SENTENZA N. 22
ANNO 2014
Commento alla decisione di
Fulvio Cortese
(per g. c. del Forum di Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
-
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge
6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
7 agosto 2012, n. 135, promossi dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania,
dalla Regione autonoma Sardegna e dalla Regione Puglia con ricorsi notificati
il 12-17, il 12, il 13-17, il 12 e il 15-18 ottobre 2012, depositati in
cancelleria il 16, il 17, il 18, il 19 e il 24 ottobre 2012 e rispettivamente
iscritti ai nn. 145, 151,
153,
160
e 172
del registro ricorsi 2012.
Visti gli atti di costituzione
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del
3 dicembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Marcello
Cecchetti per
Ritenuto in fatto
1.– Le
Regioni Lazio, Veneto, Campania e Puglia, e la Regione autonoma Sardegna, con i
ricorsi in epigrafe, hanno proposto questioni di legittimità costituzionale di
varie disposizioni del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti
per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), convertito, con modificazioni, dell’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135, e, tra queste, dell’art. 19.
In
particolare, le disposizioni censurate sono quelle di cui al comma 1, lettere a), b),
c), d), e), ed ai commi da
In estrema
sintesi, l’art. 19, per quanto forma in questa sede oggetto di impugnazione,
rispettivamente:
– al comma
1, lettera a) – che reca il nuovo
testo del comma 27 dell’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30
luglio 2010, n. 122 – ridefinisce le funzioni fondamentali dei Comuni ai sensi
della lettera p) dell’art. 117, secondo comma,
Cost.
– al comma
1, lettera b) − che sostituisce
il comma 28 dell’art. 14 anzidetto − dispone, con riferimento ai Comuni
con popolazione fino ai 5.000 abitanti, l’esercizio obbligatorio in forma
associata delle funzioni fondamentali, mediante unione di Comuni o convenzioni
di durata triennale;
– al comma
1, lettera c) – che aggiunge il comma
28-bis al citato art. 14 – prevede
che alle unioni di Comuni di cui al riscritto precedente comma 28 si applichi
la disciplina di cui all’art. 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267
(Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e successive
modificazioni; e che ai Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti si
applichi quanto previsto al comma 17, lettera a), dell’art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14
settembre 2011, n.
– al comma
1, lettera d) – che sostituisce il
comma 30 dello stesso art. 14 − dispone che le Regioni, nelle materie di
cui all’art. 117,
commi terzo e quarto, Cost.,
individuano le dimensioni territoriali ottimali per l’esercizio delle funzioni
in forma obbligatoriamente associata, mediante unioni e convenzioni;
– al comma
1, lettera e) – che sostituisce il comma
31 del medesimo art. 14 − individua il limite demografico minimo delle
unioni di Comuni in 10.000 abitanti, salva diversa determinazione da parte
della Regione;
– al comma
3 − che sostituisce l’art. 32 del citato d.lgs. n. 267 del 2000 −
pone una disciplina articolata delle unioni di Comuni, con differenti profili,
attinenti alle procedure di istituzione ed alla struttura organizzativa delle
unioni, nonché alla disciplina delle funzioni che queste ultime sono destinate
a svolgere;
– al comma
4 prevede, per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, una facoltà di
scelta tra i modelli organizzativi di cui ai precedenti commi 1 e 2.
2.–
In questi
termini – sottolinea la ricorrente – si sarebbe orientata la stessa
giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 456 del 2005,
n. 244 del 2005
e n. 229 del
2001), mettendo in luce il carattere «puntuale» della «tassativa»
elencazione «degli enti, e degli aspetti della loro disciplina, contenuta nell’art. 117, comma secondo,
lettera p)».
E tali
conclusioni la medesima ricorrente ha ribadito con memoria depositata in
prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013 (cui è stata rinviata, a seguito di
ordinanza n. 227
del 2012, la trattazione delle questioni), nella quale aggiunge che, sulla
scorta dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 27 del
2010), l’esercizio associato di funzioni da parte degli enti locali è da
ascriversi alla potestà legislativa residuale delle Regioni, salva
l’eventualità di un intervento di contenimento della spesa pubblica in base ai
principi di coordinamento della finanza pubblica, che però, nel caso di specie,
non sarebbe ravvisabile, posto che la normativa denunciata risulta dettagliata
e non transitoria.
3.– Anche
Invero,
nonostante le disposizioni di cui all’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, siano qualificate
come norme di «coordinamento della finanza pubblica», esse sarebbero ben lungi
dal costituire principi fondamentali di siffatta materia, posto che, per un
verso, non si limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza
pubblica, «intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche
se non generale, della spesa corrente»; e, per altro verso, prevedono «in modo
esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».
Inoltre,
sarebbe violato anche l’art. 118, primo comma, Cost., il quale non fa
riferimento alle unioni di Comuni o alle convenzioni tra Comuni, che, pertanto,
«dovrebbero essere, soprattutto nel rispetto del fondamentale art. 114 Cost.,
libere forme associative cui il Comune può (non deve) ricorrere».
Infine,
3.1.− In prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013,
4.–
La
ricorrente osserva al riguardo che la norma denunciata, nel circoscrivere il
ruolo delle Regioni a quello dell’esclusivo svolgimento dei compiti di
programmazione e coordinamento, di fatto sottrarrebbe agli stessi enti «tutte
le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano
pacificamente spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost.».
Invero, si
evincerebbe dall’art.
118 Cost. che la Regione è titolare «di un ampio
novero di funzioni che potrà delegare ai comuni o alle province o alle città
metropolitane» e che tale attribuzione in concreto necessita di una legge di
conferimento, come pure ribadito dall’art. 7 della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Sicché, il legislatore (statale e
regionale) ha il compito di conferire ai Comuni le funzioni amministrative
precedentemente esercitate, con contestuale trasferimento delle risorse
necessarie, potendo però «provvedere all’allocazione delle funzioni medesime ad
un livello diverso da quello comunale, laddove ciò permetta il loro migliore
esercizio». Ciò, tuttavia, non escluderebbe che, «nella propria opera di
concreta destinazione delle funzioni amministrative rientranti nelle materie di
propria competenza» (ai
sensi dell’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.), la Regione possa anche
riservarsi «l’esercizio di compiti diversi ed ulteriori rispetto a quelli di
programmazione e coordinamento».
La norma
denunciata limiterebbe, invece, il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo
di compiti di programmazione e controllo, ridimensionando in modo illegittimo
il potere della Regione «di optare per un diverso sistema di riparto delle
funzioni amministrative»; ciò determinando un vulnus agli artt. 117, commi terzo e
quarto, e 118
Cost.
Ove, poi,
non si intendesse riconoscere la lesione dell’art. 117, quarto comma, Cost., sussisterebbe in ogni caso quella del combinato
disposto degli artt.
117 e 118 Cost.
sul riparto costituzionale di competenze legislative
di Stato e Regioni in materia di disciplina dell’esercizio delle funzioni
amministrative da parte degli enti locali, «nella misura in cui la norma
statale disciplina l’esercizio in forma associata, da parte dei comuni
interessati, di tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici
loro spettanti sulla base della legislazione vigente».
Difatti, non
potendo revocarsi in dubbio che la competenza regionale in materia di
disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative sussista «ogni
qualvolta le funzioni stesse interessino ambiti materiali di diretta pertinenza
regionale (esclusiva o concorrente)», il censurato art. 19, mancando di
distinguere le funzioni amministrative attualmente esercitate dai Comuni
interessati, ha «sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in ambiti
materiali regionali, violando in tal modo le attribuzioni costituzionalmente
garantite alla regione».
4.1.– Peraltro, l’art. 19 prevede ulteriori disposizioni in materia di esercizio
associato delle funzioni in ambito comunale, quali quelle di cui alle lettere
da b) a d) del comma 1, che modificano integralmente la disciplina posta in
materia dai commi 28 e seguenti dell’art. 14 del citato d.l. n. 78 del 2010.
