Sentenza n. 159 del 2009

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SENTENZA N. 159

ANNO 2009

 

Commenti alla decisione di

 

I. Elena Stradella, La tutela delle minoranze linguistiche storiche tra Stato e Regioni davanti alla Corte costituzionale  (per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)

 

II. Roberto Toniatti,  Pluralismo sostenibile e interesse nazionale all’identità linguistica posti a fondamento di "un nuovo modello di riparto delle competenze” legislative fra Stato e Regioni  (per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)

 

III. Francesco Palermo, La Corte "applica” il Titolo V alle minoranze linguistiche e chiude alle Regioni (per gentile concessione dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti)

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco            AMIRANTE            Presidente

- Ugo                    DE SIERVO              Giudice

- Paolo                  MADDALENA              "

- Alfio                   FINOCCHIARO            "

- Alfonso               QUARANTA                 "

- Franco                GALLO                        "

- Luigi                   MAZZELLA                  "

- Gaetano              SILVESTRI                   "

- Sabino                CASSESE                     "

- Maria Rita           SAULLE                       "

- Giuseppe             TESAURO                    "

- Paolo Maria         NAPOLITANO             "

- Giuseppe             FRIGO                         "

- Alessandro          CRISCUOLO                "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, 14, commi 2 e 3, e 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 febbraio 2008,  depositato in cancelleria il 28 febbraio 2008 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2008.

Visto l’atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia;

udito nell’udienza pubblica del 10 febbraio 2009 il Giudice relatore Ugo De Siervo, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Paolo Maria Napolitano;

uditi l’avvocato dello Stato Filippo Capece Minutolo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 25 febbraio 2008 e depositato il successivo 28 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, 14, commi 2 e 3, e 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 52 del 27 dicembre 2007, in riferimento agli articoli 3, 6, 117, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e degli articoli 3 e 6, n. 1), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).

Per il ricorrente la legge regionale n. 29 del 2007 eccede, sotto diversi profili, la competenza legislativa attribuita alla Regione Friuli-Venezia Giulia dall’art. 3 dello statuto speciale, che contempla la tutela delle minoranze linguistiche presenti nella Regione, e dal decreto legislativo 12 settembre 2002, n. 223 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia per il trasferimento di funzioni in materia di tutela della lingua e della cultura delle minoranze linguistiche storiche nella regione), il quale demanda alla legislazione regionale l’attuazione delle disposizioni della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche): una «legge quadro», quest’ultima, dettata, come ripetutamente sottolineato nel ricorso, «in attuazione dell’art. 6 della Costituzione».

1.1. – Il ricorrente ritiene, in particolare, che gli artt. 6, comma 2, e 8, commi 1 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007, nel prevedere un obbligo generale per gli uffici dell’intera Regione – operante anche nelle aree escluse dal territorio di insediamento del gruppo linguistico friulano (delimitato ai sensi dell’art. 3 della stessa legge) – di rispondere in friulano «alla generalità dei cittadini» che si avvalgano del diritto di usare tale lingua e di redigere anche in friulano gli atti comunicati «alla generalità dei cittadini», nonché di effettuare in tale lingua la comunicazione istituzionale e la pubblicità, contrasterebbero con l’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del 1999, che circoscrive l’uso della lingua minoritaria nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico.

1.2. – La seconda censura proposta riguarda l’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007 che, testualmente, dispone: «le modalità per garantire la traduzione a coloro che non comprendono la lingua friulana sono disciplinate dagli enti di cui ai commi 1 e 2 con disposizioni dei piani di politica linguistica di cui all’art. 27, nel cui ambito può essere prevista la ripetizione degli interventi in lingua italiana ovvero il deposito contestuale dei testi tradotti in forma scritta». Per la parte ricorrente, l’impugnata disposizione, nel prevedere una mera facoltà quanto alla «ripetizione degli interventi in lingua italiana», violerebbe l’art. 6 Cost. e l’art. 7 della legge n. 482 del 1999, il quale, ai commi 3 e 4, statuisce che «qualora uno o più componenti degli organi collegiali di cui ai commi 1 e 2 dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela, deve essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana» e «qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due lingue, producono effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni redatti in lingua italiana». Risulterebbe violato anche l’art. 8 della legge n. 482 del 1999, il quale, con riferimento alla possibilità per il Consiglio comunale di pubblicare atti nella lingua ammessa a tutela, fa tuttavia salvo «il valore esclusivo degli atti nel testo redatto in lingua italiana».

      1.3. – Il ricorrente impugna anche l’art. 11, comma 5, della legge regionale n. 29 del 2007, che prevede che gli enti locali possono stabilire di adottare l’uso dei toponimi bilingui o di toponimi nella sola lingua friulana e che la denominazione prescelta diviene la denominazione ufficiale a tutti gli effetti. La disposizione citata violerebbe gli artt. 1, comma 1, e 10 della legge n. 482 del 1999, che rispettivamente dispongono, il primo, che «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano», e, il secondo, che nei Comuni di insediamento della minoranza linguistica «i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi» solo «in aggiunta ai toponimi ufficiali». La contestata disposizione risulterebbe altresì incompatibile con l’art. 3, secondo comma, Cost. «per evidente violazione del principio del rispetto della eguaglianza dei cittadini del nostro Paese».

      1.4. – Tra le norme oggetto di impugnazione figura anche l’art. 12, comma 3, riguardante l’apprendimento scolastico della lingua minoritaria, che, a parere del Presidente del Consiglio, prevede un meccanismo simile al cosiddetto silenzio-assenso laddove dispone che «al momento dell’iscrizione i genitori o chi ne fa le veci, previa adeguata informazione, su richiesta scritta dell’istituzione scolastica, comunicano alla stessa la propria volontà di non avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana». In tal modo si determinerebbe un’imposizione alle istituzioni scolastiche di impartire tale insegnamento, violando i principi dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche di cui all’art. 21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa); in secondo luogo, la censurata disposizione violerebbe l’art. 4 della legge n. 482 del 1999, che, nel prevedere l’insegnamento della lingua minoritaria nei Comuni di insediamento della minoranza, ne demanda all’autonomia scolastica i tempi e le metodologie di svolgimento e che, al comma 5, prevede che la manifestazione di volontà da parte dei genitori consista nell’assenso alla frequenza dell’insegnamento. La disposizione impugnata, nel porre a carico dei genitori l’onere di comunicare la volontà di non avvalersi dell’insegnamento della lingua minoritaria violerebbe altresì l’art. 3 Cost., configurando un regime di obbligatorietà che può interrompersi solo con la richiesta di esonero.

      1.5. – La parte ricorrente impugna anche l’art. 14, commi 2 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007, nelle parti in cui dispone che l’insegnamento della lingua friulana sia garantito per almeno un’ora alla settimana per la durata dell’anno scolastico (comma 2) e che nella programmazione dell’insegnamento della lingua friulana siano comprese le modalità didattiche che assumono come modello di riferimento il metodo basato sull’apprendimento veicolare integrato delle lingue (comma 3), in quanto, contrastando con i principi dell’autonomia scolastica, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che esclude dalla competenza concorrente regionale «l’autonomia delle istituzioni scolastiche». Violazione che, a giudizio del Presidente del Consiglio, si verifica anche se, rispetto a quanto prevede l’art. 6, n. 1, dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, che attribuisce solo una competenza integrativa in materia di istruzione, si applica il disposto dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001,  a favore delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, per le parti in cui la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione prevede forme più ampie di autonomia.

La norma citata, infatti, imporrebbe alle istituzioni scolastiche tempi e modi di insegnamento, ponendosi in tal modo in contrasto con i principi dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche di cui all’art. 21, commi 8 e 9, della legge n. 59 del 1997 e con quanto disposto dall’art. 4 della legge n. 482 del 1999, che, nel prevedere l’insegnamento della lingua minoritaria nei Comuni di insediamento della minoranza, rinvia a tali principi circa i tempi e le metodologie di svolgimento dell’insegnamento. In particolare – aggiunge la difesa erariale – il comma 3 dell’art. 14 presenterebbe «evidenti criticità, posto che la sua finalità consiste nel voler imprimere alla lingua friulana il carattere di "lingua veicolare”».

