1.– Con separate istanze, depositate il 22 settembre
2016, le parti indicate hanno chiesto la sollecita trattazione del giudizio.
1.5.2.– In vista dell’udienza, il 24 febbraio 2017, le
parti citate hanno depositato una memoria illustrativa, ribadendo le
conclusioni già rassegnate e le argomentazioni enunciate nel costituirsi in
giudizio.
Anche a voler configurare in termini
solidaristici la drastica riduzione o l’azzeramento permanente della
retribuzione, l’intervento attuato dal legislatore sarebbe privo dei caratteri
di temporaneità, proporzionalità e ragionevolezza, enucleati dalla
giurisprudenza costituzionale, e si atteggerebbe come un prelievo tributario,
destinato a colpire specificamente i pensionati pubblici, che hanno acquisito
il diritto a un trattamento previdenziale elevato e, dopo la pensione, svolgono
funzioni giurisdizionali.
1.6.– Nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 221, 222 e 228 del 2015,
si sono costituiti, con distinte memorie depositate il 18 novembre 2015, F. M.
ed altri, F. D. I. ed altri e D. C., ricorrenti nei giudizi principali, e hanno
chiesto di dichiarare incostituzionale l’art. 1, comma 489, della legge n. 147
del 2013, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.
La disposizione censurata, risolvendosi
nel divieto di pagare, in tutto o in parte, la retribuzione dovuta ai
dipendenti che pure continuano a prestare la loro attività lavorativa,
contrasterebbe con il diritto al lavoro (art. 4 Cost.)
e con il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità
del lavoro svolto (art. 36 Cost.).
In conseguenza del limite censurato,
sarebbe disincentivato il lavoro di chi è già in pensione e la retribuzione,
elemento indefettibile del contratto di lavoro, perderebbe «qualsiasi aggancio
rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto» e sarebbe ancorata,
per contro, «al reddito pensionistico percepito per altra attività lavorativa,
prestata in passato in base ad un rapporto ormai concluso».
La disciplina in esame contrasterebbe
anche con il principio di eguaglianza, in quanto imporrebbe alle
amministrazioni di trattare diversamente i dipendenti, a parità di mansioni e
di anzianità lavorativa.
Le parti richiamano la giurisprudenza
costituzionale, che ha ritenuto legittimi i divieti di cumulo tra pensione e
stipendio, a patto che non incidano sulla proporzione tra la retribuzione e
l’attività svolta (è citata la sentenza n. 220 del
2005).
La norma, nel determinare una riduzione
o un mancato versamento dei contributi previdenziali, si tradurrebbe, per altro
verso, in una decurtazione dell’ammontare della futura pensione e del
trattamento di fine servizio dei pubblici dipendenti, lesiva dell’art. 38 Cost.
Le parti prospettano il contrasto con
gli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., che tutelano l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura anche con riguardo al trattamento economico: sarebbe illegittima
ogni forma di interferenza, atta a menomare la funzione giurisdizionale anche
con riguardo agli aspetti retributivi che la contraddistinguono.
La previsione censurata, lungi dal
configurarsi come misura eccezionale e limitata nel tempo, imporrebbe un
sacrificio permanente e sproporzionato rispetto alle esigenze idonee a
giustificarlo. Come emerge anche dalla relazione tecnica predisposta dalla
Ragioneria generale dello Stato, l’intervento normativo non produrrebbe alcun
effetto di risparmio e sarebbe ispirato a «una scelta d’immagine puramente
demagogica», che considera alla stregua di una "colpa” l’elevato livello di
reddito raggiunto.
Le parti indicano, quale ulteriore
elemento sintomatico dell’irragionevolezza, l’incoerenza della disciplina
censurata con la designazione governativa dei consiglieri della Corte dei
conti, indirizzata a funzionari pubblici di alto livello, che, in gran parte,
hanno già maturato il diritto alla pensione.
Le parti paventano, inoltre, la lesione
del buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto il meccanismo
descritto renderebbe «assai ardua la futura scelta di consiglieri da parte del
Governo»: da tale angolo visuale, è improbabile che funzionari di alto livello
abbandonino una prestigiosa carriera, «per lavorare gratuitamente».
1.7.– Nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 221, 222 e 228 del 2015,
si è costituito anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con
memoria del 23 novembre 2015, e ha chiesto di dichiarare inammissibile la
questione di legittimità costituzionale, «per difetto di motivazione
dell’ordinanza di rimessione», e, in subordine, di dichiararne «la
infondatezza».
In punto di ammissibilità, l’INPS
osserva che le ordinanze di rimessione presentano una «assoluta carenza di
motivazione» e non si confrontano con la peculiare posizione dei ricorrenti,
che già percepiscono, a titolo di trattamento di quiescenza, «somme che
eccedono il limite massimo ora consentito nell’ambito del comparto pubblico».
La questione, ad ogni modo, non sarebbe
fondata, sol che si consideri che la normativa «risponde ad evidenti obiettivi
di contenimento, trasparenza e congruità della spesa pubblica – nel quadro dei
doveri di solidarietà sociale, art. 2 Cost., e dei principi di buon andamento della amministrazione,
art. 97 Cost. – assunti dal nostro Paese nell’ambito
Comunitario».
Inoltre, il legislatore ben potrebbe
adottare interventi rispettosi del principio di eguaglianza, volti a modificare
in senso sfavorevole i rapporti di durata.
Non sarebbe fondato neppure il sospetto
di violazione dell’art. 38 Cost., in quanto l’accoglimento della questione di legittimità
costituzionale non potrebbe apportare alcun incremento del trattamento
previdenziale dei ricorrenti, beneficiari di pensioni che già superano il
limite vigente nel comparto pubblico.
1.8.– Nel giudizio di cui al reg. ord.
n. 221 del 2015, si sono costituiti, con memoria del 24 novembre 2015, C. B. ed
altri, intervenuti ad adiuvandum
nel giudizio principale in prossimità dell’udienza di trattazione del ricorso,
dopo aver impugnato in via autonoma, dinanzi al Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio, i provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza
limitativi del cumulo tra la remunerazione delle funzioni in corso di
svolgimento e il trattamento di quiescenza già maturato.
I deducenti dichiarano di costituirsi
nel giudizio di legittimità costituzionale, in qualità di parti costituite nel
giudizio a quo, ancorché l’ordinanza
di rimessione abbia dichiarato inammissibile il loro intervento.
La dichiarazione di inammissibilità
dell’intervento, che differisce da una pronuncia di estromissione dal processo,
non farebbe venir meno la qualità di parti, legittimate in tale veste a
partecipare al giudizio di legittimità costituzionale.
Tale legittimazione, per altro verso, si
fonderebbe sul pregiudizio immediato e inevitabile che si correla alla
decisione della Corte.
I deducenti affermano l’ammissibilità
delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente,
dopo avere compiutamente ricostruito la fattispecie di causa e dopo avere
escluso la praticabilità di un’interpretazione conforme a Costituzione.
Le questioni sarebbero rilevanti e
fondate, anzitutto in riferimento all’art. 36 Cost.: il meccanismo
denunciato condurrebbe a ingenti decurtazioni o all’azzeramento delle
retribuzioni percepite nello svolgimento di funzioni, come quella di
consigliere della Corte dei conti o del Consiglio di Stato, «di cruciale
importanza e di grande responsabilità».
Sarebbero parimenti fondate le censure
di violazione degli artt. 3 e 97 Cost., in quanto la norma impugnata sortisce l’effetto di
precludere la nomina di figure di spicco, che vantano «esperienze particolari
di amministrazione attiva», in contrasto con i princìpi di ragionevolezza e di
buon andamento dell’amministrazione.
Peraltro, l’assetto delineato
determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra i consiglieri che
vedono remunerate le funzioni svolte e coloro che sopportano la decurtazione o
l’azzeramento della retribuzione, non potendo beneficiare della deroga prevista
per i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza.
I deducenti mostrano di condividere i
rilievi del giudice rimettente in merito alla violazione degli artt. 100, 101,
104 e 108 Cost., e censurano il carattere permanente e sproporzionato del
sacrificio imposto, che vale, senza alcun limite, anche per il futuro.
1.9.– Nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 220, 221, 222, 223, 224,
225, 226, 227, 228, 229 e 230 del 2015, è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibili o comunque manifestamente
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio.
L’Avvocatura generale dello Stato, dopo
avere ripercorso l’evoluzione delle misure di contenimento della spesa nel
settore pubblico, replica che gli interessati, investiti dell’incarico di
consiglieri della Corte dei conti, potrebbero scegliere di accettarlo, per il
prestigio che implica, o di rifiutarlo. Ad ogni modo, il trattamento, che si
assume foriero di sperequazioni ingiustificate, deriverebbe da una «scelta
volontaria».
Peraltro, la posizione dei consiglieri
della Corte dei conti di nomina governativa non potrebbe essere assimilata a
quella dei consiglieri vincitori di concorso.