Tali disposizioni stabiliscono l’esercizio obbligatorio delle funzioni
fondamentali, mediante unione o convenzione, da parte dei Comuni con
popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se in comunità montane), là dove il
ruolo della Regione viene limitato, in relazione alle materie di cui al terzo e
quarto comma dell’art. 117 Cost., «alla mera individuazione, previa
concertazione con gli enti locali interessati nell’ambito del C.A.L., della
dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo
svolgimento associato delle funzioni suddette». Inoltre, il comma 3 dell’art.
19 innova l’art. 32 del d.lgs. n. 267 del
Secondo la
ricorrente, anche tali disposizioni sarebbero, all’evidenza, in contrasto con
gli artt. 117 e 118 Cost., in ragione delle
considerazioni in precedenza svolte circa la competenza regionale riferita alla
disciplina degli strumenti e delle modalità a disposizione dei Comuni per
l’esercizio congiunto delle funzioni loro spettanti.
4.2.– Con successive memorie depositate in prossimità sia dell’udienza pubblica
del 19 giugno 2013 che di quella del 3 dicembre 2013,
In
particolare ha evidenziato che, in sede di esame del progetto di legge in itinere (AC 1542), tramite il quale
si intenderebbe intervenire nuovamente sulla disciplina dell’unione dei Comuni,
la Corte dei conti, nell’audizione del 6 novembre 2013, avrebbe espresso dubbi
sulla reale incidenza delle nuove istituzioni sul risparmio di spesa nel lungo
periodo, adducendo che «la potenziale dinamica virtuosa che connota,
tendenzialmente, l’esercizio associato di funzioni e servizi è frenata dai
fattori di rigidità della spesa corrente». Con ciò sarebbero smentite le
enunciazioni del legislatore in ordine alla riconducibilità delle disposizioni
di cui all’art. 19 denunciato al «coordinamento della finanza pubblica»,
trattandosi, in ogni caso, di disposizioni analitiche e di dettaglio, che non
terrebbero conto, nel disegno di complessivo riordino cui mirano, dei principi
di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, tanto da non essere neppure
in grado di assicurare «le attese riduzioni di spesa».
5.– Anche la Regione autonoma Sardegna ha impugnato l’art. 19 del d.l. n. 95
del 2012, il quale, «nel novellare l’art. 16 del decreto-legge n. 138 del 2011
e nel dettare ulteriori disposizioni in tema di unioni di comuni, ha
ulteriormente modificato in profondità l’organizzazione politico-amministrativa
dei comuni minori della Sardegna, attraverso una disciplina di estremo
dettaglio e particolarmente stringente».
Le
disposizioni del denunciato art. 19 – nell’istituire obbligatoriamente unioni
di Comuni, nel ridurre contestualmente i consigli comunali a puri organi di
partecipazione e il sindaco a semplice ufficiale di Governo – provocherebbero,
di fatto, secondo la ricorrente «la soppressione dei comuni che partecipano a
questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di ente
territoriale», con conseguente contrasto con le norme che garantiscono alla
Regione Sardegna una sfera di autonomia legislativa esclusiva in materia di
«ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» di cui all’art.
3, primo comma, lettera b), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna),
che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto particolarmente ampia, tanto
da consentire l’istituzione di nuove Province.
Sarebbe,
altresì violato l’art. 117, quarto comma, Cost., posto che la competenza
esclusiva dello Stato di cui alla lettera p)
dell’art. 117, secondo comma, Cost., così come non può riguardare − per
essere tassativamente riferita a Comuni, Province e Città metropolitane
(sentenze n. 456
e n. 244 del
2005) − le comunità montane (la cui disciplina rientra in quella
residuale regionale, siccome garantita, per il tramite dell’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione», anche alla Regione Sardegna) − del pari non potrebbe
attenere alle unioni di Comuni.
Peraltro,
non potrebbe far venir meno la lesività delle censurate disposizioni la
clausola di salvaguardia delle competenze delle Regioni ad autonomia
differenziata recata dal comma 29 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, posta,
in primo luogo, la già evidenziata competenza legislativa esclusiva della
Regione Sardegna nella materia «ordinamento degli enti locali e delle relative
circoscrizioni», nonché, ulteriormente, il fatto che l’art. 19 censurato «non
introduce una normativa di carattere generale o limitata ai principi di
semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti non necessari,
bensì un’autoritativa e unilaterale determinazione delle forme e delle modalità
di attuazione della c.d. intercomunalità, cui segue
una regolamentazione di estremo dettaglio, della quale la Regione, anche
attivando le procedure necessarie per il rispetto del proprio Statuto, e pur
applicandosi quanto previsto dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, non
potrebbe che prendere atto e recepire in via automatica». Sicché, sarebbe anche
da escludere che la disciplina denunciata possa integrare una fondamentale
riforma economico-sociale della Repubblica, ovvero esercizio della potestà
legislativa di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
5.1.– Con
successiva memoria, la ricorrente, nel ribadire le ragioni dell’impugnativa,
osserva, segnatamente, che la disciplina censurata, dettata in violazione della
competenza esclusiva regionale in materia di «ordinamento degli enti locali e
delle relative circoscrizioni», di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), dello statuto, non solo non prevederebbe alcun principio fondamentale in ordine «alle
esigenze di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti
non necessari», ma verrebbe a stabilire «un’autoritativa e unilaterale
determinazione del livello demografico della c.d. intercomunalità,
cui segue una regolamentazione di estremo dettaglio», che la Regione non
potrebbe che recepire automaticamente, senza adattamenti in base alle procedure
statutarie, come previsto dalla clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis dello stesso d.l. n. 95 del
2012.
La
ricorrente esclude, inoltre, che la disposizione denunciata possa trovare
titolo di legittimazione nello stesso art. 3 dello statuto, ove si prevede che
la competenza legislativa regionale debba esercitarsi in armonia con i principi
dell’ordinamento giuridico della Repubblica e nel rispetto delle norme
fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica stessa, non
potendo i primi desumersi da una singola norma o da un singolo intervento
normativo e le seconde essere ricondotte al profilo istituzionale degli enti
locali anziché ai rapporti economico-sociali tra cittadini o tra cittadini e
istituzioni. Ed ancora non potrebbe la norma denunciata essere giustificata
come esercizio della potestà legislativa di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., giacché questa regola soltanto il riparto di
competenze tra Stato e Regioni ordinarie, là dove è l’art. 3 dello statuto «a
definire gli ambiti di attribuzione dello Stato e della Regione Sardegna».
La difesa
regionale contesta, poi, che l’intervento normativo oggetto di censura possa
ricondursi alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», osservando
che, oltre ad essere di dettaglio, non sortirebbe alcun «effetto virtuoso sui
saldi di finanza pubblica», come sarebbe dimostrato dal fatto che nella
"relazione tecnica” di accompagnamento al d.d.l. di conversione in legge del
d.l. n. 95 del 2012 si afferma che in base alla previsione di cui all’art. 19
non deriveranno ulteriori spese, ma non già «utilità dal punto di vista dei
risparmi finanziari».
6.–
A tal
riguardo, la difesa regionale osserva che la potestà legislativa statale di cui
alla lettera p) del secondo comma
dell’art. 117 Cost., è «per sua natura, limitata», non
potendo lo Stato giungere a «qualificare liberamente» qualsiasi funzione
amministrativa come «funzione fondamentale» dei Comuni o delle Province, così
da poterne disporre l’integrale disciplina. Ciò in quanto, diversamente
opinando, si priverebbe di qualunque «contenuto precettivo gli artt. 117, terzo
e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., i quali
prescrivono che sia la legge regionale ad allocare e disciplinare le funzioni
amministrative nelle materie diverse da quelle di competenza legislativa
statale».
Ad avviso
della ricorrente, il carattere «limitato» della richiamata potestà legislativa
statale in materia di «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»
sarebbe stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale, sebbene
in essa non si rinvenga una chiara individuazione di siffatti limiti. Invero,
secondo
In tal
senso deporrebbe una serie di convergenti argomenti. In primo luogo, quello
«topografico» e cioè l’aver l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. inserito
le «funzioni fondamentali» nell’ambito dello stesso testo normativo che
contempla gli «organi di governo» e la «legislazione elettorale». In secondo
luogo, il rilievo che assumono i principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza di cui all’art. 118, primo comma, Cost. nell’allocazione (sia da
parte della legge statale, che della legge regionale) delle funzioni
amministrative, sicché, essendo «la ratio
della attribuzione allo Stato di una competenza legislativa […] da rintracciare
in una esigenza unitaria di livello nazionale, risulterebbe del tutto
incomprensibile individuare una tale esigenza unitaria nell’ipotesi in cui tra
le funzioni fondamentali menzionate alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., fossero annoverabili anche
funzioni amministrative consistenti nella concreta cura di interessi».