      1.6. – Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che l’art. 18, comma 4, della legge regionale n. 29 del 2007, nella parte in cui dispone che «la Regione può sostenere l’insegnamento della lingua friulana anche nelle istituzioni scolastiche presenti nei territori esclusi dalla delimitazione di cui all’art. 3, comma 1», legittimando la Regione a «sostenere» l’insegnamento della lingua friulana anche nelle istituzioni scolastiche situate nelle aree escluse dal territorio di insediamento della minoranza friulana, contrasterebbe con l’art. 4, commi 1 e 2, della legge n. 482 del 1999, che circoscrive l’insegnamento della lingua minoritaria alle scuole situate nell’ambito territoriale di insediamento della minoranza. A parere del ricorrente, in tal modo si realizzerebbe una violazione del principio della tutela linguistica nell’ambito territoriale di insediamento, tanto che si porrebbe «una esigenza pressante di declaratoria di illegittimità costituzionale al fine di evitare che una sua anche parziale attuazione possa determinare pesanti rischi di discriminazione a carico dei docenti e degli studenti della scuola pubblica, nonché analoghi rischi per i cittadini nel loro rapporto con le pubbliche amministrazioni locali».

2. – Con atto depositato il 21 marzo 2008 si è costituita nel presente giudizio la Regione Friuli-Venezia Giulia, chiedendo il rigetto delle questioni sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri.

La difesa regionale ritiene necessario delineare il quadro normativo entro il quale si colloca la legge regionale n. 29 del 2007.

Premette la resistente che l’art. 6 Cost., quanto alla tutela delle minoranze linguistiche, non configura una vera materia bensì un compito che spetta a tutte le componenti della Repubblica, nell’esercizio delle competenze loro spettanti. Questo compito spetta a maggior ragione alla Regione Friuli-Venezia Giulia, il cui statuto speciale, invero, stabilisce che «nella Regione è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali» (art. 3).

La Regione Friuli-Venezia Giulia, nell’ambito delle competenze ad essa spettanti in questa materia,  ha adottato una propria disciplina sin dalla legge regionale 22 marzo 1996, n. 15 (Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue regionali e minoritarie).

Lo stesso legislatore statale ha inserito la lingua friulana tra quelle protette; in particolare la legge statale n. 482 del 1999, emanata in attuazione dell’art. 6 Cost., ha demandato alla Repubblica il compito di tutelare «la lingua e la cultura delle popolazioni» parlanti (tra le altre lingue) «il friulano» (art. 2).

Di recente, prosegue la difesa regionale, in relazione anche all’attribuzione alle Regioni speciali di competenza legislativa concorrente in materia di istruzione (art. 117, terzo comma, Cost., in combinato disposto con l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001), è stato emanato il d.lgs. n. 223 del 2002, il cui art. 1, comma 2, dispone che la Regione detti norme legislative al fine di coordinare i compiti attribuiti alle istituzioni scolastiche autonome in attuazione della disciplina prevista dall’art. 4 della legge n. 482 del 1999.

Al riguardo, la Regione resistente sostiene che il d.lgs. n. 223 del 2002 non demanda alla legislazione regionale l’attuazione delle disposizioni della legge n. 482 del 1999, come affermato nel ricorso, ma provvede essa stessa a dettare le regole per l’attuazione di questa legge in Friuli-Venezia Giulia, riconoscendo alla Regione il potere legislativo, al fine di coordinare i compiti attribuiti alle scuole. Sicché la legge n. 482 del 1999 non può essere considerata, in questo ambito territoriale, alla stregua di una legge-quadro in una materia di competenza concorrente.

Più in generale, la difesa della Regione, pur ammettendo che nel suo complesso la legge n. 482 del 1999 possa considerarsi attuativa dell’art. 6 Cost., nondimeno esclude che essa ne rappresenti «la sola legittima attuazione», tanto che la stessa legge regionale n. 29 del 2007 si dichiara attuativa del succitato art. 6 Cost.

Tutto ciò premesso, la resistente sviluppa le proprie difese in relazione ai singoli vizi d’incostituzionalità contestati dal ricorrente.

      2.1. – Per quanto attiene alle censure mosse nei confronti degli artt. 6, comma 2, e 8, commi 1 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007, la difesa regionale ritiene che tali disposizioni, stabilendo che «è consentito, negli uffici delle amministrazioni pubbliche, l’uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela», si limitano a prevedere un diritto delle persone interessate all’uso della lingua, definendone l’ambito di applicazione, in una materia quale quella dell’organizzazione amministrativa regionale e dell’organizzazione degli enti locali di sua competenza legislativa esclusiva (art. 4, n. 1 e n. 1-bis dello statuto).

      La Regione Friuli-Venezia Giulia, prosegue la difesa della resistente, si sarebbe ispirata al criterio della personalità del diritto all’uso della lingua minoritaria, e non a quello della territorialità, la cui inderogabilità non si potrebbe comunque far discendere dall’art. 6 Cost.

 In tal senso la difesa regionale richiama le affermazioni di questa Corte secondo le quali nel dare attuazione all’art. 6 Cost. «il legislatore dispone […] di un ambito di apprezzamento che la Costituzione non pregiudica» (sentenza n. 406 del 1999) e «il criterio di personalità nella protezione dei diritti linguistici delle minoranze rientra in tale ambito, cosicché è possibile ch’esso sia talora utilizzato, sulla base di apprezzamenti legislativi». Nel compiere le proprie scelte, il legislatore dovrà «necessariamente tener conto delle conseguenze che, per i diritti degli altri soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica protetta e sul piano organizzativo dei pubblici poteri – sul piano quindi della stessa operatività concreta della protezione – derivano dalla disciplina speciale dettata in attuazione dell’art. 6 della Costituzione» (così sempre la sentenza n. 406 del 1999).

Pertanto, a parere della difesa regionale, le impugnate disposizioni non avrebbero leso i diritti dei soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica (dato che restano fermi l’uso ed il valore della lingua italiana) e non avrebbero imposto oneri organizzativi irragionevoli. Infatti, l’art. 6, comma 2, riguarderebbe solo la Regione (e gli enti pararegionali), che «è perfettamente libera di organizzarsi in modo da poter assicurare l’uso del friulano a coloro che lo richiedano», così come l’art. 8, nei commi 1 e 3, riguarderebbe solo la Regione e gli enti locali, e non tutti gli uffici pubblici, e non potrebbe ritenersi «irragionevole, né lesivo dei diritti di chicchessia, che gli atti generali – che necessariamente interessano anche le zone friulanofone  abbiano una versione in lingua friulana».

2.2. – In merito all’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007, la parte resistente sostiene che la norma si limita ad indicare due possibili modalità per garantire la traduzione a coloro che non comprendono la lingua friulana, dettando regole applicative per raggiungere l’obiettivo fissato dallo stesso art. 7, comma 3, della legge n. 482 del 1999, in base al quale «deve essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana».

La disposizione sottoposta a scrutinio, poi, non interferirebbe in alcun modo con la disciplina degli effetti giuridici e del valore legale degli atti, oggetti in relazione ai quali essa non stabilisce alcunché.

2.3. – La Regione – a sostegno dell’infondatezza della censura concernente l’art. 11, comma 5, della legge regionale n. 29 del 2007 che prevede la possibilità di adottare l’uso dei toponimi bilingui o di toponimi nella sola lingua friulana – osserva che, per definizione, la legge regionale non può violare il principio di uguaglianza fra cittadini di diverse Regioni, in quanto, potendo disporre solo per il proprio ambito territoriale, essa finisce necessariamente col differenziare le proprie discipline da quelle operanti negli altri contesti territoriali.

Inoltre, al fine di confutare l’affermazione della parte ricorrente secondo la quale per i Comuni interessati l’uso della sola denominazione friulana costituirebbe una eccezione priva di riscontro nell’ordinamento di altre Regioni, la resistente obietta che, sin dal 1976, la Regione Valle d’Aosta ha definito la toponomastica dei propri Comuni con denominazioni ufficiali monolingui francofoni (si veda la legge regionale n. 61 del 1976, da ultimo modificata con la legge regionale n. 18 del 2006). Analogamente, ciò sarebbe riscontrabile in altre Regioni, quali il Piemonte, la Sardegna o la Calabria.

Ad avviso della resistente, dunque, la censurata disposizione non contrasterebbe con l’art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999 in quanto la statuizione dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica «non si riferisce affatto alla struttura linguistica dei nomi propri, ma alla lingua intesa come insieme di parole significanti e di regole sintattiche e grammaticali. L’uso della lingua italiana, nel senso indicato, come lingua ufficiale non è affatto posto in dubbio dall’uso di nomi propri di paese nella versione corrispondente all’uso locale».