L’Avvocatura generale dello Stato
ribadisce che gli stessi giudici rimettenti non hanno ritenuto di ravvisare
alcuna violazione del principio di affidamento e che tale profilo, evocato
dalle parti ricorrenti nei diversi giudizi principali, esula dal sindacato di
legittimità costituzionale.
Quanto alla dedotta violazione degli
artt. 36 e 38 Cost., l’atto di intervento puntualizza che la norma censurata
«non limita in generale e direttamente il trattamento economico o previdenziale
connesso allo svolgimento di una qualsivoglia attività lavorativa», ma soltanto
il cumulo di trattamenti economici posti a carico della finanza pubblica.
Peraltro, le decurtazioni della
retribuzione per l’attività successiva alla pensione sarebbero meramente
eventuali e troverebbero applicazione solo nell’ipotesi di superamento del
limite imposto dalla legge, che non ha riguardo alla retribuzione in sé
considerata, ma al trattamento complessivo, derivante dal cumulo fra
trattamento previdenziale già maturato e la retribuzione corrisposta «in virtù
di un nuovo rapporto (liberamente accettato dall’interessato)».
La norma censurata non contravverrebbe
ai princìpi di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica
amministrazione, in quanto concorrerebbe «ad assicurare, mediante il rispetto
del limite retributivo, una più equa redistribuzione di risorse pubbliche» e
non avrebbe alcuna diretta incidenza sull’organizzazione amministrativa:
l’incidenza sarebbe «indiretta (comunque conseguente ad iniziative
individuali)».
La disciplina in esame, inoltre, non
sarebbe all’origine di alcuna disparità di trattamento tra magistrati.
Sarebbero «le singole posizioni retributive e contributive», frutto di «scelte
individuali», a determinare la necessità di limitare l’ammontare complessivo
degli emolumenti corrisposti.
L’Avvocatura generale dello Stato
eccepisce l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale,
sollevata in riferimento agli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.: il vulnus all’indipendenza e all’autonomia
della magistratura sarebbe adombrato in modo generico.
Da ultimo, la questione sarebbe
inammissibile anche da un diverso punto di vista: nell’imputare al legislatore
di non avere previsto ipotesi di incompatibilità o di decadenza o l’opzione per
funzioni differenziate con minore compenso o del tutto onorarie e gratuite, i
giudici a quibus
censurano scelte eminentemente discrezionali del legislatore, e ipotizzano
un intervento della Corte ben oltre i limiti di una pronuncia di accoglimento,
contraddistinta da un «effetto meramente caducatorio».
2.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio,
sezione seconda, con ordinanze iscritte ai nn. 172,
173, 174, 175, 176, 177, 178, 179 e 180 del reg. ord.
2016, censura l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per violazione
degli artt. 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost.
2.1.– Le controversie prendono le mosse dai ricorsi
proposti dai consiglieri di Stato di nomina governativa contro i provvedimenti
del Segretariato generale della giustizia amministrativa, che ha applicato
l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, disponendo la restituzione
delle somme corrisposte in misura superiore al limite fissato dalla legge per
il cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche.
I ricorrenti hanno dedotto la violazione
e la falsa applicazione dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013,
che prevede una deroga per i contratti e gli incarichi in corso, fino alla loro
naturale scadenza. Il legislatore, difatti, avrebbe inteso salvaguardare i
trattamenti già in corso, e il termine "incarico” denota qualsiasi conferimento
di compiti da parte dell’amministrazione, anche nell’àmbito di un rapporto di
impiego non privatizzato.
L’amministrazione non avrebbe illustrato
le ragioni che l’hanno indotta a ritenere inapplicabile la deroga in esame.
I ricorrenti, in via gradata, hanno
prospettato, sotto svariati profili, l’illegittimità derivata dei provvedimenti
impugnati, per illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge
n. 147 del 2013.
La limitazione della deroga solo ai
dipendenti contrattualizzati o titolari di incarichi implicherebbe gravi
disparità di trattamento e contrasterebbe con il principio di ragionevolezza.
I ricorrenti assumono che la fissazione
di un tetto retributivo sia irragionevole. La disciplina della nomina
governativa dei consiglieri di Stato «mira ad acquisire le competenze più
solide e prestigiose disponibili nel mondo del diritto» e contempla come
normale l’ipotesi della coesistenza del trattamento di quiescenza con la
retribuzione.
Sarebbe violato anche il legittimo
affidamento nella facoltà di cumulare il trattamento di quiescenza già
acquisito con il trattamento retributivo, percepito per le funzioni di
consigliere di Stato.
I ricorrenti denunciano il contrasto con
il principio di ragionevolezza, con il diritto a un’equa retribuzione, anche
differita, con il diritto alla tutela assistenziale e previdenziale e con il
diritto al lavoro, in quanto «per effetto di tale disciplina, la retribuzione
di attività lavorative connotate da elevatissimi standard qualitativi, svolte
da funzionari pubblici in possesso di un grado di preparazione di assoluta
eccellenza, viene sottoposta a ingenti decurtazioni e in non poche ipotesi
addirittura azzerata», con conseguente pregiudizio per la tutela assistenziale,
riconosciuta solo a chi versi la contribuzione.
In virtù del meccanismo censurato,
figure di assoluto prestigio, sol perché beneficiarie di un trattamento di
quiescenza prossimo o superiore al tetto di euro 240.000,00, si troverebbero
costrette a percepire «una retribuzione esigua o addirittura inesistente», con
pregiudizio per la libertà di esercitare una qualsiasi attività lavorativa.
La normativa sospettata di illegittimità
costituzionale, penalizzando chi vanti esperienze particolari di
amministrazione attiva, costringerebbe il Governo a scegliere come consiglieri
di Stato figure meno qualificate, in contrasto con il principio di
ragionevolezza e di buon andamento dell’amministrazione e sarebbe destinata a
interferire con l’indirizzo politico-amministrativo che compete al Governo,
così «distolto dal suo approdo più coerente e mortificato nella libertà della
sua esplicazione».
I ricorrenti censurano, inoltre, la
violazione degli artt. 3 e 53 Cost., in quanto la normativa in esame istituirebbe un prelievo
di natura sostanzialmente tributaria, che grava soltanto sui pensionati
titolari di incarichi o di rapporti di lavoro pubblici.
Sarebbero altresì violati gli artt. 3,
100, 101, 104 e 108 Cost.: la limitazione del trattamento retributivo dei magistrati
non avrebbe portata temporale limitata, esulerebbe da un ragionevole e non
arbitrario intervento perequativo e minerebbe l’indipendenza di chi è chiamato
a esercitare funzioni giurisdizionali.
Risulterebbe violato anche l’art. 23 Cost.,
poiché la normativa in esame lascerebbe del tutto indefinita la questione della
sorte della copertura assicurativa o delle modalità di recupero delle somme che
superano il tetto indicato.
La difesa delle amministrazioni
resistenti ha replicato che la norma censurata costituisce attuazione del
principio del pareggio di bilancio, consacrato dall’art. 81 Cost., e mira al
contenimento della spesa nel settore pubblico.
Quanto alla salvaguardia dei contratti e
degli incarichi in corso, essa non si potrebbe applicare ai rapporti a tempo
indeterminato regolati da norme di legge o da contratti collettivi e
riguarderebbe unicamente rapporti a tempo determinato di fonte legale o
convenzionale.
La normativa, inoltre, si prefiggerebbe
di assicurare una più equa redistribuzione di risorse pubbliche e sarebbe in
armonia con gli artt. 36 e 38 Cost.: le limitazioni inciderebbero sul cumulo dei trattamenti
economici posti a carico delle finanze pubbliche, non sul trattamento economico
o previdenziale connesso a qualsiasi attività lavorativa, e scatterebbero in
via meramente eventuale.
Non sarebbe in discussione, inoltre, la
corresponsione della retribuzione, ma soltanto il trattamento complessivo,
derivante dal cumulo tra il trattamento previdenziale e la retribuzione
percepita in forza di un nuovo rapporto di lavoro liberamente accettato.
2.2.– Il giudice rimettente ritiene, in consonanza con
quanto affermato dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio
nell’ordinanza iscritta al n. 220 del registro ordinanze 2015, che siano
rilevanti e non manifestamente infondate talune questioni di legittimità
costituzionale riguardanti l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013.
2.2.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che i provvedimenti
impugnati «trovano la loro indefettibile base normativa nell’art. 1, comma 489,
della legge n. 147 del 2013» e, pertanto, l’accoglimento della questione determinerebbe
«l’illegittimità derivata degli atti amministrativi impugnati con il
conseguente accoglimento del ricorso che altrimenti – alla stregua delle
pregresse considerazioni – dovrebbe essere respinto».
La deroga per i contratti e gli
incarichi in corso non troverebbe applicazione per l’esercizio in atto di una
funzione giurisdizionale togata, in virtù dell’inserimento a pieno titolo in un
«plesso giurisdizionale»: da tale funzione esulerebbe ogni carattere di
temporaneità.
