SENTENZA N. 159
ANNO 2009
Commenti alla
decisione di
I. Elena Stradella, La
tutela delle minoranze linguistiche storiche tra Stato e Regioni davanti alla
Corte costituzionale (per
gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
II. Roberto Toniatti,
Pluralismo
sostenibile e interesse nazionale all’identità linguistica posti a fondamento
di "un nuovo modello di riparto delle competenze” legislative fra Stato e
Regioni (per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
III. Francesco Palermo, La
Corte "applica” il Titolo V alle minoranze linguistiche e chiude alle Regioni
(per gentile concessione dell’AIC – Associazione
Italiana dei Costituzionalisti)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
-
Francesco AMIRANTE Presidente
- Paolo MADDALENA "
-
Alfio FINOCCHIARO "
-
Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino
CASSESE "
- Maria Rita
SAULLE "
- Giuseppe
TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
-
Alessandro CRISCUOLO "
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5,
12, comma 3, 14, commi 2 e 3, e 18, comma 4, della legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela,
valorizzazione e promozione della lingua friulana), promosso dal Presidente del
Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 febbraio 2008, depositato in cancelleria il 28 febbraio 2008
ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2008.
Visto
l’atto di costituzione della
Regione Friuli-Venezia Giulia;
udito nell’udienza pubblica del 10 febbraio 2009 il
Giudice relatore Ugo De Siervo, sostituito per la
redazione della sentenza dal Giudice Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato dello Stato Filippo Capece
Minutolo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico
Falcon per
Ritenuto
in fatto
1. – Con ricorso notificato il 25
febbraio 2008 e depositato il successivo 28 febbraio, il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 6,
comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, 14, commi 2 e 3,
e 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre
2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua
friulana), pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Friuli-Venezia
Giulia n. 52 del 27 dicembre
Per il ricorrente la legge
regionale n. 29 del 2007 eccede, sotto diversi profili, la competenza
legislativa attribuita alla Regione Friuli-Venezia Giulia dall’art. 3 dello statuto
speciale, che contempla la tutela delle minoranze linguistiche presenti nella
Regione, e dal decreto legislativo 12 settembre 2002, n. 223 (Norme di
attuazione dello statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia per il
trasferimento di funzioni in materia di tutela della lingua e della cultura
delle minoranze linguistiche storiche nella regione), il quale demanda alla
legislazione regionale l’attuazione delle disposizioni della legge 15 dicembre
1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche): una «legge quadro», quest’ultima, dettata, come ripetutamente
sottolineato nel ricorso, «in attuazione dell’art. 6 della Costituzione».
1.1. – Il ricorrente ritiene, in
particolare, che gli artt. 6, comma 2, e 8, commi 1 e 3, della legge regionale
n. 29 del 2007, nel prevedere un obbligo generale per gli uffici dell’intera
Regione – operante anche nelle aree escluse dal territorio di insediamento del
gruppo linguistico friulano (delimitato ai sensi dell’art. 3 della stessa legge)
– di rispondere in friulano «alla generalità dei cittadini» che si avvalgano
del diritto di usare tale lingua e di redigere anche in friulano gli atti
comunicati «alla generalità dei cittadini», nonché di effettuare in tale lingua
la comunicazione istituzionale e la pubblicità, contrasterebbero con l’art. 9,
comma 1, della legge n. 482 del 1999, che circoscrive l’uso della lingua
minoritaria nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico.
1.2. – La seconda censura proposta
riguarda l’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007 che,
testualmente, dispone: «le modalità per garantire la traduzione a coloro che
non comprendono la lingua friulana sono disciplinate dagli enti di cui ai commi
1 e 2 con disposizioni dei piani di politica linguistica di cui all’art. 27,
nel cui ambito può essere prevista la ripetizione degli interventi in lingua
italiana ovvero il deposito contestuale dei testi tradotti in forma scritta».
Per la parte ricorrente, l’impugnata disposizione, nel prevedere una mera
facoltà quanto alla «ripetizione degli interventi in lingua italiana»,
violerebbe l’art. 6 Cost. e l’art. 7 della legge n. 482 del 1999, il quale, ai
commi 3 e 4, statuisce che «qualora uno o più componenti degli organi
collegiali di cui ai commi 1 e 2 dichiarino di non conoscere la lingua ammessa
a tutela, deve essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana» e
«qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due lingue,
producono effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni redatti in lingua
italiana». Risulterebbe violato anche l’art. 8 della legge n. 482 del 1999, il
quale, con riferimento alla possibilità per il Consiglio comunale di pubblicare
atti nella lingua ammessa a tutela, fa tuttavia salvo «il valore esclusivo
degli atti nel testo redatto in lingua italiana».
1.3.
– Il ricorrente impugna anche l’art. 11, comma 5, della legge regionale n. 29
del 2007, che prevede che gli enti locali possono stabilire di adottare l’uso
dei toponimi bilingui o di toponimi nella sola lingua friulana e che la
denominazione prescelta diviene la denominazione ufficiale a tutti gli effetti.
La disposizione citata violerebbe gli artt. 1, comma 1, e 10 della legge n. 482
del 1999, che rispettivamente dispongono, il primo, che «la lingua ufficiale
della Repubblica è l’italiano», e, il secondo, che nei Comuni di insediamento
della minoranza linguistica «i consigli comunali possono deliberare l’adozione
di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi» solo «in aggiunta ai toponimi
ufficiali». La contestata disposizione risulterebbe altresì incompatibile con
l’art. 3, secondo comma, Cost. «per evidente violazione del principio del
rispetto della eguaglianza dei cittadini del nostro Paese».
1.4.
– Tra le norme oggetto di impugnazione figura anche l’art. 12, comma 3,
riguardante l’apprendimento scolastico della lingua minoritaria, che, a parere
del Presidente del Consiglio, prevede un meccanismo simile al cosiddetto
silenzio-assenso laddove dispone che «al momento dell’iscrizione i genitori o
chi ne fa le veci, previa adeguata informazione, su richiesta scritta
dell’istituzione scolastica, comunicano alla stessa la propria volontà di non
avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana». In tal modo si
determinerebbe un’imposizione alle istituzioni scolastiche di impartire tale
insegnamento, violando i principi dell’autonomia organizzativa e didattica
delle istituzioni scolastiche di cui all’art. 21, commi 8 e 9, della legge 15
marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti
alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e
per la semplificazione amministrativa); in secondo luogo, la censurata
disposizione violerebbe l’art. 4 della legge n. 482 del 1999, che, nel
prevedere l’insegnamento della lingua minoritaria nei Comuni di insediamento
della minoranza, ne demanda all’autonomia scolastica i tempi e le metodologie
di svolgimento e che, al comma 5, prevede che la manifestazione di volontà da
parte dei genitori consista nell’assenso alla frequenza dell’insegnamento. La
disposizione impugnata, nel porre a carico dei genitori l’onere di comunicare
la volontà di non avvalersi dell’insegnamento della lingua minoritaria
violerebbe altresì l’art. 3 Cost., configurando un regime di obbligatorietà che
può interrompersi solo con la richiesta di esonero.
1.5.