Del resto lo stesso art. 10 della legge n. 482 del 1999, che consente ai Comuni di insediamento delle minoranze di deliberare «in aggiunta ai toponimi ufficiali», l’adozione «di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali» non proibirebbe affatto all’ente competente («e la Regione Friuli-Venezia Giulia è competente in materia di toponomastica ai sensi dell’art. 5, n. 19, dello statuto») di provvedere a disciplinare la definizione del toponimo ufficiale, consentendone la modifica al Consiglio comunale.

      2.4. – Con riferimento all’impugnazione dell’art. 12, comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007, a parere della resistente, l’obbligo di fornire l’insegnamento in lingua friulana deriverebbe dall’art. 4, comma 5, della legge n. 482 del 1999, «senza che nulla vi aggiunga la disposizione qui in discussione».

Quanto, poi, alla posizione dei genitori, la disposizione impugnata non prevederebbe affatto un regime di obbligatorietà, ma si limiterebbe ad introdurre una «modesta variante» alla disciplina di cui al succitato art. 4, comma 5, in relazione alla modalità procedurale di scelta dell’insegnamento del friulano. La ragione della modifica sarebbe da individuare nell’esigenza di "esonerare” da ogni adempimento la maggioranza dei genitori partendo dalla premessa che, verosimilmente, nelle zone di insediamento linguistico la maggior parte di essi vorrà scegliere l’insegnamento opzionale, lasciando a coloro che non lo desiderino l’onere di segnalare la circostanza.

La nuova disposizione sarebbe pienamente legittimata dalla potestà concorrente regionale in materia di istruzione e più specificamente anche dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 223 del 2002, a mente del quale «la Regione provvede con proprie disposizioni legislative all’esercizio di funzioni di coordinamento dei compiti attribuiti alle istituzioni scolastiche autonome in attuazione della disciplina prevista dall’art. 4 della legge, in materia di uso della lingua della minoranza nella scuola materna e in materia di insegnamento della lingua della minoranza nelle scuole elementari e secondarie di primo grado».

Pertanto il richiamo ai principi dell’autonomia scolastica e di eguaglianza non sarebbe pertinente, così come non lo sarebbe l’invocato art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che si occupa delle modalità di insegnamento e non di quelle afferenti alla scelta rimessa ai genitori.

      2.5. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 14, commi 2 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007, la Regione Friuli-Venezia Giulia reputa opportuno chiarire che l’espressione «apprendimento veicolare integrato delle lingue» riflette l’obiettivo di insegnare la lingua non "in astratto” e come vuota struttura linguistica, ma in concreto, "veicolando” con essa determinati contenuti. In questo senso, dunque, la lingua friulana dovrebbe essere insegnata "veicolando” al tempo stesso altri contenuti didattici, in modo tale che lo studente apprenda contemporaneamente la lingua e la materia insegnata con la lingua stessa.

Questa opzione, per la difesa regionale, «non rappresenta né una stravaganza del legislatore regionale né una sua scelta autonoma», trovando il suo fondamento già nella legge statale. L’art. 4, comma 1, della legge n. 482 del 1999 stabilisce, infatti, che «nelle scuole materne dei Comuni di cui all’art. 3, l’educazione linguistica prevede, accanto all’uso della lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative», e che «nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto l’uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento». Dunque, non vi sarebbe alcuna compressione dell’autonomia scolastica limitandosi, la disposizione in esame, ad indicare un «modello di riferimento» identico a quello della legge statale. Peraltro, l’indicazione di un modello di riferimento sarebbe legittimata sia dalla potestà legislativa concorrente in materia di istruzione che dal già citato art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 223 del 2002, restando, invece, ferma l’autonomia delle scuole per la scelta del metodo didattico.

Quanto al comma 2 dell’art. 14, esso si limiterebbe a fissare una durata minima per l’insegnamento del friulano, restando alle scuole la possibilità di definire in dettaglio «i tempi e le metodologie» dell’insegnamento, come risulta dall’art. 4 della legge n. 482 del 1999.

2.6. – La censura avente per oggetto l’art. 18, comma 4, sarebbe, ad avviso della resistente, infondata per le ragioni già esposte in relazione agli articoli 6, comma 2, e 8, commi 1 e 3. In primo luogo, l’art. 4 della legge n. 482 del 1999 tutelerebbe un diritto con riferimento ad un certo ambito, senza tuttavia esprimere una portata limitativa della possibilità che la legge regionale possa assicurare una maggiore tutela, oltre quell’ambito territoriale, sin dove non comprima gli altrui diritti. Inoltre, lo stesso art. 4 non può considerarsi specificazione dell’art. 6 Cost., «dal quale non risulta affatto un principio inderogabile di territorialità nella tutela delle minoranze linguistiche (nel senso di obbligatoriamente limitarla alla zona di insediamento)». Ciò a maggiore ragione – conclude la difesa regionale – in quanto la contestata disposizione prevede «un mero supporto regionale» (verosimilmente, finanziario) ad un’attività di insegnamento opzionale decisa autonomamente dalle scuole, in relazione alle richieste dei genitori, in perfetta coerenza con l’autonomia scolastica.

3. – In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha depositato una memoria integrando le considerazioni già svolte nell’atto di costituzione con esclusivo riferimento alla censura relativa all’art. 11, comma 5, in tema di toponomastica.

      Al fine di dimostrare l’infondatezza della doglianza, la difesa regionale richiama l’art. 19 della legge della Provincia autonoma di Trento 19 giugno 2008, n. 6 (Norme di tutela e promozione delle minoranze linguistiche locali), il quale, al comma 3, prevede che «il repertorio dei toponimi […] comprende per le singole località la denominazione in lingua minoritaria e la corrispondente denominazione in lingua diversa da quella di minoranza della quale si renda opportuno il mantenimento in quanto diffusamente conosciuta a livello nazionale o internazionale». Il successivo comma 5 – prosegue la resistente – dispone che gli enti di cui al comma 1, «adeguano la toponomastica di loro competenza ai contenuti del relativo repertorio». Il comma 6, dal canto suo, stabilisce che «fatte salve le denominazioni dei Comuni, le indicazioni e le segnalazioni relative a località e toponimi di minoranza sono di regola espresse nella sola denominazione ladina, mòchena o cimbra. Possono essere redatte anche nel corrispondente nome italiano, se questo è registrato nel rispettivo repertorio dei toponimi, con pari dignità grafica».

Le discipline adottate nella Provincia autonoma di Bolzano, nella Regione Valle d’Aosta e nel comprensorio ladino della Val di Fassa nella Provincia autonoma di Trento dimostrerebbero – conclude la resistente – che, in materia di toponomastica, sia possibile seguire indifferentemente il criterio del bilinguismo ovvero del monolinguismo.

Considerato in diritto

      1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, 14, commi 2 e 3, e 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007 n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), in riferimento agli articoli 3, 6, 117, terzo comma, della Costituzione, all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ed agli articoli 3 e 6, n. 1), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).

Per il ricorrente la legge regionale n. 29 del 2007 eccede, sotto diversi profili, la competenza legislativa attribuita alla Regione Friuli-Venezia Giulia dall’art. 3 dello statuto speciale, che contempla la tutela delle minoranze linguistiche presenti nella Regione, e dal decreto legislativo 12 settembre 2002, n. 223 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia per il trasferimento di funzioni in materia di tutela della lingua e della cultura delle minoranze linguistiche storiche nella regione), il quale demanda alla legislazione regionale l’attuazione delle disposizioni della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche). Per molteplici motivi le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con quelle contenute in tale ultima legge, assunte come parametri interposti.

In particolare, l’art. 6, comma 2, e l’art. 8, commi 1 e 3, nel prevedere un obbligo generale per gli uffici dell’intero sistema regionale, esteso anche alle aree escluse dal territorio di insediamento del gruppo linguistico friulano, di rispondere in friulano «alla generalità dei cittadini» che si avvalgono del diritto di usare tale lingua e di redigere anche in friulano gli atti comunicati «alla generalità dei cittadini», nonché di effettuare in tale lingua la comunicazione istituzionale e la pubblicità, contrasterebbero con l’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del 1999, che circoscrive l’uso della lingua minoritaria nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico.