Sarebbe priva di pregio la censura di
violazione dell’art. 3 Cost., con riguardo alla mancata estensione di tale deroga,
riferita ai soli rapporti a tempo determinato, di fonte convenzionale,
instaurati tra le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati, rapporti che
non potrebbero essere equiparati ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato,
caratterizzati dall’esercizio di una funzione pubblica di natura
giurisdizionale, «assistita dalle garanzie di stabilità e di inamovibilità».
2.2.2.– Il giudice rimettente condivide i rilievi già
svolti dalla sezione prima dello stesso Tribunale amministrativo regionale del
Lazio, nell’ordinanza iscritta al n. 220 del reg. ord.
2015, in ordine all’infondatezza delle censure di violazione del principio di
affidamento e dell’art. 53 Cost.
Quanto al primo aspetto, il Tribunale
rimettente sottolinea che, nell’accettare il nuovo incarico, i consiglieri di
Stato erano a conoscenza delle disposizioni restrittive, volte a razionalizzare
la «c.d."giungla
retributiva”», e non avrebbero certo potuto fare assegnamento su un’eventuale
deroga a loro favore.
Per quel che riguarda il secondo
profilo, la disciplina in esame, ispirata a finalità di contenimento,
trasparenza e razionalizzazione della spesa pubblica, implicherebbe «una
progressiva decurtazione, disciplinata ex lege, dei
possibili ulteriori redditi al raggiungimento del tetto prefissato», senza
operare discriminazioni di sorta. La legge, lungi dall’imporre un prelievo
forzoso sulle somme percepite dall’interessato oltre il tetto retributivo, si
limiterebbe a imporre un tetto all’erogazione di emolumenti e pensioni a carico
della finanza pubblica.
2.2.3.– Il giudice rimettente, disattese tali censure,
reputa essenziale, nello scrutinio di legittimità costituzionale, non tanto
l’elevata qualità dell’attività svolta da funzionari pubblici di assoluta
eccellenza, poiché in tale ottica si potrebbe giustificare un incarico
onorario, quanto piuttosto lo svolgimento continuativo di una funzione
giurisdizionale, con tutte le prerogative e le responsabilità connesse.
Alla luce di tali premesse, il giudice a quo assume che la disciplina in esame,
nel determinare una forte riduzione o un azzeramento della remunerazione della
funzione di consigliere di Stato, con una conseguente decurtazione dei
contributi previdenziali e del trattamento pensionistico derivante
dall’accumulo del montante contributivo, vìoli molteplici parametri
costituzionali.
Si profilerebbe, in primo luogo, una
violazione dell’art. 3 Cost., in ragione dell’arbitraria disparità di trattamento tra
soggetti che svolgono le medesime funzioni, come i consiglieri di Stato per
concorso o per nomina governativa.
La disciplina censurata contrasterebbe
con l’art. 4 Cost., perché lesiva del diritto al lavoro, e con il diritto a
una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato
(art. 36 Cost.), in quanto costringerebbe a svolgere
«una funzione di cruciale importanza e di grande responsabilità – qual è quella
di Consigliere di Stato – percependo una retribuzione esigua o addirittura
azzerata».
Non si potrebbero, difatti, considerare
«fungibili il trattamento pensionistico per un’attività precedente e il
compenso per un’attività in atto, ove consentita nell’ambito dei diritti di
libertà garantiti dalla Costituzione».
La normativa in esame violerebbe anche
l’art. 38 Cost., poiché la drastica riduzione o l’azzeramento della
retribuzione, e quindi della relativa contribuzione, precluderebbero la
conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale
garantita dall’ordinamento.
Sarebbero violati anche gli artt. 95 e
97 Cost.,
in quanto la disciplina condurrebbe a un’organizzazione irragionevole,
contraria al buon andamento, «mediante l’indifferenziato affidamento, a titolo
oneroso ovvero a titolo gratuito, di funzioni di dichiarata rilevanza, impegno
e delicatezza» e distoglierebbe l’indirizzo politico-amministrativo del Governo
dal suo approdo più coerente, mortificandone la libera esplicazione.
Da ultimo, il giudice rimettente
denuncia il contrasto con gli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., e asseriscono che le
limitazioni retributive in esame attentano all’indipendenza degli organi
giurisdizionali, tutelata anche per quel che attiene al trattamento
economico.
2.3.– Nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 172, 173, 174, 175, 177,
178 e 180 del 2016, il 18 ottobre 2016 si sono costituiti, con separate
memorie, M. M., M. Z., A. P., V. S., E. T., P. L.R., C. B. ed altri, parti
ricorrenti nei giudizi a quibus, e hanno chiesto, in via principale, di
dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale o, in
subordine, di accoglierla in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101,
104 e 108 Cost.
Le parti premettono che l’ordinanza di
rimessione ricostruisce in maniera esaustiva la vicenda processuale e il quadro
normativo di riferimento e motiva in maniera convincente in ordine alla
rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale.
Le parti contestano le asserzioni del
giudice a quo in ordine
all’inapplicabilità della deroga prevista per i contratti e gli incarichi in
corso.
Nei rapporti di lavoro alle dipendenze
della pubblica amministrazione la legge fisserebbe il limite massimo di età e
imporrebbe il collocamento a riposo, quando tale limite sia superato. Pertanto,
anche in tali fattispecie, sarebbe possibile individuare una scadenza.
L’interpretazione privilegiata dal
giudice rimettente, per contro, vanificherebbe la finalità di prevedere una
norma transitoria, idonea ad assicurare la gradualità dell’intervento
legislativo e a temperarne l’efficacia retroattiva.
In ragione dei naturali limiti di età,
che contraddistinguono il lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni, non vi sarebbe ragione di distinguere tra incarichi e ruoli
"ordinari” e "onorari” o "straordinari”.
Un’interpretazione conforme a
Costituzione, atta a salvaguardare la lettera e lo spirito della legge e la
gradualità della transizione, consentirebbe alla Corte di pervenire a una
pronuncia interpretativa di rigetto.
Ove non si ritenesse praticabile tale
strada, la questione dovrebbe essere dichiarata fondata.
La disciplina in esame, difatti,
decurterebbe in misura ingente e, in alcuni casi, porterebbe ad azzerare la
retribuzione di attività lavorative connotate da elevati livelli qualitativi.
Lo Stato, pur avvalendosi dell’opera
altamente qualificata di funzionari che hanno ricoperto incarichi apicali
nell’amministrazione statale, pretenderebbe di esimersi dal pagamento della
retribuzione.
Gli interessati, al fine di percepire il
trattamento pensionistico, frutto di cospicui versamenti contributivi,
avrebbero l’unica possibilità di rinunciare all’incarico.
Problematiche, oltre che rivelatrici
dell’irragionevolezza della norma, sarebbero le implicazioni della disciplina
censurata sulla responsabilità dei giudici, con peculiare riguardo alla misura
della rivalsa dello Stato, limitata a una percentuale dello stipendio del
magistrato. Lo Stato si vedrebbe preclusa l’azione di rivalsa, se si dovesse
attribuire rilievo allo stipendio concretamente percepito dal singolo
magistrato, nel caso di specie esiguo o insussistente, o dovrebbe esercitare la
rivalsa, in base allo stipendio che astrattamente il magistrato avrebbe
percepito.
In un caso, risulterebbe affievolita l’afflittività dell’istituto della responsabilità dei
giudici, nell’altro caso si esporrebbe un servitore dello Stato all’azione di
rivalsa, senza alcuna contropartita in termini di remunerazione delle funzioni
svolte.
Sarebbero lesi anche i princìpi di
ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione: la nomina
governativa di una limitata percentuale dei consiglieri di Stato perseguirebbe
l’obiettivo di valorizzare esperienze particolari di amministrazione attiva e, tuttavia,
lo Stato, in virtù della disciplina sospettata di illegittimità costituzionale,
non potrebbe premiare chi vanti le esperienze più qualificate.
Tale assetto determinerebbe, per un
verso, un’arbitraria disparità di trattamento quanto alla retribuzione o alla
mancata retribuzione della medesima attività professionale e, per altro verso,
un’organizzazione irragionevole, contraria al buon andamento costituzionalmente
tutelato.
Altro profilo di disparità di
trattamento emergerebbe dalla comparazione tra chi abbia un contratto e un
incarico in corso, escluso dall’applicazione della nuova disciplina fino alla
scadenza del contratto e dell’incarico, e chi, per contro, debba sopportare
l’azzeramento e la grave decurtazione della retribuzione dovuta, sol perché
titolare di un rapporto d’ufficio.
La norma censurata, che si risolverebbe
in un sacrificio permanente, privo di ogni carattere di gradualità e di
proporzionalità e di ogni logica perequativa, violerebbe l’indipendenza dei
magistrati, che ha il suo presidio anche nelle garanzie del trattamento
economico.
2.3.1.– Il 1° marzo 2017, in vista dell’udienza, le parti
costituite hanno depositato distinte memorie per confermare le conclusioni già
formulate nell’atto di costituzione e confutare gli argomenti addotti
dall’Avvocatura generale dello Stato.