– La parte ricorrente impugna anche l’art. 14, commi 2 e 3, della legge
regionale n. 29 del 2007, nelle parti in cui dispone che l’insegnamento della
lingua friulana sia garantito per almeno un’ora alla settimana per la durata
dell’anno scolastico (comma 2) e che nella programmazione dell’insegnamento
della lingua friulana siano comprese le modalità didattiche che assumono come
modello di riferimento il metodo basato sull’apprendimento veicolare integrato
delle lingue (comma 3), in quanto, contrastando con i principi dell’autonomia
scolastica, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che esclude dalla
competenza concorrente regionale «l’autonomia delle istituzioni scolastiche».
Violazione che, a giudizio del Presidente del Consiglio, si verifica anche se,
rispetto a quanto prevede l’art. 6, n. 1, dello statuto della Regione
Friuli-Venezia Giulia, che attribuisce solo una competenza integrativa in
materia di istruzione, si applica il disposto dell’art. 10 della legge
costituzionale n. 3 del 2001, a favore
delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, per le parti in cui
la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione prevede forme
più ampie di autonomia.
La norma citata, infatti,
imporrebbe alle istituzioni scolastiche tempi e modi di insegnamento, ponendosi
in tal modo in contrasto con i principi dell’autonomia organizzativa e
didattica delle istituzioni scolastiche di cui all’art. 21, commi 8 e 9, della
legge n. 59 del 1997 e con quanto disposto dall’art. 4 della legge n. 482 del
1999, che, nel prevedere l’insegnamento della lingua minoritaria nei Comuni di
insediamento della minoranza, rinvia a tali principi circa i tempi e le
metodologie di svolgimento dell’insegnamento. In particolare – aggiunge la
difesa erariale – il comma 3 dell’art. 14 presenterebbe «evidenti criticità,
posto che la sua finalità consiste nel voler imprimere alla lingua friulana il
carattere di "lingua veicolare”».
1.6.
– Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che l’art. 18, comma
4, della legge regionale n. 29 del 2007, nella parte in cui dispone che «
2. – Con atto depositato il 21
marzo 2008 si è costituita nel presente giudizio
La difesa regionale ritiene
necessario delineare il quadro normativo entro il quale si colloca la legge
regionale n. 29 del 2007.
Premette la resistente che l’art.
6 Cost., quanto alla tutela delle minoranze linguistiche, non configura una
vera materia bensì un compito che spetta a tutte le componenti della
Repubblica, nell’esercizio delle competenze loro spettanti. Questo compito
spetta a maggior ragione alla Regione Friuli-Venezia Giulia, il cui statuto
speciale, invero, stabilisce che «nella Regione è riconosciuta parità di
diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo
linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive
caratteristiche etniche e culturali» (art. 3).
Lo stesso legislatore statale ha
inserito la lingua friulana tra quelle protette; in particolare la legge
statale n. 482 del 1999, emanata in attuazione dell’art. 6 Cost., ha demandato
alla Repubblica il compito di tutelare «la lingua e la cultura delle
popolazioni» parlanti (tra le altre lingue) «il friulano» (art. 2).
Di recente, prosegue la difesa
regionale, in relazione anche all’attribuzione alle Regioni speciali di
competenza legislativa concorrente in materia di istruzione (art. 117, terzo
comma, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge costituzionale n.
3 del 2001), è stato emanato il d.lgs. n. 223 del 2002, il cui art. 1, comma 2,
dispone che
Al riguardo,
Più in generale, la difesa della
Regione, pur ammettendo che nel suo complesso la legge n. 482 del 1999 possa
considerarsi attuativa dell’art. 6 Cost., nondimeno esclude che essa ne
rappresenti «la sola legittima attuazione», tanto che la stessa legge regionale
n. 29 del 2007 si dichiara attuativa del succitato art. 6 Cost.
Tutto ciò premesso, la resistente
sviluppa le proprie difese in relazione ai singoli vizi d’incostituzionalità
contestati dal ricorrente.
2.1.
– Per quanto attiene alle censure mosse nei confronti degli artt. 6, comma 2, e
8, commi 1 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007, la difesa regionale
ritiene che tali disposizioni, stabilendo che «è consentito, negli uffici delle
amministrazioni pubbliche, l’uso orale e scritto della lingua ammessa a
tutela», si limitano a prevedere un diritto delle persone interessate all’uso
della lingua, definendone l’ambito di applicazione, in una materia quale quella
dell’organizzazione amministrativa regionale e dell’organizzazione degli enti
locali di sua competenza legislativa esclusiva (art. 4, n. 1 e n. 1-bis dello statuto).
In tal senso la difesa regionale richiama le
affermazioni di questa Corte secondo le quali nel dare attuazione all’art. 6
Cost. «il legislatore dispone […] di un ambito di apprezzamento che
Pertanto, a parere della difesa
regionale, le impugnate disposizioni non avrebbero leso i diritti dei soggetti
non appartenenti alla minoranza linguistica (dato che restano fermi l’uso ed il
valore della lingua italiana) e non avrebbero imposto oneri organizzativi
irragionevoli. Infatti, l’art. 6, comma 2, riguarderebbe solo
2.2. – In merito all’art. 9, comma
3, della legge regionale n. 29 del 2007, la parte resistente sostiene che la
norma si limita ad indicare due possibili modalità per garantire la traduzione
a coloro che non comprendono la lingua friulana, dettando regole applicative
per raggiungere l’obiettivo fissato dallo stesso art. 7, comma 3, della legge
n. 482 del
La disposizione sottoposta a
scrutinio, poi, non interferirebbe in alcun modo con la disciplina degli
effetti giuridici e del valore legale degli atti, oggetti in relazione ai quali
essa non stabilisce alcunché.
2.3. –
Inoltre, al fine di confutare
l’affermazione della parte ricorrente secondo la quale per i Comuni interessati
l’uso della sola denominazione friulana costituirebbe una eccezione priva di
riscontro nell’ordinamento di altre Regioni, la resistente obietta che, sin dal
1976,
Ad avviso della resistente,
dunque, la censurata disposizione non contrasterebbe con l’art. 1, comma 1,
della legge n. 482 del
Del resto lo stesso art. 10 della
legge n. 482 del 1999, che consente ai Comuni di insediamento delle minoranze
di deliberare «in aggiunta ai toponimi ufficiali», l’adozione «di toponimi
conformi alle tradizioni e agli usi locali» non proibirebbe affatto all’ente
competente («e
2.4.
– Con riferimento all’impugnazione dell’art. 12, comma 3, della legge regionale
n. 29 del
Quanto, poi, alla posizione dei
genitori, la disposizione impugnata non prevederebbe
affatto un regime di obbligatorietà, ma si limiterebbe ad introdurre una
«modesta variante» alla disciplina di cui al succitato art. 4, comma
La nuova disposizione sarebbe
pienamente legittimata dalla potestà concorrente regionale in materia di
istruzione e più specificamente anche dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 223
del
Pertanto il richiamo ai principi
dell’autonomia scolastica e di eguaglianza non sarebbe pertinente, così come
non lo sarebbe l’invocato art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che si
occupa delle modalità di insegnamento e non di quelle afferenti alla scelta
rimessa ai genitori.
2.5.
– In ordine alla doglianza relativa all’art. 14, commi 2 e 3, della legge
regionale n. 29 del 2007,
Questa opzione, per la difesa
regionale, «non rappresenta né una stravaganza del legislatore regionale né una
sua scelta autonoma», trovando il suo fondamento già nella legge statale.
