SENTENZA N. 85
ANNO 2013
Commenti alla
decisione di
I. Luca Geninatti
Satè, "Caso
Ilva”: la tutela dell’ambiente attraverso la rivalutazione del carattere
formale del diritto, per gentile concessione del Forum di Quaderni Costituzionali
II. Michele Massa, Il
commissariamento dell’ILVA e il diritto delle crisi industriali, per gentile
concessione del Forum di Quaderni
Costituzionali
III. Valerio Onida,
Un
conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità:
amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente. Nota a Corte
costituzionale, sentenza n. 85 del 2013, per g.c. della Rivista
AIC
IV.
Roberto Bin, Giurisdizione
o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali?, per gentile
concessione del Forum di Quaderni
Costituzionali
V. Massimiliano Boni, La
politiche pubbliche dell’emergenza tra bilanciamento e «ragionevole»
compressione dei diritti: brevi riflessioni a margine della sentenza della
Corte costituzionale sul caso Ilva, per g.c. di Federalismi.it
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
-
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012,
n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre
2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente
e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di
interesse strategico nazionale) – recte,
degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni
urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in
caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale),
come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231
del 2012 – promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
ordinario di Taranto con ordinanza del 22 gennaio 2013 e dal Tribunale
ordinario di Taranto con ordinanza del 15 gennaio 2013, iscritte,
rispettivamente, ai nn. 19 e 20 del registro
ordinanze 2013 e pubblicate nella
Visti gli atti di costituzione di Bruno Ferrante nella
qualità di Presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante
di Ilva S.p.A., nonché gli atti di intervento della Associazione Italiana per
il World Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus, di Angelo, Vincenzo e
Vittorio Fornaro, della Confederazione Generale
dell’Industria Italiana (Confindustria), della Federacciai
- Federazione Imprese Siderurgiche Italiane, nonché del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2013 il Giudice
relatore
uditi gli avvocati Luisa Torchia, Francesco Mucciarelli e
Marco De Luca per Bruno Ferrante, nella qualità di Presidente del consiglio di
amministrazione e legale rappresentante di Ilva S.p.A., Francesca Fegatelli per
l’Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus, Sergio Torsella per
Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro, Giuseppe Pericu per
Ritenuto in fatto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Taranto ha sollevato, con ordinanza depositata in data 22 gennaio 2013 (r.o. n.
19 del 2013), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3
della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a
tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di
crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del
decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della
salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di
stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in
relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma,
27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113
e 117, primo comma, della Costituzione.
All’art. 1 del citato d.l. n. 207 del 2012 è previsto che, presso gli
stabilimenti dei quali sia riconosciuto l’interesse strategico nazionale e che
occupino almeno duecento persone, l’esercizio dell’attività di impresa, quando
sia indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione,
possa continuare per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso sia stato
disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto delle
prescrizioni impartite con una Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata
in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente
e della salute secondo le migliori tecniche disponibili.
Al successivo art. 3 è stabilito che l’impianto siderurgico Ilva di
Taranto costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale a norma
dell’art. 1, che l’AIA rilasciata alla società Ilva il 26 ottobre 2012 produce
gli effetti autorizzatori previsti dal citato art. 1,
che la società indicata è reimmessa nel possesso degli impianti e dei beni già
sottoposti a sequestro dell’autorità giudiziaria e che i prodotti in giacenza,
compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del
decreto-legge, possono essere commercializzati dall’impresa.
1.1.– Dopo aver premesso d’essere investito di due richieste del pubblico
ministero, relativamente a beni in attuale condizione di sequestro, il
rimettente illustra anzitutto la sequenza dei provvedimenti cautelari
succedutisi nel giudizio a quo.
Il 25 luglio 2012, su richiesta della locale Procura della Repubblica, lo
stesso giudice a quo aveva disposto
l’applicazione di misure cautelari personali e reali con riguardo a delitti
realizzati, secondo l’ipotesi accusatoria, nella gestione dell’impianto
siderurgico dell’Ilva S.p.A. di Taranto.
Si procedeva in particolare, nei confronti di amministratori e dirigenti
della società, con riguardo a reati ambientali integrati mediante emissioni
nocive nell’atmosfera di polveri e gas (artt. 81 e 110 del codice penale; artt.
24 e 25 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, recante
«Attuazione delle direttive CEE numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203
concernenti norme in materia di qualità dell’aria, relativamente a specifici
agenti inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti industriali, ai
sensi dell’art. 15 della legge 16 aprile 1987, n. 183»; artt. 256 e 279 del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia
ambientale»). Si procedeva, inoltre, riguardo ad ipotesi di concorso nei reati
(talvolta continuati) di cui agli artt. 434 (Crollo di costruzioni o altri
disastri dolosi), 437 (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli
infortuni sul lavoro), 439 (Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari),
635 (Danneggiamento), 639 (Deturpamento e imbrattamento di cose altrui), 674
(Getto pericoloso di cose) del codice penale.
I provvedimenti cautelari erano stati adottati in base ad un complesso di
risultanze, comprese due perizie assunte in regime di incidente probatorio
(l’una a carattere chimico-ambientale e l’altra a carattere
medico-epidemiologico).
Il rimettente segnala che i provvedimenti in questione sono divenuti
inoppugnabili, perché confermati dal tribunale del riesame con due distinte
ordinanze, una delle quali posta ad oggetto di un ricorso per cassazione poi
respinto (è il caso delle misure restrittive personali), e l’altra neppure
impugnata (è il caso delle misure reali).
1.1.1.– La misura cautelare del sequestro preventivo aveva riguardato
ampie porzioni dello stabilimento siderurgico di Taranto, senza facoltà d’uso
per il gestore, con la nomina concomitante di un collegio di custodi, il cui
mandato non comprendeva la continuazione dell’attività produttiva, ma piuttosto
l’avvio delle operazioni necessarie alla chiusura dell’impianto in condizioni
di sicurezza. Il rimettente segnala come il Tribunale del riesame, pur avendo
parzialmente modificato il provvedimento, avesse confermato la necessità di una
immediata interruzione dell’attività nelle cosiddette «aree a caldo»,
subordinando l’ipotetica loro ripresa ad una futura autorizzazione,
condizionata dalla puntuale esecuzione degli interventi prospettati dai periti
nell’ambito dell’incidente probatorio assunto nel giudizio principale, e
dall’instaurazione di un sistema di monitoraggio delle emissioni. Il Tribunale
dunque, sempre secondo il rimettente, aveva chiaramente disposto la
"sottrazione” al gestore della disponibilità degli impianti, consentendo
l’attuazione di interventi «all’esclusivo fine della eliminazione della
situazione di pericolo».
Riguardo al sequestro degli impianti, erano poi intervenute alcune
ordinanze di rigetto delle richieste di revoca o, in subordine, di autorizzazione
a proseguire le attività produttive.
Lo stesso giudice a quo, con
decreto del 22 novembre 2012, aveva disposto anche il sequestro «del prodotto
finito e/o semilavorato» giacente nelle aree di stoccaggio dello stabilimento
Ilva e realizzato in epoca successiva al sequestro degli impianti di
produzione. La misura era stata applicata anzitutto nella prospettiva della
confisca, a norma dell’art. 240, primo comma, cod. pen. e dell’art. 321, comma
1, del codice di procedura penale, trattandosi del prodotto della condotta
illecita consistita nella «imperterrita» prosecuzione dell’attività industriale
inquinante nonostante l’esplicito divieto posto dai provvedimenti giudiziari.
In secondo luogo, la cautela era stata adottata, in applicazione del comma 1
dell’art. 321 cod. proc. pen., per il perseguimento delle finalità di
prevenzione tipiche della fattispecie cautelare.
Sempre in data 22 novembre 2012 era stata emessa anche una nuova ordinanza
applicativa di misure personali. Al novero dei reati già contestati in
precedenza si era aggiunto quello di associazione per delinquere (art. 416,
commi primo e secondo, cod. pen.).
1.1.2.– Poste le premesse indicate, il Giudice rimettente riferisce
d’avere ricevuto il 4 gennaio
Secondo la Procura, la cui richiesta è oggetto di una estesa e testuale
citazione adesiva da parte del rimettente, l’Ilva non avrebbe dovuto, dopo il
sequestro, proseguire l’attività produttiva, ma semmai cooperare alla
realizzazione degli interventi tecnici necessari per la messa in sicurezza
degli impianti. Il portato essenziale del sopravvenuto decreto-legge
consisterebbe invece nell’autorizzazione a proseguire l’attività produttiva,
dannosa per la salute e per l’ambiente, nonostante la condizione di sequestro
in atto, previa adozione delle sole misure previste nell’AIA rilasciata, in
sede di riesame, il 26 ottobre 2012. La disciplina avrebbe quindi privato i
custodi giudiziari della loro funzione essenziale, cioè quella di gestire
l’impianto al fine di realizzare tutti gli interventi utili alla prevenzione
delle emissioni pericolose. Di qui la richiesta di revocare la designazione dei
citati custodi. Più in generale, avendo la Procura reimmesso la proprietà
dell’Ilva nel possesso degli impianti, con la conseguente possibilità di
produrre e commercializzare materiale realizzato nelle parti «a caldo» dello
stabilimento, il giudice procedente è stato sollecitato ad «adeguare» lo
statuto dei beni in sequestro, concedendo la facoltà d’uso dei medesimi.
Contestualmente, e come anticipato, il pubblico ministero ha chiesto
sollevarsi varie questioni di legittimità costituzionale della normativa
sopravvenuta.
1.1.3.– La seconda delle richieste presentate al giudice rimettente dalla
locale Procura della Repubblica, in data 4 gennaio
Il pubblico ministero ha espresso il proprio avviso contrario
all’accoglimento della domanda, sul presupposto che la commercializzazione del
prodotto da parte dell’Ilva implicherebbe l’irrimediabile dispersione della
cosa in sequestro. Al tempo stesso, la Procura procedente ha nuovamente
sollecitato la rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
1.2.– Il giudice rimettente propone molteplici questioni di legittimità in
merito agli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012, sia mediante il richiamo alle
osservazioni svolte nelle richieste sulle quali è chiamato a provvedere, sia
mediante lo sviluppo di argomentazioni proprie.
Secondo la prospettazione del pubblico ministero, la disciplina censurata
consentirebbe ad una determinata impresa, nonostante la connotazione penalmente
illecita dell’attività, di proseguire per 36 mesi la propria produzione, in
palese violazione dell’art. 3 Cost. Ciò sulla base di un provvedimento
amministrativo – la qualifica di «stabilimento di interesse strategico
nazionale» – i cui presupposti non sarebbero delineati dalla legge con la
necessaria precisione.
La normativa in questione avrebbe «espropriato» la funzione
giurisdizionale, vanificando l’efficacia dei provvedimenti cautelari adottati e
precludendo l’adozione di nuove cautele, a fronte della perdurante attività
illecita, quand’anche la stessa producesse effetti lesivi «non previsti dalle
misure indicate nell’autorizzazione integrata ambientale». Di fatto – e sebbene
non possa parlarsi di «giudicato» in senso proprio – il legislatore sarebbe
intervenuto a modificare un atto dell’autorità giudiziaria senza mutare il
quadro normativo di riferimento, dando vita ad una legge provvedimento fuori
dai casi ritenuti ammissibili dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 267 del
2007). Di qui la violazione degli artt. 101, 102, 103 e 104 Cost.
Al tempo stesso, l’ostacolo frapposto al perseguimento dei reati
implicherebbe la violazione degli artt. 25 e 27 Cost. In particolare,
stabilendo «come unica sanzione», nel caso di inadempienze alle prescrizioni
dell’AIA, una pena amministrativa pari ad una quota del fatturato, la
disciplina censurata sottrarrebbe i fatti illeciti alla cognizione del loro
«giudice naturale», e nel contempo interverrebbe «a vanificare il principio di
responsabilità penale personale in capo agli autori dei reati commessi» nei tre
anni successivi al rilascio dell’AIA.
La preclusione, inoltre, investirebbe il diritto delle persone offese ad
ottenere, secondo il disposto dell’art. 24 Cost., tutela giudiziale per la
propria salute, compromessa dalle emissioni perduranti di sostanze tossiche,
discriminando i cittadini interessati rispetto ad ogni altro danneggiato da
reato (art. 3 Cost.).
La disciplina censurata, sempre secondo l’opinione fatta propria dal
giudice a quo, non realizzerebbe un
bilanciamento ragionevole tra il diritto alla salute ed all’ambiente salubre da
un lato ed il diritto all’iniziativa economica dall’altro (con conseguente
violazione degli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost.). Neutralizzando ogni possibilità di
intervento inibitorio sull’ipotetica continuazione delle attività delittuose
(la stessa violazione dell’AIA implicherebbe una sanzione pecuniaria, ma non
legittimerebbe la revoca dell’autorizzazione prima di 36 mesi), la legge
sarebbe intervenuta ad annullare uno degli interessi in conflitto a favore
dell’altro. In pratica, pagando una «tassa» pari al 10% del fatturato
dell’ultimo anno (una legittimazione a «pagare la possibilità di inquinare»),
l’impresa interessata acquisterebbe una sorta di immunità per il triennio
successivo al riesame dell’autorizzazione. L’effetto non sarebbe escluso dalla
clausola di salvezza delle ulteriori norme sanzionatorie (anche penali)
inserita in apertura del comma 3 dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, perché
nessuna delle relative sanzioni sarebbe applicabile prima della fine del
triennio.
Da ultimo, la parziale coincidenza dei parametri nazionali con gli
strumenti sovranazionali di garanzia dei diritti implicherebbe, sempre secondo
la Procura e lo stesso giudice rimettente, la violazione del primo comma
dell’art. 117 Cost., avuto riguardo anzitutto agli artt. 3 e 35 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, e poi all’art. 191 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE), ove è fissato il principio di
precauzione (disatteso nella specie oltre la soglia del rischio, fino alla
certezza, asseritamente acquisita, di danni alla
salute). Nel contempo, l’ingiustificata interferenza con il procedimento
cautelare in corso comporterebbe una violazione dell’art. 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sub specie di lesione del diritto ad un
equo processo.
1.3.– Prima di procedere all’ulteriore esposizione dei motivi di asserito
contrasto tra le norme censurate e la Costituzione, il giudice a quo specifica che le questioni
prospettate dal pubblico ministero sarebbero rilevanti ai fini della decisione
da assumere sulle relative richieste.
Per quanto attiene agli impianti in sequestro, la disciplina censurata non
varrebbe a determinare una revoca della cautela, quanto piuttosto ad imporre il
rilascio di una facoltà d’uso, come richiesto dai magistrati inquirenti.
Anche riguardo ai prodotti sequestrati, la normativa in questione (e
segnatamente il comma 3 dell’art. 3, come modificato in sede di conversione)
lascerebbe inalterato nella forma il vincolo cautelare, pur legittimando l’Ilva
a commercializzare le merci.
La perdurante «efficacia» dei provvedimenti di sequestro imporrebbe – secondo
il rimettente – la soluzione delle questioni di legittimità costituzionale
prospettate dal pubblico ministero.
1.4.– Come si è detto, il giudice a
quo condivide le censure prospettate nelle richieste sottoposte alla sua
valutazione, aggiungendone di ulteriori, sia sotto il profilo argomentativo,
sia nell’individuazione dei parametri costituzionali di riferimento.
1.4.1.– Secondo il rimettente, la normativa de qua avrebbe dato vita ad una «legge provvedimento» (sono citate
le sentenze della Corte costituzionale n. 137 e n. 94 del 2009,
n. 267 del 2007),
con lesione del principio di separazione tra i poteri e violazione dell’obbligo
costituzionale di prevenire e reprimere i reati (sono citate, a quest’ultimo
proposito, le sentenze n. 88 del 1991
e n. 34 del 1973).
Gli artt. 1 e 3 del decreto-legge consentirebbero la prosecuzione
dell’attività, da parte del gestore privato, nonostante la permanenza del
sequestro, a prescindere dalla qualità del reato commesso (eventualmente
suscettibile di reiterazione), e per effetto di un atto dell’autorità
amministrativa adottabile anche dopo il sequestro. In questa situazione, la
perdurante violazione della legge penale non potrebbe essere fronteggiata da
provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria, e le misure già in corso di
esecuzione perderebbero la funzione preventiva ad esse tipicamente assegnata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, attribuendo, con un proprio decreto,
la qualifica di «stabilimento di interesse strategico nazionale» (art. 1, comma
1, del d.l. n. 207), avrebbe la possibilità di vanificare cautele in atto e di
inibire nuove misure di protezione degli interessi tutelati dalla legge penale,
con riguardo a specifici casi. Ciò sarebbe stato già ritenuto illegittimo dalla
giurisprudenza costituzionale, posto che l’effettività della giurisdizione è il
portato del primo comma dell’art. 24 Cost., e «non può essere elusa o
condizionata da valutazioni amministrative di opportunità» (è citata la sentenza n. 321 del
1998).
Il contrasto col principio di separazione tra i poteri non verrebbe meno
nell’art. 3 del decreto-legge, ove la qualificazione di stabilimento di
interesse strategico è attribuita agli impianti di Taranto dell’Ilva
direttamente dalla legge. La giurisprudenza costituzionale, pur configurando
l’ammissibilità di leggi provvedimento, l’avrebbe subordinata non solo
all’osservanza dei principi di ragionevolezza e non arbitrarietà, ma anche
all’integrità della «funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle
cause in corso» (sono citate le sentenze n. 137 e n. 94 del 2009,
n. 241 del 2008,
n. 267 del 2007,
n. 492 del 1995).
Con la precisazione che il risultato di interferenza deve essere valutato in
«considerazione del tempo, delle modalità e del contesto in cui è stata emanata
la disposizione censurata», dato che questi fattori potrebbero svelare la
finalità indebita, anche oltre il dato formale (sentenza n. 267 del
2007). La funzione giurisdizionale sarebbe vulnerata non solo dagli
interventi sul giudicato, ma anche per effetto di una «legge intenzionalmente
diretta ad incidere su concrete fattispecie sub
iudice» (sentenza
n. 397 del 1994; sono citate, nel medesimo contesto, anche le sentenze n. 22 del 2009,
n. 413 del 2008,
n. 352 del 2006,
n. 374 del 2000,
n. 183 del 1987).
Nel caso di specie la legge sarebbe stata piegata, in modo intenzionale,
ad una funzione di sostanziale revoca dei provvedimenti di sequestro
specificamente assunti nei confronti dell’Ilva, quasi che il legislatore possa
atteggiarsi a giudice di grado superiore (e possa agire dunque, sul caso
concreto, lasciando inalterata la base normativa sulla quale si fondano i
provvedimenti «revocati»).
La «facoltà d’uso» della cosa sottoposta a sequestro sarebbe logicamente
concepibile solo quale effetto d’una specifica valutazione giudiziale del
singolo caso, mentre, riguardo agli impianti dell’Ilva, è stata imposta a
livello legislativo. Analogamente, la commercializzazione dei prodotti in
sequestro, autorizzata con legge, varrebbe a vanificare ogni utilità
«conservativa» della cautela in vista della confisca.
Per i profili indicati, la disciplina censurata risulterebbe lesiva del
principio di separazione tra i poteri (artt. 102, «101/104», 107 e 111 Cost.),
ed in contrasto con il dovere costituzionale di repressione dei reati, con
violazione degli artt. 25, 27 e 112 Cost.
Gli stessi parametri sarebbero vulnerati anche con riguardo alla
impossibilità di prevenire e reprimere reati futuri, sganciati dalle
prescrizioni dell’AIA, inevitabilmente connessi alla prosecuzione dell’attività
produttiva. L’autorizzazione legislativa a condurre lo stabilimento per 36 mesi
equivarrebbe ad una «sospensione della effettività della tutela giurisdizionale
dei beni, costituzionalmente rilevanti, lesi dai reati», con l’implicita
violazione del primo comma dell’art. 24 Cost., visto che le istanze private di
tutela del diritto fondamentale alla salute non potrebbero trovare alcuna
rispondenza in provvedimenti giudiziari.
1.4.2.– Con riguardo alla disposizione di cui al comma 2 dell’art. 3 del
d.l. n. 207 del 2012, il rimettente prospetta l’ulteriore violazione dell’art.
113 Cost. Infatti la norma, stabilendo che l’AIA rilasciata all’Ilva
nell’ottobre del 2012 integra il provvedimento di riesame previsto dal comma 1
dell’art.
1.4.3.– Tornando a trattare, in generale, degli artt. 1 e 3 del
decreto-legge, il giudice a quo riprende
le censure prospettate dal pubblico ministero relativamente a plurime
violazioni dell’art. 3 Cost. A parità di emissioni inquinanti, le aziende
qualificate di «interesse strategico nazionale», secondo criteri oltretutto
generici, godrebbero di una legittimazione a proseguire l’attività, a differenza
di aziende che non abbiano ottenuto la medesima qualificazione. La
discriminazione si riprodurrebbe tra le vittime delle attività illecite, con
l’ulteriore effetto, per quelle interessate dalle emissioni dell’azienda
legittimata a proseguire l’attività, di una compressione del diritto di agire
in giudizio per la tutela del proprio interesse (art. 24 Cost.).