Peraltro, ciò non pregiudicherebbe la necessità di garantire standard di
uniformità di certe funzioni rilevanti per le collettività locali, che, in
quanto tali, si volessero includere tra le funzioni fondamentali, potendo lo
Stato attivare la propria competenza in materia di «livelli essenziali delle
prestazioni» o, comunque, lo strumento del potere sostitutivo straordinario di
cui all’art. 120, secondo comma, Cost.
Diversamente,
la qualificazione in termini di «fondamentali» delle funzioni amministrative
rientranti in materie di potestà legislativa regionale equivarrebbe ad espropriare le
Regioni «della possibilità di disciplinare e allocare importanti funzioni
amministrative ricadenti negli ambiti materiali che la Costituzione assegna
alla loro competenza legislativa». In tale lesiva direzione si sarebbe mossa la
norma denunciata, comprendendo tra le funzioni fondamentali «settori di
primissima importanza». Tra questi, la «organizzazione dei servizi pubblici di
interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto
pubblico comunale», che inerisce alla materia dei «servizi pubblici locali», da
collocarsi nell’ambito dell’art. 117, quarto comma, Cost. Ed ancora, la
«pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la
partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale»,
riferibile al «governo del territorio»; la «progettazione e gestione del
sistema locale dei servizi sociali ed erogazione della relative prestazioni ai
cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della
Costituzione», ascrivibile alla competenza residuale regionale, in materia di
«servizi sociali» (come si evincerebbe dalle sentenze n. 61 e n. 40 del 2011,
n. 10 del 2010
e n. 50 del 2008,
di questa Corte). Inoltre, le funzioni in tema di «edilizia scolastica per la
parte non attribuita alla competenza delle province», nonché in tema di
«organizzazione e gestione dei servizi scolastici», posto che lo Stato, in
materia di istruzione, dispone unicamente della competenza sulle «norme
generali sull’istruzione» di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ed i «principi fondamentali» in materia di
«istruzione» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Così come le «attività, in
ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei
primi soccorsi», rientranti nella competenza regionale in materia di
«protezione civile», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.;
e, infine, le funzioni in materia di «polizia municipale e polizia
amministrativa locale», espressamente escluse, dall’art. 117, secondo comma,
Cost., dalla competenza esclusiva statale e da ricondursi, invece, alla potestà
legislativa regionale residuale.
La difesa
regionale sostiene, poi, che dalla stessa giurisprudenza costituzionale si
trarrebbe la convinzione che «importanti servizi pubblici locali non possano
senz’altro essere "avocati” alla competenza legislativa dello Stato mediante la
utilizzazione, da parte di quest’ultimo, della qualificazione dei medesimi come
"funzioni fondamentali”». Ciò si evincerebbe, anzitutto, dalla sentenza n. 274 del
2004, che ha «escluso che le norme in tema di servizi pubblici locali
possano rientrare» nella anzidetta competenza statale, in quanto la «gestione
dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione
propria ed indefettibile dell’ente locale». Inoltre, con la sentenza n. 325 del
2010 si è affermato chiaramente che il servizio idrico integrato «non
costituisce funzione fondamentale dell’ente locale».
Donde, la
considerazione che dette funzioni fondamentali non possano identificarsi con
quelle aventi la «cura concreta di interessi», la cui allocazione ad un livello
di governo diverso da quello ritenuto inadeguato deve avvenire per legge in
forza del principio di sussidiarietà e, posto che la legge potrebbe attribuirle
ad un livello «ultracomunale» (si veda, ad es., l’art. 3-bis del d.l. n. 138 del 2011), «appare chiaro che nessuna funzione
di cura concreta di interessi è ontologicamente propria e indefettibile per i
comuni», essendo quest’ultime solo quelle «ordinamentali».
In ogni
caso, le sentenze sopra citate avrebbero escluso che lo Stato possa ascrivere ad libitum la qualifica di
«fondamentale» a qualsiasi funzione delle Province, Comuni e Città
metropolitane ed hanno ritenuto che detta qualificazione non possa riguardare i
servizi pubblici locali e, segnatamente, il servizio pubblico integrato.
Né potrebbe
valere a contrario – soggiunge la
difesa regionale – quanto deciso dalla più recente sentenza n. 148 del
2012, che ha dichiarato non fondata «analoga censura» mossa proprio dalla
Regione Puglia avverso l’art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010, posto che
in quell’occasione la Corte ha ritenuto che la qualificazione di «funzioni
fondamentali» fosse caratterizzata dalla «transitorietà» ed orientata a
«limitati fini», mentre la norma attualmente denunciata detta una disciplina
generale e «a regime».
6.1.– È
censurata poi, dalla medesima ricorrente, la lettera d) del comma 1 dell’art. 19, che affida alla Regione
l’individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area
geografica per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata da parte
dei Comuni delle funzioni fondamentali; la norma impugnata contrasterebbe,
anzitutto, con gli artt. 117, quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., «nella
parte in cui si rivolge anche a funzioni amministrative ricadenti in ambiti
materiali affidati, ex art. 117,
quarto comma, Cost., alla potestà legislativa regionale residuale».
Sul
presupposto che le funzioni fondamentali possano essere solo quelle
«ordinamentali» e, dunque, quelle essenziali attinenti «alla vita stessa e al
governo degli enti locali»,
L’art. 19,
comma 1, lettera d), del d.l. n. 95
del 2012 si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 123, primo e ultimo
comma, Cost., «nella parte in cui impone alla Regione
di attivare una "concertazione con i comuni interessati nell’ambito del
Consiglio delle autonomie locali”».
Siffatta
previsione invaderebbe, infatti, la riserva di potestà statutaria regionale in
materia di organizzazione e di funzionamento della Regione, stabilita dal primo
comma dell’art. 123 Cost., nonché sulla disciplina del
Consiglio delle autonomie locali e delle sue funzioni «quale organo di
consultazione fra la Regione e gli enti locali», riconosciuta dal quarto comma
dello stesso art. 123. Né, peraltro, sussisterebbe qualche titolo di
legittimazione statale ad intervenire sul Consiglio delle autonomie locali,
«che la Costituzione espressamente qualifica quale organo regionale necessario
e indefettibile». Del resto, la normativa statale con la quale si è individuato
l’organo regionale titolare di determinate funzioni è stata già oggetto di
pronunce di incostituzionalità, per lesione dell’autonomia regionale quanto
alla sua organizzazione interna, con le sentenze n. 22 del 2012,
n. 201 del 2008
e n. 387 del
2007.
6.2.– L’esaminata impugnativa coinvolge anche la disposizione di cui alla
lettera e) del comma 1 dello stesso
art. 19, che individua il limite demografico minimo delle unioni di Comuni in
10.000 abitanti, salva diversa determinazione da parte della Regione «entro i
tre mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato obbligatorio delle
funzioni fondamentali, ai sensi del comma 31-ter».
Detta
norma, secondo la ricorrente, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., «in quanto il
legislatore statale ordinario non dispone di un titolo di legittimazione a
regolare l’istituzione e l’organizzazione delle unioni di comuni, poiché, in materia
di ordinamento degli enti locali, come ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza costituzionale, gode soltanto della competenza a stabilire norme
in tema di legislazione elettorale, funzioni fondamentali e organi di governo
di Province, Comuni e Città metropolitane».
Infatti
dopo la riforma costituzionale del 2001, lo Stato non avrebbe più un titolo di
legittimazione generale per disciplinare «l’ordinamento degli enti locali», che
ora spetta, in linea generale-residuale, alle Regioni, mentre lo Stato medesimo
«può intervenire soltanto per disciplinare le funzioni fondamentali, la
legislazione elettorale, e gli organi di governo dei soli enti locali
costituzionalmente necessari, ovverosia Comuni, Province e Città
metropolitane», mantenendo, poi, per talune materie (ad es. il coordinamento
della finanza pubblica), una competenza trasversale.