L’art. 4, comma 1, della legge n. 482 del 1999 stabilisce, infatti, che «nelle
scuole materne dei Comuni di cui all’art. 3, l’educazione linguistica prevede,
accanto all’uso della lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza
per lo svolgimento delle attività educative», e che «nelle scuole elementari e
nelle scuole secondarie di primo grado è previsto l’uso anche della lingua
della minoranza come strumento di insegnamento». Dunque, non vi sarebbe alcuna
compressione dell’autonomia scolastica limitandosi, la disposizione in esame,
ad indicare un «modello di riferimento» identico a quello della legge statale.
Peraltro, l’indicazione di un modello di riferimento sarebbe legittimata sia
dalla potestà legislativa concorrente in materia di istruzione che dal già
citato art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 223 del 2002, restando, invece, ferma
l’autonomia delle scuole per la scelta del metodo didattico.
Quanto al comma 2 dell’art. 14,
esso si limiterebbe a fissare una durata minima per l’insegnamento del
friulano, restando alle scuole la possibilità di definire in dettaglio «i tempi
e le metodologie» dell’insegnamento, come risulta dall’art. 4 della legge n.
482 del 1999.
2.6. – La censura avente per
oggetto l’art. 18, comma 4, sarebbe, ad avviso della resistente, infondata per
le ragioni già esposte in relazione agli articoli 6, comma 2, e 8, commi 1 e
3. – In prossimità dell’udienza
pubblica,
Al
fine di dimostrare l’infondatezza della doglianza, la difesa regionale richiama
l’art. 19 della legge della Provincia autonoma di Trento 19 giugno 2008, n. 6
(Norme di tutela e promozione delle minoranze linguistiche locali), il quale,
al comma 3, prevede che «il repertorio dei toponimi […] comprende per le
singole località la denominazione in lingua minoritaria e la corrispondente
denominazione in lingua diversa da quella di minoranza della quale si renda
opportuno il mantenimento in quanto diffusamente conosciuta a livello nazionale
o internazionale». Il successivo comma 5 – prosegue la resistente – dispone che
gli enti di cui al comma 1, «adeguano la toponomastica di loro competenza ai
contenuti del relativo repertorio». Il comma 6, dal canto suo, stabilisce che
«fatte salve le denominazioni dei Comuni, le indicazioni e le segnalazioni
relative a località e toponimi di minoranza sono di regola espresse nella sola
denominazione ladina, mòchena o cimbra. Possono
essere redatte anche nel corrispondente nome italiano, se questo è registrato
nel rispettivo repertorio dei toponimi, con pari dignità grafica».
Le discipline adottate nella
Provincia autonoma di Bolzano, nella Regione Valle d’Aosta e nel comprensorio
ladino della Val di Fassa nella Provincia autonoma di Trento dimostrerebbero –
conclude la resistente – che, in materia di toponomastica, sia possibile
seguire indifferentemente il criterio del bilinguismo ovvero del monolinguismo.
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale degli articoli 6, comma 2, 8, commi 1 e
3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, 14, commi 2 e 3, e 18, comma 4, della
legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007 n. 29 (Norme per la
tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), in riferimento agli
articoli 3, 6, 117, terzo comma, della Costituzione, all’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione), ed agli articoli 3 e 6, n. 1), della legge costituzionale
31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).
Per il ricorrente
la legge regionale n. 29 del 2007 eccede, sotto diversi profili, la competenza
legislativa attribuita alla Regione Friuli-Venezia Giulia dall’art. 3 dello
statuto speciale, che contempla la tutela delle minoranze linguistiche presenti
nella Regione, e dal decreto legislativo 12 settembre 2002, n. 223 (Norme di
attuazione dello statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia per il
trasferimento di funzioni in materia di tutela della lingua e della cultura
delle minoranze linguistiche storiche nella regione), il quale demanda alla
legislazione regionale l’attuazione delle disposizioni della legge 15 dicembre
1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche). Per molteplici motivi le disposizioni censurate si porrebbero in
contrasto con quelle contenute in tale ultima legge, assunte come parametri
interposti.
In particolare, l’art. 6, comma 2, e
l’art. 8, commi 1 e 3, nel prevedere un obbligo generale per gli uffici
dell’intero sistema regionale, esteso anche alle aree escluse dal territorio di
insediamento del gruppo linguistico friulano, di rispondere in friulano «alla
generalità dei cittadini» che si avvalgono del diritto di usare tale lingua e
di redigere anche in friulano gli atti comunicati «alla generalità dei
cittadini», nonché di effettuare in tale lingua la comunicazione istituzionale
e la pubblicità, contrasterebbero con l’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del
1999, che circoscrive l’uso della lingua minoritaria nei soli Comuni di
insediamento del relativo gruppo linguistico.
L’art. 9, comma 3, nel prevedere, in
ordine all’attività svolta in seno agli organi collegiali, di cui ai precedenti
commi 1 e 2, una mera facoltà della «ripetizione degli interventi in lingua
italiana» ovvero del «deposito contestuale dei testi tradotti in forma
scritta», violerebbe l’art. 7 della legge n. 482 del 1999, il quale, ai commi 3
e 4, statuisce che «qualora uno o più componenti degli organi collegiali di cui
ai commi 1 e 2 dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela, deve
essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana» e «qualora gli
atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due lingue, producono
effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni redatti in lingua italiana».
La censurata previsione contrasterebbe, inoltre, con l’art. 8 della legge n.
482 del 1999, il quale, prevedendo la possibilità per il Consiglio comunale di
pubblicare atti nella lingua ammessa a tutela, fa tuttavia salvo «il valore
esclusivo degli atti nel testo redatto in lingua italiana».
L’art. 11, comma 5, contemplando anche
l’utilizzazione di toponimi «nella sola lingua friulana», violerebbe l’art. 1,
comma 1, della legge n. 482 del 1999, per il quale «la lingua ufficiale della
Repubblica è l’italiano», nonché l’art.
10 della stessa legge, il quale dispone che nei Comuni di insediamento della
minoranza linguistica «i consigli comunali possono deliberare l’adozione di
toponimi conformi alle tradizioni e agli usi», ma solo «in aggiunta ai toponimi
ufficiali». La contestata disposizione risulterebbe altresì incompatibile con
l’art. 3, secondo comma, della Costituzione.
L’art. 12, comma 3, stabilendo che
al momento dell’iscrizione scolastica «i genitori o chi ne fa le veci, previa
adeguata informazione, su richiesta scritta dell’istituzione scolastica,
comunicano alla stessa la propria volontà di non avvalersi dell’insegnamento
della lingua friulana», determinerebbe innanzitutto un’imposizione alle
istituzioni scolastiche di impartire tale insegnamento, violando in tal modo i
principi dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche
e così ponendosi in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. e con l’art.
21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma
della Pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa). In
secondo luogo, la censurata disposizione violerebbe l’art. 4 della legge n. 482
del 1999, che demanda all’autonomia scolastica i tempi e le metodologie di
svolgimento delle attività didattiche e che, al comma 5, prevede che la
manifestazione di volontà da parte dei genitori consista nell’assenso alla
frequenza dell’insegnamento. La medesima disposizione legislativa regionale,
configurando un regime di obbligatorietà che può interrompersi solo con la
richiesta di esonero, contrasterebbe altresì con l’art. 3 Cost.