Il principio di uguaglianza sarebbe violato, nello specifico, anche dal
comma 3 dell’art. 3, riguardo alla possibilità di commercializzare il prodotto
dell’attività illecita, che non varrebbe per aziende diverse il cui prodotto
fosse sottoposto a sequestro. Nella parte relativa alle merci realizzate prima
dell’entrata in vigore del decreto-legge, tra l’altro, la disposizione che
vanifica il sequestro in atto sarebbe applicabile alla sola società Ilva,
introducendo un ulteriore e specifico fattore di ingiustificata
discriminazione.
1.4.4.– La disciplina censurata, secondo il rimettente, realizzerebbe
anche una violazione del principio personalistico e del principio
«solidaristico-sociale».
La Costituzione mette in primo piano i diritti fondamentali della persona
umana, sottratta nella sua dignità e nella sua condizione di parità giuridica
ad ogni possibile strumentalizzazione, anche se finalizzata all’affermazione di
interessi costituzionalmente apprezzabili (artt. 2 e 3 Cost.). Tra i diritti
fondamentali della persona v’è senz’altro quello alla salute (art. 32 Cost.),
che nella sua dimensione sociale esprime un diritto alla salubrità dell’ambiente
(artt. 2, 9 e 32 Cost.; è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 365 del 1993). Per altro verso, in attuazione del
principio «solidaristico-sociale», l’iniziativa economica privata non può
svolgersi in modo dannoso per la sicurezza delle persone (art. 41 Cost.).
Al fine dichiarato di salvaguardare i livelli occupazionali – interesse
che, secondo il rimettente, deve essere perseguito nei limiti imposti
dall’esigenza di garantire i diritti inviolabili sopra indicati – il d.l. n.
207 del 2012 avrebbe determinato la completa soccombenza del diritto alla
salute ed all’ambiente salubre. Infatti, per quanto il preambolo del
provvedimento si riferisca all’esigenza di rimuovere immediatamente «le
condizioni di criticità esistenti» in punto di sicurezza degli impianti, gli
artt. 1 e 3 non condizionano affatto la ripresa della produzione alla
realizzazione effettiva degli interventi necessari allo scopo, stabilendo anzi,
esplicitamente, che le prescrizioni dell’AIA riesaminata vengano adempiute nel
corso di 36 mesi. Dunque – secondo il rimettente – la produzione sarebbe
ripresa nelle identiche condizioni in cui aveva dovuto essere interrotta per
l’illecito danno recato all’ambiente, alle cose ed alle persone. Né potrebbe
riconoscersi una qualche efficacia alla previsione sanzionatoria di cui al
comma 3 dell’art. 1, che riguarda la mancata osservanza delle prescrizioni
impartite in sede di riesame dell’AIA, visto che la tempistica per l’adempimento
sarebbe del tutto assente. Nel contempo, la legge avrebbe paralizzato ogni
nuovo intervento cautelare dell’autorità giudiziaria.
Le prescrizioni censurate, secondo il giudice a quo, svelerebbero l’intento del Governo e del Parlamento di
consentire "comunque” che la produzione dell’Ilva prosegua per tre anni, quali
che siano gli effetti sull’ambiente. Ulteriori indicazioni circa la ratio legis si rinverrebbero nell’omessa
previsione di garanzie finanziarie a carico della società, per gli interventi
di risanamento e per il pagamento dell’eventuale sanzione pecuniaria.
Il rimettente si chiede se il diritto alla salute sia realmente
suscettibile di un bilanciamento e, in caso di risposta affermativa, quale sia
il criterio utile ad individuare una soglia di ragionevolezza, sotto il profilo
qualitativo e quantitativo. A motivare implicitamente la risposta negativa,
vengono trascritti ampi stralci della Relazione (approvata il 17 ottobre 2012)
della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al
ciclo dei rifiuti, ove si afferma, per un verso, che nessun interesse di
carattere economico-produttivo potrebbe legittimare la lesione del diritto alla
salute, e, per l’altro verso, che una lesione siffatta sarebbe già stata
irrimediabilmente recata alla popolazione di Taranto e soprattutto ai bambini
di quella comunità.
1.4.5.– Ancora una volta riprendendo le eccezioni prospettate dal pubblico
ministero, il rimettente osserva che le violazioni indicate determinerebbero un
contrasto concomitante con l’art. 117, primo comma, Cost., poiché riferibili
anche ai precetti degli artt. 3 e 35 della "Carta di Nizza” (Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea) ed all’art. 191 del TFUE.
In particolare, la disciplina censurata sarebbe incompatibile con il
principio di precauzione, considerato che nel caso degli impianti siderurgici
dell’Ilva di Taranto dovrebbe parlarsi non di rischio, ma di sicuro danno per
la salute pubblica.
Infine, sussisterebbe violazione del citato art. 117, primo comma, Cost.,
per il contrasto tra le norme censurate e l’art. 6 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, «come recepito dall’art. 52 comma 3 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea», anche con riguardo al connotato di
indipendenza del giudice chiamato alla celebrazione dell’equo processo.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto
depositato il 26 febbraio 2013, chiedendo che le questioni siano dichiarate
inammissibili e/o infondate.
2.1.– Dopo aver riassunto gli antefatti delle ordinanze di rimessione e
l’essenza delle questioni sollevate, l’Avvocatura generale assume il difetto di
rilevanza delle questioni medesime.
In primo luogo, infatti, il giudice a
quo lamenterebbe una indebita lesione delle prerogative giurisdizionali
nella regolazione dei casi concreti, pur ammettendo, nel contempo, che la legge
non ha influito sulla condizione di sequestro dei beni e che sarebbero
necessari nuovi provvedimenti giurisdizionali per adeguare il regime del
sequestro alla normativa sopravvenuta.
Riguardo agli impianti produttivi, d’altra parte, le questioni sollevate
sarebbero tardive, dato che la Procura competente, dopo l’entrata in vigore
della normativa censurata, aveva già reimmesso la proprietà dell’Ilva nel
possesso dello stabilimento.
Avuto infine riguardo alla disponibilità dei prodotti finiti o
semilavorati, la questione avrebbe «perso di interesse», posto che il giudice
procedente, con provvedimento del 14 febbraio
2.2.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri le questioni
sollevate, nonostante l’evocazione, quali parametri di legittimità, di «ben
diciassette norme della Costituzione», sarebbero riducibili a due gruppi
fondamentali.
2.2.1.– Il primo nucleo di censure attiene al principio di separazione tra
i poteri ed al dovere dell’ordinamento di prevenire e reprimere i reati.
In realtà, la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito che
un intervento normativo non vulnera la funzione giurisdizionale solo perché
produce effetti retroattivi ed «interagisce con controversie in corso» (sono
citate le sentenze n. 229 del 1999,
n. 432 del 1997,
n. 394 del 1994,
n. 402 del 1993).
Nella specie si discute di provvedimenti cautelari, per loro natura
assunti allo stato degli atti e suscettibili di continuo adattamento, tanto che
il cosiddetto «giudicato cautelare» non sarebbe affatto paragonabile alla
condizione di irrevocabilità di una sentenza. Per altro verso, il legislatore
si sarebbe limitato a fronteggiare una grave crisi in atto, che richiedeva un
attento bilanciamento tra le esigenze della produzione e dell’occupazione e
quelle della salute e dell’ambiente (tutelate, si fa notare, anticipando
l’introduzione delle Best available techniques di cui
alla Decisione di esecuzione della Commissione europea 2012/135/UE, del 28 febbraio
2012, che stabilisce le migliori tecniche disponibili [BAT] per la produzione
di ferro e acciaio ai sensi della Direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e
del Consiglio relativa alle emissioni industriali).
È pienamente concepibile – prosegue l’Avvocatura generale – che singoli
casi concreti pongano in evidenza la necessità di affinamenti e aggiornamenti
della legislazione. Le leggi provvedimento, d’altra parte, non sono per sé
vietate dalla Costituzione. La disciplina censurata non costituisce un caso
isolato: si ricorda il decreto-legge 11 maggio 2007, n. 61 (Interventi
straordinari per superare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti
nella regione Campania e per garantire l’esercizio dei propri poteri agli enti
ordinariamente competenti), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge 5 luglio 2007, n. 87, con il quale è stata prevista la
sospensione di efficacia dei provvedimenti di sequestro dell’autorità
giudiziaria relativamente a siti oggetto di requisizione da parte del
Commissario straordinario. È richiamato, ancora, il decreto-legge 23 maggio
2008, n. 90 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore
dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania e ulteriori disposizioni
di protezione civile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 14 luglio 2008, n. 123, recante varie norme di diretta incidenza
sull’efficacia di provvedimenti cautelari in atto e sulla competenza a
provvedere ulteriormente.
In casi del genere non vi sarebbe alcuna preclusione di accesso alla
tutela giurisdizionale dei diritti, né alcuna inibizione dei poteri di indagine
e di azione facenti capo al pubblico ministero, né infine alcuna
predeterminazione della decisione giudiziale in merito ad una singola
controversia. La disciplina censurata, oltre ad introdurre una nuova sanzione
per le violazioni dell’AIA, ha specificamente conservato le sanzioni
preesistenti, anche penali. D’altra parte, la doglianza relativa all’inibizione
di nuovi ed efficaci provvedimenti cautelari di natura reale sarebbe illogica,
ben potendo il legislatore legittimare determinate condotte per il futuro, ed
apparendo congrua, di conseguenza, la disattivazione dei poteri pertinenti alla
giurisdizione penale.
Neppure sussisterebbe – a parere dell’Avvocatura generale – la prospettata
violazione dell’art. 113 Cost. Sarebbe del tutto naturale, nel caso di
«passaggio dall’atto amministrativo alla legge», che venga meno la
giurisdizione del giudice comune (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 20 del 2012), senza che questo comporti una
compressione del diritto di agire in giudizio, poiché la doglianza,
trasferendosi sul piano della legittimità della norma, può riproporsi tramite
il giudice comune nell’ambito della giurisdizione costituzionale (è citata la sentenza n. 289 del
2010).
Infine, non vi sarebbe alcun contrasto tra la disciplina censurata e
l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dunque con il primo
comma dell’art. 117 Cost. La Corte costituzionale avrebbe già stabilito,
considerata la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul tema, che la
Convenzione non esclude radicalmente la possibilità di leggi che, operando
retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando
sussistono esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di
interesse generale» (sono citate, nel complesso, le sentenze n. 264 e n. 15 del 2012,
n. 303, n. 236 e n. 93 del 2011,
n. 317 e n. 311 del 2009,
n. 362 e n. 172 del 2008).
D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non ha modificato in
senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore
possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, ed
impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse
intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti.
2.2.2.– Il secondo nucleo di questioni che il Presidente del Consiglio dei
ministri individua nell’ordinanza di rimessione attiene proprio al
bilanciamento tra diritto alla salute ed all’ambiente salubre e diritto
all’iniziativa economica privata.
L’opinione del giudice a quo –
secondo cui il diritto alla salute avrebbe carattere «assoluto», non
suscettibile di bilanciamento – non potrebbe essere condivisa. D’altra parte,
come dimostrerebbe già il preambolo del d.l. n. 207 del 2012, il risanamento
del processo produttivo costituirebbe lo scopo prioritario dello stesso
decreto, pur dovendosi nel contempo garantire altri interessi.
Mancando una lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre,
farebbe anche difetto la denunciata violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 35 della "Carta di Nizza”, ed all’art.
191 del TFUE. Si ribadisce che l’AIA rilasciata il 6 ottobre 2012 anticiperebbe
l’adozione delle «BAT» individuate a livello europeo ed assicurerebbe
l’osservanza del diritto dell’Unione, che esclude l’assunzione a livello
giurisdizionale del compito di dettare le prescrizioni tecniche per il sicuro
esercizio delle attività produttive.
2.2.3.– La conferma dell’assunto di una piena funzionalità della
disciplina censurata alla tutela dell’ambiente e della salute, secondo
l’Avvocatura generale, si rinviene nell’efficacia delle misure assunte in
esecuzione dell’AIA riesaminata (riduzione della produzione, selezione dei
combustibili, modalità di stoccaggio e movimentazione delle materie prime,
ecc.). Efficacia che sarebbe documentata dai nuovi sistemi di monitoraggio in
continuo, dai quali verrebbe notizia di un notevole miglioramento della qualità
dell’aria, con valori di inquinamento inferiori alle soglie di attenzione
determinate a livello europeo.
3.–
3.1.–
Dopo aver ricordato come il Tribunale di Taranto, con ordinanza depositata
il 20 agosto 2012, avesse corretto il provvedimento del Giudice per le indagini
preliminari, ammettendo che la produzione avrebbe potuto continuare, sia pure
previa adozione di misure per il contenimento delle emissioni, la parte privata
esamina i contenuti dell’AIA rilasciata in sede di riesame, il 26 ottobre
successivo, a partire dall’autorizzazione per la ripresa delle attività
produttive, legata ad una rigorosa tempistica per la realizzazione delle misure
di risanamento (sostanzialmente coincidenti con quelle indicate dai periti
dell’autorità giudiziaria, e compatibili con le «BAT» di ispirazione europea).
Mancando della disponibilità materiale degli impianti, l’Ilva ne aveva
chiesto il dissequestro, ma il giudice per le indagini preliminari, con
provvedimento del 30 novembre 2012, aveva respinto l’istanza, sul presupposto
che l’AIA non aveva subordinato la ripresa delle attività produttive alla
previa e completa attuazione delle cautele necessarie a contenere le emissioni
nocive (provvedimento illegittimo, secondo la parte, perché risoltosi in una
disapplicazione in via di fatto dell’autorizzazione conseguita dall’azienda).
Negli stessi giorni, il giudice aveva sequestrato i prodotti finiti o
semilavorati, che in effetti l’azienda aveva realizzato dopo il sequestro degli
impianti, ma avvalendosi in ciò della «autorizzazione» asseritamente
rilasciata dal Tribunale del riesame e sotto il controllo dei custodi.
Era poi sopravvenuto – prosegue la parte – il d.l. n. 207 del 2012 (del
quale vengono analizzati in dettaglio i contenuti), di talché l’Ilva aveva
chiesto di rientrare in possesso dei beni sequestrati. La Procura di Taranto
aveva «immesso [la società] nel possesso dei beni dell’impresa», fermo restando
però il sequestro, con la conseguenza che dovevano «essere mantenuti i sigilli
in quanto necessari ad attestare la sottoposizione dei beni al vincolo di
indisponibilità». Il Giudice per le indagini preliminari, dal canto proprio,
aveva rigettato l’istanza concernente i prodotti, sul presupposto che lo ius superveniens non si applicasse a merci prodotte
prima della relativa entrata in vigore.
Era poi intervenuta la legge n. 231 del 2012, di conversione del d.l. n.
207, specificando che dovevano essere rimessi nella disponibilità dell’Ilva
anche i prodotti realizzati prima dell’adozione dello stesso decreto-legge.
Rifiutando di accogliere la nuova e conseguente istanza di dissequestro
formulata dalla società, il pubblico ministero si era rivolto al Giudice per le
indagini preliminari per il rigetto, affiancando tale richiesta a quella d’una
modifica del regime cautelare concernente gli impianti di produzione.
3.2.– Tutto ciò premesso in fatto, la parte costituita assume che le
censure proposte dal rimettente sarebbero infondate.
Le disposizioni dell’art. 1 del decreto-legge avrebbero realmente un
carattere generale, riguardando l’intera platea di titolari di AIA che
conducano stabilimenti suscettibili di qualificazione nel senso dell’interesse
nazionale (lo stesso rimettente finirebbe con l’ammetterlo, lamentando
l’eccessiva astrattezza dei criteri posti per la relativa determinazione del Presidente
del Consiglio dei ministri).
Il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale un bilanciamento tra
interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo l’efficacia dell’AIA
riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste ed aggiungendone di
nuove, implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di
protezione ambientale.
La ratio dell’intervento
renderebbe perfettamente congrua, tra l’altro, la disciplina concernente la
disponibilità e la commercializzazione dell’acciaio prodotto negli stabilimenti
di Taranto, non avendo senso una normativa che autorizzasse una attività
produttiva (anche a fini di salvaguardia dei livelli occupazionali) e però, nel
contempo, vietasse di gestirne i frutti, sul piano logistico e su quello
economico-finanziario.
Non è certo la prima volta, del resto, che l’interesse strategico di
determinate attività induce il legislatore ad interventi straordinari ed
urgenti. La parte costituita menziona: il d.l. n. 90 del 2008, relativo
all’emergenza rifiuti in Campania; la legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni
per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di
energia), che all’art. 25 disciplina la materia delle scorie nucleari; la legge
12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2012), che all’art. 19 appresta
speciale protezione per i cantieri della linea ferroviaria Torino-Lione; il
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della
finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1 della legge 6 agosto 2008, n. 133, che all’art. 11 prevede il
cosiddetto «piano casa»; il decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti
per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della
legge 7 agosto 2012, n. 134, che all’art. 17-septies prevede misure per la ristrutturazione del patrimonio edilizio.
Passando all’esame dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012,
3.2.1.– Sarebbe infondata, in queste condizioni, la censura mossa all’art.
1 del decreto, per l’asserito contrasto con l’art. 3 Cost. Non sarebbe carente,
in primo luogo, la fissazione dei presupposti per l’individuazione
dell’interesse strategico nazionale, che attiene tipicamente alla sfera
dell’alta amministrazione (è richiamata, a confronto, l’analoga disciplina
dettata per l’esercizio di poteri straordinari nel settore della difesa ed in
altri settori strategici: decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, recante «Norme in
materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e
della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei
settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni», convertito, con
modificazioni, dall’art. 1 della legge 11 maggio 2012, n. 56). Per altro verso,
il principio di uguaglianza richiede il difforme trattamento di situazioni
diseguali, individuate secondo un criterio pertinente alla causa
dell’intervento normativo (sono citale le sentenze della Corte costituzionale n. 89 del 1996 e
n. 15 del 1975).
Lo stesso ricorso al criterio (concomitante) del numero dei lavoratori occupati
è conforme a quanto si riscontra per altre discipline: è citato l’art. 2 del
decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina
dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza,
a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), ove la procedura
conservativa è riservata appunto alle aziende con almeno 200 dipendenti. La
parte costituita osserva che il rimettente – pur senza sostenere in radice
l’illegittimità del ricorso a criteri quantitativi – non ha indicato tertia comparationis
che, in base al principio di uguaglianza, dovrebbero imporre l’adozione di una
diversa soglia numerica di dipendenti, il che varrebbe a determinare
l’inammissibilità della questione sollevata al proposito (sono citate le
sentenze della Corte costituzionale n. 131 e n. 33 del 2009,
n. 25 del 1991,
n. 66 del 1982).
Anche il denunciato contrasto dell’art. 3 del decreto con l’art. 3 Cost.
dovrebbe essere escluso.
La censura muoverebbe da un travisamento della norma e del sistema che
disciplina le attività produttive potenzialmente inquinanti. La norma riconosce
che l’Ilva si trova nelle condizioni che, in generale, legittimerebbero
qualunque azienda a produrre in base ad una AIA sottoposta a riesame. D’altra
parte, un’azienda che produce in osservanza dell’AIA rilasciata dopo la
procedura di riesame non commette alcun illecito, non potendosi ammettere –
secondo la parte – che sia l’autorità giudiziaria, e non quella amministrativa,
a fissare i parametri di tollerabilità delle immissioni. In altre parole,
l’Ilva non sarebbe trattata diversamente da ogni altra azienda di interesse
strategico nazionale che si trovasse nelle medesime condizioni.
Pur volendo ammettere che l’art. 3 del decreto consista in una «norma
provvedimento», il legislatore non avrebbe varcato i limiti posti dalla
giurisprudenza costituzionale per la legittimità di tali interventi (è citata
la sentenza n.
270 del 2010). Non sarebbe la prima volta, d’altra parte, che il
legislatore introduce una disciplina particolare per cose già sottoposte a
sequestro giudiziario (d.l. n. 61 del 2007) o detta deroghe specifiche
all’applicazione di norme generali (è richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 152 del 1985).
Nelle fattispecie complesse, non ogni «incoerenza, disarmonia o
contraddittorietà» che derivi da una norma può risolversi in violazione del
principio di uguaglianza, ché altrimenti il controllo di legittimità delle
leggi si trasformerebbe in controllo di opportunità (sentenza n. 89 del
1996).