Sarebbe
questa, ad avviso della Regione Puglia, una impostazione seguita anche dalla
giurisprudenza costituzionale, come dimostrerebbe la ritenuta non pertinenza
della lettera p) del secondo comma
dell’art. 117 Cost. al caso delle «comunità montane»,
quali anch’esse «unione di Comuni» (sentenza n. 244 del
2005), al pari di quelle contemplate dalla norma denunciata. Sulla stessa
scia si porrebbero le sentenze n. 173 del 2012,
n. 327 del 2009,
n. 326 del 2008,
n. 397 del 2006
e n. 456 del
2005, concernente il «"sub settore” della "organizzazione degli uffici
regionali e degli enti locali” e, all’interno di quest’ultima,
dell’"organizzazione delle società dipendenti, esercenti l’industria o i
servizi”».
6.3.– Quanto al comma 3 dell’art. 19 – che pone una disciplina articolata delle
unioni di Comuni con differenti profili – ed al connesso successivo comma 4,
sostiene la ricorrente che anche tali disposizioni sarebbero in contrasto con
l’art. 117, secondo comma, lettera p),
e quarto comma, Cost.
Lo Stato –
come già evidenziato in precedenza – non potrebbe, infatti, esibire una
competenza legislativa diversa da quella inerente alla legislazione elettorale,
alle funzioni fondamentali e agli organi di governo di Province, Comuni e Città
metropolitane, per cui non avrebbe titolo alcuno «per disciplinare
l’istituzione e l’organizzazione di enti locali differenti da quelli appena
menzionati, quali le unioni di comuni, tanto più e a maggior ragione se la
suddetta disciplina pretende di assumere – come nel caso di specie – natura
vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della
Regione e dei comuni interessati», così da incidere su un ambito affidato alla
potestà regionale residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.
6.3.1.–
La
disposizione richiamata, a suo avviso, contrasterebbe, infatti, con i commi
primo, secondo e sesto dell’art. 119 Cost., «i quali, nel riconoscere
esclusivamente agli enti autonomi costitutivi della Repubblica l’autonomia
finanziaria di entrata e di spesa, il potere di stabilire ed applicare "tributi
ed entrate propri” (in armonia con la Costituzione e secondo "i principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”), nonché la
disponibilità di un proprio patrimonio, impediscono che la legge statale possa
sottrarre autonomia impositiva e di entrata nonché risorse patrimoniali ai
suddetti enti, attribuendole in titolarità a nuovi e diversi enti territoriali»
e cioè alle unioni di Comuni.
Peraltro,
in tal modo la norma censurata violerebbe anche i limiti che l’art. 117, terzo
comma, Cost. impone alla potestà legislativa dello
Stato in materia di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario», «fuoriuscendo dall’ambito dei "principi fondamentali” e invadendo
perciò gli spazi costituzionalmente affidati alla potestà legislativa regionale
sia dal terzo che dal quarto comma dell’art. 117 Cost.».
6.4.– In prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013
In
relazione alla censura che investe la lettera a) del comma 1 dell’art. 19 (denunciato giacché «concerne funzioni
amministrative diverse da quelle propriamente ordinamentali, comprendendo anche
funzioni amministrativo-gestionali e, in ogni caso, perché qualifica come
"fondamentali” funzioni che non possono in alcun caso essere ritenute tra
quelle "indefettibili” dei Comuni»), la ricorrente esclude che lo Stato possa,
esso stesso, «definire ed individuare il "carattere fondamentale” delle
funzioni» di cui alla lettera p) del
secondo comma dell’art. 117 Cost., essendo queste solo quelle «proprie e
indefettibili degli enti locali» e cioè quelle che l’ente «deve svolgere
necessariamente e immancabilmente, in modo tale che sarebbe impensabile
l’esistenza di un ente locale che non le svolgesse». Tali sarebbero le funzioni
«coessenziali alla vita dell’ente» e cioè le funzioni "ordinamentali” (tra cui,
quella statutaria, regolamentare, di autorganizzazione, di bilancio) e non già
quelle di «gestione e cura di concreti interessi», le quali devono, invece,
essere distribuite in base all’art. 118 Cost. dai
legislatori di volta in volta competenti. In tal senso, del resto, parrebbe
orientarsi anche la difesa erariale, allorché distingue tra funzioni attinenti
alla vita dell’ente e quelle amministrative in senso stretto.
Quanto alla
censura che investe la lettera d) del
comma 1 dell’art. 19 (denunciato in quanto, «trattandosi di una disciplina di
principio circa l’allocazione delle funzioni amministrative, il legislatore
statale avrebbe potuto legittimamente intervenire solo ed esclusivamente
nell’ambito delle materie per le quali sia titolare della potestà esclusiva o –
al più − concorrente»), la Regione esclude che possa valere, a sostegno
dell’infondatezza della questione, l’argomento della ascrivibilità della
disciplina impugnata alla materia del «coordinamento della finanza pubblica»,
posto che il suo oggetto principale è «il riordino delle funzioni e la loro
redistribuzione alla luce della individuazione degli ambiti ottimali», mentre
il fine della riduzione della spesa non sarebbe neppure "accessorio”.
Né, secondo
la ricorrente, potrebbe al riguardo invocarsi il titolo legittimante della
competenza esclusiva statale di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost.,
che, in ogni caso, seppure autorizzasse lo Stato stesso alla "individuazione
delle funzioni fondamentali”, non potrebbe comunque consentirgli di dettare una
disciplina «di dettaglio del contenuto di quelle stesse funzioni», ove
pertinenti a materie di competenza regionale.
7.– In tutti i riferiti giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
formulando – e ribadendo in successive memorie – conclusioni di inammissibilità
o comunque di non fondatezza delle questioni sollevate dalle Regioni.
La difesa
erariale osserva che la definizione delle funzioni fondamentali rientra nella
competenza esclusiva statale e l’elenco dettato dalla norma denunciata non
esorbita da siffatta competenza, ma vi include «funzioni di organizzazione
generale dell’amministrazione, gestione finanziaria, contabile e di controllo,
che attengono alla vita ed al governo dell’ente» e che vanno distinte dalle
funzioni amministrative in senso stretto. Sostiene, infatti, che le funzioni
fondamentali dei Comuni di cui alla lettera p)
del secondo comma dell’art. 117 Cost. «coincidono con le funzioni proprie di
cui all’art. 118, secondo comma, Cost., sì che l’unica distinzione munita di un
significato è quella tra funzioni proprie e funzioni conferite», ed il citato
art. 117, secondo comma, lettera p),
«integra, dunque, una competenza trasversale, in grado di consentire allo Stato
l’individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane anche nelle materie riconducibili alla competenza legislativa
regionale, residuale e concorrente».
Tale
impostazione sarebbe confermata dall’art. 2, comma 4, lettera b), della legge n. 131 del 2003, il
quale fa coincidere la nozione di funzioni fondamentali con quella di funzioni
proprie, che spetta allo Stato individuare ed allocare ad un livello di governo
piuttosto che ad un altro, nel rispetto del primo comma dell’art. 118 Cost.,
senza però incontrare il limite del riparto delle competenze legislative,
«cosicché tale operazione ben può essere svolta su ogni sorta di funzione
amministrativa, quale che sia l’ente cui spetta la competenza legislativa sulla
materia». Il limite dell’art. 117 Cost. opererebbe,
invece, per la disciplina delle funzioni fondamentali, posto che l’art. 117,
sesto comma, Cost., «attribuisce a comuni, province e città metropolitane la
potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite». Peraltro, ove le funzioni
fondamentali siano riconducibili a materie di competenza regionale (concorrente
o residuale), «spetta allo Stato individuare esclusivamente il livello di
governo al quale imputare la funzione fondamentale, residuando in capo alla
Regione il compito di dettare la disciplina della relativa funzione»; e tale
principio risulta rispettato dalla norma denunciata.
Sarebbe
altresì destituita di fondamento la censura della lettera d) del comma 1 dell’art. 19 per asserito contrasto con l’art. 123 Cost., giacché la norma
denunciata non detta la disciplina sul funzionamento del Consiglio delle
autonomie locali, ma prevede soltanto che la Regione individui la dimensione
territoriale ottimale, previa concertazione con i Comuni interessati, da
svolgersi nell’ambito di detto Consiglio.