L’art. 14, ai commi 2 e 3,
stabilendo che l’insegnamento della lingua friulana sia garantito per almeno
un’ora alla settimana per la durata dell’anno scolastico e che nella
programmazione dell’insegnamento della lingua friulana siano comprese modalità
didattiche che assumano come modello di riferimento il metodo basato
sull’apprendimento veicolare integrato delle lingue, pretenderebbe di imporre
alle istituzioni scolastiche tempi e modi di insegnamento, ponendosi in tal
modo in contrasto con i principi dell’autonomia organizzativa e didattica delle
istituzioni scolastiche e con quanto disposto dall’art. 4 della legge n. 482
del 1999, che, nel prevedere l’insegnamento della lingua minoritaria nei Comuni
di insediamento della minoranza, rinvia a tali principi circa i tempi e le
metodologie di svolgimento dell’insegnamento. In particolare la disposizione
regionale contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost., che esclude dalla
competenza concorrente regionale «l’autonomia delle istituzioni scolastiche»:
ciò in virtù della clausola di equiparazione di cui all’art. 10 della legge
costituzionale n. 3 del 2001 (da applicarsi alla Regione Friuli-Venezia Giulia
che, ai sensi dell’art. 6, numero 1, dello statuto speciale ha, in materia di
istruzione, competenza integrativa).
L’art. 18, comma 4, che legittima
2. – Lo scrutinio delle diverse
censure prospettate nel ricorso presuppone
una ricostruzione del quadro costituzionale e legislativo entro cui si
colloca la legge regionale n. 29 del 2007.
2.1. – Questa Corte ha più volte
affermato che la tutela delle minoranze linguistiche costituisce principio
fondamentale dell’ordinamento costituzionale (sentenze n. 15 del 1996, n. 261 del 1995
e n. 768 del
1988). Più precisamente, «tale principio, che rappresenta un superamento
delle concezioni dello Stato nazionale chiuso dell’ottocento e un rovesciamento
di grande portata politica e culturale, rispetto all’atteggiamento
nazionalistico manifestato dal fascismo, è stato numerose volte valorizzato
dalla giurisprudenza di questa Corte, anche perché esso si situa al punto di
incontro con altri principi, talora definiti "supremi”, che qualificano
indefettibilmente e necessariamente l’ordinamento vigente (sentenze n. 62 del 1992,
n. 768 del 1988,
n. 289 del 1987
e n. 312 del
1983): il principio pluralistico riconosciuto dall’art. 2 – essendo la
lingua un elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare
– e il principio di eguaglianza riconosciuto dall’art. 3 della Costituzione, il
quale, nel primo comma, stabilisce la pari dignità sociale e l’eguaglianza di
fronte alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di lingua e, nel
secondo comma, prescrive l’adozione di norme che valgano anche positivamente
per rimuovere le situazioni di fatto da cui possano derivare conseguenze
discriminatorie» (sentenza
n. 15 del 1996).
Oltre a questo, alcuni statuti
speciali dettano esplicite
disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche. Le discipline contenute
negli statuti della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4) e del
Trentino-Alto Adige/Südtirol (decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto
1972, n. 670) recano numerose previsioni, configurando due differenziati modelli di tutela delle minoranze linguistiche
principali (bilinguismo assoluto o totale nella Regione Valle d’Aosta;
separatismo linguistico nella Regione Trentino-Alto Adige), in aggiunta ad
alcune speciali disposizioni poste a presidio di altri gruppi linguistici
minoritari ivi presenti. In quest’ambito, in entrambi i suddetti statuti vi è
anche l’affermazione che la lingua italiana è la lingua ufficiale della
Repubblica (rispettivamente art. 38
e art. 99).
Dal
canto suo, l’art. 3 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia dispone che
«è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini,
qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia
delle rispettive caratteristiche etniche e culturali».
2.2. – A questo significativo
quadro di principi e di disposizioni di rango costituzionale corrisponde una
normativa internazionale che si è sviluppata ed articolata nel tempo.
Se nei testi più risalenti, come
Di questa fase innovativa sono
significativi esempi la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
del 18 dicembre 1992 (Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle
minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche) ed in particolare
Lo Stato italiano non ha, ad oggi,
provveduto a ratificare
Particolarmente significativa si
rivela l’affermazione contenuta
nell’art. 1 della Sezione I della suddetta Convenzione-quadro, a mente della
quale «la protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà
delle persone appartenenti a queste minoranze è parte integrante della protezione
internazionale dei diritti dell’uomo e in quanto tale rientra nella portata
della cooperazione internazionale». La stessa non solo impegna le Parti
contraenti a garantire pienamente l’esercizio delle libertà civili agli
appartenenti alle minoranze nazionali, ma contiene – tra l’altro – disposizioni
sulla libera utilizzazione della lingua minoritaria in privato ed in pubblico,
sul suo uso in caso di procedure penali, sulla sua utilizzazione per i nomi
personali e le insegne private, sul suo insegnamento nel sistema della pubblica
istruzione.
Essa prevede, altresì, nella
Sezione II, che «nelle zone geografiche dove persone appartenenti a minoranze
nazionali sono insediate per tradizione o in numero sostanziale, qualora tali
persone ne facciano richiesta e sempre [che] la richiesta corrisponda ad una
effettiva esigenza, le Parti faranno in modo di realizzare per quanto possibile
le condizioni che consentano di utilizzare la lingua minoritaria nelle
relazioni tra queste persone e le autorità amministrative» (art. 10, comma 2) e
che, sempre in tali zone, le Parti contraenti
«nell’ambito del loro sistema legislativo […] in considerazione delle
loro specifiche condizioni, faranno ogni sforzo per affiggere anche nella
lingua minoritaria le denominazioni tradizionali locali, i nomi delle strade e
le altre indicazioni topografiche destinate al pubblico qualora vi sia una
domanda sufficiente per tali indicazioni» (art. 11, comma 3).
2.3. – Come ricordato in
precedenza, la giurisprudenza di questa Corte, se da tempo ha affermato che «
Pur garantendo comunque «una tutela minima, immediatamente operativa, sottratta alla
vicenda politica e direttamente determinabile attraverso la interpretazione
costituzionale dell’ordinamento», il principio consacrato nell’art. 6 Cost.
richiede «l’apprestamento sia di norme ulteriori di svolgimento, sia di
strutture o istituzioni finalizzate alla loro concreta operatività», in quanto
«la misura concreta di effettività di tali principi di tutela delle minoranze è
[…] condizionata all’esistenza di leggi e misure amministrative» (sentenze n. 15 del 1996, n. 62 del 1992
e n. 28 del 1982).
Intorno alla titolarità di questo
potere normativo, attribuito testualmente dall’art. 6 Cost. alla «Repubblica»,
si è sviluppato per lungo tempo un contenzioso tra Stato e Regioni, risolto
dalla giurisprudenza di questa Corte in un primo momento nel senso che fosse
solo il legislatore statale abilitato a dettare norme sulla tutela delle
minoranze etnico-linguistiche (sentenze n. 14 del 1965,
n. 128 del 1963,
n. 46 e n. 1 del 1961, n. 38 del 1960).
Proprio con riferimento ad una
asserita ingiustificata disparità di trattamento tra la minoranza di lingua
slovena del Friuli-Venezia Giulia e gli appartenenti alla minoranza alloglotta
del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta con riguardo all’uso della lingua
anche nel processo penale (previsto solo per i secondi dall’allora primo e
terzo comma dell’art. 137 cod. proc. pen.), questa
Corte, con la sentenza
n. 28 del 1982, ha affermato che restava «rimesso al legislatore italiano,
nella propria discrezionalità, di scegliere i modi e le forme della tutela da
garantire alla minoranza linguistica slovena».