Le parti hanno ribadito che, nel fissare
un tetto retributivo riguardante stipendi e pensioni, è precluso al legislatore
lasciare prive di ogni retribuzione o retribuire in misura insufficiente
prestazioni lavorative «di altissima qualificazione».
La disciplina in esame dissuaderebbe le
migliori professionalità dall’accettare la nomina e così priverebbe la pubblica
amministrazione di «apporti essenziali, in violazione del principio di buon
andamento e con evidenti rischi per la funzionalità dell’Istituto, onerato di
compiti sempre più gravosi, ma non dotato di tutte le risorse umane che in
astratto dovrebbero spettargli».
Le parti contestano le deduzioni
dell’Avvocatura generale dello Stato con riguardo all’inammissibilità delle
censure di violazione degli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.: lungi dall’essere
generica, la prospettazione dei giudici rimettenti sarebbe corredata da
notazioni pertinenti ed esaustive, coerenti con la giurisprudenza
costituzionale.
Non sussisterebbe alcuna ragione di
inammissibilità, legata alla tipologia dell’intervento richiesto, che è
meramente ablativo e non invade lo spazio riservato alla discrezionalità
legislativa.
Le parti argomentano, inoltre, che occorre
privilegiare un’interpretazione idonea ad armonizzare la norma censurata con i
parametri costituzionali invocati.
La deroga prevista per i contratti e gli
incarichi in corso sarebbe applicabile anche al caso in esame, in quanto la
formula adoperata dal legislatore suona come un’endiadi e ricomprende «ogni
tipo di rapporto alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica, quale che sia
la veste formale ch’esso assume (rapporto di lavoro contrattualizzato, rapporto
di servizio in regime di diritto pubblico, incarico temporaneo o a tempo
indeterminato, etc.)».
La deroga dovrebbe applicarsi
indistintamente al pubblico impiego privatizzato e al pubblico impiego non
privatizzato, come traspare anche dal parallelismo con l’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011,
n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,
n. 214, che menziona i rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche
amministrazioni, nell’àmbito del pubblico impiego privatizzato, e il personale
in regime di diritto pubblico del pubblico impiego non privatizzato.
A favore di tale interpretazione
militerebbe la stessa formulazione testuale della norma, che si applica ai
trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche e
comprende così tutti i trattamenti in questione «a prescindere dalla fonte
generatrice del rapporto di lavoro o di impiego».
Peraltro, all’atto di accettazione della
nomina, non erano stati ancora introdotti i limiti retributivi in questione,
che hanno inciso in modo improvviso e imprevedibile su rapporti di durata.
L’Avvocatura generale dello Stato, pur
non contestando che la norma disincentivi le migliori professionalità
dall’accettare la nomina a consigliere di Stato e che la nomina a consigliere
di Stato derivi dalla valutazione delle attitudini a svolgere una determinata
funzione, non trarrebbe da tale affermazione «le doverose e logiche
conseguenze».
Le parti soggiungono che, secondo la
stessa giurisprudenza costituzionale, la piena funzionalità dell’istituto
richiede un tendenziale equilibrio tra la componente di provenienza concorsuale
e quella di nomina governativa.
L’Avvocatura generale dello Stato,
inoltre, non considera che la norma censurata, nella misura in cui disciplina
il cumulo di trattamenti retributivi e previdenziali, produce l’effetto di
limitare in via generale e diretta il trattamento economico o previdenziale
connesso allo svolgimento di qualsiasi tipo di attività.
In tal modo, la retribuzione «di
attività lavorative connotate da elevatissimi standard qualitativi, svolte da funzionari pubblici in possesso di
un grado di preparazione di assoluta eccellenza», sarebbe sottoposta a ingenti
decurtazioni o finanche azzerata, con conseguente pregiudizio per i consiglieri
di nomina governativa.
Sia che incida sul trattamento
retributivo, com’è avvenuto nel caso di specie, sia che operi sul trattamento
pensionistico già maturato, vanificando i cospicui versamenti contributivi operati
per un periodo particolarmente lungo, la decurtazione in esame si rivelerebbe
comunque lesiva degli artt. 3, 36 e 38 Cost.
Non può sostenersi, come parrebbe
adombrare l’Avvocatura generale dello Stato, che la tutela costituzionale delle
retribuzioni e dei trattamenti pensionistici non trovi applicazione per le
retribuzioni e i trattamenti pensionistici più alti, sottoposti a straordinari
versamenti di carattere solidaristico, come di fatto è avvenuto.
Il regime del cumulo, inoltre, non
sarebbe strutturato in modo ragionevole, visto che potrebbe condurre
all’azzeramento della retribuzione.
Le parti, da ultimo, rilevano che le
decurtazioni censurate, prive di ogni carattere di gradualità e di
proporzionalità, incidono in peius sul trattamento retributivo spettante ai
magistrati, compromettendone l’autonomia e l’indipendenza.
2.4.– Nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 172, 173, 174, 175, 176,
177, 178, 179 e 180 del 2016 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha
chiesto di dichiarare inammissibile o comunque manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, sulla base degli argomenti illustrati
anche nei giudizi promossi dai consiglieri della Corte dei conti di nomina
governativa (cfr. retro punto 1.9.).
L’atto di intervento sottolinea la
diversità dell’incarico di consigliere di Stato di nomina governativa rispetto
all’incarico di consigliere di Stato per concorso e soggiunge che il tetto
retributivo è posto a un livello così elevato da escludere la violazione dei
princìpi in materia retributiva e previdenziale.
3.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio,
sezione prima, con ordinanza iscritta al n. 211 del reg. ord.
2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 100, 101, 104 e 108 Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e dell’art. 13, comma 1, del
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la
giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014,
n. 89.
3.1.– Il Tribunale rimettente è chiamato
a decidere sul ricorso proposto da F. I., che ha chiesto l’accertamento del
diritto a cumulare per intero, o nella misura ritenuta di giustizia, il
trattamento economico annuo spettante ai magistrati ordinari alla settima
valutazione di professionalità e la speciale indennità pensionabile di cui
all’art. 5, terzo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento
dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), correlata all’incarico di capo
del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ricoperto dal 4 agosto
2008 al 16 febbraio 2012.
Il ricorrente ha contestato le
decurtazioni operate in applicazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, dell’art.
1, commi 458, 459, 471 e 473, della legge n. 147 del 2013, e dell’art. 13,
comma 1, del d.l. n. 66 del 2014.
In particolare, il ricorso verte sulla decurtazione
del trattamento economico annuo, in applicazione dell’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011, e sull’interruzione della corresponsione dell’assegno
pensionabile relativo alla speciale indennità prevista dall’art. 5, terzo
comma, della legge n. 121 del 1981.
Il ricorrente, a fondamento
dell’impugnazione, ha dedotto che la limitazione, prevista dall’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011, configura un prelievo obbligatorio sulle retribuzioni, lesivo
degli artt. 3 e 53 Cost., in quanto idoneo a costituire una decurtazione
patrimoniale definitiva a carico dei soli dipendenti pubblici.
Tale decurtazione, destinata a
ripercuotersi sulle retribuzioni e sulle indennità già maturate, vanificherebbe
il legittimo affidamento e, lungi dal porsi come misura graduale e progressiva,
si risolverebbe in un «taglio della retribuzione improvviso e arbitrario»,
privo di «finalità perequativa o armonizzatrice dei trattamenti economici
toccati», in violazione degli artt. 3, 4, 36 e 38 Cost.
La decurtazione confliggerebbe con il
diritto al lavoro e con il diritto a una retribuzione «proporzionata alla
qualità e alla quantità del lavoro svolto» e lederebbe anche l’indipendenza e
l’autonomia della magistratura, tutelata dagli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.
Il ricorrente ha lamentato l’erronea
applicazione dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013,
riguardante esclusivamente gli impiegati civili dello Stato e non la peculiare
categoria dei magistrati.
L’amministrazione si è costituita in
giudizio per affermare la legittimità e la doverosità del suo operato.
Il Tribunale rimettente espone che il
Consiglio di Stato, con ordinanza n. 308 del 29 gennaio 2016, ha riformato
l’ordinanza cautelare emessa in prime cure l’8 ottobre 2015 (ordinanza n. 4261
del 2015), che ha rigettato la domanda incidentale di sospensione degli atti
impugnati.
Il Consiglio di Stato, in sede di
gravame, ha ritenuto di apprezzare favorevolmente le esigenze dell’appellante,
trasmettendo gli atti al giudice di primo grado ai fini della sollecita
fissazione dell’udienza di merito e del compiuto esame delle questioni di
legittimità costituzionale, ritenute dal Consiglio di Stato rilevanti e non
manifestamente infondate.
3.2.– Il giudice a
quo, poste tali premesse, osserva che occorre distinguere le doglianze che
investono la violazione dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del
2013 e che necessitano di approfondimenti istruttori, dai dubbi di legittimità
costituzionale concernenti l’art. 23-ter
del d.l. n. 201 del 2011 e l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014.