La difesa
erariale sostiene altresì l’infondatezza delle ulteriori doglianze riguardanti
l’art. 19, e qui scrutinate, giacché le disposizioni denunciate perseguono
l’obiettivo di contenimento della spesa corrente per il funzionamento degli
enti locali tramite un disciplina uniforme, che viene a coordinare la disciplina
di settore; si tratterebbe, dunque, di normativa di principio riconducibile
alla materia del coordinamento della finanza pubblica.
Considerato in diritto
1.– Sono state proposte dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania e Puglia, e
dalla Regione autonoma Sardegna varie questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per
la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore
bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135.
Segnatamente,
le disposizioni denunciate – seppure in misura diversa da parte di ciascuna
Regione – sono quelle di cui al comma 1, lettere a), b), c), d),
e), ed ai commi da
2.– In questa sede si avrà riguardo alle questioni che attengono ai commi 1, 3
e 4, essendo state riservate a separata trattazione, nella stessa udienza del 3
dicembre 2013, quelle relative ai commi 2, 5 e 6.
2.1.–
L’art. 19, comma 1, lettera a), è
specificamente censurato dalla Regione Campania «nella parte in cui, nel
modificare la disciplina delle funzioni fondamentali dei comuni precedentemente
recata» dall’art. 14, comma 27, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30
luglio 2010, n. 122, «riconosce in materia alle Regioni le sole funzioni di
programmazione e di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all’art. 117,
commi terzo e quarto, Cost., nonché quelle esercitate ai sensi dell’art. 118
Cost.».
Detta
norma, ad avviso della ricorrente, violerebbe gli artt. 117, commi terzo e
quarto, e 118 Cost., giacché, nel circoscrivere il ruolo delle Regioni a quello
dell’esclusivo svolgimento dei compiti di programmazione e coordinamento, di
fatto sottrarrebbe agli stessi enti «tutte le funzioni non espressamente
richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente [loro] spettanti ai sensi
del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost.», così da ridimensionare in
modo illegittimo il potere della Regione «di optare per un diverso sistema di
riparto delle funzioni amministrative».
La stessa
disposizione è denunciata dalla Regione Puglia nella parte in cui include tra
le «funzioni fondamentali» dei Comuni anche funzioni amministrative ricadenti
in materie di competenza legislativa concorrente o residuale regionale. Donde,
la prospettata lesione degli art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118, secondo
comma, Cost., essendo la potestà legislativa statale di cui alla citata lettera
p) «per sua natura, limitata», non
potendo lo Stato giungere a «qualificare liberamente» qualsiasi funzione
amministrativa come «funzione fondamentale» dei Comuni o delle Province, così
da poterne disporre l’integrale disciplina, tanto da privare di «contenuto
precettivo gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., i
quali prescrivono che sia la legge regionale ad allocare e disciplinare le
funzioni amministrative nelle materie diverse da quelle di competenza
legislativa statale»; con l’ulteriore conseguenza che dette funzioni
fondamentali non possano identificarsi con quelle aventi la «cura concreta di
interessi».
2.2.– Le
disposizioni di cui alle lettere da b)
a d) del comma 1 dell’art. 19, là
dove stabiliscono l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali,
mediante unione o convenzione, da parte dei Comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti (3.000 se in comunità montane), sono accomunate in un’unica censura
dalla Regione Campania, la quale si duole di un vulnus agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., giacché
il ruolo della Regione verrebbe limitato «alla mera individuazione, previa
concertazione con gli enti locali interessati nell’ambito del C.A.L. [Consiglio
delle autonomie locali], della dimensione territoriale ottimale e omogenea per
area geografica per lo svolgimento associato delle funzioni suddette».
2.3.– La disposizione di cui alla lettera d)
del citato comma 1 dell’art. 19 è impugnata anche dalla Regione Puglia, sia
nella parte in cui si rivolge a funzioni amministrative ricadenti in ambiti
materiali affidati, ex art. 117,
quarto comma, Cost., alla potestà legislativa regionale residuale, sia nella
parte in cui impone alla Regione di attivare una «concertazione con i comuni
interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali».
Ad avviso
della ricorrente sussisterebbe, quanto al primo profilo di censura, una lesione
degli artt. 117, quarto comma, e 118, secondo comma, Cost.,
giacché, potendo le funzioni fondamentali essere solo quelle «ordinamentali» e,
dunque, quelle essenziali attinenti «alla vita stessa e al governo degli enti
locali», lo Stato non potrebbe che disciplinare funzioni amministrative
«fondamentali» in materie di competenza esclusiva ovvero di competenza
concorrente ex art. 117, terzo comma.
Cost., ma non già investire le materie di competenza
residuale delle Regioni.
In riferimento
al secondo aspetto della doglianza, verrebbe poi in rilievo il contrasto con
l’art. 123, primo e ultimo comma, Cost., che pone una
riserva di potestà statutaria regionale in materia di organizzazione e di
funzionamento della Regione, nonché sulla disciplina del Consiglio delle
autonomie locali e delle sue funzioni «quale organo di consultazione fra la
Regione e gli enti locali».
2.4.– Le
disposizioni di cui alle lettere da a)
a d) del comma 1 dell’art. 19 sono
unitariamente censurate dalla Regione Lazio, che adduce, a sua volta, un vulnus all’art. 117, secondo comma,
lettera p), terzo e quarto comma,
Cost., in combinato disposto tra loro, per lesione delle attribuzioni
costituzionali regionali, nell’ambito delle quali andrebbe ricondotta «la
regolazione delle associazioni degli enti locali», dovendo lo Stato «limitarsi
a stabilire la disciplina in tema di "legislazione elettorale, organi di governo
e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”, restando
evidentemente esclusi da tale "voce” tutti gli aspetti riguardanti
l’associazionismo di tali enti».
2.5.– Le disposizioni di cui alle lettere da b)
ad e) dello stesso comma 1 dell’art.
19 sono denunciate anche dalla Regione Veneto
Pure ad
avviso di detta ricorrente, il citato art. 19 violerebbe, in parte qua, l’art. 117, quarto comma, Cost.,
essendo riservata alla potestà legislativa regionale la materia «forme
associative tra gli enti locali»; nonché l’art. 117, terzo comma, Cost., in
quanto le censurate disposizioni, ancorché qualificate come norme di
«coordinamento della finanza pubblica», sarebbero ben lungi dal costituire
principi fondamentali di siffatta materia, posto che, per un verso, non si
limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, «intesi nel
senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della
spesa corrente», e, per altro verso, prevedono «in modo esaustivo strumenti o
modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».
Sussisterebbe,
altresì, una lesione dell’art. 118, primo comma, Cost., il quale non fa
riferimento alle unioni di Comuni o alle convenzioni tra Comuni, che, pertanto,
«dovrebbero essere, soprattutto nel rispetto del fondamentale art. 114 Cost.,
libere forme associative cui il Comune può (non deve) ricorrere»; così come
sarebbero vulnerati gli artt. 3 e 97 Cost., essendo i Comuni con popolazione
fino a 5.000 abitanti «obbligati tout
court (e quindi in violazione del principio costituzionale di
differenziazione) all’esercizio mediante unione di Comuni o convenzione delle
loro funzioni fondamentali».
2.6.– Il
comma 3, ed il connesso comma 4, dell’art. 19 sono impugnati da tutte le
ricorrenti Regioni a statuto ordinario, che convergono nel prospettare la
violazione degli
artt. 117 e 118
Cost., posto che dette censurate disposizioni inciderebbero sulla
competenza regionale riferita alla disciplina degli strumenti e delle modalità
a disposizione dei Comuni per l’esercizio congiunto delle funzioni loro
spettanti.