L’art. 9, comma 3, nel prevedere, in ordine all’attività svolta in seno agli organi collegiali, di cui ai precedenti commi 1 e 2, una mera facoltà della «ripetizione degli interventi in lingua italiana» ovvero del «deposito contestuale dei testi tradotti in forma scritta», violerebbe l’art. 7 della legge n. 482 del 1999, il quale, ai commi 3 e 4, statuisce che «qualora uno o più componenti degli organi collegiali di cui ai commi 1 e 2 dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela, deve essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana» e «qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due lingue, producono effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni redatti in lingua italiana». La censurata previsione contrasterebbe, inoltre, con l’art. 8 della legge n. 482 del 1999, il quale, prevedendo la possibilità per il Consiglio comunale di pubblicare atti nella lingua ammessa a tutela, fa tuttavia salvo «il valore esclusivo degli atti nel testo redatto in lingua italiana».

L’art. 11, comma 5, contemplando anche l’utilizzazione di toponimi «nella sola lingua friulana», violerebbe l’art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999, per il quale «la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano», nonché l’art. 10 della stessa legge, il quale dispone che nei Comuni di insediamento della minoranza linguistica «i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi», ma solo «in aggiunta ai toponimi ufficiali». La contestata disposizione risulterebbe altresì incompatibile con l’art. 3, secondo comma, della Costituzione.

L’art. 12, comma 3, stabilendo che al momento dell’iscrizione scolastica «i genitori o chi ne fa le veci, previa adeguata informazione, su richiesta scritta dell’istituzione scolastica, comunicano alla stessa la propria volontà di non avvalersi dell’insegnamento della lingua friulana», determinerebbe innanzitutto un’imposizione alle istituzioni scolastiche di impartire tale insegnamento, violando in tal modo i principi dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche e così ponendosi in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. e con l’art. 21, commi 8 e 9, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa). In secondo luogo, la censurata disposizione violerebbe l’art. 4 della legge n. 482 del 1999, che demanda all’autonomia scolastica i tempi e le metodologie di svolgimento delle attività didattiche e che, al comma 5, prevede che la manifestazione di volontà da parte dei genitori consista nell’assenso alla frequenza dell’insegnamento. La medesima disposizione legislativa regionale, configurando un regime di obbligatorietà che può interrompersi solo con la richiesta di esonero, contrasterebbe altresì con l’art. 3 Cost.

L’art. 14, ai commi 2 e 3, stabilendo che l’insegnamento della lingua friulana sia garantito per almeno un’ora alla settimana per la durata dell’anno scolastico e che nella programmazione dell’insegnamento della lingua friulana siano comprese modalità didattiche che assumano come modello di riferimento il metodo basato sull’apprendimento veicolare integrato delle lingue, pretenderebbe di imporre alle istituzioni scolastiche tempi e modi di insegnamento, ponendosi in tal modo in contrasto con i principi dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche e con quanto disposto dall’art. 4 della legge n. 482 del 1999, che, nel prevedere l’insegnamento della lingua minoritaria nei Comuni di insediamento della minoranza, rinvia a tali principi circa i tempi e le metodologie di svolgimento dell’insegnamento. In particolare la disposizione regionale contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost., che esclude dalla competenza concorrente regionale «l’autonomia delle istituzioni scolastiche»: ciò in virtù della clausola di equiparazione di cui all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (da applicarsi alla Regione Friuli-Venezia Giulia che, ai sensi dell’art. 6, numero 1, dello statuto speciale ha, in materia di istruzione, competenza integrativa).

L’art. 18, comma 4, che legittima la Regione a «sostenere» l’insegnamento della lingua friulana anche nelle istituzioni scolastiche situate nelle aree escluse dal territorio di insediamento della minoranza friulana, contrasterebbe con l’art. 4, commi 1 e 2, della legge n. 482 del 1999, che circoscrive l’insegnamento della lingua minoritaria alle scuole situate nell’ambito territoriale di insediamento della minoranza.

2. – Lo scrutinio delle diverse censure prospettate nel ricorso presuppone una ricostruzione del quadro costituzionale e legislativo entro cui si colloca la legge regionale n. 29 del 2007.

2.1. – Questa Corte ha più volte affermato che la tutela delle minoranze linguistiche costituisce principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale (sentenze n. 15 del 1996, n. 261 del 1995 e n. 768 del 1988). Più precisamente, «tale principio, che rappresenta un superamento delle concezioni dello Stato nazionale chiuso dell’ottocento e un rovesciamento di grande portata politica e culturale, rispetto all’atteggiamento nazionalistico manifestato dal fascismo, è stato numerose volte valorizzato dalla giurisprudenza di questa Corte, anche perché esso si situa al punto di incontro con altri principi, talora definiti "supremi”, che qualificano indefettibilmente e necessariamente l’ordinamento vigente (sentenze n. 62 del 1992, n. 768 del 1988, n. 289 del 1987 e n. 312 del 1983): il principio pluralistico riconosciuto dall’art. 2 – essendo la lingua un elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare – e il principio di eguaglianza riconosciuto dall’art. 3 della Costituzione, il quale, nel primo comma, stabilisce la pari dignità sociale e l’eguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di lingua e, nel secondo comma, prescrive l’adozione di norme che valgano anche positivamente per rimuovere le situazioni di fatto da cui possano derivare conseguenze discriminatorie» (sentenza n. 15 del 1996).

Oltre a questo, alcuni statuti speciali dettano esplicite disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche. Le discipline contenute negli statuti della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4) e del Trentino-Alto Adige/Südtirol (decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670) recano numerose previsioni, configurando due differenziati modelli di tutela delle minoranze linguistiche principali (bilinguismo assoluto o totale nella Regione Valle d’Aosta; separatismo linguistico nella Regione Trentino-Alto Adige), in aggiunta ad alcune speciali disposizioni poste a presidio di altri gruppi linguistici minoritari ivi presenti. In quest’ambito, in entrambi i suddetti statuti vi è anche l’affermazione che la lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica (rispettivamente art. 38 e art. 99).

      Dal canto suo, l’art. 3 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia dispone che «è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali».

2.2. – A questo significativo quadro di principi e di disposizioni di rango costituzionale corrisponde una normativa internazionale che si è sviluppata ed articolata nel tempo.

Se nei testi più risalenti, come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 (artt. 2, 7, 26) e la Convenzione per la salvaguardia per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848 (artt. 6 e 14), si affermavano principi di eguaglianza e non discriminazione per motivi attinenti alla lingua utilizzata dalle persone, soprattutto negli atti internazionali adottati dagli anni novanta emerge anche il problema del trattamento delle cosiddette "minoranze nazionali”: un problema, questo, affrontato andando oltre la mera non discriminazione, per cercare di garantire la effettiva partecipazione degli appartenenti a tali minoranze alla vita collettiva del loro paese attraverso il diritto all’uso della lingua nelle relazioni istituzionali, il diritto all’istruzione anche nella lingua minoritaria, il sostegno alla cultura della minoranza.

Di questa fase innovativa sono significativi esempi la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 1992 (Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche) ed in particolare la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie adottata dal Consiglio d’Europa il 5 novembre 1992. Quest’ultimo testo, in particolare, prevede una tutela particolarmente accentuata delle lingue «regionali o minoritarie», tra l’altro attraverso prescrizioni molto analitiche sull’insegnamento delle medesime ad ogni livello scolastico, sulla possibilità di usare queste lingue in sede giudiziaria e legale, nonché nei rapporti con le pubbliche amministrazioni, sulla previsione di forme di bilinguismo nelle aree in cui sono presenti le lingue minoritarie, sulla garanzia della presenza di queste lingue nel settore dei mezzi di comunicazione e nell’ambito culturale.

Lo Stato italiano non ha, ad oggi, provveduto a ratificare la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992, diversamente da quanto avvenuto con la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali – alla quale fa riferimento la legge 28 agosto 1997, n. 302 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995) – e con la Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali – alla quale fa riferimento la legge 19 febbraio 2007, n. 19 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla protezione e la promozione delle diversità delle espressioni culturali, fatta a Parigi il 20 ottobre 2005).

Particolarmente significativa si rivela l’affermazione contenuta nell’art. 1 della Sezione I della suddetta Convenzione-quadro, a mente della quale «la protezione delle minoranze nazionali e dei diritti e delle libertà delle persone appartenenti a queste minoranze è parte integrante della protezione internazionale dei diritti dell’uomo e in quanto tale rientra nella portata della cooperazione internazionale». La stessa non solo impegna le Parti contraenti a garantire pienamente l’esercizio delle libertà civili agli appartenenti alle minoranze nazionali, ma contiene – tra l’altro – disposizioni sulla libera utilizzazione della lingua minoritaria in privato ed in pubblico, sul suo uso in caso di procedure penali, sulla sua utilizzazione per i nomi personali e le insegne private, sul suo insegnamento nel sistema della pubblica istruzione.