Le questioni di legittimità
costituzionale riguardanti tali ultime previsioni, che hanno ad oggetto
«disposizioni normative logicamente indipendenti», «suscettibili di essere
trattate in modo disgiunto e autonomo», sarebbero rilevanti, in quanto i
provvedimenti impugnati «trovano un’indefettibile base normativa» nelle norme
citate e sarebbero travolti per effetto di una pronuncia di accoglimento.
3.3.– Il giudice rimettente, in primo luogo, disattende le
censure incentrate sulla violazione del principio di affidamento e degli artt.
3 e 53 Cost.
Il tetto economico risponderebbe «agli
obiettivi d’interesse pubblico generale lasciati alla discrezionalità dei
singoli Stati quanto al contenimento, alla trasparenza ed alla congruità della
spesa pubblica, nel quadro dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2
della Costituzione e dei principi di buon andamento dell’amministrazione di cui
all’art. 97 Cost.» e non lederebbe alcun affidamento
meritevole di tutela.
Inoltre, ad avviso del Tribunale
rimettente, la decurtazione dei redditi, superiori al limite predeterminato
dalla legge, non integra un’imposizione fiscale e un prelievo forzoso.
Il giudice a quo assume che la disciplina degli artt. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011 e dall’art.
13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, nello stabilire
un tetto massimo agli emolumenti e una consistente decurtazione della
remunerazione che spetta al ricorrente come giudice ordinario e una conseguente
decurtazione del diritto al trattamento di fine servizio e pensionistico,
contrasti con disparati precetti della Carta fondamentale.
Il giudice rimettente ravvisa una violazione
dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza.
Lo Stato, pur scegliendo di avvalersi
dell’apporto professionale del ricorrente, irragionevolmente si "auto-esonera”
dal pagamento della retribuzione, senza porre alcuna deroga a tale tetto,
«malgrado l’elevatissimo standard professionale raggiunto in ragione della
delicatezza e dell’impegno delle funzioni da svolgere», e senza prevedere «una
opzione per funzioni più limitate e retribuite in minor misura, oppure del
tutto onorarie e gratuite».
Sarebbe violato anche l’art. 4 Cost.,
poiché il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comprimerebbe il
diritto al lavoro.
Le norme censurate contrasterebbero con
l’art. 36 Cost., in quanto, nel ridurre notevolmente la remunerazione
dell’esercizio della funzione di giudice ordinario, lederebbero il diritto a
una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro
svolto.
Il giudice rimettente denuncia anche il
contrasto con l’art. 38 Cost., poiché «la drastica riduzione della retribuzione – e
quindi della relativa contribuzione – precludono la conseguente implementazione
della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall’ordinamento».
Da ultimo, il TAR rimettente dubita
della legittimità costituzionale della disciplina con riferimento agli artt.
100, 101, 104 e 108 Cost., in quanto le norme censurate pregiudicherebbero
l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, tutelate anche con riguardo al
trattamento economico.
3.4.– Con memoria del 15 novembre 2016, si è costituito
in giudizio F. I. e ha chiesto di accogliere la questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio.
Le norme censurate, nel determinare una
decurtazione del trattamento retributivo e di quello pensionistico, sarebbero
prive di ogni finalità di armonizzazione e perequazione e di ogni carattere di
gradualità e di progressività: da tali caratteristiche scaturisce
l’irragionevolezza della previsione censurata, lesiva di diritti soggettivi
perfetti, tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.
La parte paventa il rischio che le norme
impugnate, in contrasto con l’art. 97 Cost., distolgano «le migliori professionalità» dall’impiego
pubblico, che vedrebbe così scemare la capacità di attrarre le eccellenze.
La norma, peraltro, destinata a
pregiudicare la sola posizione dei dipendenti pubblici, sarebbe foriera di disparità
di trattamento e porrebbe a repentaglio anche l’autonomia e l’indipendenza
della magistratura.
La parte soggiunge che l’indennità
legata all’incarico di direttore dell’amministrazione penitenziaria non è un
privilegio, ma vale a compensare la gravosità e i rischi del peculiare ufficio
ricoperto.
3.4.1.– Nel giudizio è intervenuto, il 15 novembre 2016, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale.
La difesa dello Stato evidenzia che
l’ordinanza di rimessione non specifica in quale modo la nuova normativa incida
sulla situazione del ricorrente e ritiene pertanto inammissibile la questione,
per omessa motivazione sulla rilevanza.
Il superamento del limite retributivo di
euro 240.000,00 annui si registrerebbe soltanto per l’indennità che il
ricorrente percepisce come capo del dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria: tale indennità, tuttavia, sarebbe stata soppressa per effetto
dell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013.
Ove il Tribunale rimettente dovesse
concludere per la legittimità di tale eliminazione, la questione di legittimità
costituzionale diventerebbe priva di rilevanza, in quanto lo stipendio
spettante al ricorrente si collocherebbe ben al di sotto del tetto retributivo
di 240.000,00 euro.
La questione sarebbe rilevante soltanto
se al ricorrente spettasse l’indennità di capo del dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, ma tali profili non emergerebbero nell’ordinanza di rimessione.
Non sarebbe pertinente il richiamo alle
altre ordinanze di rimessione del Tribunale amministrativo per il Lazio, che
riguardano la peculiare vicenda dei consiglieri di Stato e della Corte dei
conti di nomina governativa, già titolari di pensioni pubbliche, e la
fattispecie del cumulo tra pensione e reddito.
Peraltro, tali ordinanze avrebbero
reputato legittimo un limite di carattere generale ai compensi erogati a carico
delle finanze pubbliche, limitandosi a censurare la persistente vigenza di tale
limite anche nel caso di contemporanea spettanza di un trattamento
pensionistico.
Le censure di violazione degli artt.
100, 101, 104 e 108 Cost. sarebbero
inammissibili, in quanto formulate in termini generici.
3.5.– Nell’approssimarsi dell’udienza, il 1° marzo 2017,
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria illustrativa,
in cui ha confermato le conclusioni già formulate in ordine all’inammissibilità
e, in subordine, all’infondatezza della questione di legittimità
costituzionale.
Quanto all’inammissibilità, la difesa
dello Stato ribadisce che la causa relativa alla legittimità della soppressione
dell’assegno ad personam
non è stata ancora decisa dal Tribunale rimettente. Nel caso di rigetto del
ricorso su tale punto, la questione di legittimità costituzionale sarebbe
irrilevante, poiché il ricorrente non supererebbe il tetto retributivo di
240.000,00 euro.
La questione non sarebbe comunque
fondata. Secondo la stessa giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 153 del
2015), le norme impugnate sono riconducibili a un più ampio intervento di
revisione della spesa pubblica e si pongono come princìpi fondamentali di
coordinamento della finanza pubblica.
Non sussisterebbe la violazione degli
artt. 36 e 38 Cost., poiché la congruità del trattamento retributivo, che si
riflette anche sull’adeguatezza del trattamento previdenziale, deve essere
valutata nel suo complesso e non già con riguardo alle singole voci.
Inoltre, la norma censurata, che ha
inciso solo sull’assegno percepito dal ricorrente come capo dell’amministrazione
penitenziaria, non avrebbe in alcun modo compromesso l’autonomia e
l’indipendenza della magistratura.
4.– All’udienza pubblica, le parti hanno chiesto
l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle memorie scritte.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio,
con venti ordinanze, undici delle quali (iscritte al reg. ord.
2015 dal n. 220 al n. 230) emesse in giudizi promossi da consiglieri della
Corte dei conti, e nove (iscritte al reg. ord. 2016
dal n. 172 al n. 180) emesse in giudizi promossi da consiglieri di Stato di
nomina governativa, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma
489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità
2014)», in riferimento a molteplici parametri della Carta fondamentale.
La norma censurata vieta alle
amministrazioni e agli enti pubblici di erogare, a beneficio di soggetti già
titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali
pubbliche, trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento
pensionistico, superino il limite di 240.000,00 euro annui.
La disciplina include anche i vitalizi
fra i trattamenti pensionistici e si estende agli organi costituzionali, che ne
attuano i princìpi «nel rispetto dei propri ordinamenti».
Al limite in esame non sono assoggettati
«i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza».
Il giudice rimettente, disattese le
eccezioni di illegittimità costituzionale fondate sul contrasto con il
principio di affidamento e con l’art. 53 Cost., assume che la normativa, recata dalla legge n. 147 del
2013, vìoli il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Lo Stato, pur giovandosi del qualificato
apporto professionale dei consiglieri della Corte dei conti e del Consiglio di
Stato di nomina governativa, sceglierebbe irragionevolmente di
«auto-esonerarsi» dal pagamento della retribuzione, sol perché i giudici
designati già percepiscono un trattamento previdenziale in relazione a una
pregressa attività di lavoro.