Con specifico riguardo alla commercializzazione delle merci sequestrate,
la parte considera palesemente infondata l’opinione del rimettente che la
stessa non sarebbe giustificata dall’interesse alla prosecuzione dell’attività
produttiva, la quale, al contrario, non sarebbe praticamente concepibile in
assenza di un completo ciclo economico.
Neppure potrebbe ammettersi che, con riferimento alla clausola di «retroattività»
introdotta in sede di conversione (riguardo alla reimmissione
nel possesso delle merci prodotte prima del decreto-legge), si sia determinato
un ingiustificato trattamento di favore nei confronti dell’Ilva. Il comma 3
dell’art. 3 declina, per il singolo caso in esame, una norma già desumibile sul
piano generale dall’art. 1, che non potrebbe legittimare la continuazione delle
attività produttive senza legittimare l’alienazione dei prodotti, e che si
applica «anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di
sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento».
3.2.2.– Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione
giurisdizionale, ed ai numerosi parametri evocati in proposito, la parte
privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del
«giudicato».
Se di giudicato dovesse parlarsi con riguardo al sequestro degli impianti,
anzitutto, ciò non potrebbe che farsi in riferimento alle statuizioni del
Tribunale del riesame, che avrebbe negato, accogliendo in parte le censure
mosse al decreto di sequestro, la necessità di una immediata cessazione
dell’attività produttiva. Dunque, l’intervento normativo sarebbe valso a
favorire l’attuazione del giudicato, e non a contrastarlo.
In generale, la stessa fermezza della giurisprudenza costituzionale nella
protezione del giudicato sarebbe venuta meno, di recente, a fronte della
necessità di garantire interessi pubblici contrastanti (è citata la sentenza n. 113 del
2011, che ha introdotto un diverso caso di revisione quando si renda
necessario dare attuazione ad una decisione della Corte europea dei diritti
dell’uomo).
In ogni caso, il cosiddetto «giudicato cautelare» non è propriamente un
giudicato, ma una mera preclusione processuale, che opera rebus sic stantibus, con riguardo alle
sole questioni dedotte, e non anche a quelle deducibili. Dunque si tratta di
una situazione suscettibile di modifica per effetto di norme o di provvedimenti
amministrativi sopravvenuti. D’altra parte, se l’andamento del procedimento
cautelare non interferisce con quello del processo (è citata la sentenza della Corte
costituzionale n. 121 del 2009), allora le norme che incidono sul
procedimento cautelare non valgono a condizionare l’esito del processo.
Neppure potrebbe dirsi, nella specie, che sia stata frustrata la funzione
del giudice, chiamato ad applicare mutamenti del diritto oggettivo alle singole
fattispecie, come sempre accade, a maggior ragione con riguardo a regole
retroattive (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 2011, n. 311 e n. 94 del 2009,
n. 32 del 2008,
n. 352 del 2006,
n. 211 del 1998,
n. 263 del 1994,
n. 91 del 1988).
Sarebbe sufficiente, per la legittimità dell’intervento, che il legislatore non
detti la regola per un singolo giudizio, ma ponga una disciplina suscettibile
di applicazione in ogni fattispecie concreta che presenti le medesime
caratteristiche.
A tale proposito, sarebbe infondato l’assunto del rimettente per il quale
la normativa censurata inciderebbe sulla fattispecie concreta a quadro
normativo «invariato». La parte privata ripete che l’art. 1 del decreto ha
introdotto una normativa nuova e generale, applicabile a tutte le aziende di
interesse strategico nazionale, comprese quelle già raggiunte da provvedimenti
cautelari reali. Che poi il novum possa
incidere sull’efficacia di statuizioni giudiziali, che non consistano nel
giudicato in senso proprio, sarebbe ipotesi già ammessa dalla giurisprudenza
costituzionale (è citata la sentenza n. 282 del
2005).
3.2.3.– Non sarebbero vulnerati il principio di legalità, il principio di
necessità della prevenzione e della repressione dei reati ed il diritto di
azione.
L’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 si limita a regolare la funzione
legittimante di un provvedimento amministrativo, tra l’altro sindacabile nei
modi ordinari e revocabile dalla stessa amministrazione, senza incidere
sull’apparato sanzionatorio predisposto per le relative violazioni. Non
potrebbe ammettersi che la pendenza di situazioni cautelari impedisca qualunque
nuova legge che operi un bilanciamento degli interessi coinvolti dalle attività
produttive. Quanto all’art. 3 – viene ribadito – la norma si limita a
riconoscere la corrispondenza del caso concreto alla previsione astratta, senza
legittimare condotte antecedenti o condotte future, poste in essere in
violazione della legge. Neanche la pendenza di indagini preliminari (al cui
svolgimento non viene opposto alcun intralcio) potrebbe sortire un effetto di
paralisi della normazione. In astratto, sono del resto ammissibili limiti e
condizioni per l’esercizio dell’azione penale (sono citate le sentenze della
Corte costituzionale n. 121 del 2009
e n. 114 del
1982).
Infondata infine – a parere della parte costituita – sarebbe la doglianza
concernente la presunta «legificazione» dell’AIA rilasciata all’azienda, e la
conseguente frustrazione del diritto ad ottenerne un sindacato giudiziale. Il
rinvio dell’art. 3 al provvedimento non avrebbe natura recettizia, avendo la
sola funzione di stabilire che, nel caso dell’Ilva, l’autorizzazione prevista
dall’art. 1 è già stata rilasciata, senza che per questo la stessa autorizzazione
perda la propria natura amministrativa (tanto da restare modificabile secondo
le procedure tipiche del procedimento amministrativo).
3.2.4.– La parte costituita contesta, ancora, che ricorra la pretesa
lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre.
In realtà, la normativa censurata mirerebbe alla miglior tutela dei
diritti invocati, posto che la cessazione della produzione e la dismissione
degli impianti sarebbe, per tali diritti, più pericolosa della continuazione
dell’attività in condizione di sicurezza.
In ogni caso – prosegue la parte – sarebbe erronea la pretesa che i
diritti in questione siano insuscettibili di qualunque bilanciamento, così
dando vita ad una gerarchia tra valori della quale non vi sarebbe traccia in
Costituzione (sono citate ex multis, a proposito della spettanza della composizione
alle istanze rappresentative, le sentenze della Corte costituzionale n. 27 del 1998
e n. 94 del 1985).
A maggior ragione spetterebbe al legislatore la determinazione delle condotte
cui assegnare rilevanza penale, anche con specifico riguardo alla tutela degli
interessi presidiati dall’art. 32 Cost. (sentenze n. 376 del 2000,
n. 267 del 1999, n. 447 del 1998,
n. 304 del 1994,
n. 455 del 1990).
Il ragionamento del rimettente sarebbe infondato anche nella parte in cui pretende
che la normativa censurata abbia legittimato la ripresa delle attività
produttive senza necessità di previa realizzazione delle cautele per
l’ambiente. L’autorizzazione, anzitutto, risulta espressamente condizionata
all’adempimento delle prescrizioni impartite con l’AIA. La disciplina prevede
poi un complesso sistema di controllo e monitoraggio. Ed infine, come
accennato, è stata introdotta la figura di un Garante indipendente, chiamato
proprio a verificare l’osservanza delle prescrizioni.
Ancora, sarebbe infondata la pretesa che il legislatore abbia reso
inoperante il sistema sanzionatorio e precauzionale posto a tutela della salute
e dell’ambiente. Al contrario, l’art. 1, comma 3, del decreto-legge lascia
espressamente impregiudicata l’applicabilità delle norme sanzionatorie penali
ed amministrative, cui si aggiungono la specifica possibilità di revoca
dell’autorizzazione rilasciata in sede di riesame e la comminatoria di una
sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato della società. Tutte le sanzioni
in questione potrebbero essere applicate anche nel corso dei 36 mesi che
segnano la durata massima dell’attività consentita, né sarebbe rilevante che
non siano state richieste garanzie finanziarie per il pagamento delle relative
somme, solo ipotetico e comunque pertinente ad importi non determinabili a priori.
3.2.5.– Da ultimo,
In ogni caso, le questioni sarebbero infondate, non sussistendo, per le
ragioni già indicate, alcuna lesione del diritto alla salute ed all’ambiente
salubre, del principio di precauzione (ché anzi vengono anticipate le
indicazioni della Commissione europea sulle «BAT»), dell’autonomia della
giurisdizione e delle regole del giusto processo.
4.– Con atto di intervento depositato il 26 febbraio 2013, che si fonda
sull’asserita qualità di parti assunta nel procedimento principale, i signori
Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro sollecitano la
declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207
del 2012.
Dalla documentazione allegata all’atto risulta che i signori Fornaro hanno ricevuto avviso, in qualità di persone
offese, della richiesta e dell’ordinanza giudiziale concernenti il compimento
di perizia collegiale chimico-ambientale, in regime di incidente probatorio,
nell’ambito delle indagini preliminari concernenti i fatti cui si riferiscono i
provvedimenti cautelari in atto.
4.1.– Vengono in primo luogo illustrate le ragioni di ammissibilità
dell’intervento. Gli interessati, pur non essendo direttamente partecipi del
subprocedimento cautelare nel cui ambito è stata deliberata l’ordinanza di
rimessione, sarebbero esposti direttamente alle conseguenze della decisione
sulle questioni sollevate, posto che il relativo accoglimento comporterebbe
l’interruzione delle emissioni nocive in loro danno, le quali invece
proseguirebbero nel caso contrario (è citata, quale esempio di ammissione di un
soggetto privo della qualità di parte nel giudizio a quo, la sentenza della
Corte costituzionale n. 389 del 2004).
4.2.– Secondo gli intervenienti, le questioni sollevate sarebbero rilevanti,
poiché la piena applicazione delle norme censurate, pur restando ferma la
condizione di sequestro degli impianti e delle merci, imporrebbe la revoca
della nomina dei custodi e comunque un mutamento sostanziale del loro ruolo,
data la coincidenza solo parziale tra le prescrizioni tecniche dell’AIA
riesaminata ed il complesso delle misure necessarie per un effettivo
risanamento degli stabilimenti e dei processi produttivi.
4.3.– Dopo avere enunciato il ritenuto fondamento delle censure riferite
all’art. 3 Cost., gli intervenienti assumono che i diritti al lavoro ed
all’attività produttiva non possono entrare in bilanciamento con il diritto
alla salute e all’ambiente salubre, nel senso che i primi devono essere
assicurati solo nella misura in cui non pregiudichino in alcun modo il secondo
(sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 378 del 2007,
n. 127 del 1990, n. 210 del 1987,
n. 156 del 1986,
n. 74 del 1981,
n. 88 del 1979).
Analogo ragionamento andrebbe fatto circa la prevalenza della necessità di
prevenire e reprimere i reati (sentenze n. 146 del 2001
e n. 427 del
2000).
Le prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata – che l’art. 3, comma 2,
del decreto-legge avrebbe elevato al rango legislativo – sarebbero inidonee a
garantire che l’attività produttiva prosegua senza danneggiare ulteriormente la
salute di lavoratori e cittadini. Le cosiddette BAT dovranno essere applicate
ad oltre tre anni dall’autorizzazione, la quale, peraltro, prevede in vari casi
solo misure di monitoraggio e studi di fattibilità, cioè adempimenti inidonei,
per definizione, a garantire nell’immediatezza il diritto alla salute.
La presunzione che il rispetto dell’AIA comporti un’adeguata tutela della
salute e dell’ambiente, secondo gli intervenienti, sarebbe del tutto priva di
fondamento.
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito
la necessità di una effettiva tutela risarcitoria del diritto alla salute (sono
citate le sentenze n. 356 del 1991
e n. 184 del
1986), tutela che sarebbe inibita dalle norme censurate.
Il sostanziale divieto di agire nei confronti dell’Ilva nei 36 mesi
successivi al rilascio dell’autorizzazione riesaminata comporterebbe anche una
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La «legificazione» dell’AIA, per
altro verso, avrebbe privato i cittadini del diritto di ottenere il sindacato
giurisdizionale su di un atto di natura sostanzialmente amministrativa (è
citata la sentenza
della Corte di giustizia UE, Grande Sezione, del 18 ottobre 2011, nei
procedimenti C-128/09 e C-135/09).
5.– Con atti depositati il 25 febbraio 2013 sono intervenute nel giudizio
6.– Con atto depositato il 26 febbraio 2013 è intervenuta nel giudizio, in
persona del legale rappresentante, l’Associazione per il Word Wide Fund for
Nature (WWF Italia) Onlus, chiedendo che le disposizioni censurate siano
dichiarate illegittime.
7.– In data 19 marzo 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, in
rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ha depositato memoria
al fine di ribadire le conclusioni in precedenza offerte (supra, § 2).
7.1.– Si nega in particolare fondamento, nella memoria, all’assunto del
rimettente secondo il quale la normativa censurata avrebbe garantito ai
responsabili dell’Ilva una «immunità» rispetto alle norme penali vigenti. In
particolare l’Avvocatura afferma che l’AIA rilasciata all’azienda avrebbe tutti
e soli gli effetti tipici di una autorizzazione amministrativa, senza
scriminare condotte che provochino eventi contro l’incolumità pubblica o
l’integrità fisica delle persone. Sul piano processuale, sarebbe stata
introdotta una deroga alla disciplina generale del sequestro preventivo,
stabilendo che nel caso di impianti strategici la misura non possa implicare il
blocco della produzione.
Non si tratterebbe di previsione illegittima, sia per la ragionevolezza
del bilanciamento operato dal legislatore, sia per l’inesistenza di quella
riserva di funzione giurisdizionale che sola, a parere dell’Avvocatura,
potrebbe legittimare le doglianze del rimettente. Questi, in altre parole,
vorrebbe riservare alla giurisdizione non solo la sentenza, ma ogni possibile
funzione di prevenzione e repressione dei reati, che l’ordinamento invece può
ben attribuire, nell’ambito della ragionevolezza, a strumenti diversificati,
cominciando dal regime autorizzatorio fondato sulle competenze tecniche
dell’amministrazione e sulle connesse funzioni di vigilanza.
7.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri nega che l’intervento
normativo de quo abbia bilanciato il
diritto alla salute, in sé e per sé considerato, con esigenze di carattere
economico e produttivo: si sarebbe piuttosto mirato ad evitare un danno
irrevocabile per tali esigenze in rapporto al rischio aggiuntivo per la salute
che si determina per l’ulteriore prosecuzione dell’attività lungo un periodo di
tempo circoscritto e con la previa adozione delle cautele necessarie. Un
bilanciamento del quale si assume la piena ragionevolezza.
7.3.– Relativamente ai prodotti finiti e semilavorati in attuale
sequestro, l’Avvocatura generale assume l’erroneità della relativa
qualificazione come «prodotto del reato», poiché tale ultima nozione
comprenderebbe solo le cose che la legge penale vieta di realizzare, e non
anche cose lecitamente fabbricate, sia pure con eventuale violazione di
precetti dettati per un altro scopo di tutela.
Parimenti censurabile sarebbe, sempre a parere del Presidente del
Consiglio dei ministri, la pretesa che il sequestro sia utile a prevenire nuovi
reati, attraverso l’eliminazione del profitto economico che potrebbe
ricavarsene. Il fondamento della cautela – si dice – risiede nella
strumentalità della cosa al reato, mentre mai si sarebbero viste, in
precedenza, giustificazioni "motivazionali” a sostegno del sequestro.
8.– In data 19 marzo 2013 la difesa dell’Ilva S.p.A. ha depositato memoria
mediante la quale ribadisce le conclusioni già rassegnate, con riguardo alle
questioni sollevate sia nel giudizio r.o. n. 19 del 2013, sia nel procedimento
r.o. n. 20 del 2013, del quale si dirà tra breve.
L’Ilva nega anzitutto (con riferimento a rilievi del WWF e dei signori Fornaro) che l’azienda abbia provocato, anche dopo
l’adozione delle norme censurate, emissioni eccedenti i limiti fissati nell’AIA
del 4 agosto 2011. Le prescrizioni tecniche dell’autorizzazione, d’altra parte,
sarebbero perfettamente idonee a garantire la protezione dell’ambiente e della
salute umana, così da privare di fondamento la pretesa che la chiusura
dell’impianto sia l’unica soluzione utile ad eliminare il fenomeno
dell’inquinamento.
In ogni caso, secondo la società, il tema sarebbe estraneo all’odierno
scrutinio di costituzionalità, non dovendo la Corte sostituire un proprio
giudizio tecnico e politico a quelli espressi, rispettivamente,
dall’amministrazione e dal legislatore, e trattandosi piuttosto di valutare se
la discrezionalità legislativa sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole
(sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 110 del 2002,
n. 144 del 2001,
n. 313 del 1995).
Nella memoria si ribadisce che non vi sarebbe stata alcuna «legificazione»
dell’AIA rilasciata in esito alla procedura di riesame, e che dunque il
provvedimento avrebbe potuto essere sindacato nei modi ordinari (compresa, se
del caso, la disapplicazione ad opera del giudice comune). Si nota, in
particolare, che il secondo comma dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 lascia
espressamente salve, tra le altre, le norme sulla procedura amministrativa di
riesame dell’autorizzazione.
Da ultimo, la parte assume che sarebbe alterato, nella logica
dell’ordinanza di rimessione, il corretto equilibrio instaurato dalla
Costituzione tra la funzione giurisdizionale e quelle di legislazione e di
amministrazione. A queste ultime sarebbe riferibile in via primaria, specie
nella logica della prevenzione di accadimenti futuri, la garanzia della
incolumità pubblica e della salute delle persone (sono citate, in questa
prospettiva, le sentenze della Corte costituzionale n. 121 del 1999,
n. 283 del 1986,
n. 70 del 1985,
n. 150 del 1981).
La riserva di giurisdizione desumibile dagli artt. 102, 103 e 104 Cost.
andrebbe intesa come riserva di sentenza, e non come capacità inibitoria
dell’intervento giudiziario in ordine a qualunque forma di espressione del
potere legislativo e di quello esecutivo ed amministrativo.
9.– In data 19 marzo 2013 è stata depositata, nell’interesse dei signori
Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro, una memoria tesa
a ribadire le conclusioni già offerte (supra, § 4).
Oggetto delle censure sarebbe una «legge provvedimento», nata per
intervenire su una sola e specifica situazione (sono citati i lavori
preparatori della legge di conversione), priva di ragionevolezza (sono citate
le sentenze della Corte costituzionale n. 492 del 1995,
n. 346 del 1991,
n. 143 del 1989),
e per altro verso destinata, comunque, ad una indebita interferenza con il
procedimento giudiziario in corso, come tra l’altro risulterebbe chiaro alla
luce dell’occasione e della tempistica (è citata la sentenza n. 267 del
2007). La giurisprudenza costituzionale avrebbe irrevocabilmente chiarito
che le leggi provvedimento non possono interferire con procedimenti in atto
(sentenze n. 137
del 2009, n.
525 e n. 419
del 2000, n.
123 del 1987), ché altrimenti risulterebbe inciso il diritto fondamentale
alla difesa.
L’art. 3 del decreto-legge, mediante un rinvio recettizio, avrebbe «legificato» l’AIA riesaminata dell’ottobre 2012, con la
conseguenza, asseritamente paradossale, che non
sarebbero impedite modifiche ed aggiornamenti per via amministrativa, che,
anzi, sarebbero già intervenuti (con modificazioni dei tempi prescritti per
l’adozione di talune cautele). Dunque, l’Ilva starebbe svolgendo attività
produttiva non più secondo l’autorizzazione conferita con il d.l. n. 207 del
2012: si tratterebbe di una situazione irrazionale, già stigmatizzata dalla
Corte costituzionale in un caso analogo (sentenza n. 282 del
1990).
Ad ogni modo – e cioè anche volendo ammettere la natura solo formale del
rinvio all’AIA riesaminata da parte della norma censurata – l’effettività del
diritto di difesa sarebbe pregiudicata dall’ostacolo posto alla prevenzione ed
al perseguimento dei delitti sanzionati dal diritto penale comune, visto tra
l’altro che la clausola di «salvezza» inserita nel comma 3 dell’art. 1
comprende le sole sanzioni penali previste dalla normativa di settore. Considerato
che si tratta di mere sanzioni pecuniarie per reati suscettibili di oblazione,
il regime di tutela penale dell’ambiente e della salute resterebbe
risolutivamente condizionato, sul piano dell’efficacia, da un provvedimento del
Ministro dell’ambiente, oltretutto altamente discrezionale nei fini, data la
genericità della previsione che lo regola.