In
particolare
Sotto il
primo profilo di censura, la norma violerebbe l’art. 117, secondo
comma, lettera p), e quarto comma,
Cost., giacché lo Stato non potrebbe far valere una competenza legislativa
diversa da quella inerente alla legislazione elettorale, alle funzioni
fondamentali e agli organi di governo di Province, Comuni e Città
metropolitane, per cui non avrebbe titolo alcuno «per disciplinare
l’istituzione e l’organizzazione di enti locali differenti da quelli appena
menzionati, quali le unioni di comuni, tanto più e a maggior ragione se la
suddetta disciplina pretende di assumere − come nel caso di specie −
natura vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della
Regione e dei comuni interessati», così da incidere su un ambito affidato alla
potestà regionale residuale.
In
relazione all’altro profilo della doglianza, sussisterebbe un contrasto sia con
l’art. 119, primo,
secondo e sesto comma, Cost., che impedisce che la legge statale possa
sottrarre autonomia impositiva e di entrata, nonché risorse patrimoniali ai
suddetti enti autonomi costitutivi della Repubblica, attribuendole in
titolarità a nuovi e diversi enti territoriali e cioè alle unioni di Comuni;
sia con l’art. 117,
terzo e quarto comma, Cost., esorbitando dai principi fondamentali in
materia di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» e
invadendo perciò gli spazi costituzionalmente affidati alla potestà legislativa
regionale concorrente e residuale.
2.7.– La
Regione autonoma Sardegna – nell’impugnare, in forza di censure sostanzialmente
indistinte, l’intero art. 19 – ha, con più specifica attinenza al suo comma 3,
prospettato, anzitutto, la violazione
dell’art. 3, primo comma, lettera b),
della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la
Sardegna), sul rilievo che la normativa denunciata, nell’istituire
obbligatoriamente unioni di Comuni, e nel ridurre contestualmente i consigli
comunali a puri organi di partecipazione e il sindaco a semplice ufficiale di
Governo, provocherebbe, di fatto, «la soppressione dei comuni che partecipano a
questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di ente
territoriale», con conseguente contrasto con le norme che garantiscono alla
Regione Sardegna una sfera di autonomia legislativa esclusiva in materia di
«ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni».
Sarebbe
leso, altresì, secondo la ricorrente, anche l’art. 117, quarto comma,
Cost., posto che la competenza esclusiva dello Stato di cui alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost.,
così come non può riguardare le comunità montane (la cui disciplina rientra in
quella residuale regionale, siccome garantita, per il tramite dell’art. 10
della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della
parte seconda della Costituzione», anche alla Regione autonoma Sardegna), così
del pari non potrebbe attenere alle unioni di Comuni.
3.– Possono essere scrutinate preliminarmente le questioni proposte dalla
Regione autonoma Sardegna, giacché queste, rispetto alle altre impugnazioni,
presentano un profilo peculiare, derivante dalla connotazione di ente ad
autonomia speciale della ricorrente.
Va,
infatti, evidenziato che il d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 135 del
Su tale
clausola di salvaguardia questa Corte si è già pronunciata (sentenze n. 236, n. 225 e n. 215 del 2013),
ponendo in rilievo che essa «ha la precisa funzione di rendere applicabili le disposizioni
del decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che, in
ultima analisi, ciò avvenga nel "rispetto” degli statuti speciali»
(segnatamente, sent.
n. 236 del 2013), derivandone la non fondatezza della questione sollevata
sulla norma del d.l. n. 95 del 2012 anche là dove questa sia in contrasto con
la normativa statutaria.
Sicché,
interferendo le disposizioni censurate con la potestà esclusiva in materia di
«ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», di cui
all’art. 3 dello statuto per la Sardegna, viene, nella specie, appunto, ad
operare la clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012, con conseguente declaratoria di non
fondatezza della questione sollevata dalla Regione Sardegna.
4.– Vengono ora in esame le impugnative delle altre Regioni ricorrenti, con
distinto riferimento alle varie disposizioni oggetto di censura.
4.1.– Le questioni che investono la lettera a)
del comma 1 dell’art. 19 non sono fondate.
4.1.1.– Per meglio cogliere la portata delle censure, giova premettere una
sintetica ricognizione del quadro normativo entro il quale si colloca il thema decidendum,
rammentando anzitutto che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. riserva
allo Stato la potestà legislativa in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
Quanto alle
«funzioni fondamentali di Comuni» – che interessano in questa sede – l’art. 2
della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3), modificato dall’art. 1 della legge 28 maggio 2004, n. 140 (Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80, recante
disposizioni urgenti in materia di enti locali. Proroga di termini di deleghe
legislative) e, successivamente, dall’art. 5 della legge 27 dicembre 2004, n.
306 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 novembre
2004, n. 266, recante proroga o differimento di termini previsti da
disposizioni legislative. Disposizioni di proroga di termini per l’esercizio di
deleghe legislative), assegnava al Governo la delega, da esercitare entro il 31
dicembre 2005, per la «individuazione delle funzioni fondamentali, ai sensi
dell’articolo 117, secondo comma, lettera p),
della Costituzione, essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città
metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità
di riferimento».
Tra i
principi e criteri direttivi della delega, oltre al rispetto delle competenze
legislative e costituzionali ai sensi degli artt. 114, 117 e 118 Cost., era
annoverata (comma 4, lettera b)
l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle
Città metropolitane «in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della
coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo
locale, la titolarità di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di
ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento
dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di
riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle
funzioni storicamente svolte».
Peraltro,
si prevedeva, anche una valorizzazione dei «principi di sussidiarietà, di
adeguatezza e di differenziazione nella allocazione delle funzioni fondamentali
in modo da assicurarne l’esercizio da parte del livello di ente locale che, per
le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale
gestione anche mediante l’indicazione dei criteri per la gestione associata tra
i Comuni» (comma 4, lettera c); la
previsione di «strumenti che garantiscano il rispetto del principio di leale
collaborazione tra i diversi livelli di governo locale nello svolgimento delle
funzioni fondamentali che richiedono per il loro esercizio la partecipazione di
più enti, allo scopo individuando specifiche forme di consultazione e di
raccordo tra enti locali, Regioni e Stato» (comma 4, lettera d); nonché la valorizzazione delle
«forme associative anche per la gestione dei servizi di competenza statale
affidati ai comuni» (comma 4, lettera n).
La delega
anzidetta non è stata esercitata, sicché la prima, provvisoria, individuazione
delle funzioni fondamentali si è avuta, nell’ambito del processo di attuazione
del cosiddetto "federalismo fiscale”, con l’art. 21 della legge 5 maggio 2009,
n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione), orientata, in particolare, secondo il
comma 2, alla «determinazione dell’entità e del riparto dei fondi perequativi
degli enti locali in base al fabbisogno standard o alla capacità fiscale» di
Comuni e Province.
In attesa
dell’emanazione della legislazione delegata, il comma 3 dello stesso art.
Nell’esercizio
della anzidetta delega è poi intervenuto l’art. 3 del decreto legislativo 26
novembre 2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e
dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province), che, per i
fini specifici dello stesso decreto legislativo, ha ribadito l’individuazione
«in via provvisoria» delle funzioni fondamentali di cui all’art. 21 delle legge
n. 42 del 2009, precisando anch’esso che ciò avveniva «fino alla data di
entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni
fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province».
Un richiamo
espresso all’art. 21 della legge n. 42 del 2009 si rinveniva nell’art. 14,
comma 27 del d.l. n. 78 del 2010; disposizione che è stata poi sostituita da
quella denunciata e sottoposta all’attuale esame. Anche in questo caso, il
rinvio era per i fini «dei commi da
È, dunque,
con la censurata disposizione della lettera a)
del comma 1 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, che, nel riscrivere il comma 27
dell’art. 14 citato, vengono individuate, non più in via dichiaratamente
provvisoria, né con espressa limitazione od orientamento verso specifici fini,
le funzioni fondamentali dei Comuni, tramite una elencazione più ampia di
quella che recavano i citati artt. 21 della legge n. 42 del 2009 e 3 del d.lgs.
n. 216 del 2010.
La nuova
disposizione appare ispirata da quanto previsto dall’art. 2 del d.d.l. n. 2259
(attualmente all’esame del Senato), noto come "Carta delle autonomie”, sebbene
quest’ultimo rechi un numero ancor più ampio di funzioni fondamentali dei
Comuni.