Le censure si appuntano anche
sull’ingiustificata disparità di trattamento tra consiglieri vincitori di
concorso e consiglieri di nomina governativa: a parità di attribuzioni e
competenze, la norma censurata discriminerebbe i consiglieri di Stato e della
Corte dei conti di nomina governativa, esposti al rischio di non essere
retribuiti, in ragione del trattamento pensionistico ad altro titolo goduto,
rispetto ai consiglieri vincitori di concorso, regolarmente retribuiti.
Una disciplina così
congegnata lederebbe il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità
e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.),
poiché considera fungibili, in contrasto con il precetto costituzionale, «il
trattamento pensionistico per un’attività precedente e il compenso per
un’attività in atto, ove consentita nell’ambito dei diritti di libertà
garantiti dalla Costituzione».
La retribuzione non potrebbe
essere determinata in base all’ammontare della pensione maturata per una
precedente attività professionale, elemento privo di ogni attinenza con il
parametro della quantità e della qualità del lavoro svolto.
Il giudice rimettente
denuncia il contrasto con l’art. 38 Cost., in quanto la drastica riduzione o l’azzeramento della
contribuzione comprometterebbero la tutela assistenziale e previdenziale
garantita dall’ordinamento in rapporto alla retribuzione concretamente
percepita.
La normativa sospettata di
illegittimità costituzionale si porrebbe in contrasto anche con il buon
andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.),
poiché sarebbe all’origine di «una irragionevole organizzazione contraria al
buon andamento amministrativo mediante l’indifferenziato affidamento, a titolo
oneroso ovvero a titolo gratuito, di funzioni di dichiarata rilevanza, impegno
e delicatezza».
Nei giudizi instaurati dai
consiglieri di Stato di nomina governativa, il Tribunale rimettente, nel
recepire le eccezioni formulate dalle parti, ravvisa la violazione dell’art. 95
Cost., evocato congiuntamente con l’art. 97 Cost.: l’indirizzo politico-amministrativo del Governo, che
si esprime nella nomina dei consiglieri di Stato e della Corte dei conti e
nella scelta delle persone più idonee a ricoprire l’incarico, sarebbe «distolto
dal suo approdo più coerente e mortificato nella libertà della sua
esplicazione».
In tutte le ordinanze il
giudice rimettente prospetta, da ultimo, il contrasto con gli artt. 100, 101,
104 e 108 Cost., alla luce dell’incidenza della normativa censurata sulla
retribuzione spettante per l’esercizio della funzione giurisdizionale:
l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sarebbero presidiate anche per
quel che attiene al trattamento retributivo, e la Carta fondamentale, a tale
riguardo, precluderebbe ogni interferenza indebita.
2.– Il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, con l’ordinanza iscritta al n. 211 del
registro ordinanze 2016, dubita della legittimità costituzionale delle norme
riguardanti il "tetto retributivo” nel comparto pubblico, racchiuse nell’art.
23-ter del decreto-legge 6 dicembre
2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
22 dicembre 2011, n. 214, e nell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile
2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89.
Il Tribunale rimettente, adìto da un magistrato ordinario che era stato a capo
dell’amministrazione penitenziaria, censura le limitazioni al trattamento
economico annuo onnicomprensivo del personale, anche in regime di diritto
pubblico, che intrattenga rapporti di lavoro dipendente o autonomo con
pubbliche amministrazioni statali.
L’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011 pone come limite invalicabile, per gli emolumenti e le
retribuzioni a carico delle finanze pubbliche, il trattamento economico del
primo presidente della Corte di cassazione, oggi determinato in 240.000,00 euro
annui, al lordo di contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri
fiscali destinati a gravare sul dipendente (art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014).
Il giudice a quo argomenta che tale limitazione
riduce notevolmente «la remunerazione dell’esercizio della funzione di giudice
ordinario», in contrasto con l’art. 36 Cost., che prescrive la proporzione tra la retribuzione
corrisposta e la quantità e la qualità del lavoro prestato.
La disciplina restrittiva,
inoltre, produrrebbe una «corrispondente decurtazione del trattamento di fine
servizio e pensionistico». La riduzione della retribuzione sarebbe di ostacolo
alla «implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita
dall’ordinamento», in antitesi con il precetto di adeguatezza, consacrato dall’art.
38 Cost.
Un meccanismo di tal fatta
si risolverebbe in «una violazione del diritto al lavoro», tutelato dall’art. 4
Cost.
La scelta dello Stato di
avvalersi dell’apporto professionale del ricorrente e, in pari tempo, «di
auto-esonerarsi» dal pagamento della retribuzione, a dispetto dell’elevatissimo
«standard professionale raggiunto in ragione della delicatezza e dell’impegno
delle funzioni da svolgere», sarebbe «costituzionalmente irragionevole».
Ad avviso del giudice
rimettente, le ripercussioni della norma censurata sulla retribuzione minano le
garanzie di autonomia e di indipendenza della magistratura, estese anche al
trattamento retributivo.
3.– I giudizi, in quanto hanno ad oggetto
questioni inscindibilmente connesse e parametri costituzionali in larga parte
coincidenti, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
4.– Le questioni di legittimità
costituzionale, sollevate dai Tribunali rimettenti, non incorrono nei profili
di inammissibilità, segnalati dalle parti.
5.– La questione di legittimità
costituzionale, riguardante il cumulo tra pensioni e retribuzioni, non presenta
i profili di inammissibilità prospettati – in punto di rilevanza e di non
manifesta infondatezza – nelle memorie
di costituzione delle parti e nell’atto di intervento.
5.1.– È prioritario l’esame dell’eccezione
proposta dalle parti costituite nei giudizi di cui al reg. ord.
nn. 172, 173, 174, 175, 177,
178 e 180 del 2016.
All’esito di un articolato percorso
argomentativo, le parti pervengono alla conclusione che la norma censurata sia
inapplicabile e che operi la deroga prevista per i contratti e gli incarichi in
corso fino alla loro naturale scadenza.
L’assunto non può essere
condiviso.
L’esclusione della deroga,
sancita per i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale
scadenza, attiene al profilo della rilevanza della questione di legittimità
costituzionale.
Se operasse la deroga,
invocata dalle parti, non verrebbe in rilievo la disciplina restrittiva del
cumulo tra pensioni e retribuzioni e la questione di legittimità
costituzionale, sollevata dai Tribunali rimettenti, sarebbe irrilevante.
Trattandosi di profilo
inerente alla rilevanza, questa Corte non è chiamata a sindacare la fondatezza
delle diverse interpretazioni che si contendono il campo, ma soltanto a
valutare se sia implausibile la premessa ermeneutica
dalla quale muovono i giudici a quibus per avvalorare la rilevanza del dubbio di
legittimità costituzionale.
I giudici rimettenti muovono
dal presupposto che l’esenzione sancita per i contratti e gli incarichi in
corso abbia una portata precettiva precisa, circoscritta ai rapporti
intrinsecamente temporanei. La clausola non si applicherebbe, dunque, a un
rapporto di ufficio, tendenzialmente stabile e svincolato da un termine di
durata precostituito.
Quanto alla discriminazione
che tale lettura determinerebbe tra rapporti di ufficio e contratti e incarichi
temporanei, i giudici rimettenti si fanno carico delle obiezioni mosse dalle
parti e ritengono censurabile non già il più rigoroso regime previsto per i
rapporti di ufficio, ma la salvaguardia disposta dal legislatore per i
contratti e gli incarichi in corso, proprio in ragione dell’elemento distintivo
della loro temporaneità.
Per corroborare
l’interpretazione prescelta, essi pongono l’accento sull’accezione tecnica
puntuale della dizione "contratti e incarichi in corso”, che vale a
differenziarli rispetto al rapporto d’ufficio, assistito da peculiari garanzie
di stabilità.
Da questo angolo visuale, il
concetto di incarico, significativamente accostato al vocabolo "contratto”,
evocherebbe, anche secondo il significato proprio delle parole (art. 12 delle
preleggi), una prospettiva di temporaneità. La scadenza dell’incarico, indicata
nell’incarico stesso, differisce dalla durata massima legale di un rapporto di
ufficio, determinata in ragione dei limiti d’età di volta in volta stabiliti
dalla legge.
Alla luce di tale ampio
percorso ricostruttivo, motivato in modo esauriente e attento alle contrapposte
prospettazioni delle parti, non si può ritenere implausibile
la premessa ermeneutica dei giudici rimettenti, che fonda la motivazione sulla
rilevanza.
5.2.– Attengono al profilo della rilevanza
anche le eccezioni formulate dall’Istituto nazionale della previdenza sociale
(INPS), costituitosi nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 221, 222 e n. 228 del 2015.
L’ente previdenziale
sottolinea che l’accoglimento della questione non avrebbe alcun riflesso sui
giudizi a quibus,
in quanto i ricorrenti già percepiscono trattamenti previdenziali superiori al
limite previsto nel comparto pubblico e l’accoglimento della questione di
legittimità costituzionale non potrebbe apportare alcuna utilità concreta in
ordine all’ammontare del trattamento previdenziale percepito.