Inoltre, la ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore,
prevedendo sanzioni per le sole violazioni dell’AIA riesaminata, dovrebbe
essere esclusa in quanto le prescrizioni adottate con il provvedimento di
riesame sarebbero inidonee ad assicurare il risanamento del processo
produttivo. Al riguardo, vengono richiamati i dati salienti delle perizie
effettuate nel giudizio penale in corso, che segnalano imponenti emissioni non
convogliate (diffuse e fuggitive): nella procedura di riesame non sarebbero
stati utilizzati studi sull’incidenza delle misure prescritte e sarebbero state
addirittura trascurate fonti concorrenti di inquinamento ambientale, connesse
alla gestione dei rifiuti e dei sottoprodotti, nonché delle acque reflue e
meteoriche. Nel contempo, i termini per l’adeguamento alle prescrizioni
impartite sarebbero tali da azzerarne l’efficacia nel medio periodo (tre anni,
ad esempio, per la copertura dei parchi minerali), e in parte sarebbero stati
già prorogati dall’amministrazione.
Resterebbe dunque confermata l’illecita compressione del diritto alla
salute ed all’ambiente salubre, la cui tutela andrebbe invece assicurata quale
profilo intrinseco alla garanzia per ciascuno degli interessi concorrenti: il
diritto al lavoro, in particolare, non potrebbe che essere anche diritto alla
sicurezza ed all’igiene del lavoro medesimo (sono citate, in generale, le
sentenze della Corte costituzionale n. 40 e n. 39 del 2013,
n. 151 del 2012,
n. 137 del 2009,
n. 190 del 2001,
n. 238 del 1996,
n. 479 del 1987,
n. 21 del 1964).
10.– In data 18 marzo 2013 l’associazione Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane ha
depositato memoria insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già offerte
(supra, §
5).
11.– In data 19 marzo 2013 l’Associazione per il Word Wide Fund for Nature
(WWF Italia) Onlus ha depositato memoria insistendo per l’accoglimento delle
conclusioni già offerte (supra,
§ 6).
12.– Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello
a norma dell’art. 322-bis cod. proc.
pen., ha sollevato, con ordinanza depositata in data 15 gennaio 2013 (r.o. n.
20 del 2013), questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge
n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3
del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104
e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso»
12.1.– Il Tribunale riferisce di essere investito dell’appello proposto
dal legale rappresentante dell’Ilva contro l’ordinanza del Giudice per le
indagini preliminari di Taranto che, in data 11 dicembre
Viene ricordato, in particolare, il provvedimento del 25 luglio 2012
mediante il quale, disponendo il sequestro preventivo di alcune aree dello
stabilimento siderurgico di Taranto, il Giudice per le indagini preliminari
aveva nominato un collegio di custodi composto da tre funzionari pubblici con
specifiche competenze industriali, e da un dottore commercialista per i profili
amministrativi della gestione. Al collegio dei custodi era stata impartita la
direttiva di avviare «immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per
il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti sopra
indicati», assicurando la tutela della pubblica incolumità e l’integrità degli
impianti stessi. Alla proprietà degli impianti era stata dunque negata la
facoltà d’uso dei medesimi.
Il 20 agosto 2012 il Tribunale del riesame aveva parzialmente riformato il
provvedimento in questione. Il custode con competenze amministrative era stato
sostituito con il Presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva e
soprattutto, ferme le ulteriori disposizioni, erano state modificate le
direttive per i custodi, cui erano stati affidati i compiti di garantire la
sicurezza degli impianti, eliminare le situazioni di pericolo, monitorare di
continuo le emissioni inquinanti. La nomina del legale rappresentante dell’Ilva
quale componente del collegio dei custodi è stata poi revocata nell’ambito di successivi
sviluppi della procedura, ma per il resto il provvedimento di riesame, non
impugnato dalla società, si è stabilizzato.
Il quadro cautelare (essendo nel frattempo intervenuta l’AIA riesaminata
ad opera del Ministro competente) si era evoluto con l’adozione di un ulteriore
decreto di sequestro preventivo, emesso il 22 novembre 2012, riguardo ai
prodotti finiti o semilavorati che giacevano nelle zone di stoccaggio dello
stabilimento dell’Ilva. La nuova cautela era stata giustificata assumendo la perdurante
violazione del provvedimento di sequestro degli impianti, in assenza di alcuna
seria iniziativa per la riduzione delle emissioni inquinanti. Le merci
prodotte, dunque, avrebbero costituito il prodotto di un reato, suscettibile di
confisca in applicazione del primo comma dell’art. 240 cod. pen., e per
l’effetto assoggettabile a sequestro secondo quanto disposto al comma 2
dell’art. 321 cod. proc. pen. Ma il sequestro si sarebbe legittimato, sempre a
parere del Giudice per le indagini preliminari, anche a norma del comma 1 dello
stesso art. 321, poiché la libera disponibilità delle merci avrebbe favorito la
prosecuzione di quel ciclo produttivo che il giudice procedente considerava
illecito e fortemente lesivo sul piano ambientale e sanitario.
L’impugnazione contro il nuovo decreto di sequestro non era stata
coltivata dall’Ilva, il cui legale rappresentante aveva piuttosto preferito
rivolgersi alla locale Procura della Repubblica affinché fosse data immediata
esecuzione alle norme nel frattempo introdotte con il d.l. n. 207 del 2012. Il
pubblico ministero, in effetti, aveva restituito alla società il possesso degli
impianti, ferma restando la loro condizione di sequestro, ma aveva chiesto al
Giudice per le indagini preliminari di respingere l’analoga domanda per i
prodotti in giacenza, ed il Giudice aveva provveduto in conformità con
ordinanza dell’11 dicembre 2012.
Contro tale ultimo provvedimento è proposto l’appello che deve essere
definito dal giudice a quo. Nell’atto
di gravame si contesta che ricorra un fumus adeguato in
ordine alla sussistenza dei reati ipotizzati, si denunciano vizi di motivazione
circa l’illiceità dell’attività produttiva e si prospetta la violazione delle
norme contenute nel decreto-legge, significativamente emendate, peraltro, proprio
con riguardo all’oggetto dell’ordinanza impugnata. A seguito delle modifiche
apportate in sede parlamentare, infatti, il comma 3 dell’art. 3 del decreto
stabilisce espressamente che l’Ilva deve considerarsi autorizzata alla
commercializzazione dei prodotti in giacenza, «ivi compresi quelli realizzati
antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ferma
restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo
decreto».
L’8 gennaio 2013 il Tribunale procedente ha celebrato il procedimento
camerale. In tale sede, e con successiva memoria autorizzata, il pubblico
ministero ha chiesto sollevarsi questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 1 e 3 della «legge 24 dicembre 2012, n. 231». L’ordinanza di rimessione
accoglie, in parte, l’indicata sollecitazione.
12.2.– In punto di rilevanza il rimettente premette che, per effetto della
rinuncia dell’Ilva al ricorso per riesame inizialmente proposto contro il
decreto di sequestro dei prodotti, deve escludersi, riguardo al fumus commissi delicti, l’intervenuta formazione del cosiddetto
giudicato cautelare, con la conseguenza che il tema resta liberamente
valutabile in sede di appello contro il rigetto dell’istanza di restituzione.
La circostanza è considerata significativa sul piano della rilevanza, in
quanto, se mancassero i presupposti per la prosecuzione del sequestro, i beni
andrebbero restituiti a prescindere dall’applicazione della norma censurata.
Sempre a titolo di premessa, il Tribunale ricorda i limiti intrinseci
della cognizione e della valutazione cui il giudice è chiamato nel procedimento
cautelare reale, con particolare riguardo al merito dell’accusa, che deve
essere valutata sul solo piano della correttezza giuridica. Il fumus è dunque
apprezzato in termini di mera congruenza tra gli elementi prospettati dalle
parti e le conseguenze che se ne traggono in termini di qualificazione dei
fatti, senza disponibilità di poteri istruttori e con la possibilità di negare
la cautela solo in caso di «manifesta, assoluta ed evidente inconfigurabilità
dell’ipotesi di reato».
12.2.1.– Per motivare il proprio giudizio circa la sussistenza del fumus in ordine ai delitti contestati, ed in
particolare circa il carattere illecito dell’attività culminata con la
produzione delle merci in sequestro, il Tribunale rimettente ricorre ad
un’ampia citazione del provvedimento impugnato. In tale sede si ricorda che il
sequestro preventivo degli impianti era stato disposto senza facoltà d’uso e che
lo stesso Tribunale del riesame aveva autorizzato interventi tecnici al solo
fine di apprestare le cautele necessarie per prevenire nuove immissioni nocive
nell’ambiente, precludendo ogni ulteriore attività produttiva fino ad una nuova
e positiva verifica dei risultati ottenuti. Nondimeno, secondo il Giudice per
le indagini preliminari, la proprietà dell’Ilva non ha "consegnato” gli
impianti, ha proseguito la produzione senza significativi interventi in chiave
di sicurezza ambientale, e si è rifiutata di fornire ai custodi la
documentazione pertinente alla commercializzazione dei propri prodotti. In
altre parole, la società avrebbe continuato «imperterrita nella criminosa
produzione dell’acciaio, nella vendita del frutto dell’attività criminosa […]
assicurandosi lauti profitti non curante delle disposizioni dell’autorità
giudiziaria e in violazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali».
Il Tribunale rimettente disattende, in proposito, la tesi difensiva
secondo cui il Collegio del riesame aveva consentito la prosecuzione
dell’attività produttiva, sia pure nei limiti della necessaria preservazione
degli impianti. Quel Collegio, piuttosto, aveva negato che lo spegnimento degli
impianti fosse l’unico modo per far cessare le emissioni nocive, delegando ai custodi
la verifica della possibilità di interventi utili ad assicurare la prosecuzione
in sicurezza dell’attività produttiva; attività che avrebbe potuto riprendere
solo se e quando gli ipotetici interventi sulla sicurezza ambientale fossero
stati attuati. Una prospettiva pienamente coerente – secondo il giudice a quo – con la logica del sequestro
preventivo, che mira a sottrarre la disponibilità della cosa al possessore,
anche al fine di prevenire l’incremento degli effetti lesivi della condotta
delittuosa. La limitata facoltà d’uso, comunque accordata ai soli custodi,
aveva avuto per scopo la verifica della possibilità di conservare il bene
sequestrato, in vista del bilanciamento degli interessi connessi alla sua
utilità per l’esercizio dell’impresa.
Di contro, come ammesso dalla stessa parte privata, l’attività produttiva
era proseguita senza interruzione e con le stesse emissioni inquinanti
riscontrate a monte del sequestro degli impianti. La tesi difensiva della
necessità di una produzione a basso regime per la conservazione dello
stabilimento viene respinta dal Tribunale, in assoluto e comunque alla luce dei
dati quantitativi del prodotto, confermati dal sequestro di oltre un milione e
mezzo di tonnellate di merce. Dunque – si conclude – i lavorati in sequestro
devono considerarsi prodotti di reato e cose pertinenti a reato, legittimamente
sequestrati a mente del comma 1 dell’art. 321 cod. proc. pen. e, comunque, ai
sensi del comma
12.2.2.– Alla luce del quadro normativo preesistente al d.l. n. 207 del
In effetti – osserva il Tribunale – la disponibilità della cosa è
logicamente incompatibile con la funzione del sequestro, tanto che la
giurisprudenza di legittimità annulla le «concessioni d’uso» talvolta
rilasciate dal giudice di merito per la salvaguardia di interessi primari della
persona (sarebbe il caso degli immobili abusivi). Il principio varrebbe, a
maggior ragione, riguardo a forme d’uso che si risolvano nella cessione a terzi
delle cose sequestrate e dunque nella loro dispersione, tanto che le relative
condotte, da parte del custode o del proprietario, costituiscono un reato.
Interpretata in chiave retroattiva, la disposizione originariamente introdotta
con il decreto-legge avrebbe comportato la definitiva dispersione delle merci
sottoposte a sequestro, per la loro immissione in un ciclo di trasformazione
che le avrebbe rese irrecuperabili.
La funzione del comma 3 dell’art. 3, nella versione scaturita dalla legge
di conversione, sarebbe, dunque, proprio quella di superare il quadro
delineato, affinché
12.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente prospetta
anzitutto un contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost., posto che detta
norma si atteggerebbe a «legge del caso singolo». Di conseguenza,
Il Tribunale ricorda come la giurisprudenza costituzionale abbia chiarito
la necessità di una ragionevole giustificazione per la diseguale disciplina di
situazioni assimilabili (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 1009 del 1988
e n. 15 del 1960).
Nel caso di specie, la norma censurata introdurrebbe una possibilità di
commercializzazione del bene sequestrato inibita in ogni altra consimile
fattispecie, se non addirittura una ipotesi «speciale» di dissequestro, non
fondata, come quelle generali, sulla cessazione delle esigenze di cautela che
impongono il vincolo reale. Il legislatore, oltretutto, avrebbe introdotto una
legge del caso concreto secondo un bilanciamento irragionevole tra i valori in
gioco, difforme da quello che normalmente segna la disciplina di protezione
dell’ambiente (è citato il caso dell’emergenza rifiuti, ove addirittura il
legislatore ha penalizzato, talvolta, condotte prive di rilevanza fuori delle
porzioni di territorio interessate dalla stessa emergenza).
Il rimettente prospetta la violazione concomitante del principio di
«ragionevolezza-razionalità» (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 204 del 1982). Viene ribadito che la funzione
tipica del sequestro preventivo è quella di privare il possessore della
disponibilità della cosa, anche in vista dell’eventuale confisca. L’autorizzazione
«particolare» che la legge conferisce all’Ilva non sarebbe giustificata –
secondo il Tribunale – neppure dalle esigenze di salvaguardia dell’occupazione
e della produzione, per la cui tutela l’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012
consente, attraverso il riesame dell’AIA, di proseguire l’attività industriale
negli stabilimenti di interesse strategico nazionale: la commercializzazione
dei lavorati, infatti, non sarebbe necessaria ai fini indicati.
La norma «generale» (del cui carattere di astrattezza il rimettente
dubita, sia pur senza farne questione) avrebbe il solo scopo di legittimare una
prosecuzione dell’attività produttiva nonostante l’intervenuto sequestro degli
impianti. Discostandosi da questa ratio,
la norma censurata avrebbe accordato un diverso privilegio all’Ilva,
relativamente ai prodotti sequestrati prima dell’intervento normativo. Dunque,
la legge avrebbe introdotto una difformità di trattamento «interna» ai casi
particolari, riconducibili alla previsione dell’art. 1, per i quali potrebbe considerarsi
legittima una disciplina più favorevole di quella riservata in generale a
coloro che esercitano attività di produzione industriale (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 80 del 1969).
In realtà – osserva il Tribunale – gli artt. 1 e 2 del d.l. n. 207 del
2012 prevedono una facoltà d’uso delle cose in sequestro non incompatibile
ontologicamente con la cautela reale, mentre il comma 3 dell’art. 3 introduce
una disposizione radicalmente contrastante con la fisionomia della cautela,
tanto da risolversi sostanzialmente in una fattispecie di dissequestro
«obbligatorio». Se poi la stessa disposizione avesse anche il senso di una
legittimazione a posteriori dell’attività
produttiva culminata con la realizzazione delle merci in questione, resterebbe
violato, secondo il rimettente, anche il «principio di irretroattività della
legge», derogabile solo quando ciò sia richiesto dal criterio di
ragionevolezza, senza mai «incidere arbitrariamente sulle situazioni
sostanziali poste in essere da leggi precedenti» (sono citate le sentenze della
Corte costituzionale n. 229 del 1999,
n. 432 del 1997,
n. 153 e n. 6 del 1994, n. 283 del 1993).
La norma censurata contrasterebbe anche con gli artt. 102 e 104 Cost., che
«tutelano le prerogative della funzione giudiziaria», in quanto incide su un
procedimento in corso e varrebbe a condizionare la concreta possibilità della
confisca in esito al procedimento stesso, sebbene l’attività produttiva della
merce, almeno per l’epoca antecedente all’emanazione del d.l. n. 207 del 2012,
debba considerarsi tuttora illecita.
Il Tribunale, dopo aver ricordato il principio di soggezione del giudice
«solo alla legge», riconosce che tale principio non implica l’illegittimità di
misure retroattive o suscettibili di interagire nella soluzione di controversie
già pendenti (sono citate le sentenze di questa Corte n. 229 del 1999,
n. 432 del 1997,
n. 397 del 1994,
n. 402 del 1993).
Anche le cosiddette «leggi provvedimento» possono essere legittime, a
condizione però che non violino la «riserva di giurisdizione», che opera
«specie» nel caso di giudizi pendenti ed inibisce al Parlamento l’esercizio di
funzioni giurisdizionali, salvi i casi previsti dalla Costituzione (sono citate
le sentenze di questa Corte n. 137 del 2009,
n. 241 del 2008,
n. 267 del 2007,
n. 321 del 1998,
n. 123 del 1987).
La norma censurata avrebbe di fatto «direttamente modificato un
provvedimento del giudice» (l’ordinanza posta ad oggetto dell’impugnazione),
«senza per altro modificare il quadro normativo sulla base del quale era stato
emanato».
Infine, il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 violerebbe gli
artt. 24 e 112 Cost., vulnerando il diritto di azione del privato leso nei suoi
diritti ed ostacolando la funzione pubblica di accertamento, repressione e
prevenzione dei reati (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 34 del 1973).
12.4.– Il Tribunale rimettente tiene a chiarire, in conclusione del
proprio provvedimento, che il giudizio impugnatorio
deve considerarsi sospeso, a norma dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n.
87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
anche in considerazione del carattere non perentorio del termine per la
relativa definizione, posto che si tratta di appello contro un provvedimento in
materia di sequestro e non di riesame (l’art. 322-bis del codice di rito rinvia all’art. 310 e non al comma 10
dell’art. 309).
13.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto
depositato il 26 febbraio 2013, chiedendo che le questioni sollevate siano
dichiarate inammissibili e/o infondate.
13.1.– Dopo aver riassunto gli antefatti dell’ordinanza di rimessione e
l’essenza delle questioni prospettate dal rimettente, l’Avvocatura generale
assume che il Tribunale di Taranto si sarebbe arrogato (violando gli artt. 101,
117 e 134 Cost.) un inesistente potere di disapplicazione della legge, che
spetta solo di fronte a «norme comunitarie» incompatibili con il diritto
interno, e che non potrebbe ritenersi insito nella possibilità di sollevare
questioni di legittimità costituzionale (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 285 del 1990).
Sempre in via preliminare, l’Avvocatura generale sostiene che le questioni
sollevate avrebbero «perso di interesse», posto che il giudice procedente, con
provvedimento del 14 febbraio
13.2.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le censure del
rimettente sarebbero riducibili a tre nuclei fondamentali, restando in ogni
caso infondate.
13.2.1.– La normativa censurata, in primo luogo, non violerebbe il
principio di uguaglianza, costituendo piuttosto applicazione del principio per
il quale situazioni che appaiono diverse, secondo una ragionevole
identificazione del criterio di discriminazione, devono essere regolate
differentemente. Il principio di ragionevolezza imporrebbe solo congruenza tra
la ratio della legge e le
disposizioni adottate.
L’osservanza del principio non sarebbe pregiudicata nel caso di leggi
provvedimento, sempreché si tratti, appunto, di interventi ragionevoli e non
arbitrari, che non interferiscano con la funzione giudiziaria e non vanifichino
l’autorità del giudicato (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 289 e n. 270 del 2010,
n. 137 e n. 94 del 2009,
n. 288 e n. 241 del 2008,
n. 267 e n. 11 del 2007,
n. 282 del 2005,
n. 321 del 1998,
n. 492 e n. 347 del 1995,
n. 346 del 1991,
n. 143 del 1989,
n. 123 del 1987).
Il carattere derogatorio o particolare della legge provvedimento imporrebbe
semplicemente, secondo l’Avvocatura, uno «scrutinio stretto» sul piano della
ragionevolezza (sono citate le sentenze n. 429 del 2002,
n. 364 del 1999,
n. 185 del 1998,
n. 153 e n. 2 del 1997).
Ciò premesso, la difesa erariale ritiene non sospetta la disposizione
censurata alla luce dei parametri valutativi elaborati dalla giurisprudenza:
«tempo, modalità, contenuto e contesto di adozione della disposizione normativa
in esame». Il riferimento alle merci realizzate prima dell’entrata in vigore
del decreto-legge non era contenuto nello stesso decreto, essendo stato
inserito solo in sede di conversione (in accoglimento, peraltro, di un
emendamento proposto dal Governo). Ciò dimostrerebbe, a parere dell’Avvocatura
generale, che la norma non mirava ad eludere il disposto dell’autorità
giudiziaria, quanto piuttosto a rimuovere un ostacolo che avrebbe potuto
vanificare (sul piano economico e finanziario) l’obiettivo di una ripresa delle
attività produttive, e la stessa realizzazione del piano di risanamento
ambientale. Il carattere particolare della disposizione sarebbe il riflesso
della peculiarità della specifica situazione, «non assimilabile né equiparabile
ad altre esistenti nel Paese».