Successivamente, questa Corte ha
altresì ritenuto che anche le legislazioni regionali e provinciali potessero
disciplinare il fenomeno delle lingue minoritarie «anche al di là degli
specifici casi espressamente indicati dallo statuto regionale», ma sempre nel
pieno rispetto di quanto determinato in materia dal legislatore statale
(sentenze n. 261
del 1995, n.
289 del 1987 e n. 312 del 1983).
In effetti, a seguito di questi mutamenti giurisprudenziali,
non poche Regioni speciali ed ordinarie hanno approvato discipline in tema di
tutela delle minoranze linguistiche.
Dalla richiamata giurisprudenza
costituzionale si ricava che l’attuazione in via di legislazione ordinaria
dell’art. 6 Cost. in tema di tutela delle minoranze linguistiche genera un
modello di riparto delle competenze fra Stato e Regioni che non corrisponde
alle ben note categorie previste per tutte le altre materie nel Titolo V della
seconda parte della Costituzione, sia prima che dopo la riforma costituzionale
del 2001. Infatti, il legislatore statale appare titolare di un proprio potere
di individuazione delle lingue minoritarie protette, delle modalità di
determinazione degli elementi identificativi di una minoranza linguistica da
tutelare, nonché degli istituti che caratterizzano questa tutela, frutto di un
indefettibile bilanciamento con gli
altri legittimi interessi coinvolti ed almeno potenzialmente confliggenti (si
pensi a coloro che non parlano o non
comprendono la lingua protetta o a coloro che devono subire gli oneri
organizzativi conseguenti alle speciali tutele). E ciò al di là della
ineludibile tutela della lingua italiana.
A tale proposito, questa Corte ha
avuto occasione di affermare che il legislatore statale «dispone in realtà di
un proprio potere di doveroso apprezzamento in materia, dovendosi
necessariamente tener conto delle conseguenze che, per i diritti degli altri
soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica protetta e sul piano
organizzativo dei pubblici poteri – sul piano quindi della stessa operatività
concreta della protezione – derivano dalla disciplina speciale dettata in
attuazione dell’art. 6 della Costituzione» (sentenza n. 406 del
1999). Si tratta, inoltre, di un potere legislativo che può applicarsi alle
più diverse materie legislative, in tutto od in parte spettanti alle Regioni.
Peraltro, malgrado tutte queste caratteristiche, ci si trova dinanzi ad una
potestà legislativa non solo limitata dal suo specifico oggetto, ma non
esclusiva (nel senso di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost.), dal momento
che alle leggi regionali spetta l’ulteriore attuazione della legge statale che
si renda necessaria.
Di particolare rilievo è, poi, a
questo riguardo, per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome,
la funzione della normativa d’attuazione, vale a dire di quel particolare
procedimento che è previsto dai suddetti statuti speciali e che rinvia la
specificazione delle implicazioni legislative derivanti dalle disposizioni
statutarie alla decretazione legislativa successiva alla deliberazione di
commissioni pariteticamente composte da rappresentanti dello Stato e della Regione
interessata. È infatti evidente che questo tipo di produzione normativa, che
deve comunque necessariamente – dato che fuoriesce dagli abituali modelli
procedurali previsti per il percorso legislativo – trovare il suo fondamento in
disposizioni statutarie, si pone come norma interposta (e, quindi,
sovraordinata) per ciò che riguarda sia la legge statale che quella regionale
che vengono a disciplinare corrispondenti ambiti legislativi.
2.4. – La legge n. 482 del 1999 si
autoqualifica come legislazione «di attuazione
dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti
dagli organismi europei e internazionali».
Fra i suoi molteplici contenuti,
di particolare rilevanza è, innanzitutto, la individuazione dei soggetti che
possono attivare la procedura mediante la quale si procede alla delimitazione
dell’ambito territoriale in cui «si
applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche». La
procedura può iniziare su istanza di appena il quindici per cento dei cittadini
di un Comune oppure di un terzo dei consiglieri comunali, e il Comune può
esprimere solo un parere alla Provincia, cui è attribuito il potere di delimitare il territorio di
insediamento della minoranza. In sostanza, questa legge, pur prevedendo misure
di tutela per minoranze di limitata consistenza numerica, tiene in ogni caso
fermo il criterio della tutela esclusivamente territoriale delle comunità
interessate. Il fatto che le speciali tutele delle lingue minoritarie siano
applicabili in aree territoriali nelle quali esistono anche piccole minoranze
linguistiche è poi confermato dall’art. 7, comma 2, della legge n. 482 del
1999, che prevede l’estensione del diritto di esprimersi nella lingua
minoritaria dei componenti degli organi collegiali di Comunità montane,
Province e Regioni alla condizione che queste «ricomprendano Comuni nei quali è
riconosciuta la lingua ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano
almeno il 15 per cento della popolazione interessata».
La consacrazione, nell’art. 1, comma
1, della legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale «lingua ufficiale della Repubblica» non ha evidentemente solo una
funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse
disposizioni che prevedono l’uso delle lingue minoritarie, evitando che esse
possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da
porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica; e ciò anche
al di là delle pur numerose disposizioni specifiche che affermano espressamente
nei singoli settori il primato della lingua italiana (art. 4, comma 1; art. 7,
commi 3 e 4; art. 8. confronta,
inoltre, l’art. 6, comma 4, del regolamento di attuazione della legge n. 482
del 1999, emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 2 maggio 2001,
n. 345).
Nel dettaglio, specifiche garanzie
sono dettate dalla legge n. 482 del 1999 per le scuole materne, elementari e
medie inferiori (artt. 4 e 5), per le università operanti nelle Regioni
interessate (art. 6), per gli organi a struttura collegiale di Comuni, Comunità
montane, Province e Regioni (art. 7), per le pubblicazioni dei Comuni (art. 8),
per le pubbliche amministrazioni operanti localmente e per i giudici di pace
(art. 9), per i Comuni che esercitano competenze in tema di toponomastica (art.
10), per gli organi competenti in materia di ripristino del nome originario
(art. 11), per il servizio pubblico radiotelevisivo (art. 12).
Questa legge si autoqualifica come non modificabile da parte delle Regioni
ad autonomia ordinaria, dal momento che lascia ai rispettivi legislatori il
solo potere di adeguare la propria normativa, nelle materie ad essi devolute,
ai principi della legge statale (art. 13).
Per le Regioni a statuto speciale,
escluso che la legge possa innovare le speciali norme statutarie esistenti, si
prescrive che «l’applicazione delle disposizioni più favorevoli previste dalla
presente legge è disciplinata con norme di attuazione dei rispettivi statuti»
(art. 18).
2.5. – Per ciò che riguarda lo
statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, oltre alla ricordata affermazione
contenuta nell’art. 3, non è prevista una specifica disposizione attributiva di
competenze in questa materia. E’ però previsto (art. 65) che «con decreti
legislativi, sentita una Commissione paritetica di sei membri, nominati tre dal
Governo della Repubblica e tre dal Consiglio regionale, saranno stabilite le
norme di attuazione del presente statuto e quelle relative al trasferimento
all’Amministrazione regionale degli uffici statali che nel Friuli-Venezia
Giulia adempiono a funzioni attribuite alla Regione».