Essa prevede, altresì, nella Sezione II, che «nelle zone geografiche dove persone appartenenti a minoranze nazionali sono insediate per tradizione o in numero sostanziale, qualora tali persone ne facciano richiesta e sempre [che] la richiesta corrisponda ad una effettiva esigenza, le Parti faranno in modo di realizzare per quanto possibile le condizioni che consentano di utilizzare la lingua minoritaria nelle relazioni tra queste persone e le autorità amministrative» (art. 10, comma 2) e che, sempre in tali zone, le Parti contraenti  «nell’ambito del loro sistema legislativo […] in considerazione delle loro specifiche condizioni, faranno ogni sforzo per affiggere anche nella lingua minoritaria le denominazioni tradizionali locali, i nomi delle strade e le altre indicazioni topografiche destinate al pubblico qualora vi sia una domanda sufficiente per tali indicazioni» (art. 11, comma 3).

2.3. – Come ricordato in precedenza, la giurisprudenza di questa Corte, se da tempo ha affermato che «la Costituzione conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l’italiano come unica lingua ufficiale» (sentenza n. 28 del 1982), ha più volte ritenuto che la tutela delle minoranze linguistiche costituisce uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, dal momento che non soltanto ad essa è dedicato l’art. 6, ma questa speciale tutela concretizza il principio pluralistico ed il principio di eguaglianza, «essendo la lingua un elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare» (sentenza n. 15 del 1996; confronta pure le sentenze n. 261 del 1995 e n. 768 del 1988).

Pur garantendo comunque «una tutela minima, immediatamente operativa, sottratta alla vicenda politica e direttamente determinabile attraverso la interpretazione costituzionale dell’ordinamento», il principio consacrato nell’art. 6 Cost. richiede «l’apprestamento sia di norme ulteriori di svolgimento, sia di strutture o istituzioni finalizzate alla loro concreta operatività», in quanto «la misura concreta di effettività di tali principi di tutela delle minoranze è […] condizionata all’esistenza di leggi e misure amministrative» (sentenze n. 15 del 1996, n. 62 del 1992 e n. 28 del 1982).

Intorno alla titolarità di questo potere normativo, attribuito testualmente dall’art. 6 Cost. alla «Repubblica», si è sviluppato per lungo tempo un contenzioso tra Stato e Regioni, risolto dalla giurisprudenza di questa Corte in un primo momento nel senso che fosse solo il legislatore statale abilitato a dettare norme sulla tutela delle minoranze etnico-linguistiche (sentenze n. 14 del 1965, n. 128 del 1963, n. 46 e n. 1 del 1961, n. 38 del 1960).

Proprio con riferimento ad una asserita ingiustificata disparità di trattamento tra la minoranza di lingua slovena del Friuli-Venezia Giulia e gli appartenenti alla minoranza alloglotta del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta con riguardo all’uso della lingua anche nel processo penale (previsto solo per i secondi dall’allora primo e terzo comma dell’art. 137 cod. proc. pen.), questa Corte, con la sentenza n. 28 del 1982, ha affermato che restava «rimesso al legislatore italiano, nella propria discrezionalità, di scegliere i modi e le forme della tutela da garantire alla minoranza linguistica slovena».

Successivamente, questa Corte ha altresì ritenuto che anche le legislazioni regionali e provinciali potessero disciplinare il fenomeno delle lingue minoritarie «anche al di là degli specifici casi espressamente indicati dallo statuto regionale», ma sempre nel pieno rispetto di quanto determinato in materia dal legislatore statale (sentenze n. 261 del 1995, n. 289 del 1987 e n. 312 del 1983).

In effetti, a seguito di questi mutamenti giurisprudenziali, non poche Regioni speciali ed ordinarie hanno approvato discipline in tema di tutela delle minoranze linguistiche.

Dalla richiamata giurisprudenza costituzionale si ricava che l’attuazione in via di legislazione ordinaria dell’art. 6 Cost. in tema di tutela delle minoranze linguistiche genera un modello di riparto delle competenze fra Stato e Regioni che non corrisponde alle ben note categorie previste per tutte le altre materie nel Titolo V della seconda parte della Costituzione, sia prima che dopo la riforma costituzionale del 2001. Infatti, il legislatore statale appare titolare di un proprio potere di individuazione delle lingue minoritarie protette, delle modalità di determinazione degli elementi identificativi di una minoranza linguistica da tutelare, nonché degli istituti che caratterizzano questa tutela, frutto di un indefettibile bilanciamento con gli altri legittimi interessi coinvolti ed almeno potenzialmente confliggenti (si pensi a coloro che non parlano o non comprendono la lingua protetta o a coloro che devono subire gli oneri organizzativi conseguenti alle speciali tutele). E ciò al di là della ineludibile tutela della lingua italiana.

A tale proposito, questa Corte ha avuto occasione di affermare che il legislatore statale «dispone in realtà di un proprio potere di doveroso apprezzamento in materia, dovendosi necessariamente tener conto delle conseguenze che, per i diritti degli altri soggetti non appartenenti alla minoranza linguistica protetta e sul piano organizzativo dei pubblici poteri – sul piano quindi della stessa operatività concreta della protezione – derivano dalla disciplina speciale dettata in attuazione dell’art. 6 della Costituzione» (sentenza n. 406 del 1999). Si tratta, inoltre, di un potere legislativo che può applicarsi alle più diverse materie legislative, in tutto od in parte spettanti alle Regioni. Peraltro, malgrado tutte queste caratteristiche, ci si trova dinanzi ad una potestà legislativa non solo limitata dal suo specifico oggetto, ma non esclusiva (nel senso di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost.), dal momento che alle leggi regionali spetta l’ulteriore attuazione della legge statale che si renda necessaria.

Di particolare rilievo è, poi, a questo riguardo, per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome, la funzione della normativa d’attuazione, vale a dire di quel particolare procedimento che è previsto dai suddetti statuti speciali e che rinvia la specificazione delle implicazioni legislative derivanti dalle disposizioni statutarie alla decretazione legislativa successiva alla deliberazione di commissioni pariteticamente composte da rappresentanti dello Stato e della Regione interessata. È infatti evidente che questo tipo di produzione normativa, che deve comunque necessariamente – dato che fuoriesce dagli abituali modelli procedurali previsti per il percorso legislativo – trovare il suo fondamento in disposizioni statutarie, si pone come norma interposta (e, quindi, sovraordinata) per ciò che riguarda sia la legge statale che quella regionale che vengono a disciplinare corrispondenti ambiti legislativi.

2.4. – La legge n. 482 del 1999 si autoqualifica come legislazione «di attuazione dell’art. 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali».

Fra i suoi molteplici contenuti, di particolare rilevanza è, innanzitutto, la individuazione dei soggetti che possono attivare la procedura mediante la quale si procede alla delimitazione dell’ambito territoriale in cui «si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche». La procedura può iniziare su istanza di appena il quindici per cento dei cittadini di un Comune oppure di un terzo dei consiglieri comunali, e il Comune può esprimere solo un parere alla Provincia, cui è attribuito il potere di delimitare il territorio di insediamento della minoranza. In sostanza, questa legge, pur prevedendo misure di tutela per minoranze di limitata consistenza numerica, tiene in ogni caso fermo il criterio della tutela esclusivamente territoriale delle comunità interessate. Il fatto che le speciali tutele delle lingue minoritarie siano applicabili in aree territoriali nelle quali esistono anche piccole minoranze linguistiche è poi confermato dall’art. 7, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che prevede l’estensione del diritto di esprimersi nella lingua minoritaria dei componenti degli organi collegiali di Comunità montane, Province e Regioni alla condizione che queste «ricomprendano Comuni nei quali è riconosciuta la lingua ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano almeno il 15 per cento della popolazione interessata».

La consacrazione, nell’art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999, della lingua italiana quale «lingua ufficiale della Repubblica» non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso delle lingue minoritarie, evitando che esse possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica; e ciò anche al di là delle pur numerose disposizioni specifiche che affermano espressamente nei singoli settori il primato della lingua italiana (art. 4, comma 1; art. 7, commi 3 e 4; art. 8. confronta, inoltre, l’art. 6, comma 4, del regolamento di attuazione della legge n. 482 del 1999, emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 2 maggio 2001, n. 345).