Il blocco delle merci avrebbe vanificato il diritto al lavoro degli
occupati (art. 4 Cost.) e l’insieme degli ulteriori interessi gravitanti sulla
produzione (artt. 41, 42, 43 e 44 Cost.), con rischi di grave turbamento
dell’ordine pubblico. Nella specie, il diritto di uguaglianza sarebbe stato
bilanciato con il principio di libertà dell’iniziativa economica e, di nuovo,
con il diritto al lavoro, facendo applicazione del principio
«solidaristico-sociale» (art. 2 Cost.) e della stessa direttiva costituzionale
per la realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale tra i cittadini.
La disciplina censurata, per altro verso, non avrebbe vanificato la tutela
del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, ma l’avrebbe semplicemente
bilanciata con quella degli interessi concorrenti.
L’Avvocatura generale rammenta che il contemperamento tra le ragioni della
proprietà e quelle dell’ambiente costituisce un principio generale
dell’ordinamento (è richiamato l’art. 844 del codice civile), ed impone forme di
«normale» tolleranza per le immissioni, a garanzia del pieno godimento e
sfruttamento dei beni oggetto del diritto di proprietà.
13.2.2.– A proposito dell’addebito di interferenza con la funzione
giudiziaria, che il rimettente muove alla normativa censurata, la difesa del
Presidente del Consiglio osserva che sarebbe stata piuttosto la magistratura
tarantina ad alterare il corretto bilanciamento degli interessi in gioco e che
la necessità di un riequilibrio, per mano del legislatore, sarebbe dimostrata dal
fatto che «solo successivamente e dopo l’adozione del decreto-legge […] i
provvedimenti della magistratura tarantina hanno assunto un contenuto ed una
portata maggiormente rispettosi delle esigenze di contemperamento».
13.2.3.– Non sarebbero fondate neppure le doglianze concernenti un preteso
effetto di inibizione del perseguimento dei reati connessi all’attività
produttiva dell’Ilva.
La giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito che un
intervento normativo non vulnera la funzione giurisdizionale solo perché
produce effetti retroattivi ed «interagisce con controversie in corso» (sono
citate le sentenze n. 229 del 1999,
n. 432 del 1997,
n. 394 del 1994,
n. 402 del 1993).
Per un verso, si discute nella specie di provvedimenti cautelari, per loro
natura assunti allo stato degli atti e suscettibili di continuo adattamento,
tanto che il cosiddetto «giudicato cautelare» non sarebbe affatto paragonabile
alla condizione di irrevocabilità di una sentenza. Per altro verso, il legislatore
si sarebbe limitato a fronteggiare una grave crisi in atto, che richiedeva un
attento bilanciamento tra le esigenze della produzione e dell’occupazione e
quelle della salute e dell’ambiente (tutelate, si fa notare, anticipando
l’introduzione delle BAT di cui alla già citata Decisione della Commissione
europea 2012/135/UE).
È pienamente concepibile – prosegue l’Avvocatura generale – che singoli
casi concreti pongano in evidenza la necessità di affinamenti e aggiornamenti
della legislazione. Le leggi provvedimento, d’altra parte, non sono per sé
vietate dalla Costituzione, tanto che la disciplina censurata non costituisce
un caso isolato: vengono richiamati nuovamente il d.l. n. 61 del 2007 ed il
d.l. n. 90 del 2008 (supra,
§ 2.2.1.).
Nei casi in questione, come in quello odierno, non vi sarebbe stata alcuna
preclusione di accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti, né alcuna
inibizione dei poteri di indagine e di azione facenti capo al pubblico
ministero, né infine alcuna predeterminazione della decisione giudiziale in
merito ad una singola controversia. La disciplina censurata oggi, oltre ad
introdurre una nuova sanzione per le violazioni dell’AIA, avrebbe
specificamente fatte salve le sanzioni preesistenti, anche penali.
13.2.4.– L’Avvocatura generale osserva ulteriormente, anche con riguardo
all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come la Convenzione
stessa non escluda radicalmente la possibilità di leggi che, operando
retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando
sussistano esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di
interesse generale» (sono citate, nel complesso, le sentenze di questa Corte n. 264 e n. 15 del 2012,
n. 303, n. 238 e n. 93 del 2011,
n. 317 e n. 311 del 2009,
n. 362 e n. 172 del 2008).
D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non avrebbe
modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al
migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti,
impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse
intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti.
In particolare, la commercializzazione dei beni sequestrati costituirebbe
una congrua implicazione del bilanciamento appena descritto, perché
indispensabile a fini di risanamento degli impianti e di conservazione dei
livelli occupazionali.
13.2.5.– Da ultimo si osserva, ad opera dell’Avvocatura generale, che la
normativa censurata sarebbe parte di un intervento più ampio, volto alla
riqualificazione dell’area industriale di Taranto attraverso la conversione dei
processi produttivi ed il risanamento ambientale: sono richiamati il
decreto-legge 7 agosto 2012, n. 129 (Disposizioni urgenti per il risanamento
ambientale e la riqualificazione del territorio della città di Taranto),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 ottobre 2012,
n. 171, e l’art. 27 (rubricato come «Riordino della disciplina in materia di
riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale
complessa») del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni,
dall’art. 1 della legge n. 134 del 2012.
14.–
14.1.– L’atto in questione si apre con una ricostruzione degli
avvenimenti, di carattere processuale e normativo, che hanno preceduto
l’ordinanza di rimessione, sostanzialmente analoga a quella già proposta nel
giudizio r.o. n. 19 del 2013 (supra, § 3.1.). Viene ribadito, in particolare, che la
produzione delle merci in sequestro sarebbe stata «espressamente assentita
dall’autorità giudiziaria e condotta, peraltro, sotto la responsabilità dei
custodi ed il controllo della Procura».
14.2.– La parte costituita eccepisce, in primo luogo, che le censure
proposte dal rimettente sarebbero irrilevanti o, quanto meno, viziate da una
insufficiente ponderazione del quadro normativo di riferimento (sono citate le
sentenze della Corte costituzionale n. 367 del 2010
e n. 120 del
2006). In particolare, il giudice rimettente non avrebbe potuto prospettare
il dubbio circa la legittimità dell’unica norma censurata (il comma 3 dell’art.
3) se non estendendo le proprie censure all’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012,
data la stretta connessione esistente tra le due disposizioni.
Con il citato art. 1, il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale
un bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo
l’efficacia dell’AIA riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste
ed aggiungendone di nuove, implementando gli obblighi delle imprese in
relazione alle cautele di protezione ambientale.
La disposizione del comma 4, sempre in linea generale, prevede che
l’autorizzazione in esito al riesame possa essere rilasciata anche quando
provvedimenti giudiziari di sequestro insistano sui beni aziendali, e che i
provvedimenti in questione non impediscono l’esercizio dell’attività di
impresa. Dato il carattere generale ed astratto di tale ultima previsione,
avrebbe sapore meramente «nominalistico» la censura prospettata dal Tribunale a
proposito del fatto che la commercializzazione delle merci dell’Ilva sarebbe
stata disposta in assenza di una deroga alle prescrizioni dell’art. 321 cod.
proc. pen., perché tale ultima norma sarebbe ormai integrata, sempre sul piano
generale, dall’art. 1 del decreto-legge in discussione.
Si tratterebbe di un bilanciamento spettante al legislatore (salvo il
controllo della Corte costituzionale: sentenza n. 264 del
2012), non privo di antecedenti. È nuovamente richiamato l’art. 2 del
d.lgs. n. 270 del 1999, ove è previsto che l’interesse dei creditori delle
imprese di grandi dimensioni debba recedere di fronte a quello alla
conservazione delle risorse produttive e dei livelli occupazionali. Sono
richiamati, ancora, il d.l. n. 90 del 2008, le leggi n. 99 del 2009 e n. 183
del 2011, i decreti-legge n. 112 del 2008 e n. 83 del 2012 (supra, § 3.2.).
Il diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva è stato bilanciato –
si ripete – attraverso la contenuta durata dell’autorizzazione ed un complesso
sistema di controlli, esteso fino alla diretta vigilanza del Parlamento. Ciò
detto, non avrebbe senso discutere di diritto all’esercizio dell’impresa senza
che ne discenda, per implicito ma già sul piano generale, la possibilità di
commerciare i prodotti dell’attività aziendale.
Dunque l’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, secondo
La connessione inscindibile tra la norma censurata e quella dell’art. 1
renderebbe palese l’irrilevanza della questione sollevata con riguardo al solo
art. 3, comma 3, del decreto. In effetti – si dice – quand’anche intervenisse
una pronuncia di illegittimità in ordine alla norma censurata, il Tribunale
rimettente dovrebbe comunque accogliere l’impugnazione, in applicazione delle
norme di cui agli artt. 1, 2 e 3, comma 1, dello stesso decreto-legge, che
conferiscono all’Ilva il diritto alla prosecuzione dell’attività e dunque alla
commercializzazione dei relativi prodotti, anche se sottoposti a sequestro.
14.3.– I rilievi fin qui illustrati varrebbero a documentare, secondo la
parte costituita, l’infondatezza della censura costruita sull’art. 3 Cost.,
secondo cui la sola società Ilva sarebbe stata beneficiata della possibilità di
commercializzare prodotti sottoposti a sequestro.
Viene richiamata, anzitutto, la considerazione che spetta comunque alla
legge stabilire quali condotte siano illecite, anche nel rapporto con un
pregresso provvedimento autorizzativo. In ogni caso, il comma 3 dell’art. 3 del
d.l. n. 207 del 2012 non sarebbe norma del caso singolo, ma semmai norma
provvedimento, come tale condizionata, ai fini del sindacato di legittimità
costituzionale, solo dall’osservanza dei principi di ragionevolezza e non
arbitrarietà (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 270 del 2010). Nella specie – si ripete – la
possibilità di commercio del prodotto costituisce portato imprescindibile della
legittimazione a proseguire le attività produttive. D’altra parte, è proprio il
principio di uguaglianza a richiedere trattamenti differenziali per situazioni
diverse (sentenza
n. 15 del 1975), ed implica una necessaria congruenza tra norma e «causa
normativa che la deve assistere» (sentenza n. 89 del
1996).
La parte costituita ricorda che già in altri casi il legislatore aveva
neutralizzato l’effetto di sequestri giudiziari sulla utilizzazione produttiva
di determinati beni (d.l. n. 81 del 2007) o dettato deroghe specifiche
all’applicazione di norme generali (è richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 152 del 1985). Nelle fattispecie complesse, non
ogni «incoerenza, disarmonia o contraddittorietà» che derivi da una norma può
risolversi in violazione del principio di uguaglianza, ché altrimenti il
controllo di legittimità si trasformerebbe in controllo di opportunità (sentenza n. 89 del
1996).
Infondato sarebbe anche l’assunto di una indebita «efficacia retroattiva»
della norma censurata, nei contenuti modificati dalla legge di conversione. La
norma infatti non disporrebbe che per il futuro, regolando il nuovo regime
giuridico per i prodotti in condizione di sequestro, a titolo di mera
ricognizione dell’operatività nel caso concreto della regola enunciata
nell’art. 1, specificamente dettata rispetto a beni che già si trovassero
sottoposti al vincolo.
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale non ha mai escluso in
radice la possibilità di norme retroattive, quando le stesse «vengano a trovare
un’adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in
contrasto con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti»
(sono citate, oltre alla sentenza della
Corte costituzionale n. 6 del 1994, le sentenze della stessa Corte n. 58 del 2009,
n. 432 del 2007,
n. 374 del 2002).
Sul piano sostanziale, la parte nega nuovamente che l’attività culminata
con la produzione dei beni fosse illecita.
14.4.– Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione
giurisdizionale, ed alla conseguente violazione degli artt. 102 e 104 Cost., la
parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione
del «giudicato» (per la cui definizione sono richiamate le sentenze della Corte
costituzionale n.
170 del 2008, n.
364 e n. 267
del 2007, n.
282 del 2005, n.
525 e n. 374
del 2000, n.
115 del 1990). Il cosiddetto «giudicato cautelare» si risolve in una mera
preclusione processuale, e d’altronde lo stesso giudicato formale sarebbe ormai
sacrificato quando la relativa tutela implicherebbe una lesione per i diritti
fondamentali della persona (è nuovamente citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 113 del 2011).
In secondo luogo – prosegue la parte costituita – l’interferenza
determinatasi sui provvedimenti giudiziari, per effetto della norma censurata,
sarebbe compatibile con i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale
in materia (sono citate le sentenze n. 93 del 2011,
n. 137 del 2009,
n. 492 del 1995,
n. 397 e n. 6 del 1994; n. 480 del 1992,
n. 346 del 1991,
n. 91 del 1988,
n. 123 del 1987,
n. 118 del 1957).
Occorre che il legislatore non detti la regola per un singolo giudizio, ma
ponga una disciplina suscettibile di applicazione in ogni fattispecie concreta
che presenti le medesime caratteristiche. A queste condizioni, il fatto che la
norma produca effetti nei giudizi in corso non potrebbe essere considerato alla
stregua di una interferenza illegittima nella funzione giurisdizionale (ancora,
sentenze n. 1
del 2011, n.
311 e n. 94
del 2009, n.
32 del 2008, n.
352 del 2006, n.
211 del 1998, n.
263 del 1994).
In ogni caso, nella specie, non vi sarebbe propriamente una influenza sul giudizio
in corso, o almeno non una influenza indipendente da una modifica del quadro
normativo in base al quale era stato assunto il provvedimento giudiziale:
modifica che invece, come più volte si ripete, sarebbe stata realizzata con
l’art. 1 del decreto-legge in discussione.
14.5.– Da ultimo, la parte costituita contesta che la norma censurata
abbia condizionato il diritto ad agire in giudizio per la tutela di diritti ed
interessi (art. 24 Cost.) e l’esercizio del potere-dovere di promuovere
l’azione penale da parte del pubblico ministero (art. 112 Cost.).
La norma in questione avrebbe mera funzione ricognitiva della sussistenza,
nel caso di specie, dei nuovi criteri di legittimazione dell’attività
produttiva conseguente al rilascio di una AIA in sede di riesame. Modifiche
della disciplina sostanziale di un illecito non potrebbero certo essere
impedite dall’attuale pendenza di indagini preliminari. D’altra parte, non
sarebbe illegittimo che il legislatore ponga cautele e condizioni per
l’esercizio dell’azione penale (sono citate le sentenze della Corte
costituzionale n.
114 del 1982 e n. 121 del 2009).
15.– In data 19 marzo 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, in
rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ha depositato memoria
al fine di ribadire le conclusioni in precedenza offerte (supra, § 13). Nell’atto vengono
svolte alcune considerazioni aggiuntive, analoghe quelle che si leggono nella memoria
depositata per il giudizio r.o. n. 19 del 2013, già sopra illustrate (§ 7).
16.– In data 19 marzo 2013 è stata depositata, nell’interesse dell’Ilva
S.p.A., una memoria tesa a ribadire le conclusioni già offerte, anche con
specifico riguardo alle questioni sollevate nel giudizio r.o. n. 20 del 2013.
Il contenuto dell’atto è già stato illustrato (supra, § 8).
Considerato in diritto
1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di
Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e
3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni
urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in
caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del
decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della
salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di
stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito,
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in
relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma,
27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113
e 117, primo comma, della Costituzione.
L’art. 1 del citato d.l. n. 207 del 2012 è censurato in quanto prevede
che, presso gli stabilimenti dei quali sia riconosciuto l’interesse strategico
nazionale con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e che occupino
almeno duecento persone, l’esercizio dell’attività di impresa, quando sia
indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione, possa continuare
per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso sia stato disposto il
sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto delle prescrizioni impartite
con una autorizzazione integrata ambientale rilasciata in sede di riesame, al
fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo
le migliori tecniche disponibili.
Il successivo art. 3 è oggetto di censura, invece, riguardo alle seguenti
statuizioni: a) l’impianto siderurgico Ilva di Taranto costituisce stabilimento
di interesse strategico nazionale a norma dell’art. 1; b) l’AIA rilasciata alla
società Ilva il 26 ottobre 2012 produce gli effetti autorizzatori
previsti dal citato art. 1; c) la società indicata è reimmessa nel possesso
degli impianti e dei beni già sottoposti a sequestro dell’autorità giudiziaria;
d) i prodotti in giacenza, compresi quelli realizzati antecedentemente alla
data di entrata in vigore del decreto-legge, possono essere commercializzati
dall’impresa.
A parere del giudice rimettente, la disciplina censurata viola anzitutto
l’art. 3 Cost., secondo molteplici profili. Vi sarebbe, in primo luogo, una
discriminazione ingiustificata tra aziende con processi produttivi di analoga
portata inquinante, a seconda che, sulla base di un provvedimento discrezionale
del Presidente del Consiglio dei ministri (del quale la legge fisserebbe i
presupposti in modo solo generico), i relativi stabilimenti siano dichiarati
«di interesse strategico nazionale», nel qual caso l’attività illecita può
proseguire per 36 mesi, oppure non lo siano, con conseguente applicabilità
delle sanzioni di legge. Correlativamente, sarebbe introdotta una
discriminazione illegittima tra cittadini tutti esposti ad emissioni
inquinanti, a seconda che, sulla base del predetto provvedimento del Presidente
del Consiglio dei ministri, gli stabilimenti dai quali provengono le emissioni
siano o no dichiarati «di interesse strategico nazionale», posto che solo nel
primo caso sarebbero inibite le azioni a tutela dei diritti delle persone
interessate.
Con specifico riguardo all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 207 del 2012, il
giudice rimettente considera i cittadini esposti alle emissioni inquinanti
dell’Ilva S.p.A. discriminati rispetto ad altri, pure interessati da fenomeni
di inquinamento ambientale: nel caso dell’Ilva, infatti, l’AIA rilasciata il 26
ottobre
In riferimento poi al comma 3 del citato art. 3, viene prospettata una
illegittima difformità di trattamento (rilevante a norma dell’art. 3 Cost.) tra aziende i cui prodotti vengano
sottoposti a sequestro o lo siano stati in epoca antecedente all’entrata in
vigore del decreto-legge, poiché solo alla società Ilva sarebbe consentito di
commercializzare tanto i prodotti già sequestrati che quelli in ipotesi assoggettabili
ad ulteriori provvedimenti cautelari.
Un secondo gruppo di censure attiene a violazioni degli artt. 101, 102,
103, 104, 107 e 111 Cost. La normativa in questione, infatti, sarebbe stata
adottata per regolare un singolo caso concreto, oggetto di provvedimenti
giurisdizionali già assunti e passati in «giudicato cautelare», con norme prive
dei caratteri di generalità ed astrattezza, e senza modificare il quadro
normativo di riferimento, così da vulnerare la riserva di giurisdizione ed «il
principio costituzionale di separazione tra i poteri dello Stato».
Ancora, la disciplina censurata contrasterebbe con gli artt. 25, 27 e 112
Cost., in quanto elusiva dell’obbligo di accertare e prevenire i reati e del
dovere, posto a carico del pubblico ministero, di esercitare l’azione penale:
tale effetto, in particolare, si connetterebbe alla legittimazione
dell’ulteriore corso, per 36 mesi, di attività produttive altamente inquinanti,
ed alla previsione della sola pena pecuniaria, per un valore pari ad una quota del
fatturato, riguardo ad eventuali violazioni delle prescrizioni impartite
mediante l’AIA riesaminata.
Per le ragioni appena esposte le norme censurate violerebbero gli artt. 25
e 27 Cost., implicando una sottrazione di fatti penalmente illeciti al loro
«giudice naturale» e vanificando «il principio di responsabilità penale
personale in capo agli autori» dei reati in questione. Nella stessa
prospettiva, la disciplina contrasterebbe anche con l’art. 24 Cost., perché ne
deriverebbe la preclusione, in danno dei cittadini danneggiati dalle emissioni
inquinanti, della possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti e interessi legittimi.
Un ulteriore profilo «generale» di contrasto con il dettato costituzionale
(ed in particolare con gli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost.) è denunciato in quanto,
consentendo l’esercizio dell’iniziativa economica privata con modalità tali da
recare danno alla sicurezza ed alla dignità umana, la disciplina in questione
annullerebbe la tutela del diritto fondamentale alla salute e all’ambiente
salubre.
Sarebbe violato, infine, anche il primo comma dell’art. 117 Cost., in
relazione a diversi parametri interposti. La normativa censurata
contrasterebbe, infatti, con gli artt. 3 e 35 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, che proteggono il diritto di ciascuno
all’integrità fisica e psichica ed alla salute. Vi sarebbe conflitto, ancora,
con il disposto dell’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea, ove è fissato il principio di precauzione, disatteso nella specie
attraverso la legittimazione di attività comprovatamente
dannose. Da ultimo, il rimettente prospetta un contrasto con l’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, in forza della lesione recata al diritto ad un equo processo.