È quindi questo lo strumento cui
A tale procedura – conformemente,
del resto, a quanto previsto dal già citato art. 18 della legge n. 482 del 1999
– si è fatto ricorso per procedere alla approvazione del d.lgs. 12 settembre
2002, n. 223, recante «Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia per il trasferimento di funzioni in materia di tutela
della lingua e della cultura delle minoranze linguistiche storiche nella
regione».
Non si rinvengono, invece, in
alcuna parte del suddetto decreto legislativo di attuazione disposizioni che
introducano direttamente, o che autorizzino il legislatore regionale ad
introdurre normative derogatorie al contenuto della legge n. 482 del 1999. È,
tra l’altro, significativo che lo stesso decreto definisca la legge n. 482 del
1999 (che reca il titolo di «Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche») come «"legge” per la tutela della lingua e della
cultura delle popolazioni che parlano il friulano e di quelle appartenenti alla
minoranza slovena e germanofona», usando, quindi, una formulazione che
direttamente riferisce il contenuto della legge alle minoranze linguistiche
della Regione.
In ogni caso, sia che da ciò si
desuma che la normativa di attuazione abbia recepito, al di là degli
adattamenti previsti nei commi dell’art. 1 successivi al primo, il contenuto
della legislazione statale (con la conseguente maggiore forza che l’ordinamento
attribuisce alle norme di attuazione degli statuti speciali rispetto alla
legislazione ordinaria sia dello Stato che delle Regioni, vedere sentenze n. 132 del 2009,
n. 341 del 2001,
n. 212 del 1994
e n. 20 del 1956),
sia che si evinca che la normativa di attuazione si sia limitata a non
introdurre norme derogatorie alla suddetta legislazione statale, il risultato è
che la legge regionale non può divergere da quest’ultima.
Le considerazioni innanzi
formulate costituiscono, quindi, il quadro di riferimento utile per l’analisi
delle censure che il Presidente del Consiglio muove alla legge regionale.
2.6. – La legge regionale n. 29
del 2007, dopo essersi qualificata come attuativa «dell’art. 6 della
Costituzione e dell’art. 3» dello statuto regionale, indica, all’art. 2, come
proprie fonti legittimanti sia l’esercizio delle competenze legislative della
Regione di concorrere all’attuazione dei principi espressi a livello
internazionale da tutta una serie di atti internazionali (di diversa natura ed
efficacia) a tutela del pluralismo linguistico, sia quelle relative
all’attuazione dei «principi della legislazione statale in materia, e in
particolare della legge 15 dicembre 1999, n. 482 […], e del decreto legislativo
12 settembre 2002, n. 223 […], tenuto conto dei principi e delle disposizioni
della legge regionale 22 marzo 1996, n. 15 (Norme per la tutela e la promozione
della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue
regionali e minoritarie)».
Al di là del fine generale di
tutelare, valorizzare e promuovere l’uso della lingua friulana, considerata
«parte del patrimonio storico, culturale e umano della Comunità regionale»,
questa legge afferma esplicitamente di essere «finalizzata ad ampliare l’uso
della lingua friulana nel territorio di riferimento», seppure «nel rispetto
della libera scelta di ciascun cittadino».
In realtà questa legge, che
raccoglie e ridisciplina quanto contenuto in altre
precedenti leggi regionali (che, infatti, vengono in parte abrogate), contiene
una ricca varietà di disposizioni solo in parte direttamente od indirettamente
attuative della legge n. 482 del 1999.
3. – Sulla base di quanto in
precedenza evidenziato vanno scrutinate nel merito le suesposte censure e le
argomentazioni utilizzate dal ricorrente per motivare la violazione dell’art. 6
Cost. tramite l’asserito contrasto con differenziate disposizioni della legge
n. 482 del 1999.
3.1. – Le questioni relative
all’art. 6, comma 2, e all’art. 8, commi 1 e 3, della legge regionale in
oggetto sono fondate.
Dette disposizioni sono censurate
in quanto «contrastano con l’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del 1999
(attuativa dell’art. 6 Cost.), che circoscrive l’uso della lingua minoritaria
nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico».
3.1.1. – Il Presidente del
Consiglio censura le suddette disposizioni ritenendo che esse, prevedendo «un
obbligo generale per gli uffici dell’intera regione, operante anche nelle aree
escluse dal territorio di insediamento del gruppo linguistico friulano
(delimitato ai sensi dell’art. 3 della stessa legge), di rispondere in friulano
"alla generalità dei cittadini” che si avvalgono del diritto di usare tale
lingua e di redigere anche in friulano gli atti comunicati "alla generalità dei
cittadini”, nonché di effettuare in tale lingua la comunicazione istituzionale
e la pubblicità, contrast[i]no con l’art. 9, comma 1,
della legge n. 482/99 (attuativa dell’art. 6 Cost.), che circoscrive l’uso
della lingua minoritaria nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo
linguistico».
Si è già accennato, nel descrivere
in via generale il contenuto della legge n. 482 del 1999, che essa prevede un
ben preciso sistema di tutela delle minoranze linguistiche presenti in Italia,
incentrato sul principio della delimitazione del territorio in cui si applicano
le specifiche disposizioni di salvaguardia. Il primo comma dell’art. 3 della
legge prevede, infatti, che «la delimitazione dell’ambito territoriale e
sub-comunale in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze
linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata dal consiglio
provinciale, sentiti i Comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici
per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei Comuni
stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi Comuni». Nei
due successivi commi del suddetto articolo si individuano altre forme di
attivazione del procedimento volto a definire gli ambiti territoriali di tutela
e a costituire organismi di coordinamento e nei successivi articoli si
definisce il contenuto delle misure di tutela, sempre però con riferimento ai
suddetti ambiti.
Si può, quindi, affermare che il
principio cui si ispira la legge n. 482 del 1999 è quello territoriale: la
normativa di salvaguardia delle lingue minoritarie riconosciute si applica cioè
nei territori in cui vi è una sufficiente presenza di cittadini appartenenti
alla minoranza stessa.
Questa Corte ha già avuto modo di
pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di disposizioni che prevedano la
tutela su base territoriale della lingua minoritaria, sospettate di
illegittimità costituzionale per contrasto col diverso principio della tutela
personale delle suddette lingue alla luce, in particolare, dell’art. 6 Cost. o
delle specifiche normative poste, in alcuni statuti speciali, a tutela dell’uso
della lingua minoritaria.
Nella sentenza n. 213 del
1998 si è precisato che «quanto alla pretesa violazione delle norme
costituzionali e statutarie in tema di protezione della minoranza italiana di
lingua tedesca (artt. 6 e 116 della Costituzione e 100 dello statuto speciale),
si deve innanzitutto rilevare che tale protezione è basata non sul principio di
personalità ma su quello di territorialità».
Parimenti, nella sentenza n. 406 del
1999, questa Corte, nel giudicare circa la compatibilità costituzionale di
una norma del codice di procedura penale (l’art. 109, comma 2) che, a giudizio
del rimettente, non avrebbe tutelato l’appartenente alla minoranza quando, in
caso di spostamento della competenza territoriale, si fosse trovato ad essere
processato fuori del luogo di residenza, ha affermato «che i diritti di uso
della lingua riconosciuti agli appartenenti a Comunità linguistiche di
minoranza valgono sì come diritti personali ma soltanto nei rapporti con le
istituzioni aventi competenza sul territorio di insediamento delle Comunità
medesime. La questione di costituzionalità sollevata mira invece a ottenere una
pronuncia di questa Corte attraverso la quale si affermi, sia pure soltanto in
relazione al caso dei giudizi che formano oggetto della disciplina dell'art. 11
cod. proc. pen., una protezione dei diritti
linguistici delle minoranze riconosciute che si proietti al di là dei limiti
territoriali di insediamento, una proiezione che tenderebbe a connotare
costituzionalmente la disciplina dei diritti linguistici in termini non più
territoriali ma personali. […] Ma, per quanto i principi costituzionali
richiedano di essere valorizzati nella loro funzione conformatrice della legislazione ordinaria, non è
possibile, da una proclamazione come quella contenuta nell'art. 6 della
Costituzione ("
Vi è, altresì, da considerare che
la giurisprudenza di questa Corte ha, fin dalle sue più risalenti sentenze,
messo in luce il delicato rapporto tra la specifica tutela prevista dall’art. 6
Cost. e il generale principio di uguaglianza posto dall’art. 3 della medesima.