Nel dettaglio, specifiche garanzie sono dettate dalla legge n. 482 del 1999 per le scuole materne, elementari e medie inferiori (artt. 4 e 5), per le università operanti nelle Regioni interessate (art. 6), per gli organi a struttura collegiale di Comuni, Comunità montane, Province e Regioni (art. 7), per le pubblicazioni dei Comuni (art. 8), per le pubbliche amministrazioni operanti localmente e per i giudici di pace (art. 9), per i Comuni che esercitano competenze in tema di toponomastica (art. 10), per gli organi competenti in materia di ripristino del nome originario (art. 11), per il servizio pubblico radiotelevisivo (art. 12).

Questa legge si autoqualifica come non modificabile da parte delle Regioni ad autonomia ordinaria, dal momento che lascia ai rispettivi legislatori il solo potere di adeguare la propria normativa, nelle materie ad essi devolute, ai principi della legge statale (art. 13).

Per le Regioni a statuto speciale, escluso che la legge possa innovare le speciali norme statutarie esistenti, si prescrive che «l’applicazione delle disposizioni più favorevoli previste dalla presente legge è disciplinata con norme di attuazione dei rispettivi statuti» (art. 18).

2.5. – Per ciò che riguarda lo statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, oltre alla ricordata affermazione contenuta nell’art. 3, non è prevista una specifica disposizione attributiva di competenze in questa materia. E’ però previsto (art. 65) che «con decreti legislativi, sentita una Commissione paritetica di sei membri, nominati tre dal Governo della Repubblica e tre dal Consiglio regionale, saranno stabilite le norme di attuazione del presente statuto e quelle relative al trasferimento all’Amministrazione regionale degli uffici statali che nel Friuli-Venezia Giulia adempiono a funzioni attribuite alla Regione».

È quindi questo lo strumento cui la Regione poteva ricorrere per introdurre eventuali normative volte alla «salvaguarda delle […] caratteristiche etniche e culturali» dei suoi cittadini «qualunque [fosse] il gruppo linguistico» di appartenenza, che fossero derogatorie rispetto al contenuto della legge n. 482 del 1999.

A tale procedura – conformemente, del resto, a quanto previsto dal già citato art. 18 della legge n. 482 del 1999 – si è fatto ricorso per procedere alla approvazione del d.lgs. 12 settembre 2002, n. 223, recante «Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia per il trasferimento di funzioni in materia di tutela della lingua e della cultura delle minoranze linguistiche storiche nella regione».

Non si rinvengono, invece, in alcuna parte del suddetto decreto legislativo di attuazione disposizioni che introducano direttamente, o che autorizzino il legislatore regionale ad introdurre normative derogatorie al contenuto della legge n. 482 del 1999. È, tra l’altro, significativo che lo stesso decreto definisca la legge n. 482 del 1999 (che reca il titolo di «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche») come «"legge” per la tutela della lingua e della cultura delle popolazioni che parlano il friulano e di quelle appartenenti alla minoranza slovena e germanofona», usando, quindi, una formulazione che direttamente riferisce il contenuto della legge alle minoranze linguistiche della Regione.

In ogni caso, sia che da ciò si desuma che la normativa di attuazione abbia recepito, al di là degli adattamenti previsti nei commi dell’art. 1 successivi al primo, il contenuto della legislazione statale (con la conseguente maggiore forza che l’ordinamento attribuisce alle norme di attuazione degli statuti speciali rispetto alla legislazione ordinaria sia dello Stato che delle Regioni,  vedere sentenze n. 132 del 2009, n. 341 del 2001, n. 212 del 1994 e n. 20 del 1956), sia che si evinca che la normativa di attuazione si sia limitata a non introdurre norme derogatorie alla suddetta legislazione statale, il risultato è che la legge regionale non può divergere da quest’ultima.

Le considerazioni innanzi formulate costituiscono, quindi, il quadro di riferimento utile per l’analisi delle censure che il Presidente del Consiglio muove alla legge regionale.

2.6. – La legge regionale n. 29 del 2007, dopo essersi qualificata come attuativa «dell’art. 6 della Costituzione e dell’art. 3» dello statuto regionale, indica, all’art. 2, come proprie fonti legittimanti sia l’esercizio delle competenze legislative della Regione di concorrere all’attuazione dei principi espressi a livello internazionale da tutta una serie di atti internazionali (di diversa natura ed efficacia) a tutela del pluralismo linguistico, sia quelle relative all’attuazione dei «principi della legislazione statale in materia, e in particolare della legge 15 dicembre 1999, n. 482 […], e del decreto legislativo 12 settembre 2002, n. 223 […], tenuto conto dei principi e delle disposizioni della legge regionale 22 marzo 1996, n. 15 (Norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del servizio per le lingue regionali e minoritarie)».

Al di là del fine generale di tutelare, valorizzare e promuovere l’uso della lingua friulana, considerata «parte del patrimonio storico, culturale e umano della Comunità regionale», questa legge afferma esplicitamente di essere «finalizzata ad ampliare l’uso della lingua friulana nel territorio di riferimento», seppure «nel rispetto della libera scelta di ciascun cittadino».

In realtà questa legge, che raccoglie e ridisciplina quanto contenuto in altre precedenti leggi regionali (che, infatti, vengono in parte abrogate), contiene una ricca varietà di disposizioni solo in parte direttamente od indirettamente attuative della legge n. 482 del 1999.

3. – Sulla base di quanto in precedenza evidenziato vanno scrutinate nel merito le suesposte censure e le argomentazioni utilizzate dal ricorrente per motivare la violazione dell’art. 6 Cost. tramite l’asserito contrasto con differenziate disposizioni della legge n. 482 del 1999.

3.1. – Le questioni relative all’art. 6, comma 2, e all’art. 8, commi 1 e 3, della legge regionale in oggetto sono fondate.

Dette disposizioni sono censurate in quanto «contrastano con l’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del 1999 (attuativa dell’art. 6 Cost.), che circoscrive l’uso della lingua minoritaria nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico».

3.1.1. – Il Presidente del Consiglio censura le suddette disposizioni ritenendo che esse, prevedendo «un obbligo generale per gli uffici dell’intera regione, operante anche nelle aree escluse dal territorio di insediamento del gruppo linguistico friulano (delimitato ai sensi dell’art. 3 della stessa legge), di rispondere in friulano "alla generalità dei cittadini” che si avvalgono del diritto di usare tale lingua e di redigere anche in friulano gli atti comunicati "alla generalità dei cittadini”, nonché di effettuare in tale lingua la comunicazione istituzionale e la pubblicità, contrast[i]no con l’art. 9, comma 1, della legge n. 482/99 (attuativa dell’art. 6 Cost.), che circoscrive l’uso della lingua minoritaria nei soli Comuni di insediamento del relativo gruppo linguistico».

Si è già accennato, nel descrivere in via generale il contenuto della legge n. 482 del 1999, che essa prevede un ben preciso sistema di tutela delle minoranze linguistiche presenti in Italia, incentrato sul principio della delimitazione del territorio in cui si applicano le specifiche disposizioni di salvaguardia. Il primo comma dell’art. 3 della legge prevede, infatti, che «la delimitazione dell’ambito territoriale e sub-comunale in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata dal consiglio provinciale, sentiti i Comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei Comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi Comuni». Nei due successivi commi del suddetto articolo si individuano altre forme di attivazione del procedimento volto a definire gli ambiti territoriali di tutela e a costituire organismi di coordinamento e nei successivi articoli si definisce il contenuto delle misure di tutela, sempre però con riferimento ai suddetti ambiti.

Si può, quindi, affermare che il principio cui si ispira la legge n. 482 del 1999 è quello territoriale: la normativa di salvaguardia delle lingue minoritarie riconosciute si applica cioè nei territori in cui vi è una sufficiente presenza di cittadini appartenenti alla minoranza stessa.

Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di disposizioni che prevedano la tutela su base territoriale della lingua minoritaria, sospettate di illegittimità costituzionale per contrasto col diverso principio della tutela personale delle suddette lingue alla luce, in particolare, dell’art. 6 Cost. o delle specifiche normative poste, in alcuni statuti speciali, a tutela dell’uso della lingua minoritaria.

Nella sentenza n. 213 del 1998 si è precisato che «quanto alla pretesa violazione delle norme costituzionali e statutarie in tema di protezione della minoranza italiana di lingua tedesca (artt. 6 e 116 della Costituzione e 100 dello statuto speciale), si deve innanzitutto rilevare che tale protezione è basata non sul principio di personalità ma su quello di territorialità».