4.1.2.– Questa Corte ha ritenuto, in linea più generale, che l’art. 117, secondo
comma, lettera p), Cost. «indica le componenti essenziali dell’intelaiatura
dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi
destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali
di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali
nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli
regionali» (sentenza
n. 220 del 2013).
Peraltro,
al di là di quale possa essere la configurazione del rapporto tra le «funzioni
fondamentali» degli enti locali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera
p), e le «funzioni proprie» di cui all’art. 118, secondo comma, Cost.,
in ogni caso «sarà sempre la legge, statale o regionale, in relazione al
riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle
funzioni, in conformità alla generale attribuzione costituzionale ai Comuni o
in deroga ad essa per esigenze di "esercizio unitario”, a livello
sovracomunale, delle funzioni medesime» (sentenza n. 43 del
2004). Sicché, in tale prospettiva, si è escluso (sentenze n. 325 del 2010
e n. 272 del
2004) che la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della
gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica possa ascriversi
all’àmbito delle «funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e Città
metropolitane», perché «la gestione dei predetti servizi non può certo
considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente
locale».
Tale
assunto è stato fatto proprio anche dalla sentenza n. 307 del
2009, la quale però ha ritenuto, con specifico riferimento al servizio
idrico integrato, che la non separabilità tra la gestione della rete e la
gestione di detto servizio costituisca principio riconducibile alla competenza
esclusiva dello Stato in materia di funzioni fondamentali dei Comuni, posto che
«le competenze comunali in ordine al servizio idrico sia per ragioni
storico-normative sia per l’evidente essenzialità di questo alla vita associata
delle comunità stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali
funzioni fondamentali degli enti locali», restando la competenza regionale
nella materia di servizi pubblici locali «in un certo senso limitata dalla
competenza statale suddetta», potendo «continuare ad essere esercitata negli
altri settori, nonché in quello dei servizi fondamentali, purché non sia in
contrasto con quanto stabilito dalle leggi statali». Diversamente si è invece
opinato quanto, per l’appunto, alle modalità di affidamento dei servizi
pubblici locali a rilevanza economica, per cui non può essere evocata la
lettera p) del secondo comma
dell’art. 117 Cost., giacché «la regolamentazione di tali modalità non riguarda
un dato strutturale del servizio né profili funzionali degli enti locali ad
esso interessati (come, invece, la precedente questione relativa alla
separabilità tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico), bensì
concerne l’assetto competitivo da dare al mercato di riferimento».
Sin d’ora
giova inoltre rammentare che la competenza legislativa esclusiva statale di cui
alla citata lettera p) non è
invocabile in riferimento alle "comunità montane”, atteso che il richiamo
limitato a Comuni, Province e Città metropolitane, ivi presente, «deve
ritenersi tassativo» (sentenze n. 237 del 2009,
n. 397 del 2006,
n. 456 del 2005
e n. 244 del
2005).
Specifico e
peculiare rilievo assume, inoltre, la sentenza n. 148 del
2012 di questa Corte, che ha dichiarato non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010, su
cui è intervenuta la norma denunciata.
Si
trattava, invero, di censure mosse dalla Regione Puglia in forza di
argomentazioni che, in parte, sono riproposte in questa sede. La Regione allora
sosteneva, infatti, che il richiamo all’art. 21, comma 3, della legge n. 42 del
2009 avrebbe consentito di estendere la qualifica di "funzioni fondamentali dei
Comuni” – con conseguente attribuzione allo Stato della relativa competenza
legislativa esclusiva – «anche a funzioni "amministrativo-gestionali”, o
comunque, più in generale, a funzioni volte alla cura concreta di interessi».
Sicché, la norma impugnata sarebbe stata in contrasto con «i limiti che caratterizzano
la potestà legislativa attribuita allo Stato dall’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost.,
ledendo gravemente l’autonomia legislativa della Regione, riconosciuta dai
commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost. e richiamata
dal comma secondo dell’art. 118 Cost., in riferimento alla disciplina ed alla
allocazione delle funzioni amministrative dei Comuni».
La Corte ha
ritenuto, invece, che le questioni muovessero «da un erroneo presupposto
interpretativo, in quanto il richiamo operato dalla norma impugnata alla
generica elencazione di cui all’art. 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009
non è, di per sé, lesivo di competenze legislative e amministrative delle
Regioni», rispondendo esso «all’esigenza di sopperire, sia pure
transitoriamente ed ai limitati fini indicati nella stessa norma impugnata,
alla mancata attuazione della delega contenuta nell’art. 2 della legge 5 giugno
2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica
alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)».
4.1.3.–
Superata, con la norma denunciata, la provvisorietà e la settorialità degli
interventi normativi precedenti in materia, ne deve, quindi, conseguire che
allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra
quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale, cui,
però, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai
servizi pubblici locali; sicché l’elencazione di cui alla norma denunciata non
si discosta da siffatto criterio elettivo.
La
disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi – Stato o Regione
– è intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce.
In
definitiva, la legge statale è soltanto attributiva di funzioni fondamentali,
dalla stessa individuate, mentre l’organizzazione della funzione rimane
attratta alla rispettiva competenza materiale dell’ente che ne può disporre in
via regolativa.
La
competenza regionale, nelle materie – di carattere concorrente o residuale – ad
essa riservate, non viene, dunque, incisa dalla disposizione in esame, per cui
perdono di consistenza tutte le censure proposte.
4.2.– Le questioni relative all’art. 19, comma 1, lettere b), c), d) ed e), non sono fondate.
4.2.1.– Le doglianze attengono, in via generale, alla disciplina sulla gestione
associata delle funzioni fondamentali.
Il comma 1,
lettera b), dell’art. 19, sostituendo
il previgente comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del
Rispetto
alle previgente disciplina, non sussiste più la divisione tra Comuni sopra e
sotto i 1000 abitanti.
La
disposizione in esame ricomprende, infatti, anche i Comuni sotto i 1.000
abitanti, ai quali, tuttavia, il comma 2 dello stesso art. 19 riserva la
facoltà di accedere ad un modello di unione derogatorio, regolato dall’art. 16
del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, come sostituito
dal citato comma 2 dell’art. 19, e non già quella dell’art. 32 del d.lgs n. 267 del 2000, inciso dal comma 3 del medesimo art.
19, che invece, a mente della denunciata lettera c) del comma 1, si applica alle unioni di cui al comma 28 dell’art.
14 del d.l. n. 78 del 2010, come modificato dalla lettera b) citata.
Le lettere d) ed e) del comma 1 introducono modifiche ai commi 30 e 31 dell’art. 14
del d.l. n. 78 del 2010, concernenti sia il termine entro il quale la Regione
può determinare un limite demografico minimo dell’unione dei Comuni diverso da
quello pari a 10.000, sia i termini (già prorogati dal decreto-legge 29
dicembre 2011, n. 216 «Proroga di termini previsti da disposizioni
legislative», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
24 febbraio 2012, n. 14) entro i quali i Comuni attuano le novellate
disposizioni in tema di obbligo di esercizio associato di funzioni.
In
particolare:
– il limite
demografico minimo delle unioni è confermato in 10.000 abitanti, salvo diverso
limite determinato dalla Regione entro il 1° ottobre 2012 con riguardo ad
almeno tre delle funzioni fondamentali ed entro il 1° ottobre 2013 per le
altre. Le Regioni, infatti, nelle materie di competenza concorrente e
residuale, potranno individuare, previa concertazione con i Comuni da svolgersi
nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali (CAL), limiti diversi;
– la durata
minima delle convenzioni per l’esercizio obbligatorio delle funzioni in forma associata
è fissata in tre anni. Al termine di tale periodo, qualora non si dimostri
l’efficacia e l’efficienza nella gestione, i Comuni sono obbligati ad
esercitare le funzioni mediante unione;
– sono
stati ridefiniti i termini per dare attuazione alla gestione associata tra
piccoli Comuni secondo un procedimento articolato in due fasi:
a) entro il 1° gennaio 2013 i Comuni interessati devono
svolgere in forma associata almeno tre delle funzioni fondamentali;
b) entro il 1° gennaio 2014 l’obbligo di esercizio
associato coinvolge anche le altre sette funzioni.