2.– Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello a
norma dell’art. 322-bis del codice di
procedura penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte,
dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3,
24, 102, 104 e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso»
Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost. sotto
molteplici profili.
Si tratterebbe anzitutto di una «legge del caso singolo», per mezzo della
quale
La disciplina censurata sarebbe poi priva di ragionevolezza, in quanto
l’autorizzazione a commercializzare prodotti in sequestro vanifica la funzione
tipica della misura cautelare e non è giustificata, per altro verso, dal fine
di consentire la continuazione delle attività produttive e la conservazione dei
livelli occupazionali, per la cui assicurazione la disponibilità delle merci
già sequestrate non sarebbe stata necessaria.
Mancherebbe una ragionevole giustificazione, dunque, per l’efficacia
«retroattiva» conferita alla norma censurata.
Il Tribunale prospetta l’ulteriore violazione degli artt. 102 e 104 Cost.,
in quanto il legislatore avrebbe «direttamente modificato un provvedimento del
giudice» (l’ordinanza posta ad oggetto dell’impugnazione dalla quale origina il
procedimento a quo), «senza per altro
modificare il quadro normativo sulla base del quale era stato emanato», ed
avrebbe pregiudicato la possibilità di procedere a confisca in esito al
giudizio, sebbene le merci in sequestro debbano tuttora considerarsi prodotto
di reato.
Infine, vi sarebbe un contrasto tra la norma censurata e gli artt. 24 e
112 Cost., per la provocata lesione del diritto di azione del privato leso nei
suoi diritti e per l’ostacolo frapposto all’esercizio della funzione pubblica
di accertamento, repressione e prevenzione dei reati.
3.– I giudizi introdotti dalle due ordinanze in epigrafe, data la parziale
identità di oggetto, possono essere riuniti, al fine di una trattazione
unitaria delle questioni sollevate.
4.– In via preliminare deve essere confermata l’ordinanza,
adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza,
con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati, nel
giudizio r.o. n. 19 del 2013, dalla Confederazione Generale dell’Industria
Italiana (Confindustria), dalla Federacciai -
Federazione Imprese Siderurgiche Italiane e dall’Associazione Italiana per il
Word Wide Fund for Nature (WWF Italia) onlus, mentre
è stato dichiarato ammissibile l’intervento dei signori Angelo, Vincenzo e
Vittorio Fornaro.
Invero, i soggetti sopra indicati non sono parti nel giudizio a quo.
Per nota ed ormai costante giurisprudenza di questa Corte, possono costituirsi nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del procedimento principale, mentre l’intervento di soggetti estranei (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura.
Orbene, nel giudizio da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in discussione, la Confindustria, la Federacciai e il WWF Italia non sono parti, né sono titolari del predetto interesse qualificato.
I signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro,
invece, hanno partecipato, in qualità di persone offese, all’incidente
probatorio ammesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
ordinario di Taranto con ordinanza del 27 ottobre 2010; essi, pertanto, sono
titolari di un interesse qualificato, inerente al rapporto sostanziale dedotto
nel giudizio principale, al quale accedono tanto l’incidente probatorio che le
procedure concernenti i sequestri in atto.
Ne derivano la declaratoria d’ammissibilità dell’intervento dei signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro e la declaratoria d’inammissibilità degli interventi della Confindustria, della Federacciai e del WWF Italia.
5.– Vanno considerati, a questo punto, alcuni profili che attengono
all’ammissibilità delle questioni sollevate nell’ambito del giudizio r.o. n. 19
del 2013.
5.1.– Si è prospettato anzitutto, da parte del Presidente del Consiglio
dei ministri, un vizio di intrinseca contraddittorietà della questione
concernente la pretesa interferenza del potere legislativo con le prerogative
della giurisdizione. In particolare, il Giudice per le indagini preliminari di
Taranto avrebbe sostenuto, per un verso, la perdurante attualità della
condizione di sequestro degli impianti dello stabilimento siderurgico e dei
prodotti giacenti nelle relative aree di stoccaggio; per altro avrebbe
lamentato una sorta di efficacia diretta della legge sul regime cautelare in
atto.
L’eccezione di inammissibilità, in questi termini, non è fondata. Il
giudice a quo non sostiene che i
provvedimenti di sequestro siano stati «automaticamente» travolti dalla
normativa censurata, e neppure che sia venuta meno la condizione di sequestro
dei beni cui si riferiscono i provvedimenti citati. Non ha dunque negato che la
disciplina adottata da Governo e Parlamento debba trovare applicazione in
provvedimenti dell’autorità giudiziaria investita della funzione cautelare, ed
anzi tale assunto costituisce condizione di rilevanza delle questioni
sollevate. Il rimettente ha inteso lamentare, piuttosto, un preteso svuotamento
dell’efficacia delle cautele reali adottate nei confronti dell’Ilva, che
sarebbe particolarmente incisivo quanto al materiale prodotto dopo il sequestro
degli impianti e prima del decreto-legge: materiale destinato alla confisca ma
di fatto irrimediabilmente distolto – a suo avviso – per effetto della
commercializzazione prevista dalle norme sopravvenute.
È vero che nell’ordinanza di rimessione viene evocato un effetto di
«riforma» del provvedimento giudiziale che ha negato il dissequestro delle
merci, attribuendo al legislatore, con riferimento alla modifica introdotta in
sede di conversione nell’art. 3, comma 3, del decreto, l’atteggiamento di un
«giudice di istanza superiore». L’argomento mira, però, ad evidenziare una presunta
volontà legislativa di interferire nella disciplina del caso concreto, con
efficacia retroattiva, e non una pretesa efficacia diretta della norma in punto
di attualità della cautela.
L’Avvocatura generale ha eccepito, inoltre, che le questioni poste
nell’ambito del subprocedimento cautelare concernente il sequestro degli
impianti sarebbero tardive, dato che la Procura di Taranto, in applicazione del
comma 3 dell’art. 3 del decreto, aveva già immesso
Va escluso, infine, che si sia determinata una «sopravvenuta carenza di
interesse» delle questioni concernenti il sequestro dei prodotti finiti o
semilavorati, in considerazione del fatto che
5.2.– Sempre nell’ambito del giudizio r.o. n. 19 del 2013,
È senz’altro vero che una indicazione del genere non compare
nell’ordinanza di rimessione. Va escluso, però, che si trattasse di una
indicazione necessaria. Il rimettente non pare voler sindacare la
ragionevolezza dell’indice numerico prescelto dal legislatore, in assoluto o
nella comparazione con situazioni assimilabili, ma sembra piuttosto porre in
discussione la legittimità di qualunque distinzione nel trattamento di aziende
con produzioni inquinanti. In questo senso, pur nel contesto di una esposizione
assai «discorsiva», va interpretata la questione di legittimità. Del resto, se
il rimettente avesse voluto invece sollevare la questione nei termini
ipotizzati dalla parte, la stessa risulterebbe manifestamente inammissibile,
dato il carattere oscuro della relativa formulazione.
5.3.– È fondata invece l’eccezione di inammissibilità prospettata, sempre
nell’interesse della società Ilva, riguardo alle questioni formulate in
relazione all’art. 117, primo comma, Cost. Il rimettente si limita in effetti
ad evocare una generica corrispondenza tra le norme di tutela dei diritti
fondamentali contenute nella Carta costituzionale, asseritamente
violate dalle disposizioni oggetto di censura, ed alcune norme sovranazionali,
comprese nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo o nell’ordinamento
dell’Unione europea. Non viene proposta alcuna puntuale considerazione, però,
sulle specifiche ragioni di conflitto tra il diritto nazionale ed i parametri
interposti, dei quali non è illustrata, neppure in termini sommari, la concreta
portata precettiva. Il diritto dell’Unione, in particolare, è genericamente
evocato in rapporto ai principi di precauzione e di responsabilità per i danni
da inquinamento (art. 191 TFUE), senza tenere in concreta considerazione la
specifica produzione normativa in materia di siderurgia, compresi i recenti
approdi rappresentati dalla decisione 28 febbraio 2012 (Decisione di esecuzione
2012/135/UE della Commissione […] che stabilisce le conclusioni sulle migliori
tecniche disponibili (BAT) per la produzione di ferro e acciaio ai sensi della
direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle
emissioni industriali, notificata con il numero C[2012] 903) e dalle due
risoluzioni assunte dal Parlamento europeo, sempre in tema di esercizio
dell’industria siderurgica nell’ambito dell’Unione, il giorno 13 dicembre 2012.
Va aggiunto che una completa carenza di motivazione, tale nella specie da
implicare dubbi insuperabili sul senso delle relative censure, caratterizza le
questioni sollevate in riferimento all’art. 25, primo comma, ed all’art. 27,
primo comma, Cost. Non si comprende quale possa essere l’effettiva attinenza
del principio del giudice naturale, precostituito per legge, nel contesto di
affermazioni concernenti una pretesa immunità che deriverebbe ai responsabili
dell’Ilva dalla normativa censurata. Se si fosse voluto sostenere che ogni
norma di esenzione da punibilità «distoglie» l’interessato dal giudice
«naturale» e che tale sarebbe l’effetto di una ipotetica dequalificazione del
reato in illecito amministrativo, sarebbe stata necessaria una ben diffusa
giustificazione dell’assunto. Ancor meno si comprende il senso
dell’affermazione che, per l’asserita immunità accordata riguardo ai reati
commessi nella gestione dello stabilimento di Taranto, sarebbe violata la
regola di personalità della responsabilità penale. L’enunciato resta senza
spiegazione sia che si guardi alla regola quale divieto di configurazione della
responsabilità penale per fatto altrui, sia che si consideri il connesso
principio di necessaria «colpevolezza» del fatto penalmente sanzionabile.
Dunque, le questioni sollevate in riferimento ai parametri indicati devono
essere dichiarate inammissibili.
6.– Sono state proposte eccezioni di inammissibilità anche nell’ambito del
giudizio r.o. n. 20 del 2013.
Si è già detto della tesi proposta dall’Avvocatura generale dello Stato,
secondo cui la recente disposizione giudiziale di vendere i prodotti in
sequestro implicherebbe una sopravvenuta «carenza di interesse» delle relative
questioni. Non resta dunque che ribadire come permanga, al contrario,
l’interesse a stabilire la legittimità della norma che consente alla società
Ilva di commercializzare le merci nell’ambito del proprio ciclo economico e
produttivo.
La parte costituita, dal canto proprio, eccepisce l’irrilevanza della
questione sollevata dal Tribunale, sull’assunto che l’ipotetica eliminazione
dall’ordinamento del comma 3 dell’art. 3, e comunque dell’inciso inserito dal
Parlamento in sede di conversione riguardo ai prodotti già sequestrati prima
dell’emanazione del decreto-legge, non influirebbe sulla decisione che il
rimettente deve assumere nel caso concreto. Infatti – secondo la difesa
dell’Ilva – le disposizioni citate avrebbero carattere di mera applicazione ed
esplicazione della disciplina generale di cui all’art. 1 del decreto citato. In
particolare, la previsione che i provvedimenti di sequestro assunti
dall’autorità giudiziaria «non impediscono (…) l’esercizio dell’attività
d’impresa» (comma 4) implicherebbe chiaramente la possibilità di commerciare
prodotti che siano assoggettati a cautela reale, posto che il commercio della
propria produzione, per una azienda manifatturiera, costituisce il nucleo
fondamentale dell’attività. Dunque il Tribunale, se anche la norma censurata fosse
dichiarata illegittima, dovrebbe comunque accogliere l’appello della società
Ilva.
L’eccezione deve essere disattesa a prescindere dalla corretta
ricostruzione dei rapporti tra le varie previsioni evocate, sulla quale si
tornerà trattando il merito delle questioni.
Un profilo essenziale delle censure prospettate dal Tribunale, infatti,
consiste nell’assunto che il comma 3 dell’art. 3 determina una situazione di
ingiustificato privilegio per l’Ilva rispetto alla disciplina dettata per la
generalità delle imprese. In particolare, l’inciso concernente la
commercializzazione dei prodotti in sequestro, compresi quelli sottoposti alla
cautela prima del decreto-legge, avrebbe carattere di vera e propria
innovazione rispetto ai contenuti normativi della disposizione dettata
d’urgenza, esplicando una indebita efficacia retroattiva. Il Tribunale avrebbe
contraddetto la logica delle proprie censure se avesse impugnato anche l’art. 1
del decreto-legge, ed in particolare il relativo comma 4.
Nei termini in cui è formulata, dunque, la questione di legittimità appare
rilevante. Altro problema, com’è ovvio, è quello del suo fondamento, anche
sotto il profilo dei relativi presupposti ermeneutici. Ma non potrebbe dirsi
nella specie, come vorrebbe la parte costituita, che il rimettente abbia
operato una carente (nel senso di incompleta) ricostruzione del quadro
normativo di riferimento.
7.– Nel merito, le questioni aventi ad oggetto l’art. 1 del d.l. n. 207
del 2012 non sono fondate.
7.1.– Giova precisare l’effettiva portata dell’intervento normativo
compiuto, mediante la norma censurata, in ordine alla crisi di stabilimenti
industriali di interesse strategico nazionale, volto a rendere compatibili la
tutela dell’ambiente e della salute con il mantenimento dei livelli di occupazione,
anche in presenza di provvedimenti di sequestro giudiziario degli impianti.
7.2.– Premessa generale dell’applicabilità della norma in questione è che
vi sia stata la revisione dell’autorizzazione integrata ambientale di cui
all’art. 4, comma 4, lettera c), del
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), come
modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128
(Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,
recante norme in materia ambientale, a norma dell’art. 12 della legge 18 giugno
2009, n. 69).
L’autorità competente rilascia l’AIA solo sulla base dell’adozione, da
parte del gestore dell’impianto, delle migliori tecnologie disponibili (MTD),
di cui l’amministrazione deve seguire l’evoluzione. L’AIA è dunque un
provvedimento per sua natura "dinamico”, in quanto contiene un programma di
riduzione delle emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato (di norma
ogni cinque anni), al fine di recepire gli aggiornamenti delle tecnologie cui
sia pervenuta la ricerca scientifica e tecnologica nel settore. Questo
principio è fissato dall’art. 13 della direttiva 15 gennaio 2008, n. 2008/1/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla prevenzione e la riduzione
integrate dell’inquinamento) e attuato in Italia dall’art. 29-octies del codice dell’ambiente, il
quale inoltre prevede (al comma 4) che si faccia luogo al riesame dell’AIA
quando: a) l’inquinamento provocato dall’impianto è tale da rendere necessaria la
revisione; b) le MTD hanno subito modifiche sostanziali, in grado di conseguire
una riduzione delle emissioni, senza imporre costi eccessivi; c) la sicurezza
dell’impianto richiede l’impiego di altre tecniche; d) sono intervenute nuove
disposizioni normative comunitarie o nazionali.
Il comma 5 dello stesso art. 29-octies
prevede, tra l’altro, che, nel caso di rinnovo o riesame dell’autorizzazione,
l’autorità competente possa consentire deroghe temporanee ai requisiti del
provvedimento originario, purché le nuove disposizioni assicurino il rispetto
degli stessi requisiti entro un semestre, ed il progetto determini una
riduzione dell’inquinamento.
7.3.– Ove si proceda al riesame dell’AIA, per uno dei motivi ricordati nel
paragrafo precedente, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare può autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva per un
periodo di tempo determinato, non superiore a 36 mesi, quando si tratti di
stabilimenti di «interesse strategico nazionale», individuati come tali da un
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
La qualificazione di cui sopra implica: a) che nello stabilimento sia
occupato, da almeno un anno, un numero di lavoratori subordinati non inferiore
a duecento, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei
guadagni; b) che vi sia assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e
della produzione; c) che segua un provvedimento autorizzatorio del Ministro
dell’ambiente, che pone la condizione dell’adempimento delle prescrizioni
dell’AIA riesaminata, con il rispetto delle procedure e dei termini ivi
indicati; d) che l’intervento sia esplicitamente finalizzato ad «assicurare la
più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche
disponibili».
Il comma 4 del citato art. 1 prevede che le disposizioni citate «trovano
applicazione anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti
di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i
provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo
indicato nell’autorizzazione, l’esercizio dell’attività di impresa a norma del
comma 1».
7.4.– L’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, al comma 2, stabilisce inoltre:
«È fatta comunque salva l’applicazione degli articoli 29-octies, comma 4, e 29-nonies
e 29-decies del decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni». Il comma 3 del medesimo art.
1 prevede, in caso di inosservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata, la
«sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato della
società risultante dall’ultimo bilancio approvato». La disposizione precisa il
contesto normativo in cui la suddetta sanzione è applicabile: «Fermo restando
quanto previsto dagli articoli 29-decies
e 29-quattuordecies del decreto
legislativo n. 152 del 2006 e dalle altre disposizioni di carattere
sanzionatorio penali e amministrative contenute nelle normative di settore
[…]».
7.5.– È utile ricordare che il citato art. 29-decies del codice dell’ambiente (esplicitamente richiamato dalla
norma censurata) prevede una serie di controlli e interventi, a cura delle
autorità competenti, che possono sfociare in misure sanzionatorie di crescente
intensità, in rapporto alla gravità delle eventuali violazioni accertate.
In particolare: 1) i dati forniti dal gestore relativi ai controlli sulle
emissioni richiesti dall’AIA sono messi a disposizione del pubblico, secondo le
procedure previste dall’art. 29-quater
(pubblicazione su quotidiani ed indicazione, su tali organi di stampa, degli
uffici dove è possibile consultare la documentazione relativa); 2) l’Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) deve accertare: a)
il rispetto delle condizioni poste dall’AIA; b) la regolarità dei controlli a
carico del gestore, con particolare riferimento alla regolarità delle misure e
dei dispositivi di prevenzione dell’inquinamento nonché al rispetto dei valori
limite di emissione; c) l’osservanza da parte del gestore degli obblighi di
comunicazione periodica dei risultati della sorveglianza sulle emissioni del
proprio impianto, specie in caso di inconvenienti o incidenti che influiscano
in modo significativo sull’ambiente.
Possono essere disposte ispezioni straordinarie sugli impianti autorizzati
alla prosecuzione dell’attività.
È previsto altresì l’obbligo del gestore di fornire tutta l’assistenza
tecnica necessaria per lo svolgimento di qualsiasi verifica relativa
all’impianto, per prelevare campioni o per raccogliere qualsiasi informazione
necessaria.
Gli esiti dei controlli e delle ispezioni devono essere comunicati
all’autorità competente ed al gestore, indicando le situazioni di mancato
rispetto delle prescrizioni e proponendo le misure da adottare.
Ogni organo che svolge attività di vigilanza, controllo, ispezione e
monitoraggio sugli impianti e che abbia acquisito informazioni in materia
ambientale, rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme del codice
dell’ambiente, comunica tali informazioni, ivi comprese le eventuali notizie di
reato, all’autorità competente. I risultati del controllo delle emissioni
richiesti dalle condizioni dell’AIA devono essere messi a disposizione del
pubblico.
In caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione,
l’autorità competente procede, secondo la gravità delle infrazioni: a) alla
diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere eliminate le
irregolarità; b) alla diffida e contestuale sospensione dell’attività
autorizzata per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo
per l’ambiente; c) alla revoca dell’AIA e alla chiusura dell’impianto, in caso
di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di
reiterate violazioni, che determinino situazioni di pericolo o di danno per
l’ambiente.
Occorre ancora porre in rilievo che l’art. 29-quattuordecies prevede sanzioni a carico di chi viola le
prescrizioni dell’AIA, o quelle comunque imposte dall’autorità competente,
salvo che il fatto costituisca più grave reato (riferimento, quest’ultimo, che
si risolve anche nel richiamo alle fattispecie del diritto penale comune).
8.– La semplice ricognizione della normativa sui controlli e sulle
sanzioni, tuttora vigente ed esplicitamente richiamata dalla disposizione
censurata, contraddice per tabulas l’assunto del rimettente Giudice per le
indagini preliminari, e cioè che i 36 mesi concessi ad una impresa, che abbia
le caratteristiche previste, per adeguare la propria attività all’AIA
riesaminata, «costituiscono una vera e propria "cappa” di totale "immunità”
dalle norme penali e processuali».
Non solo la disposizione censurata non stabilisce alcuna immunità penale
per il periodo sopra indicato, ma, al contrario, rinvia esplicitamente sia alle
sanzioni penali previste dall’ordinamento per i reati in materia ambientale,
sia all’obbligo di trasmettere, da parte delle autorità addette alla vigilanza
ed ai controlli, le eventuali notizie di reato all’autorità "competente”, cioè
all’autorità giudiziaria.