Parimenti, nella sentenza n. 406 del 1999, questa Corte, nel giudicare circa la compatibilità costituzionale di una norma del codice di procedura penale (l’art. 109, comma 2) che, a giudizio del rimettente, non avrebbe tutelato l’appartenente alla minoranza quando, in caso di spostamento della competenza territoriale, si fosse trovato ad essere processato fuori del luogo di residenza, ha affermato «che i diritti di uso della lingua riconosciuti agli appartenenti a Comunità linguistiche di minoranza valgono sì come diritti personali ma soltanto nei rapporti con le istituzioni aventi competenza sul territorio di insediamento delle Comunità medesime. La questione di costituzionalità sollevata mira invece a ottenere una pronuncia di questa Corte attraverso la quale si affermi, sia pure soltanto in relazione al caso dei giudizi che formano oggetto della disciplina dell'art. 11 cod. proc. pen., una protezione dei diritti linguistici delle minoranze riconosciute che si proietti al di là dei limiti territoriali di insediamento, una proiezione che tenderebbe a connotare costituzionalmente la disciplina dei diritti linguistici in termini non più territoriali ma personali. […] Ma, per quanto i principi costituzionali richiedano di essere valorizzati nella loro funzione conformatrice della legislazione ordinaria, non è possibile, da una proclamazione come quella contenuta nell'art. 6 della Costituzione ("La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”), inferire l’esistenza di un vincolo del legislatore all’adozione del criterio personale, in luogo di quello territoriale, nella disciplina dei diritti linguistici delle minoranze; tanto più, si può aggiungere, che tale criterio non è nemmeno adottato dagli statuti delle regioni ad autonomia differenziata, la cui speciale ragion d’essere deriva per l’appunto anche dall’esistenza di minoranze linguistiche e dall’esigenza di una loro particolarmente forte protezione».

Vi è, altresì, da considerare che la giurisprudenza di questa Corte ha, fin dalle sue più risalenti sentenze, messo in luce il delicato rapporto tra la specifica tutela prevista dall’art. 6 Cost. e il generale principio di uguaglianza posto dall’art. 3 della medesima.

Già nella sentenza n. 46 del 1961 si afferma che «le competenze normative attribuite alle Regioni o Provincie autonome sono da contenere entro i limiti risultanti dalla specificazione delle singole materie elencate negli Statuti, secondo il contenuto delle medesime da determinare in base a criteri obiettivi, e non se ne può consentire l'estensione a rapporti non rientranti nelle medesime, in base alla mera considerazione dei fini che ne hanno inspirato il conferimento [… dato che deve essere effettuato il] coordinamento fra l’esigenza della protezione delle caratteristiche etniche e dello sviluppo culturale di quel gruppo alloglotto e l'altra della parità del trattamento con gli altri gruppi».

Tale concetto è ribadito nella sentenza n. 128 del 1963 ed in quella n. 14 del 1965 nella quale questa Corte, con riferimento specifico alla statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, ribadisce che lo statuto «afferma (art. 3) il principio generale della parità di diritti e di trattamento di tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale essi appartengono».

Si tratta di un percorso argomentativo che è stato seguito anche negli ultimi anni. Nella sentenza n. 213 del 1998 si afferma nuovamente, infatti, che l’art. 6 Cost. «non contiene in sé una forza espansiva, al di là di quanto espressamente stabilito nelle norme degli statuti regionali speciali» e che «le norme di tutela delle minoranze rappresentano sempre punti di equilibrio e contemperamenti tra le garanzie particolari e l'ordinamento generale. L'estensione delle prime non può non comportare ripercussioni sul secondo».

Non contrastando né con l’art. 6 Cost., né con specifiche norme statutarie, la disposizione che fissa nella legge n. 482 del 1999 il principio della tutela territoriale della lingua minoritaria non può, per i motivi evidenziati al punto 2.5., essere contraddetta dal legislatore regionale.

Passando all’esame delle singole censure, questa Corte sottolinea che il comma 2 dell’art. 6 della legge impugnata, riconoscendo in modo espresso «il diritto di usare la lingua friulana […] a prescindere dal territorio in cui i relativi uffici sono insediati», viene a violare in modo palese quanto previsto dalla legge n. 482, dato che attribuisce il diverso e non riconosciuto diritto ad un uso personale della lingua minoritaria.

Ad analoga conclusione si deve pervenire anche con riferimento alle censure mosse ai commi 1 e 3 dell’art. 8 della legge regionale.

Infatti, la più volte citata legge statale limita, al comma 1 dell’art. 9, l’uso della lingua minoritaria ai «Comuni di cui all’art. 3» (cioè a quelli nei quali si applicano le norme di tutela), mentre il comma 1 dell’art. 8 della legge regionale prevede la redazione «in friulano» degli atti «comunicati alla generalità dei cittadini» anche al di fuori dell’ambito dei suddetti Comuni e il comma 3 garantisce la «presenza della lingua friulana […] anche nella comunicazione istituzionale e nella pubblicità degli atti destinati all’intera Regione». È evidente il contrasto, dato che le censurate disposizioni sanciscono il dovere, da parte della Regione e degli enti locali in cui si applicano le norme di tutela (nonché dei relativi "enti strumentali”), di usare la lingua friulana anche per le comunicazioni che fuoriescano dai suddetti ambiti territoriali.

L’art. 6, comma 2, e l’art. 8, commi 1 e 3, della legge regionale n. 29 del 2007 sono, pertanto, illegittimi per violazione dell’art. 9, comma 1, della legge n. 482 del 1999.

      3.2 – La questione relativa all’art. 9, comma 3, della legge regionale è fondata.

La censurata disposizione contempla una mera facoltà della «ripetizione degli interventi in lingua italiana», ovvero del «deposito contestuale dei testi tradotti in forma scritta» nei dibattiti dei Consigli comunali in cui si può utilizzare la lingua friulana. Dal canto suo, la norma invocata a parametro interposto, vale a dire l’art. 7 della legge n. 482 del 1999, prescrive la «immediata traduzione» di tali interventi.

Il terzo comma dell’art. 7 della legge n. 482 del 1999, nel riconoscere agli appartenenti alla minoranza linguistica protetta facenti parte degli organi collegiali degli enti locali e regionali il diritto di utilizzare la diversa lingua, lo bilancia con la previsione di «una immediata traduzione in lingua italiana» a garanzia sia degli altri componenti che «dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela» sia della stessa complessiva funzionalità degli organi pubblici interessati. Rinviare tutto ciò ai piani di politica linguistica e, soprattutto, ipotizzare forme diverse dalla «immediata traduzione» pone evidenti dubbi sulla pienezza ed immediatezza del confronto dialettico negli organi collegiali.

La puntuale e sollecita comprensione degli interventi svolti in seno ad un organo collegiale è fondamentale ai fini del suo corretto funzionamento. Ove si tratti, in particolare, di un organo elettivo di un ente pubblico, la comunicazione secondo modalità linguistiche immediatamente accessibili è il presupposto per un appropriato confronto dialettico. A sua volta, detto confronto è una delle modalità di estrinsecazione del principio democratico. Sicché, la garanzia della contestuale conoscenza, nella «lingua ufficiale della Repubblica», da parte di tutti i componenti l’organo collegiale del contenuto degli atti e degli interventi posti in essere in quella sede è condizione essenziale perché il confronto democratico possa aver luogo.

Non è esatto pertanto obiettare, come fa la difesa regionale, che si tratterebbe solo dell’individuazione di due diverse modalità «per garantire la traduzione», dato che le modalità della traduzione vengono addirittura rinviate ad una futura procedura, mentre la traduzione (che, tra l’altro, sarebbe verso la «lingua ufficiale») deve essere necessariamente contestuale, così come anche ribadito nell’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 345 del 2001.

L’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007 è, pertanto, illegittimo per violazione dell’art. 7, comma 3, della legge n. 482 del 1999.

Restano assorbite le residue censure.

3.3. – La questione relativa all’art. 11, comma 5, della legge regionale è fondata.

La facoltà per i Comuni di adottare toponimi anche nella sola lingua friulana è incompatibile con la previsione dettata dal legislatore statale che legittima l’uso dei toponimi nella lingua minoritaria solo «in aggiunta ai toponimi ufficiali».

L’art. 10 della legge n. 482 del 1999 costruisce un equilibrato procedimento per affiancare eventualmente, nelle aree con presenza di lingue minoritarie, accanto alla denominazione ufficiale dei Comuni e dei luoghi, altri «toponimi conformi alle tradizioni ed agli usi locali».