Rispetto ai
termini di attuazione stabiliti, la nuova disciplina prevede che, qualora i
Comuni non ottemperino, il prefetto assegna loro un termine perentorio, decorso
il quale si attiva il potere sostitutivo del Governo ai sensi dell’art. 8 della
legge n. 131 del 2003.
4.2.2.– La
giurisprudenza di questa Corte in tema di forme associative di enti locali ha
riguardato, segnatamente, le comunità montane, che rappresentano «un caso speciale
di unioni di Comuni, create in vista della valorizzazione delle zone montane,
allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la
frammentazione dei comuni montani, "funzioni proprie”, "funzioni conferite” e
funzioni comunali» (così la citata sentenza n. 244 del
2005).
Si è già
detto, peraltro, come la competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost. sia,
in tale ambito, inconferente, giacché l’ordinamento delle comunità montane è
riservato alla competenza legislativa residuale delle Regioni, di cui al quarto
comma dell’art. 117 Cost., pur in presenza della qualificazione di dette
comunità come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del
La Corte,
ha, quindi, ritenuto (sentenze n. 237 del 2009
e n. 456 del
2005) che non possono venire in
rilievo neppure i principi fondamentali desumibili dal Testo unico sugli enti
locali (d.lgs. n. 267 del 2000) e, dunque, non può trovare applicazione la
disposizione di cui all’art. 117, terzo comma, ultima parte, Cost., «la quale
presuppone, invece, che si verta nelle materie di legislazione concorrente».
Tuttavia,
si è pure affermato (sentenze n. 151 del 2012,
n. 91 del 2011,
n. 326 del 2010,
n. 27 del 2010
e n. 237 del
2009) che un titolo di legittimazione statale per intervenire nell’ambito
anzidetto comunque si rinviene nei principi fondamentali di «coordinamento
della finanza pubblica», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., ove la
disciplina dettata, nell’esercizio di siffatta potestà legislativa concorrente,
sia indirizzata ad obiettivi di contenimento della spesa pubblica.
A questi
fini, come messo in rilievo in molteplici occasioni da questa Corte (tra le
tante, sentenze n.
236 del 2013, n.
193 del 2012, n.
151 del 2012, n.
182 del 2011, n.
207 del 2010, n.
297 del 2009), il legislatore statale può, con una disciplina di principio,
legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche
dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi
si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa
degli enti territoriali. Vincoli che possono considerarsi rispettosi
dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscano un «limite
complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle
risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del
canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento
normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
4.2.3.– Nel
caso in esame, le norme denunciate risultano, appunto, decisamente orientate ad
un contenimento della spesa pubblica, creando un sistema tendenzialmente
virtuoso di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle
fondamentali) tra Comuni, che mira ad un risparmio di spesa sia sul piano
dell’organizzazione "amministrativa”, sia su quello dell’organizzazione
"politica”, lasciando comunque alle Regioni l’esercizio contiguo della
competenza materiale ad esse costituzionalmente garantita, senza, peraltro,
incidere in alcun modo sulla riserva del comma quarto dell’art. 123 Cost. In
definitiva, si tratta di un legittimo esercizio della potestà statale
concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi del
terzo comma dell’art. 117 Cost.
4.3.– Le questioni che investono i commi 3 e 4 dell’art. 19 non sono fondate.
4.3.1.– Le doglianze riguardano l’istituzione e disciplina delle «Unioni di
comuni», di cui all’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, come modificato dal
comma 3, e si estendono, di riflesso e senza specifica motivazione, al comma 4,
del predetto art. 19. La disciplina impugnata prevede, anzitutto, un’unione di Comuni costituita in prevalenza da
Comuni montani, che è detta «unione di
comuni montani» e può
esercitare anche le specifiche competenze di tutela e di promozione della
montagna (ex art. 44, secondo comma, Cost.) e delle leggi in favore dei
territori montani.
Stabilisce
poi che ogni Comune può partecipare ad una sola unione ed è previsto che le
unioni di Comuni possono stipulare apposite convenzioni tra loro o con singoli
Comuni.
Individua,
inoltre, nel dettaglio gli organi
dell’unione e le modalità della loro costituzione. Stabilisce che lo statuto individui le funzioni svolte
dall’unione e le corrispondenti risorse e non più la disciplina degli organi
dell’unione; riconosce in via generale la potestà regolamentare e statutaria.
All’unione
sono conferite dai Comuni le risorse umane e strumentali necessarie
all’esercizio delle funzioni ad essa attribuite e vengono, quindi, introdotti
nuovi vincoli in materia di spesa di
personale: infatti, fermi restando i vincoli previsti dalla normativa
vigente, la spesa sostenuta per il personale dell’unione non può comportare, in
sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale
sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti; inoltre, si dispone
che, attraverso specifiche misure di razionalizzazione organizzativa e una
rigorosa programmazione dei fabbisogni, devono essere assicurati progressivi
risparmi di spesa in materia di personale.
È, inoltre,
confermato che all’unione competono gli introiti
derivanti da tasse, tariffe e dai contributi sui servizi ad essa
affidati.
4.3.2.– Le argomentazioni che sono state già sviluppate in precedenza
(segnatamente, punti 4.2.2. e 4.2.3.) sono riferibili
anche al denunciato comma 3, e si riflettono sul connesso comma 4, considerato
che tale disposizione è orientata finalisticamente al contenimento della spesa
pubblica, siccome posta da un provvedimento di riesame delle condizioni di
spesa e con contenuti armonici rispetto all’impianto complessivo della
rimodulazione delle «unioni di comuni».
Dunque,
opera anche in questo caso il titolo legittimante della competenza in materia
di «coordinamento della finanza pubblica», di cui al comma terzo dell’art. 117 Cost., esercitata dallo Stato attraverso previsioni che si
configurano come principi fondamentali e non si esauriscono in una disciplina
di mero dettaglio.
Né può
ravvisarsi la dedotta violazione dell’art. 119 Cost., giacché non solo è
legittimo incidere con una manovra finanziaria sulle risorse degli enti
territoriali, purché non siano tali da determinare uno squilibrio incompatibile
con le complessive esigenze di spesa e pregiudizievole per l’esercizio delle
funzioni ad essi riservate (sentenze n. 298 del 2009,
n. 381 del 2004
e n. 437 del
2001), ma rileva anche il fatto che l’attribuzione alle unioni di Comuni di
«introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi» riguarda i
«servizi ad esse affidati», sicché non verrebbero sottratte risorse per
l’esercizio di funzioni da parte di enti che non fanno parte dell’unione
stessa.
PER QUESTI MOTIVI
riservata a separate pronunce la
decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto altre disposizioni del decreto-legge oggetto di impugnazione;
riuniti i giudizi;
1) dichiara non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1,
lettera a), del decreto-legge 6
luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica
con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135,
promossa, in riferimento agli artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 della
Costituzione, dalla Regione Campania con il ricorso in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 1, lettera a),
promossa in riferimento agli art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118, secondo
comma, Cost., dalla Regione Puglia con il ricorso in
epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 1, lettere da a)
a d), del d.l. n. 95 del 2012,
promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, Cost., dalla Regione Lazio con il ricorso in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 1, lettere da b)
a d), del d.l. n. 95 del 2012,
promosse, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Campania con il ricorso in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 1, lettere d) ed e), del d.l. n. 95 del 2012, promosse,
in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 123, primo e quarto comma, Cost., dalla Regione Puglia con il ricorso in epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19, commi 1, lettere da b)
ad e), e 3, del d.l. n. 95 del 2012,
promosse, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118,
primo comma, Cost., dalla Regione Veneto con il
ricorso in epigrafe;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19, commi 3 e 4, del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento
agli artt. 117, e 118 Cost., dalle Regioni Lazio,
Veneto e Campania con i ricorsi in epigrafe;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 3, del d.l. n. 95 del 2012, promossa, in riferimento agli
artt. 117, secondo comma, lettera p),
terzo e quarto comma, e 119, primo, secondo e sesto comma Cost.,
dalla Regione Puglia con il ricorso in epigrafe;
9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento all’art. 3,
primo comma, lettera b), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) ed
all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione
autonoma Sardegna con il ricorso in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 10 febbraio 2014.
F.to:
Mario Rosario
MORELLI, Redattore
Depositata in