Neppure tale eccezione è
fondata.
Il nucleo delle censure
risiede nel fatto che i ricorrenti, proprio per effetto della disciplina
censurata, che impedisce di cumulare pensioni e retribuzioni a carico delle
finanze pubbliche oltre il tetto di 240.000,00 euro lordi annui, non beneficino
di alcuna retribuzione per le funzioni di consiglieri della Corte dei conti e
del Consiglio di Stato.
Le previsioni limitative
indicate intaccano la retribuzione per le funzioni attualmente svolte e non già
il trattamento previdenziale.
Ove il limite censurato
fosse rimosso, sarebbe possibile cumulare integralmente, così come auspicano i
ricorrenti, le pensioni già maturate e le retribuzioni per la funzione
giurisdizionale svolta.
Tali considerazioni
confermano la rilevanza della questione sollevata.
5.3.– L’Avvocatura generale dello Stato
eccepisce l’inammissibilità della questione sotto un diverso profilo, che
investe la natura manipolativa dell’intervento richiesto a questa Corte.
I giudici rimettenti, nel
porre in risalto il carattere indiscriminato del tetto tra pensioni e
retribuzioni, lamentano che il legislatore non abbia contemplato deroghe e
opzioni graduali, modulate anche sulla base dell’esercizio di funzioni più
limitate o retribuite in misura più esigua.
A dire dell’Avvocatura
generale dello Stato, le censure, nei termini in cui sono formulate, sconfinano
nello spazio riservato alla discrezionalità legislativa, chiamata a modulare la
disciplina e a graduarne gli effetti, se necessario attraverso la previsione di
ipotesi intermedie.
Anche quest’eccezione deve
essere disattesa.
I giudici rimettenti, pur
esplorando la praticabilità di una disciplina più flessibile, sollecitano a
questa Corte un intervento teso a dichiarare l’illegittimità costituzionale
della norma censurata e non a manipolarne il contenuto in modo non
costituzionalmente obbligato (in termini analoghi, sentenza n. 16 del
2017, punto 5.2. del Considerato in diritto).
5.4.– L’Avvocatura generale dello Stato
ravvisa un ulteriore profilo di inammissibilità nella carenza della motivazione
sulla non manifesta infondatezza, con riguardo alla violazione degli artt. 100,
101, 104 e 108 Cost.
Neppure tale eccezione può
essere accolta.
Le censure, formulate dai
giudici a quibus
in termini tutt’altro che assertivi e generici, sono suffragate dal richiamo
alla giurisprudenza di questa Corte (le sentenze n. 223 del
2012 e n. 1
del 1978), che ha approfondito i rapporti tra l’autonomia e indipendenza
della magistratura e la disciplina del trattamento retributivo.
6.– Anche la questione di legittimità
costituzionale del limite alle retribuzioni pubbliche, sollevata con
l’ordinanza iscritta al n. 221 del reg. ord. 2016, si
sottrae alle eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale
dello Stato.
6.1.– Quest’ultima ha eccepito, in primo
luogo, l’irrilevanza della questione proposta.
Il superamento del tetto
retributivo verrebbe in rilievo soltanto se si accertasse che al ricorrente
spetta un’indennità per il precedente ruolo di capo del dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria, ma il giudice a quo avrebbe tralasciato proprio la disamina di tale profilo.
Se il TAR rimettente,
all’esito dell’istruttoria, ritenesse legittima la soppressione dell’indennità,
non si applicherebbero i limiti retributivi, posti dall’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011.
L’eccezione non è fondata.
Dagli antecedenti di fatto,
ripercorsi dal giudice rimettente, si può evincere che il provvedimento
impugnato si fonda su molteplici ragioni, che attengono alla spettanza
dell’indennità di capo dell’amministrazione penitenziaria, oggetto di autonome
doglianze, e, in pari tempo, all’applicazione dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011.
Si deve concludere,
pertanto, che le questioni di legittimità riguardanti l’art. 23-ter,
e le successive specificazioni dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, rivestono natura pregiudiziale. Tali
norme sono il presupposto dei provvedimenti impugnati e devono essere
necessariamente applicate per decidere sul ricorso (sentenza n. 203 del
2016, punto 3. del Considerato in diritto).
Il percorso argomentativo
del giudice rimettente non può ritenersi implausibile,
poiché la norma censurata costituisce antecedente necessario per dirimere la
controversia.
6.2.– L’Avvocatura generale dello Stato
imputa al giudice rimettente di non aver motivato in modo esaustivo i dubbi di
legittimità costituzionale, limitandosi a richiamare, senza alcun vaglio
critico, gli argomenti delle ordinanze di rimessione, relative alla diversa
fattispecie del cumulo tra pensioni e retribuzioni.
L’eccezione non coglie nel
segno.
Il giudice a quo, pur prendendo le mosse dalle
precedenti ordinanze di rimessione in tema di cumulo tra retribuzioni e
pensioni, ha svolto a sostegno delle censure una motivazione autonoma e
adeguata, che sfugge ai rilievi di inammissibilità enunciati nell’atto di
intervento.
6.3.– Quanto alle lacune della motivazione
circa la non manifesta infondatezza per contrasto con gli artt. 100, 101, 104 e
108 Cost., i rilievi dell’Avvocatura generale dello
Stato devono essere disattesi, in virtù delle considerazioni già enunciate
nell’esame di un’eccezione analoga (retro
punto 5.4. del Considerato
in diritto).
Si deve ribadire, anche con
riguardo all’ordinanza di rimessione di cui al reg. ord.
n. 211 del 2016, che il giudice rimettente avvalora le censure con il richiamo
della pertinente giurisprudenza di questa Corte (le citate sentenze n. 223 del
2012 e n. 1
del 1978) e le illustra con argomenti che non possono definirsi
insufficienti o apodittici.
7.– Le questioni di legittimità
costituzionale, pertanto, possono essere scrutinate nel merito e in modo
unitario, poiché unitaria è la matrice delle norme censurate, pur nella
particolarità che le contraddistingue.
Esse non sono fondate.
8.– Occorre muovere, in via prioritaria,
dall’analisi della disciplina del limite massimo alle retribuzioni (artt. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011 e 13, comma 1, del d.l. n. 66 del
2014), censurata con l’ordinanza iscritta al n. 211 del reg. ord. 2016. Tale disciplina, difatti, rappresenta il
paradigma generale, cui ricondurre anche le previsioni in tema di cumulo tra
pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche.
8.1.– La disciplina del limite massimo, sia
alle retribuzioni nel settore pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e
pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere
ripartite in maniera congrua e trasparente.
8.2.– Il limite delle
risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a
scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango
costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.),
il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del
lavoro svolto e comunque idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa
(art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a
un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.),
il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Anche la disciplina del
cumulo tra pensioni e retribuzioni «interferisce con molteplici valori di rango
costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.),
il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all’effettivo stato di
bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la
solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro
(art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne
un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano»
(sentenza n. 241
del 2016, punto 5. del Considerato in diritto).
8.3.– Nel settore pubblico non è precluso al
legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra
retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i
diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole.
In tale ottica, si richiede
il rispetto di requisiti rigorosi, che salvaguardino l’idoneità del limite
fissato a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi
contrapposti. Il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve
tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro
prestato da chi esprime professionalità elevate.
8.4.– L’indicazione precisa di un limite
massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge con i princìpi appena
richiamati.
La disciplina in esame, pur
dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la
finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di
lungo periodo. Pertanto, la circostanza che la relazione tecnica non computi i
risparmi attesi non è di per sé sintomatica dell’irragionevolezza della norma.
Le molteplici variabili in
gioco precludono una valutazione preventiva ponderata e credibile. Non a caso,
nel dibattito parlamentare, che prelude all’approvazione dell’art. 23-ter del d.l.
n. 201 del 2011, si è attribuito alla norma censurata un impatto quantificabile
solo «a consuntivo».
L’impossibilità di
quantificare preventivamente la riduzione della spesa non implica, tuttavia,
l’insussistenza di tali effetti, da stimare nella lunga durata, e non
contraddice la ratio dell’intervento
normativo, volto a perseguire obiettivi di interesse generale.
In questa prospettiva si
deve considerare il vincolo di destinazione che il legislatore imprime alle
risorse derivanti dall’applicazione delle norme censurate, stabilendo che siano
destinate annualmente al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l.
n. 201 del 2011 e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente
a una contabilità speciale di tesoreria.
La disciplina del limite
alle retribuzioni pubbliche, peraltro, si configura come misura di contenimento
della spesa, assimilabile agli altri capillari interventi che il legislatore ha
scelto di apprestare negli àmbiti più disparati
(decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122; decreto-legge 6 luglio 2011,
n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11; decreto-legge
6 luglio 2012, n. 95, recante «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini», convertito, con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135; decreto-legge 24 aprile 2014,
n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89; decreto-legge
24 giugno 2014, n. 90, recante «Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114).