La stessa disposizione non introduce peraltro alcuna forma di
cancellazione o attenuazione delle responsabilità gravanti sui soggetti che
abbiano compiuto violazioni delle norme penali poste a presidio dell’ambiente e
della salute. In altri termini, la norma censurata non si configura né come abolitio criminis, né
come lex mitior, e non
incide pertanto in alcun modo sulle indagini, tuttora in corso, volte ad
accertare la colpevolezza degli attuali indagati nel procedimento principale,
per i quali, allo stato presente, non risulta essere stata ancora formulata
richiesta di rinvio a giudizio. Tanto meno la disposizione è idonea a spiegare
effetti di alcun genere sull’eventuale, futuro processo penale a carico dei
medesimi soggetti.
L’idea che nel periodo previsto dalla norma censurata sia possibile proseguire
senza regole l’attività produttiva deriva, nella prospettazione del rimettente,
dal rilievo che le sanzioni – come si è visto, anche penali – esplicitamente
richiamate dalla stessa «non possono comunque essere irrogate prima della
scadenza dei 36 mesi. Unica sanzione applicabile prima dei 36 mesi in caso di
inosservanza dei termini AIA è quella, come detto, del 10 % del fatturato.
Sanzione che ovviamente risulta totalmente inadeguata a tutelare salute ed
ambiente».
Non è dato comprendere come si possa trarre, dalla lettura dell’art. 1 del
d.l. n. 207 del 2012, la conclusione che la sanzione pecuniaria fino al 10% del
fatturato sia l’unica irrogabile nel periodo considerato e che, dunque, la
stessa sia sostitutiva delle altre sanzioni previste dalle leggi vigenti. È
vero il contrario, giacché le espressioni usate dal legislatore – «fatta
salva», «fermo restando» – si riferiscono in modo evidente ad una disciplina
normativa complessiva e contestuale, nel cui ambito si aggiunge, alle
preesistenti sanzioni amministrative e penali, la fattispecie introdotta dal
comma 3 del citato art. 1, ovviamente dalla data di entrata in vigore del
decreto-legge.
I motivi di tale aggravamento di responsabilità si possono rinvenire
nell’esigenza di prevedere una reazione adeguata delle autorità preposte alla
vigilanza ed ai controlli rispetto alle eventuali violazioni in itinere delle prescrizioni AIA da
parte di una impresa, già responsabile di gravi irregolarità, cui è stata concessa
la prosecuzione dell’attività produttiva e commerciale a condizione che la
stessa si adegui scrupolosamente alle suddette prescrizioni.
Se l’effetto della nuova normativa fosse di rinviare alla scadenza del
periodo previsto ogni intervento correttivo o sanzionatorio nei confronti
dell’impresa che gestisce lo stabilimento di interesse strategico nazionale,
cui è consentita la continuazione dell’attività nonostante il sequestro
giudiziario, non avrebbe senso la previsione – contenuta nel comma 4 dell’art.
3 del d.l. n. 207 del 2012 – di un Garante «incaricato di vigilare sulla
attuazione delle disposizioni del presente decreto». Secondo il comma 6 dello
stesso articolo 3, il Garante «acquisisce le informazioni e gli atti ritenuti
necessari che l’azienda, le amministrazioni e gli enti interessati devono
tempestivamente fornire, segnalando al Presidente del Consiglio dei Ministri,
al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e al
Ministro della salute eventuali criticità riscontrate nell’attuazione della
predetta autorizzazione e proponendo le idonee misure, ivi compresa l’eventuale
adozione di provvedimenti di amministrazione straordinaria anche in
considerazione degli articoli 41 e 43 della Costituzione». Lo stesso Garante
deve promuovere tutte le iniziative atte a realizzare «la massima trasparenza
per i cittadini».
8.1.– Se si leggono tali previsioni in combinazione con quelle che
dispongono la perdurante applicabilità, nel corso dei 36 mesi, delle sanzioni
amministrative e penali vigenti, si giunge alla conclusione che non solo non vi
è alcuna sospensione dei controlli di legalità sull’operato dell’impresa
autorizzata alla prosecuzione dell’attività, ma vi sono un rafforzamento ed un
allargamento dei controlli sull’osservanza delle prescrizioni contenute
nell’AIA riesaminata.
La distinzione tra la situazione normativa precedente all’entrata in
vigore della legge – e, nella generalità dei casi, del decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri, di cui all’art. 1, comma 1 – e l’attuale disciplina
consiste nel fatto che l’attività produttiva è ritenuta lecita alle condizioni
previste dall’AIA riesaminata. Quest’ultima fissa modalità e tempi per
l’adeguamento dell’impianto produttivo rispetto alle regole di protezione
dell’ambiente e della salute, entro il periodo considerato, con una scansione
graduale degli interventi, la cui inosservanza deve ritenersi illecita e quindi
perseguibile ai sensi delle leggi vigenti.
In conclusione sul punto, la norma censurata non rende lecito a posteriori ciò che prima era illecito
– e tale continua ad essere ai fini degli eventuali procedimenti penali
instaurati in epoca anteriore all’autorizzazione alla prosecuzione
dell’attività produttiva – né "sterilizza”, sia pure temporaneamente, il
comportamento futuro dell’azienda rispetto a qualunque infrazione delle norme
di salvaguardia dell’ambiente e della salute. La stessa norma, piuttosto,
traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la
tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti
corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti. La deviazione da tale
percorso, non dovuta a cause di forza maggiore, implica l’insorgenza di precise
responsabilità penali, civili e amministrative, che le autorità competenti sono
chiamate a far valere secondo le procedure ordinarie. Non è pertanto intaccato
il potere-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, previsto
dall’art. 112 Cost., che è pur sempre da inquadrare nelle condizioni generali poste
dal contesto normativo vigente, ove, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 207
del 2012, è considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di
aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate le
prescrizioni dell’AIA riesaminata, nelle quali si riassumono le regole che
limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa.
Non è vero neppure che la disciplina abbia inibito il ricorso allo
strumento cautelare nell’ambito dei procedimenti penali volti all’accertamento
di eventuali illeciti, commessi prima o dopo il rilascio del provvedimento
riesaminato, ove ricorrano nuove esigenze di cautela. Il comma 4 dell’art. 1
consente chiaramente la permanenza delle misure già adottate e mira solo ad
escludere che i provvedimenti di sequestro, presenti o futuri, possano impedire
la prosecuzione dell’attività produttiva a norma del comma 1.
8.2.– Speculare rispetto al perdurante potere delle autorità competenti di
accertare le responsabilità dei titolari dell’impresa de qua è il diritto dei cittadini, che si ritengano lesi nelle
proprie situazioni giuridiche soggettive, di adire il giudice competente per
ottenere i provvedimenti riparatori e sanzionatori previsti dalle leggi
vigenti. Tale diritto non è inciso in senso sfavorevole dalla norma censurata,
ma inserito, come ogni pretesa giuridica, nel contesto normativo di
riferimento, che, come chiarito sopra, non azzera e neppure sospende il
controllo di legalità, ma lo riconduce alla verifica dell’osservanza delle prescrizioni
di tutela dell’ambiente e della salute contenute nell’AIA riesaminata.
In definitiva, i cittadini non sono privati del diritto di agire in
giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive, con
relative domande risarcitorie, di cui agli artt. 24 e 113 Cost.
9.– La ratio della disciplina
censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra
diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute
(art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro
(art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al
mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche
di spiegare ogni sforzo in tal senso.
Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in
rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno
di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere
sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in
potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del
2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno
dei diritti, che diverrebbe "tiranno” nei confronti delle altre situazioni
giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel
loro insieme, espressione della dignità della persona.
Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente
giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale»,
contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente»
del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la
definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori
primari» (sentenza
n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una "rigida” gerarchia tra
diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni
democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole
bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza
per nessuno di essi. La qualificazione come "primari” dei valori dell’ambiente
e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati
ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli
stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di
equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere
valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle
leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di
ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale.
10.– Lo stesso giudice rimettente ritiene che la norma censurata «annienti
completamente il diritto alla salute e ad un ambiente salubre a favore di
quello economico e produttivo». Se questa valutazione fosse rispondente alla realtà
normativa, ci si troverebbe senza dubbio di fronte ad una violazione dell’art.
32 Cost., in quanto nessuna esigenza, per quanto costituzionalmente fondata,
potrebbe giustificare la totale compromissione della salute e dell’ambiente,
per le ragioni prima illustrate. Tale conclusione non è tuttavia suffragata da
una analisi puntuale della disposizione censurata.
10.1.– Come si è rilevato nei paragrafi precedenti, l’autorizzazione al
proseguimento dell’attività produttiva è subordinata, dall’art. 1, comma 1, del
d.l. n. 207 del 2012, all’osservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata.
La natura di tale atto è amministrativa, con la conseguenza che contro lo
stesso sono azionabili tutti i rimedi previsti dall’ordinamento per la tutela
dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi davanti alla giurisdizione
ordinaria e amministrativa.
Il richiamo operato in generale dalla legge ha il valore di costante
condizionamento della prosecuzione dell’attività produttiva alla puntuale
osservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio, che
costituisce l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed
amministrativi in un unico procedimento, nel quale, in conformità alla
direttiva n. 2008/1/CE, devono trovare simultanea applicazione i princìpi di
prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione,
che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che
culmina nel rilascio dell’AIA, con le sue caratteristiche di partecipazione e di
pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella
previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in
ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività
oggetto dell’autorizzazione.
Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica
dell’efficacia delle prescrizioni. Ciò chiama in causa la funzione di controllo
dell’amministrazione, che si avvale dell’ISPRA, con la possibilità che, in caso
di accertata inosservanza da parte dei gestori degli impianti, si applichino
misure che vanno – come già rilevato sopra – sino alla revoca
dell’autorizzazione, con chiusura dell’impianto, in caso di mancato adeguamento
alle prescrizioni imposte con la diffida o a fronte di reiterate violazioni che
determinino pericolo o danno per l’ambiente.
Le prescrizioni e misure contenute nell’AIA possono rivelarsi inefficaci,
sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni
responsabilità soggettiva. In tal caso, trova applicazione la disciplina
contenuta nell’art. 29-octies, comma
4, del codice dell’ambiente, che impone all’amministrazione di aprire il
procedimento di riesame.
10.2.– La norma censurata parte da questo momento critico, nel quale sono
accertate le carenze dell’AIA già rilasciata (che possono aver dato luogo anche
a provvedimenti giudiziari di sequestro), ed avvia un secondo procedimento, che
sfocia nel rilascio di un’AIA "riesaminata”, nella quale, secondo le procedure
previste dalla legge, sono valutate le insufficienze delle precedenti
prescrizioni e si provvede a dettarne di nuove, maggiormente idonee – anche per
l’ausilio di più efficaci tecnologie – ad evitare il ripetersi dei fenomeni di
inquinamento, che hanno portato all’apertura del procedimento di riesame.
In definitiva, l’AIA riesaminata indica un nuovo punto di equilibrio, che
consente, secondo la norma censurata nel presente giudizio, la prosecuzione
dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali
l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo
(36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere,
anche con investimenti straordinari da parte dell’impresa interessata, le cause
dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle
popolazioni.
10.3.– Lo schema generale della norma censurata prevede quindi la
combinazione tra un atto amministrativo – che tale rimane, come si vedrà più
avanti, anche secondo la disciplina dettata per l’Ilva di Taranto – ed una
previsione legislativa, che assume come punto di partenza il nuovo equilibrio
tra produzione e ambiente delineato nell’AIA riesaminata. L’individuazione del
bilanciamento, che dà vita alla nuova AIA, è, come si è visto, il risultato di
apporti plurimi, tecnici e amministrativi, che può essere contestato davanti al
giudice competente, nel caso si lamentino vizi di legittimità dell’atto da
parte di cittadini che si ritengano lesi nei loro diritti e interessi
legittimi.
Lo stesso atto, peraltro, non può essere contestato nel merito delle
scelte compiute dalle amministrazioni competenti, che non possono essere
sostituite da altre nella valutazione discrezionale delle misure idonee a
tutelare l’ambiente ed a prevenire futuri inquinamenti, quando l’esercizio di
tale discrezionalità non trasmodi in un vizio denunciabile nelle sedi
giurisdizionali competenti. Il punto di equilibrio contenuto nell’AIA non è
necessariamente il migliore in assoluto – essendo ben possibile nutrire altre
opinioni sui mezzi più efficaci per conseguire i risultati voluti – ma deve
presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte
dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale
competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla
partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla
pubblicità dell’iter formativo, che
mette cittadini e comunità nelle condizioni di far valere, con mezzi
comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimità, i
loro punti di vista.
È appena il caso di aggiungere che non rientra nelle attribuzioni del
giudice una sorta di "riesame del riesame” circa il merito dell’AIA, sul
presupposto – come sembra emergere dalle considerazioni del rimettente, di cui si
dirà più avanti, prendendo in esame le norme relative allo stabilimento Ilva di
Taranto – che le prescrizioni dettate dall’autorità competente siano
insufficienti e sicuramente inefficaci nel futuro. In altre parole, le opinioni
del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a
sua disposizione, non possono sostituirsi alle valutazioni dell’amministrazione
sulla tutela dell’ambiente, rispetto alla futura attività di un’azienda,
attribuendo in partenza una qualificazione negativa alle condizioni poste per
l’esercizio dell’attività stessa, e neppure ancora verificate nella loro
concreta efficacia.
10.4.– In conclusione sul punto, in via generale, la combinazione tra un
atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 del d.l. n. 207
del 2012) determina le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione
di un’attività produttiva per un tempo definito, in tutti i casi in cui uno
stabilimento – dichiarato, nei modi previsti dalla legge, di interesse strategico
nazionale – abbia procurato inquinamento dell’ambiente, al punto da provocare
l’intervento cautelare dell’autorità giudiziaria. La normativa censurata non
prevede, infatti, la continuazione pura e semplice dell’attività, alle medesime
condizioni che avevano reso necessario l’intervento repressivo dell’autorità
giudiziaria, ma impone nuove condizioni, la cui osservanza deve essere
continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in
generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della
salute e dell’ambiente. Essa è pertanto ispirata alla finalità di attuare un
non irragionevole bilanciamento tra i princìpi della tutela della salute e
dell’occupazione, e non al totale annientamento del primo.
11.– La norma generale censurata non si pone in contrasto con il principio
di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché non introduce – come invece
affermano i rimettenti – una ingiustificata differenziazione di disciplina tra
stabilimenti "strategici” e altri impianti, sulla base di un atto
amministrativo – un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri – dotato
di eccessiva discrezionalità, derivante dalla genericità dei criteri di
individuazione di tali stabilimenti.
Si deve osservare, in proposito, che l’interesse strategico nazionale ad
una produzione, piuttosto che ad un’altra, è elemento variabile, in quanto
legato alle congiunture economiche e ad un’altra serie di fattori non
predeterminabili (effetti della concorrenza, sviluppo tecnologico, andamento
della filiera di un certo settore industriale etc.). Si giustifica pertanto
l’ampiezza della discrezionalità che la norma censurata riconosce al Governo, e
per esso al Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto organi che
concorrono a definire la politica industriale del Paese. Trattandosi, peraltro,
di provvedimento amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri può essere oggetto di impugnazione, al pari dell’AIA riesaminata del
Ministro dell’ambiente, che, secondo la medesima norma, consente la
prosecuzione dell’attività produttiva, anche in presenza di sequestri
dell’autorità giudiziaria.
Quanto all’indice numerico dei lavoratori occupati, va ricordato che si
tratta della soglia già utilizzata dal legislatore nella disciplina dell’amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, di cui all’art. 2
del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina
dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza,
a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274). In tale
disciplina, la tutela dell’attività imprenditoriale e dei livelli
occupazionali, come indicati, giustifica la sottrazione dell’impresa insolvente
al fallimento e l’ingresso in una procedura concorsuale ad hoc, con finalità di conservazione delle attività aziendali,
mediante prosecuzione, riattivazione e riconversione dell’esercizio.
La norma censurata presenta caratteristiche analoghe, in quanto mira a
perpetuare l’esistenza di grandi aziende, la cui chiusura avrebbe gravi effetti
sui livelli di occupazione. Si tratta quindi di una disciplina differenziata
per situazioni a loro volta differenziate, meritevoli di specifica attenzione
da parte del legislatore, che non viola pertanto il principio di eguaglianza. Quest’ultimo
impone – come emerge dalla nota e costante giurisprudenza di questa Corte –
discipline eguali per situazioni eguali e discipline diverse per situazioni
diverse, con il limite generale dei princìpi di proporzionalità e
ragionevolezza, che non viene nella fattispecie superato, giacché le ricadute
sull’economia nazionale e sui livelli di occupazione sono diverse, per
l’effetto combinato dei fattori cui prima si faceva cenno. Sarebbe, al
contrario, irragionevole una disciplina che parificasse tutte le aziende
produttive, a prescindere dalla loro dimensione e incidenza sul mercato e,
quindi, dagli effetti che la loro scomparsa determinerebbe.
12.– L’art. 3, comma 1, del d.l. n. 207 del 2012 individua direttamente
nell’impianto siderurgico della società Ilva di Taranto uno stabilimento di
interesse strategico nazionale, di cui all’art. 1, comma 1, del medesimo atto
normativo.
Si tratta di legge in luogo di provvedimento, poiché sostituisce il
proprio dettato al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previsto
dalla norma generale.
12.1.– Come è noto, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di questa
Corte non considerano la legge-provvedimento incompatibile, in sé e per sé, con
l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione. In particolare, si deve
ribadire in questa sede che «nessuna disposizione costituzionale […] comporta
una riserva agli organi amministrativi o "esecutivi” degli atti a contenuto
particolare e concreto» (ex plurimis, sentenza n. 143 del
1989).
Le leggi provvedimento devono soggiacere tuttavia «ad un rigoroso
scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di
trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (ex plurimis, sentenza n. 2 del
1997; in senso conforme, sentenza n. 20 del
2012).
Questa Corte ha inoltre precisato che la legittimità costituzionale di
tale tipo di leggi va valutata in relazione al loro specifico contenuto, con la
conseguenza che devono emergere i criteri che ispirano le scelte con esse
realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (ex plurimis, sentenze n. 137 del 2009,
n. 267 del 2007
e n. 492 del 1995).
Poiché gli atti legislativi normalmente non contengono motivazioni, «è
sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla
norma stessa, anche in via interpretativa, in base agli ordinari strumenti
ermeneutici» (sentenza
n. 270 del 2010).
Con riferimento alla funzione giurisdizionale, questa Corte ha stabilito
altresì che non può essere consentito al legislatore di «risolvere, con la
forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una
pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i princìpi relativi ai
rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la
tutela dei diritti e degli interessi legittimi» (sentenza n. 94 del
2009, conforme a sentenza n. 374 del
2000).
La giurisprudenza della Corte EDU ha costantemente affermato che «il
principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo custoditi
nell’art. 6 precludono, tranne che per impellenti ragioni di interesse
pubblico, l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della
giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una
controversia» (Corte
EDU, sez. II, sentenza 14 dicembre 2012, Arras
contro Italia, in conformità alla giurisprudenza precedente).
Dal canto suo, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente
affermato che contro tutti gli atti, anche aventi natura legislativa, «gli
Stati devono prevedere la possibilità di accesso a una procedura di ricorso
dinanzi a un organo giurisdizionale o ad altro organo indipendente ed
imparziale istituito dalla legge» (sentenza
16 febbraio 2012, in causa C-182/10, Solvay
et al. vs. Région wallone,
in conformità alla giurisprudenza precedente).
12.2.– Con riferimento all’individuazione diretta dell’impianto
siderurgico della società Ilva di Taranto come «stabilimento di interesse
strategico nazionale», si deve osservare che a Taranto si è verificata una
situazione grave ed eccezionale, che ha indotto il legislatore ad omettere, per
ragioni di urgenza, il passaggio attraverso un decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri in vista della qualificazione di cui sopra.
Sia la normativa generale che quella particolare si muovono quindi
nell’ambito di una situazione di emergenza ambientale, dato il pregiudizio
recato all’ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante, e
di emergenza occupazionale, considerato che l’eventuale chiusura dell’Ilva
potrebbe determinare la perdita del posto di lavoro per molte migliaia di
persone (tanto più numerose comprendendo il cosiddetto indotto). La
temporaneità delle misure adottate risponde, inoltre, ad una delle condizioni
poste dalla giurisprudenza di questa Corte perché una legislazione speciale
fondata sull’emergenza possa ritenersi costituzionalmente compatibile (sentenza n. 418 del
1992). Le brevi notazioni in fatto relative all’incidenza, sull’ambiente e
sull’occupazione nel territorio di Taranto, dell’attività produttiva dell’Ilva
consentono, nella fattispecie, di rinvenire la ratio dell’intervento legislativo «nel peculiare regime che connota
le situazioni di emergenza» (sentenza n. 237 del
2007).