Già nella sentenza n. 46 del
1961 si afferma che «le competenze normative attribuite alle Regioni o
Provincie autonome sono da contenere entro i limiti risultanti dalla
specificazione delle singole materie elencate negli Statuti, secondo il
contenuto delle medesime da determinare in base a criteri obiettivi, e non se
ne può consentire l'estensione a rapporti non rientranti nelle medesime, in
base alla mera considerazione dei fini che ne hanno inspirato il conferimento
[… dato che deve essere effettuato il] coordinamento fra l’esigenza della
protezione delle caratteristiche etniche e dello sviluppo culturale di quel
gruppo alloglotto e l'altra della parità del trattamento con gli altri gruppi».
Tale concetto è ribadito nella sentenza n. 128 del
1963 ed in quella n. 14 del 1965
nella quale questa Corte, con riferimento specifico alla statuto della Regione
Friuli-Venezia Giulia, ribadisce che lo statuto «afferma (art. 3) il principio
generale della parità di diritti e di trattamento di tutti i cittadini,
qualunque sia il gruppo linguistico al quale essi appartengono».
Si tratta di un percorso
argomentativo che è stato seguito anche negli ultimi anni. Nella sentenza n. 213 del
1998 si afferma nuovamente, infatti, che l’art. 6 Cost. «non contiene in sé
una forza espansiva, al di là di quanto espressamente stabilito nelle norme
degli statuti regionali speciali» e che «le norme di tutela delle minoranze
rappresentano sempre punti di equilibrio e contemperamenti tra le garanzie
particolari e l'ordinamento generale. L'estensione delle prime non può non
comportare ripercussioni sul secondo».
Non contrastando né con l’art. 6
Cost., né con specifiche norme statutarie, la disposizione che fissa nella
legge n. 482 del 1999 il principio della tutela territoriale della lingua
minoritaria non può, per i motivi evidenziati al punto 2.5., essere
contraddetta dal legislatore regionale.
Passando all’esame delle singole
censure, questa Corte sottolinea che il comma 2 dell’art. 6 della legge
impugnata, riconoscendo in modo espresso «il diritto di usare la lingua
friulana […] a prescindere dal territorio in cui i relativi uffici sono
insediati», viene a violare in modo palese quanto previsto dalla legge n. 482,
dato che attribuisce il diverso e non riconosciuto diritto ad un uso personale
della lingua minoritaria.
Ad analoga conclusione si deve
pervenire anche con riferimento alle censure mosse ai commi 1 e 3 dell’art. 8
della legge regionale.
Infatti, la più volte citata legge
statale limita, al comma 1 dell’art. 9, l’uso della lingua minoritaria ai
«Comuni di cui all’art. 3» (cioè a quelli nei quali si applicano le norme di
tutela), mentre il comma 1 dell’art. 8 della legge regionale prevede la
redazione «in friulano» degli atti «comunicati alla generalità dei cittadini»
anche al di fuori dell’ambito dei suddetti Comuni e il comma 3 garantisce la
«presenza della lingua friulana […] anche nella comunicazione istituzionale e
nella pubblicità degli atti destinati all’intera Regione». È evidente il
contrasto, dato che le censurate disposizioni sanciscono il dovere, da parte
della Regione e degli enti locali in cui si applicano le norme di tutela
(nonché dei relativi "enti strumentali”), di usare la lingua friulana anche per
le comunicazioni che fuoriescano dai suddetti ambiti territoriali.
L’art. 6, comma 2, e l’art. 8,
commi 1 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007 sono, pertanto, illegittimi
per violazione dell’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del 1999.
3.2
– La questione relativa all’art. 9, comma 3, della legge regionale è fondata.
La censurata disposizione
contempla una mera facoltà della «ripetizione degli interventi in lingua
italiana», ovvero del «deposito contestuale dei testi tradotti in forma
scritta» nei dibattiti dei Consigli comunali in cui si può utilizzare la lingua
friulana. Dal canto suo, la norma invocata a parametro interposto, vale a dire
l’art. 7 della legge n. 482 del 1999, prescrive la «immediata traduzione» di
tali interventi.
Il terzo comma dell’art. 7 della legge
n. 482 del 1999, nel riconoscere
agli appartenenti alla minoranza linguistica protetta facenti parte degli
organi collegiali degli enti locali e regionali il diritto di utilizzare la
diversa lingua, lo bilancia con la previsione
di «una immediata traduzione in lingua italiana» a garanzia sia degli altri
componenti che «dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela» sia
della stessa complessiva funzionalità degli organi pubblici interessati.
Rinviare tutto ciò ai piani di politica linguistica e, soprattutto, ipotizzare
forme diverse dalla «immediata traduzione» pone evidenti dubbi sulla pienezza
ed immediatezza del confronto dialettico negli organi collegiali.
La puntuale e sollecita comprensione
degli interventi svolti in seno ad un organo collegiale è fondamentale ai fini
del suo corretto funzionamento. Ove si tratti, in particolare, di un organo
elettivo di un ente pubblico, la comunicazione secondo modalità linguistiche
immediatamente accessibili è il presupposto per un appropriato confronto
dialettico. A sua volta, detto confronto è una delle modalità di
estrinsecazione del principio democratico. Sicché, la garanzia della
contestuale conoscenza, nella «lingua ufficiale della Repubblica», da parte di
tutti i componenti l’organo collegiale del contenuto degli atti e degli
interventi posti in essere in quella sede è condizione essenziale perché il
confronto democratico possa aver luogo.
Non è esatto pertanto obiettare, come
fa la difesa regionale, che si tratterebbe solo dell’individuazione di due
diverse modalità «per garantire la traduzione», dato che le modalità della
traduzione vengono addirittura rinviate ad una futura procedura, mentre la
traduzione (che, tra l’altro, sarebbe verso la «lingua ufficiale») deve essere
necessariamente contestuale, così come anche ribadito nell’art. 4, comma 2, del
d.P.R. n. 345 del 2001.
L’art. 9, comma 3, della legge
regionale n. 29 del 2007 è, pertanto, illegittimo per violazione dell’art. 7,
comma 3, della legge n. 482 del 1999.
Restano assorbite le residue
censure.
3.3. – La questione relativa
all’art. 11, comma 5, della legge regionale è fondata.
La facoltà per i Comuni di
adottare toponimi anche nella sola lingua friulana è incompatibile con la
previsione dettata dal legislatore statale che legittima l’uso dei toponimi
nella lingua minoritaria solo «in aggiunta ai toponimi ufficiali».