La previsione che gli enti locali dell’area in cui è accertata la presenza della minoranza linguistica friulana possano escludere la denominazione ufficiale, optando per toponimi solo in friulano, che divengono le denominazioni ufficiali di Comuni e località, evidentemente altera il disegno generale della legge n. 482 del 1999, fondato non solo sulla valorizzazione delle lingue e delle culture minoritarie, ma anche sulla preservazione del patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana.

Al riguardo, si rivela infondata l’obiezione della difesa regionale secondo la quale, essendo la Regione Friuli-Venezia Giulia «competente in materia di toponomastica», essa potrebbe «disciplinare la definizione del toponimo ufficiale, consentendone la modifica al Consiglio comunale»: la potestà legislativa di questa Regione non può, infatti, espandersi sino al punto di contraddire la chiara portata normativa del principio espresso dall’art. 10 della legge n. 482 del 1989.

Né appare conferente l’esemplificazione che viene effettuata dalla difesa regionale quando fa riferimento ad un limitato numero di Comuni della Valle d’Aosta o della Sardegna che hanno toponimi espressi con lettere o gruppi di lettere estranei alla lingua italiana, dato che finalità espressa della disposizione censurata è di permettere che il toponimo nella lingua friulana divenga, al posto di quello esistente in lingua italiana, l’unico atto a definire il nominativo del Comune o quello «ufficiale a tutti gli effetti».

L’art. 11, comma 5, della legge regionale n. 29 del 2007 è, pertanto, illegittimo per violazione dell’art. 10 della legge n. 482 del 1999.

Restano assorbite le residue censure.

3.4. – La questione relativa all’art. 12, comma 3, della legge regionale è fondata.

Il meccanismo di scelta, configurato dalla censurata disposizione, si sostanzia in una sorta di opzione negativa. Qualora i genitori non vogliano che ai figli sia impartito l’insegnamento della lingua friulana, sono tenuti a comunicarlo al momento dell’iscrizione, previa adeguata informazione, su richiesta scritta dell’istituzione scolastica. Il silenzio serbato sul punto dai genitori equivale ad un vero e proprio assenso, fatta salva la possibilità di modificare tale decisione in occasione dell’apertura del nuovo anno scolastico.

La censurata disposizione contrasta palesemente con quanto previsto dal legislatore statale nell’art. 4, commi 2 e 5, della legge n. 482 del 1999, che stabilisce, invece, che «al momento della preiscrizione i genitori comunicano alla istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell’insegnamento della lingua della minoranza».

Le previsioni della legge n. 482 del 1999, in evidente consonanza con la «libertà di scelta educativa da parte delle famiglie» di cui all’art. 21, comma 9, della legge n. 59 del 1997 e agli artt. 7, comma 2, e 10, comma 2, del decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59 (Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’art. 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53), presidiano la piena libertà educativa della famiglia, che non deve (in un ambito nel quale potrebbero, almeno in ipotesi, prodursi pressioni di vario genere) doversi distinguere in negativo per esprimere la propria mancanza di volontà di far seguire ai propri figli le lezioni di lingua friulana. Non può quindi parlarsi della disposizione censurata come di una mera variante procedurale per permettere l’espressione del consenso, dal momento che la legge n. 482 del 1999 ha inteso garantire la piena libertà di coloro che sono chiamati a compiere una scelta di rilevante valore civile e culturale.

D’altra parte, la stessa legge regionale n. 29 del 2007 afferma al comma 3 dell’art. 1 di essere «finalizzata ad ampliare l’uso della lingua friulana nel territorio di riferimento nel rispetto della libera scelta di ciascun cittadino».

L’art. 12, comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007 è, pertanto, illegittimo per violazione dell’art. 4 della legge n. 482 del 1999.

Restano assorbite le residue censure.

3.5. – La questione relativa all’art. 14, commi 2 e 3, della legge regionale è fondata.

Di questa disposizione è censurata, per un verso, la previsione dell’insegnamento della lingua friulana per almeno un’ora alla settimana (art. 14, comma 2, ultimo periodo). Per altro verso, oggetto di doglianza è pure la previsione dell’uso della lingua friulana come «lingua veicolare», vale a dire che la lingua minoritaria viene indicata come modalità sussidiaria e strumentale di comunicazione per l’insegnamento di altre discipline (art. 14, comma 3).

L’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 14 contrasta con l’art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che attribuisce all’autonomia didattica delle scuole la deliberazione dei tempi di insegnamento della lingua friulana.

È ben vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’autonomia delle istituzioni scolastiche «non può risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione», ma è altrettanto innegabile «che a tali istituzioni [debbono essere] lasciati adeguati spazi di autonomia che le leggi statali e quelle regionali, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare» (sentenza n. 13 del 2004). L’art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999 contempera le ragioni sottese alla tutela e valorizzazione della lingua friulana in ambito didattico, e l’autonoma determinazione dei percorsi formativi tracciati dalle istituzioni scolastiche. La previsione di una fascia temporale minima, comunque obbligatoria, di insegnamento della lingua friulana, altera detto equilibrio. D’altra parte, la programmazione dell’offerta didattica dipende anche dal numero delle richieste di insegnamento della lingua friulana che potranno pervenire dalle famiglie.

Per le medesime ragioni, il comma 3 dell’art. 14 confligge con l’art. 4, comma 2, della legge n. 482 del 1999, che attribuisce all’autonomia delle scuole la deliberazione delle «metodologie» didattiche da utilizzare, mentre la previsione, da parte della norma censurata, che si debba adottare «il metodo basato sull’apprendimento veicolare integrato» della lingua friulana limita drasticamente le scelte didattiche operabili dalla scuola.

Inoltre, l’apprendimento veicolare integrato delle lingue dovrebbe presupporre un consenso generalizzato alla frequenza dei corsi di insegnamento della lingua friulana, poiché altrimenti coloro che non frequentano questi corsi sarebbero privati dell’insegnamento delle materie «veicolate» dal friulano o alcuni insegnamenti dovrebbero essere effettuati due volte.

Sul punto è da rigettare la tesi della difesa regionale secondo cui quanto determinato dalla norma censurata sarebbe già previsto nell’art. 4, comma 1, della legge n. 482 del 1999, poichè la disposizione statale non fa altro che enunciare che anche la lingua friulana rientrerà, per le scuole materne, fra le «attività educative» e, per le scuole elementari e quelle secondarie di primo grado, fra le materie di insegnamento. Infatti, il successivo comma 2 del medesimo art. 4 afferma esplicitamente che sono le istituzioni scolastiche elementari e secondarie di primo grado, nell’ambito della loro autonomia organizzativa e didattica, a deliberare «anche, sulla base delle richieste dei genitori degli alunni, le modalità di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle tradizioni culturali delle Comunità locali, stabilendone i tempi e le metodologie».

Gli articoli 14, comma 2, limitatamente all’ultimo periodo, e comma 3, della legge regionale n. 29 del 2007 sono, pertanto, illegittimi per violazione dell’art. 4 della legge n. 482 del 1999.

Restano assorbite le residue censure.

      3.6. – La questione relativa all’art. 18, comma 4, della legge regionale non è fondata.

La censurata disposizione, nel legittimare la Regione a «sostenere» l’insegnamento della lingua friulana anche nelle istituzioni scolastiche situate nelle aree escluse dal territorio di insediamento della minoranza friulana, non vìola l’art. 4 della legge n. 482 del 1999, dal momento che il legislatore regionale si è limitato a prevedere una mera possibilità di sostegno economico da parte della stessa Regione alle istituzioni scolastiche (di qualsiasi grado) che, nella loro autonomia, ritengano utile sviluppare, anche in aree esterne alla zonizzazione territoriale, l’insegnamento della lingua friulana.

Non solo disposizioni del genere erano già contenute nella legge regionale n. 15 del 1996 (artt. 19 e 27), ma gli artt. 12, comma 2, 14 e 16 della stessa legge n. 482 del 1999 prevedono la possibilità per le Regioni di sostenere, mediante le loro finanze, iniziative culturali od informative connesse alle lingue minoritarie senza incontrare limiti territoriali.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 6, comma 2, 8, commi 1 e 3, 9, comma 3, 11, comma 5, 12, comma 3, e 14, commi 2, ultimo periodo, e 3, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana);

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2007, sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 6 della Costituzione, in relazione all’art. 4, commi 1 e 2, della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2009.