Tale contenimento della
spesa è avallato dalla Corte dei conti nella Relazione sul lavoro pubblico
dell’anno 2012. L’imposizione di un limite massimo alle retribuzioni pone
rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d’essere,
fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell’amministrazione.
Inoltre, sin dalle prime
applicazioni, riferibili all’art. 3, commi 43 e seguenti, della legge 24
dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», le disposizioni sui limiti
retributivi si affiancano ad obblighi penetranti di pubblicità degli incarichi.
Il contenimento della spesa non è mai perseguito quale fine in sé, ma in
concomitanza con obiettivi a più ampio spettro, che mirano a rendere
trasparente la gestione delle risorse pubbliche.
La disciplina oggi
scrutinata persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione
della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali
coinvolti, in presenza di risorse limitate.
8.5.– La non irragionevolezza delle scelte
del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che
si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti
gli apparati amministrativi (sentenza n. 153 del
2015, con riguardo all’imposizione di tale limite alle autonomie
territoriali).
Il limite retributivo, dapprima
riferito alle amministrazioni statali, in base all’art. 3, comma 43, della
legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2008)», ha via
via attratto nella sua orbita anche le pubbliche amministrazioni diverse da
quelle statali, le autorità amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e
475, della legge n. 147 del 2013), le società partecipate in via diretta o
indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del d.l. n.
66 del 2014).
Infine, a conferma di tale
linea evolutiva della legislazione, il limite massimo retributivo di 240.000
euro annui è stato esteso anche agli amministratori, al personale dipendente,
ai collaboratori e ai consulenti del soggetto affidatario della concessione del
servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione
professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198, recante «Istituzione
del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e deleghe al
Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il
settore dell’editoria e dell’emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina
di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle
competenze del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. Procedura per
l’affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e
multimediale»).
L’elemento della valenza
generale è stato già considerato da questa Corte di importanza dirimente nel
vaglio di altre misure (sentenze n. 178 del
2015 e n.
310 del 2013).
La portata generale della
disciplina, che non si indirizza specificamente alla magistratura, quale
«ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.), e non mira a delinearne il rapporto con lo Stato
nei termini di una mera dialettica contrattuale o a compromettere le garanzie
di una retribuzione adeguata all’importanza della funzione svolta (sentenza n. 223 del
2012), fa perdere consistenza alle censure di violazione dell’autonomia e
dell’indipendenza della funzione giurisdizionale.
A fronte di una disciplina
che persegue obiettivi generali di razionalizzazione dell’intero comparto
pubblico e individua il limite ai compensi nella retribuzione del Primo
Presidente della Cassazione, non si ravvisa alcuna indebita interferenza con
l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, presidiate dalla Carta
fondamentale anche per quel che attiene agli aspetti retributivi (sentenza n. 1 del
1978).
8.6.– Tale limite, costante sin dagli esordi
delle discipline restrittive – art. 1, comma 593, della legge 27 dicembre 2006,
n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2007)» – è oggi ancorato a un
parametro fisso (240.000 euro annui), svincolato dal mutevole cursus honorum della persona chiamata di
volta in volta a ricoprire la carica di Primo Presidente. La conformazione
della disciplina, che supera l’aleatorietà di un parametro imprevedibile,
rivela l’intenzione del legislatore di porre un limite generale, conoscibile ex ante, tale da assicurare una
sollecita – e tendenzialmente stabile – pianificazione delle risorse.
Il limite, così previsto dal
legislatore, non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una
carica di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali
caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l’apporto
professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra
retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con
riguardo alle prestazioni più elevate.
Nell’esercizio della sua
discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole
contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro
prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del
complessivo andamento della spesa pubblica e dell’economia.
9.– Neppure le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 sono
fondate.
9.1.– La non irragionevolezza delle scelte
operate dal legislatore si riscontra anche con riguardo alla disciplina del
cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, che
rappresenta lo sviluppo della disciplina del limite retributivo fin qui
esaminata.
La norma in esame si
armonizza con altre misure di contenimento dei trattamenti economici nel
settore pubblico e si contraddistingue per la particolare latitudine. Essa si rivolge alla vasta categoria delle
amministrazioni inserite nell’elenco ISTAT e menziona anche gli organi
costituzionali, chiamati ad attuarla nel rispetto dei propri ordinamenti.
Dal punto di vista
oggettivo, la norma censurata include tutte le pensioni erogate nell’àmbito di
gestioni previdenziali obbligatorie, gli stessi vitalizi e tutte le voci del
trattamento economico (stipendi, altre voci del trattamento fondamentale,
indennità, voci accessorie, eventuali remunerazioni per consulenze, incarichi o
collaborazioni a qualsiasi titolo conferiti a carico di uno o più organismi o
amministrazioni enumerati nell’elenco ISTAT).
Qualora il limite di
240.000,00 euro annui sia superato, la riduzione dovrà essere operata
dall’amministrazione che eroga il trattamento economico e non
dall’amministrazione che si occupa del trattamento previdenziale.
Le censure si incentrano
sulla violazione dell’art. 36 Cost., che determinerebbe, di riflesso, una violazione anche
dell’art. 38 Cost. In questa prospettiva, il
contrasto con il principio di ragionevolezza, di buon andamento
dell’amministrazione, la lesione del diritto al lavoro, il vulnus all’autonomia e all’indipendenza della magistratura,
corroborano tale censura, che rappresenta il fulcro delle argomentazioni delle
ordinanze di rimessione pervenute a questa Corte.
9.2.– Anche con riguardo al cumulo tra
retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, il legislatore è
chiamato a garantire una tutela sistemica, non frazionata, dei valori
costituzionali in gioco. In questo orizzonte si colloca anche il principio di
proporzionalità tra la retribuzione e la quantità e la qualità del lavoro
prestato.
È pur vero che può
corrispondere ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità
particolarmente qualificate, che già fruiscono di un trattamento pensionistico.
Tuttavia, il carattere
limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una
predeterminazione complessiva – e modellata su un parametro prevedibile e certo
– delle risorse che l’amministrazione può corrispondere a titolo di
retribuzioni e pensioni.
Tale ratio ispira, del resto, anche le disposizioni dell’art. 5, comma
9, del d.l. n. 95 del 2012, che vietano
l’attribuzione di incarichi di studio o di consulenza ai lavoratori pubblici o
privati collocati in quiescenza e a tali lavoratori consente di ricoprire
incarichi dirigenziali o direttivi o in organi di governo delle amministrazioni
solo a titolo gratuito.
Il principio di proporzionalità
della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto deve essere
valutato, dunque, in un contesto peculiare, che non consente una considerazione
parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico.
Inquadrata in queste più
ampie coordinate e ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla
retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, la norma censurata
attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non
sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla
quantità e alla qualità del lavoro svolto.
9.3.– Anche le censure, prospettate con
riguardo agli ulteriori profili, sono prive di fondamento.
L’assetto prefigurato dal
legislatore con la legge di stabilità 2014 è tale da non sacrificare in misura
arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro del pensionato, libero di
esplicarsi nelle forme più convenienti.
La disciplina censurata non
compromette l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, in virtù della
portata generale che la contraddistingue, e non ingenera di per sé arbitrarie
discriminazioni tra i consiglieri di Stato e della Corte dei conti di nomina
governativa e i consiglieri per concorso, alla luce degli argomenti già
illustrati nell’esame delle questioni inerenti al limite retributivo.
Dal thema decidendum, sottoposto al vaglio di
questa Corte, esulano i profili di irragionevolezza della disciplina della
rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati, denunciati dalle parti costituite
nei giudizi di cui al reg. ord. nn. 172, 173, 174, 175, 177, 178 e 180 del 2016. Si
tratta, invero, di aspetti ulteriori rispetto a quelli censurati nelle
ordinanze di rimessione, che circoscrivono il thema decidendum devoluto all’esame di questa
Corte, e peraltro estranei al tema controverso nei giudizi principali, che non
riguarda la responsabilità civile dei giudici ricorrenti.
9.4.– Nulla esclude che il legislatore, in un
quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, prefiguri
soluzioni diverse e moduli in senso più duttile il cumulo tra pensioni e
retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo
della spesa, con una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo delle
discipline restrittive oggi sottoposte allo scrutinio di questa Corte.
riuniti i giudizi,
1) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.
201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011,
n. 214, e dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66
(Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con
modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, sollevata dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38,
100, 101, 104 e 108 della Costituzione, con l’ordinanza iscritta al n. 211 del
registro ordinanze 2016;
2) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma
489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità
2014)», sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in
riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., con le ordinanze iscritte ai numeri da 220 a 230 del
registro ordinanze 2015 e ai numeri da 172 a 180 del registro ordinanze 2016.
F.to:
Giorgio
LATTANZI, Presidente
Silvana
SCIARRA, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 26 maggio 2017.