Il legislatore ha ritenuto di dover scongiurare una gravissima crisi occupazionale,
di peso ancor maggiore nell’attuale fase di recessione economica nazionale e
internazionale, senza tuttavia sottovalutare la grave compromissione della
salubrità dell’ambiente, e quindi della salute delle popolazioni presenti nelle
zone limitrofe.
Si deve notare, al proposito, che l’AIA riesaminata del 26 ottobre 2012,
esplicitamente richiamata dall’art.
Si deve pure sottolineare che l’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 non apporta
alcuna deroga alla normativa generale contenuta nell’art. 1, ma si limita a
dare alla stessa pedissequa esecuzione, per mezzo di un provvedimento con forza
di legge, che è un atto del Governo, di cui fa parte il Presidente del
Consiglio dei ministri, sottoposto al controllo del Parlamento in sede di
conversione e della Corte costituzionale in sede di giudizio incidentale, come
effettivamente avvenuto nel caso presente. Né può dirsi, come afferma il
rimettente Giudice per le indagini preliminari, che la forma legislativa
dell’individuazione dell’Ilva di Taranto come «stabilimento di interesse
strategico nazionale» comprometta il diritto di tutela giurisdizionale, che
sarebbe possibile invece esercitare in presenza di un atto amministrativo.
Questa Corte ha infatti osservato che «in assenza nell’ordinamento attuale di
una "riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non può ritenersi
preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di
disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […]
con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma
verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato,
trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della
giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del
1993).
Non ha neppure fondamento l’affermazione, dello stesso rimettente, che vi sia
stata una "legificazione” dell’AIA riesaminata, con la conseguenza che contro
tale atto amministrativo, nel caso specifico dell’Ilva di Taranto, non
sarebbero esperibili i normali rimedi giurisdizionali. È vero, al contrario,
che l’AIA è pur sempre – come statuito in via generale dall’art. 1, non
contraddetto dall’art. 3 – un presupposto per l’applicabilità dello speciale
regime giuridico, che consente la continuazione dell’attività produttiva alle
condizioni ivi previste. In quanto presupposto, essa rimane esterna all’atto
legislativo, con tutte le conseguenze, in termini di controllo di legalità, da
ciò derivanti. Il comma 2 dell’art. 3 richiama l’AIA del 26 ottobre 2012 allo
scopo di ribadire lo stretto condizionamento della prosecuzione dell’attività
all’osservanza delle nuove prescrizioni poste a tutela dell’ambiente e della
salute, ferma restando naturalmente la natura dinamica del provvedimento, che
può essere successivamente modificato e integrato, con relativa possibilità di
puntuali controlli in sede giurisdizionale. In altri termini, sia la norma
generale, sia quella che si riferisce in concreto all’Ilva di Taranto, si
interpretano agevolmente nel senso che l’azienda interessata è vincolata al
rispetto delle prescrizioni dell’AIA, quale è e quale sarà negli eventuali
sviluppi successivi, e che l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012 non ha
precluso né preclude tutti i rimedi giurisdizionali esperibili riguardo ad un
atto amministrativo.
La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una
presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi, ove gli stessi siano
richiamati in una disposizione legislativa, tranne che la natura recettizia del
rinvio stesso emerga in modo univoco dal testo normativo (sentenza n. 311 del
1993); circostanza, questa, che non ricorre necessariamente neppure quando
l’atto sia indicato in modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013
e n. 536 del
1990). Come può chiaramente desumersi dal testo della disposizione
censurata, l’intento del legislatore non è stato quello di incorporare l’AIA
nella legge, ma solo di prevedere – come illustrato nel paragrafo 10 – un
effetto combinato di atto amministrativo e legge, effetto che mantiene la sua
peculiarità e la sua efficienza rispetto al fine, a condizione che rimangano
ferme la natura dell’uno e dell’altra.
12.3.– Dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012 – che contiene
sia la disciplina generale dell’attività degli stabilimenti di interesse
strategico nazionale sottoposti ad AIA riesaminata, sia la diretta
individuazione dell’Ilva di Taranto come destinataria di tale normativa – il
sequestro del materiale prodotto, disposto dal Giudice per le indagini
preliminari, e il divieto della sua commercializzazione, hanno perduto il loro
presupposto giuridico, che consisteva nell’inibizione, derivante dal precedente
sequestro, della facoltà d’uso dello stabilimento. Quest’ultimo infatti trova
la sua unica funzione nella produzione dell’acciaio e tale attività, a sua
volta, ha senso solo se lo stesso può essere commercializzato.
Occorre notare come la disciplina generale, di cui all’art. 1 del
decreto-legge citato, preveda che, anche in costanza di provvedimenti di
sequestro dei beni dell’impresa titolare dello stabilimento, è consentito
«l’esercizio dell’attività di impresa» (comma 4), che comprende sia la
produzione che la commercializzazione del materiale prodotto, l’una
inscindibilmente connessa all’altra. Tanto la norma generale appena richiamata,
quanto quella particolare riferentesi all’Ilva di Taranto, non prevedono né
dispongono la revoca dei sequestri disposti dall’autorità giudiziaria, ma
autorizzano la prosecuzione dell’attività per un periodo determinato ed a
condizione dell’osservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata. La ratio delle due discipline è dunque che
si proceda ad un graduale, intenso processo di risanamento degli impianti, dal
punto di vista delle emissioni nocive alla salute e all’ambiente, senza dover
necessariamente arrivare alla chiusura dello stabilimento, con conseguente
nocumento per l’attività economica, che determinerebbe a sua volta un elevato
incremento del tasso di disoccupazione, già oggi difficilmente sostenibile per
i suoi costi sociali. Se l’adeguamento della struttura produttiva non dovesse
procedere secondo le puntuali previsioni del nuovo provvedimento autorizzativo,
sarebbe cura delle autorità amministrative preposte al controllo – e della
stessa autorità giudiziaria, nell’ambito delle proprie competenze – di adottare
tutte le misure idonee e necessarie a sanzionare, anche in itinere, le relative inadempienze.
12.4.– Il rimettente Giudice per le indagini preliminari lamenta che il
comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 abbia invaso la sfera di
competenza costituzionalmente riservata all’autorità giudiziaria ed abbia
quindi violato il principio della separazione dei poteri. La lesione sarebbe
dovuta sia alla reimmissione dell’Ilva S.p.A. nel
possesso dei beni aziendali, sia all’autorizzazione alla commercializzazione
dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata
in vigore del medesimo decreto-legge. Sarebbe stata, in particolare, violata la
riserva di giurisdizione, desumibile dal combinato disposto degli artt. 102,
primo comma, e 104, primo comma, Cost. Tale riserva implicherebbe
l’intangibilità del giudicato, che, nella specie, si presenterebbe come
«giudicato cautelare», dato che il provvedimento di riesame sul sequestro degli
impianti non è stato oggetto di ricorso per cassazione, e che
Si deve precisare preliminarmente che il cosiddetto «giudicato cautelare»
non consiste in una decisione giurisdizionale definitiva, che conclude un
processo, ma è un’espressione di creazione giurisprudenziale – oggetto tuttora
di discussioni ed ancora non precisato in alcuni suoi aspetti – con cui viene
indicata una preclusione endoprocessuale. Si deve
altresì osservare che tale preclusione opera rebus sic stantibus, con la conseguenza
che ogni mutamento significativo del quadro materiale o normativo di
riferimento vale a rimuoverla, reintroducendo il dovere del giudice di valutare
compiutamente l’intera situazione.
Sulla base delle precedenti considerazioni, si deve escludere che la norma
censurata abbia travolto un "giudicato” nel senso tecnico-processuale del
termine, e cioè – giova ripeterlo – la decisione giudiziale definitiva di una
controversia. Si deve ritenere, invece, che la disposizione abbia modificato il
quadro normativo sulla cui base sono stati emessi alcuni provvedimenti
cautelari, ed abbia creato pertanto una nuova situazione di fatto e di diritto,
in quanto la produzione può riprendere non con le modalità precedenti – che
avevano dato luogo all’intervento dell’autorità giudiziaria – ma con modalità
nuove e parzialmente diverse, ponendo le premesse perché si verifichino in
futuro fatti che dovranno essere nuovamente valutati dai giudici, ove aditi
nelle forme rituali.
12.5.– Occorre inoltre mettere maggiormente a fuoco la nozione di "riserva
di giurisdizione”, posta dai rimettenti a fondamento della lamentata violazione
del principio della separazione dei poteri.
Con tale espressione si possono indicare due distinti, seppur collegati,
princìpi, entrambi presenti nella Costituzione.
Il primo – enunciato in modo esplicito da una serie di norme
costituzionali (artt. 13, 14, 15 e 21) – consiste nella necessità che tutti i
provvedimenti restrittivi di alcune libertà fondamentali debbano essere
adottati «con atto motivato dell’autorità giudiziaria», a garanzia del modo
indipendente ed imparziale di applicare la legge in questo campo. Intesa in
questo senso, la riserva di giurisdizione risulta evidentemente estranea
all’odierno giudizio.
Il secondo principio – non enunciato esplicitamente da una singola norma
costituzionale, ma chiaramente desumibile in via sistematica da tutto il Titolo
IV della Parte II della Costituzione – consiste nella esclusiva competenza dei
giudici – ordinari e speciali – a definire con una pronuncia secondo diritto le
controversie, che coinvolgano diritti soggettivi o interessi legittimi, loro
sottoposte secondo le modalità previste dall’ordinamento per l’accesso alle
diverse giurisdizioni. Con riferimento alla giurisdizione penale, la «riserva
di sentenza», di cui sinora s’è detto, è integrata nella Costituzione italiana
dalla riserva al pubblico ministero dell’esercizio dell’azione penale, che
costituisce un potere esclusivo, ma anche un dovere dei titolari di tale
funzione giudiziaria (art. 112 Cost.).
L’esame delle norme impugnate nel presente giudizio conduce alla
conclusione che non vi è violazione della "riserva di giurisdizione” neppure
nella seconda, più ampia, accezione illustrata.
Pende attualmente davanti all’Autorità giudiziaria di Taranto un
procedimento penale – ancora nella fase delle indagini preliminari – volto ad
accertare la responsabilità penale di alcuni soggetti, in relazione a reati, di
danno e di pericolo, derivanti dall’inquinamento provocato negli anni passati
dall’attività dello stabilimento siderurgico Ilva S.p.A., attività che si
assume tenuta in violazione di norme e prescrizioni a tutela della salute e
dell’ambiente.
Si può rilevare con certezza che nessuna delle norme qui censurate è
idonea ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento delle
predette responsabilità, e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria,
all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni
previste dalla legge. Come si è già chiarito al paragrafo 8, le disposizioni
censurate non cancellano alcuna fattispecie incriminatrice né attenuano le
pene, né contengono norme interpretative e/o retroattive in grado di influire
in qualsiasi modo sull’esito del procedimento penale in corso, come invece si è
verificato nella maggior parte dei casi, di cui si sono dovute occupare la
Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo nelle numerose pronunce
risolutive di dubbi di legittimità riguardanti leggi produttive di effetti
sulla definizione di processi in corso.
12.6.– Residua il problema della legittimità dell’incidenza di una norma
legislativa su provvedimenti cautelari adottati dall’autorità giudiziaria non
in funzione conservativa delle fonti di prova – nel qual caso si ricadrebbe
nell’incidenza sull’esito del processo – ma con finalità preventive, sia in
ordine alla possibilità di aggravamento o protrazione dei reati commessi o alla
prevedibile commissione di ulteriori reati (art. 321, primo comma, cod. proc.
pen.), sia in ordine alla conservazione di beni che possono formare oggetto di
confisca, in caso di condanna degli imputati (art. 321, secondo comma, cod.
proc. pen., in relazione all’art. 240 cod. pen.).
Il sequestro degli impianti, senza facoltà d’uso, è stato disposto a norma
del primo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., in base all’assunto che la
continuazione dell’attività produttiva avrebbe senza dubbio aggravato
l’inquinamento ambientale, già accertato con perizia disposta in sede di
incidente probatorio, e avrebbe provocato ulteriore nocumento ai lavoratori
dell’impianto e agli abitanti delle aree viciniori.
Si deve rilevare in proposito che l’aggravamento delle conseguenze di
reati già commessi o la commissione di nuovi reati è preventivabile solo a
parità delle condizioni di fatto e di diritto antecedenti all’adozione del
provvedimento cautelare. Mutato il quadro normativo – che in effetti non è
rimasto invariato, contrariamente a quanto sostenuto dai rimettenti – le
condizioni di liceità della produzione sono cambiate e gli eventuali nuovi
illeciti penali andranno valutati alla luce delle condizioni attuali e non di
quelle precedenti. Si deve anche mettere in rilievo che la produzione
siderurgica è in sé e per sé lecita, e può divenire illecita solo in caso di
inosservanza delle norme e delle prescrizioni dettate a salvaguardia della
salute e dell’ambiente. Mutate quelle norme e quelle prescrizioni, occorre una
valutazione ex novo della liceità dei
fatti e dei comportamenti, partendo dalla nuova base normativa. Né può essere
ammesso che un giudice (ivi compresa questa Corte) ritenga illegittima la nuova
normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa,
a prescindere dalla rilevata violazione di precisi parametri normativi,
costituzionali o ordinari, sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a
quelle del legislatore e delle amministrazioni competenti. Tale sindacato
sarebbe possibile solo in presenza di una manifesta irragionevolezza della
nuova disciplina dettata dal legislatore e delle nuove prescrizioni contenute
nell’AIA riesaminata. Si tratta di un’eventualità da escludere, nella specie,
per le ragioni illustrate nei paragrafi precedenti, che convergono verso la
considerazione complessiva che sia il legislatore, sia le amministrazioni
competenti, hanno costruito una situazione di equilibrio non irragionevole. Ciò
esclude, come detto prima, un "riesame del riesame”, che non compete ad alcuna
autorità giurisdizionale.
Si deve ritenere, in generale, che l’art. 1 del d.l. n. 207 abbia
introdotto una nuova determinazione normativa all’interno dell’art. 321, primo
comma, cod. proc. pen., nel senso che il sequestro preventivo, ove ricorrano le
condizioni previste dal comma 1 della disposizione, deve consentire la facoltà
d’uso, salvo che, nel futuro, vengano trasgredite le prescrizioni dell’AIA
riesaminata. Nessuna incidenza sull’attività passata e sulla valutazione
giuridica della stessa e quindi nessuna ricaduta sul processo in corso, ma solo
una proiezione circa i futuri effetti della
nuova disciplina. La reimmissione della società Ilva
S.p.A. nel possesso degli impianti è la conseguenza obbligata di tale nuovo
quadro normativo, affinché la produzione possa continuare alle nuove
condizioni, la cui osservanza sarà valutata dalle competenti autorità di
controllo e la cui intrinseca sufficienza sarà verificata, sempre in futuro,
secondo le procedure previste dal codice dell’ambiente.
Il sequestro dei prodotti è stato disposto, invece, ai sensi sia del primo
che del secondo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., giacché si è inteso, da
parte del giudice procedente, non solo prevenire la commissione di nuovi reati,
ma anche preservare tali beni per l’ipotesi che gli stessi possano essere
confiscati, in seguito alla condanna definitiva degli imputati.
Nella motivazione del sequestro dei materiali si può notare una mescolanza
delle finalità connesse al primo e al secondo comma della norma processuale
citata. Lo scopo addotto è infatti quello di «bloccare l’attività criminosa in
corso, atteso che, allo stato, si versa nell’assurda, perdurante situazione che
beni frutto di tale attività possano essere commercializzati ed essere fonte di
guadagni in capo ai soggetti che la stessa hanno realizzato e continuato a
realizzare. Senza ulteriore indugio occorre bloccare il prodotto dei reati
contestati e quindi il profitto di essi che altrimenti si consoliderebbe nelle
tasche degli indagati attraverso la commercializzazione dell’acciaio, cioè
sulla "pelle” degli operai dell’ILVA e della popolazione interessata
all’attività inquinante del siderurgico che invece occorre bloccare». E ancora,
sarebbe indubbio che «la libera disponibilità del prodotto finito e/o
semilavorato […] e la conseguente possibilità della sua remunerata collocazione
sul mercato, stia incentivando gli organi aziendali a perseverare,
nell’allettante ottica di ulteriori profitti, immediati e futuri, nella
produzione industriale con modalità contrarie alla legge […]».
Si evidenzia, come accennato, la stretta combinazione tra il sequestro
delle strutture produttive e quello dei materiali prodotti: i due provvedimenti
sono accomunati dalla finalità ultima, esplicitamente dichiarata, di provocare
la chiusura dell’impianto, considerata l’unico mezzo per avviare un effettivo
risanamento del territorio e l’unico strumento di tutela della salute della
popolazione. Con il sequestro dei materiali giacenti nell’area dello
stabilimento, in particolare, si mira a far mancare le risorse indispensabili
per la prosecuzione dell’attività aziendale, che provengono, come per ogni
impresa produttiva, dalla vendita dei prodotti sul mercato.
L’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al
processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di
prevenzione generale, spettanti, nel rispetto delle leggi vigenti, all’autorità
amministrativa, è facilmente oltrepassabile sia in un senso che nell’altro.
Quando però il confine risulta superato, non può certo determinarsi la
conseguenza dell’inibizione del potere di provvedere secondo le attribuzioni
costituzionali, ed in particolare della possibilità, per il legislatore, di
disciplinare ulteriormente una determinata materia. L’avere l’amministrazione,
in ipotesi, male operato nel passato non è ragione giuridico-costituzionale
sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria
oltre la decisione dei casi concreti. Una soggettiva prognosi pessimistica sui
comportamenti futuri non può fornire base valida per una affermazione di
competenza.
A prescindere poi da ogni patologia della relazione tra cautela
giudiziaria e funzioni amministrative regolate dalla legge, è fin troppo ovvio
che l’attualità della prima non può inibire il dispiegarsi delle seconde, sul
presupposto di una indefinita permanenza delle situazioni precedenti, venute in
essere in un quadro normativo e in una situazione di fatto differenti.
Alla luce di quanto detto, si può concludere che, nella fattispecie
oggetto del presente giudizio, non sussiste alcuna lesione della riserva di
giurisdizione.
L’intervento del legislatore, che, con una norma singolare, autorizza la
commercializzazione di tutti i prodotti, anche realizzati prima dell’entrata in
vigore del d.l. n. 207 del 2012, rende esplicito un effetto necessario e
implicito della autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva,
giacché non avrebbe senso alcuno permettere la produzione senza consentire la
commercializzazione delle merci realizzate, attività entrambe essenziali per il
normale svolgimento di un’attività imprenditoriale. Distinguere tra materiale
realizzato prima e dopo l’entrata in vigore del decreto-legge sarebbe in
contrasto con la ratio della norma
generale e di quella speciale, entrambe mirate ad assicurare la continuazione
dell’attività aziendale, e andrebbe invece nella direzione di rendere il più
difficoltosa possibile l’attività stessa, assottigliando le risorse disponibili
per effetto della vendita di materiale non illecito in sé, perché privo di
potenzialità inquinanti.
Le considerazioni anzidette valgono anche con specifico riguardo alle
modifiche introdotte nel comma 3 dell’art.
La norma censurata regola, in definitiva, una situazione di fatto che si è
venuta a creare dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, diversa dalla
precedente e dunque suscettibile di una differente disciplina giuridica, che,
per le ragioni esposte, non presenta profili di irragionevolezza.
Quanto infine alla temuta dispersione di beni che potrebbero formare
oggetto di una futura confisca, si deve riconoscere al legislatore, ancora una
volta, la possibilità di modulare pro
futuro l’efficacia e la portata stessa di un vincolo cautelare a seconda
della natura del suo oggetto e degli interessi convergenti sulla situazione
considerata. Il bilanciamento ormai più volte descritto, e più volte misurato
in termini di ragionevolezza, ha implicato nella specie una forte attenuazione
della garanzia reale nella sua attitudine ad impedire la circolazione della
cosa sequestrata, che peraltro non è il solo ed assorbente profilo della
cautela. In ogni caso, il decremento della garanzia è del tutto corrispondente
al vantaggio perseguito per la tutela degli interessi di rilievo costituzionale
che gravitano su beni necessari all’esercizio di imprese di rilievo strategico,
con conseguenti ricadute occupazionali, e per tale ragione risulta non
irragionevole.
per questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli
1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni
urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in
caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte,
degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3
dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute,
dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti
industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
n. 231 del 2012 – sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 27,
primo comma e 117, primo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e
3 della legge n. 231 del 2012 – recte, degli artt. 1 e 3 del
decreto-legge n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 2, 3,
9, secondo comma, 24, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104,
107, 111, 112 e 113 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3
della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del decreto-legge n.
207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Tribunale ordinario di Taranto, in
riferimento agli artt. 3, 24, 102, 104 e 112 della Costituzione, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile
2013.
F.to:
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in
Allegato:
Ordinanza letta all’udienza del 9 aprile 2013