L’art. 10 della legge n. 482 del 1999
costruisce un equilibrato procedimento per affiancare eventualmente, nelle aree
con presenza di lingue minoritarie, accanto alla denominazione ufficiale dei
Comuni e dei luoghi, altri «toponimi conformi alle tradizioni ed agli usi
locali».
La previsione che gli enti locali
dell’area in cui è accertata la presenza della minoranza linguistica friulana
possano escludere la denominazione ufficiale, optando per toponimi solo in
friulano, che divengono le denominazioni ufficiali di Comuni e località,
evidentemente altera il disegno generale della legge n. 482 del 1999, fondato
non solo sulla valorizzazione delle lingue e delle culture minoritarie, ma
anche sulla preservazione del patrimonio
linguistico e culturale della lingua italiana.
Al riguardo, si rivela infondata
l’obiezione della difesa regionale secondo la quale,
essendo
Né appare conferente l’esemplificazione
che viene effettuata dalla difesa regionale quando fa riferimento ad un
limitato numero di Comuni della Valle d’Aosta o della Sardegna che hanno
toponimi espressi con lettere o gruppi di lettere estranei alla lingua
italiana, dato che finalità espressa della disposizione censurata è di
permettere che il toponimo nella lingua friulana divenga, al posto di quello
esistente in lingua italiana, l’unico atto a definire il nominativo del Comune
o quello «ufficiale a tutti gli effetti».
L’art. 11, comma 5, della legge
regionale n. 29 del 2007 è, pertanto, illegittimo per violazione dell’art. 10 della
legge n. 482 del 1999.
Restano assorbite le residue
censure.
3.4. – La questione relativa
all’art. 12, comma 3, della legge regionale è fondata.
Il meccanismo di scelta, configurato
dalla censurata disposizione, si sostanzia in una sorta di opzione negativa.
Qualora i genitori non vogliano che ai figli sia impartito l’insegnamento della
lingua friulana, sono tenuti a comunicarlo al momento dell’iscrizione, previa
adeguata informazione, su richiesta scritta dell’istituzione scolastica. Il
silenzio serbato sul punto dai genitori equivale ad un vero e proprio assenso,
fatta salva la possibilità di modificare tale decisione in occasione
dell’apertura del nuovo anno scolastico.
La censurata disposizione contrasta palesemente con
quanto previsto dal legislatore statale nell’art. 4, commi 2 e 5, della legge
n. 482 del 1999, che stabilisce, invece, che «al momento della preiscrizione i
genitori comunicano alla istituzione scolastica interessata se intendono
avvalersi per i propri figli dell’insegnamento della lingua della minoranza».
Le previsioni della legge n. 482 del
D’altra parte, la stessa legge regionale n. 29 del
2007 afferma al comma 3 dell’art. 1 di essere «finalizzata ad ampliare l’uso
della lingua friulana nel territorio di riferimento nel rispetto della libera
scelta di ciascun cittadino».
L’art. 12, comma 3, della legge
regionale n. 29 del 2007 è, pertanto, illegittimo per violazione dell’art. 4
della legge n. 482 del 1999.
Restano assorbite le residue
censure.
3.5. –
La questione relativa all’art. 14, commi 2 e 3, della legge regionale è
fondata.
Di
questa disposizione è censurata, per un verso, la previsione dell’insegnamento
della lingua friulana per almeno un’ora alla settimana (art. 14, comma 2,
ultimo periodo). Per altro verso, oggetto di doglianza è pure la previsione
dell’uso della lingua friulana come «lingua veicolare», vale a dire che la
lingua minoritaria viene indicata come modalità sussidiaria e strumentale di
comunicazione per l’insegnamento di altre discipline (art. 14, comma 3).
L’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 14 contrasta con l’art. 4, comma 2, della
legge n. 482 del 1999, che attribuisce all’autonomia didattica delle scuole la
deliberazione dei tempi di insegnamento della lingua friulana.
È ben vero che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, l’autonomia delle istituzioni scolastiche «non
può risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione», ma è
altrettanto innegabile «che a tali istituzioni [debbono essere] lasciati
adeguati spazi di autonomia che le leggi statali e quelle regionali, nell’esercizio
della potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare» (sentenza n. 13 del
2004). L’art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999 contempera le ragioni
sottese alla tutela e valorizzazione della lingua friulana in ambito didattico,
e l’autonoma determinazione dei percorsi formativi tracciati dalle istituzioni
scolastiche. La previsione di una
fascia temporale minima, comunque obbligatoria, di insegnamento della lingua
friulana, altera detto equilibrio. D’altra parte, la programmazione
dell’offerta didattica dipende anche dal numero delle richieste di insegnamento
della lingua friulana che potranno pervenire dalle famiglie.
Per le medesime ragioni, il comma 3 dell’art. 14 confligge con
l’art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che attribuisce all’autonomia
delle scuole la deliberazione delle «metodologie» didattiche da utilizzare,
mentre la previsione, da parte della norma censurata, che si debba adottare «il
metodo basato sull’apprendimento veicolare integrato» della lingua friulana
limita drasticamente le scelte didattiche operabili dalla scuola.
Inoltre, l’apprendimento veicolare
integrato delle lingue dovrebbe presupporre un consenso generalizzato alla
frequenza dei corsi di insegnamento della lingua friulana, poiché altrimenti
coloro che non frequentano questi corsi sarebbero privati dell’insegnamento
delle materie «veicolate» dal friulano o alcuni insegnamenti dovrebbero essere
effettuati due volte.
Sul punto è da rigettare la tesi della difesa regionale secondo cui quanto determinato dalla norma
censurata sarebbe già previsto nell’art. 4, comma 1, della legge n. 482 del
1999, poichè la disposizione statale non fa altro che
enunciare che anche la lingua friulana rientrerà, per le scuole materne, fra le
«attività educative» e, per le scuole elementari e quelle secondarie di primo
grado, fra le materie di insegnamento. Infatti, il successivo comma 2 del
medesimo art. 4 afferma esplicitamente che sono le istituzioni scolastiche
elementari e secondarie di primo grado, nell’ambito della loro autonomia
organizzativa e didattica, a deliberare «anche, sulla base delle richieste dei
genitori degli alunni, le modalità di svolgimento delle attività di
insegnamento della lingua e delle tradizioni culturali delle Comunità locali,
stabilendone i tempi e le metodologie».
Gli articoli 14, comma 2, limitatamente
all’ultimo periodo, e comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007 sono,
pertanto, illegittimi per violazione dell’art. 4 della legge n. 482 del 1999.
Restano assorbite le residue
censure.
3.6.
– La questione relativa all’art. 18, comma 4, della legge regionale non è
fondata.
La censurata disposizione, nel
legittimare
Non solo disposizioni del genere erano
già contenute nella legge regionale
n. 15 del 1996 (artt. 19 e 27), ma gli artt. 12, comma 2, 14 e 16 della stessa
legge n. 482 del 1999 prevedono la possibilità per le Regioni di sostenere,
mediante le loro finanze, iniziative culturali od informative connesse alle
lingue minoritarie senza incontrare limiti territoriali.
per
questi motivi
dichiara l’illegittimità
costituzionale degli articoli 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma
5, 12, comma 3, e 14, commi 2, ultimo periodo, e 3, della legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela,
valorizzazione e promozione della lingua friulana);
dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della legge
della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2007, sollevata dal Presidente
del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 6 della Costituzione, in
relazione all’art. 4, commi 1 e 2, della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme
in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), con il ricorso
indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18
maggio 2009.
F.to:
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in