Sentenza n. 170 del 2008

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SENTENZA N. 170

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Franco                    BILE                                   Presidente

-    Giovanni Maria         FLICK                                 Giudice

-    Francesco                AMIRANTE                             "

-    Ugo                        DE SIERVO                             "

-    Paolo                      MADDALENA                          "

-    Alfio                       FINOCCHIARO                       "

-    Alfonso                   QUARANTA                            "

-    Franco                    GALLO                                    "

-    Luigi                       MAZZELLA                             "

-    Gaetano                   SILVESTRI                              "

-    Sabino                     CASSESE                                "

-    Maria Rita               SAULLE                                  "

-    Giuseppe                 TESAURO                                "

-    Paolo Maria             NAPOLITANO                         "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), promosso con ordinanza del 12 giugno 2007 dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra la Fondosviluppo s.p.a. e la Veneto Banca Soc. Coop. a r.l. iscritta al n. 779 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di costituzione della Fondosviluppo s.p.a., della Veneto Banca Soc. Coop. a r.l. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Massimo Malvestio e Antonella Lillo per la Veneto Banca Soc. Coop. a r.l., Livia Salvini, Massimo Luciani ed Ermanno Belli per la Fondosviluppo s.p.a., e l’avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale ordinario di Treviso, con ordinanza del 12 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli articoli 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui stabilisce che le disposizioni di cui all’articolo 26 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 (Provvedimenti per la cooperazione), ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302 (Ratifica, con modificazioni, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, recante provvedimenti per la cooperazione, e modificazione della legge 8 maggio 1949, n. 285), all’articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie), ed all’articolo 11, comma 5, della legge 31 gennaio 1992, n. 59 (Nuove norme in materia di società cooperative), si interpretano nel senso che all’obbligo delle società cooperative e loro consorzi di devolvere il patrimonio effettivo ai fondi mutualistici di cui al citato articolo 11, comma 5, «si intendono soggette le stesse società cooperative e loro consorzi nei casi di fusione e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato articolo 26, nonché in caso di decadenza dai benefici fiscali».

2. –  Il rimettente premette che Fondosviluppo s.p.a. ha convenuto in giudizio Veneto Banca s.c.p.a.r.l. (già Banca Popolare di Asola e Montebelluna s.c.a.r.l.; infra, Veneto Banca), chiedendone la condanna a pagare una somma di denaro corrispondente al patrimonio della Banca di Credito Cooperativo del Piave e Livenza, incorporata nella Veneto Banca, a séguito di delibere delle assemblee straordinarie delle società in data 30 ottobre e 6 novembre 1999.

Fondosviluppo s.p.a. è una società costituita dalla Confederazione Cooperative Italiane e dalla Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo, ai sensi dell’art. 11, comma 1, della legge n. 59 del 1992, che prevede la possibilità di costituire «fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione», i quali possono essere gestiti senza scopo di lucro da s.p.a. o da associazioni. Il citato art. 11, comma 5, recepito nell’art. 50 dello statuto sociale della Banca di Credito Cooperativo del Piave e Livenza, dispone che deve «essere devoluto ai fondi di cui al comma 1 il patrimonio residuo delle cooperative in liquidazione, dedotti il capitale versato e rivalutato ed i dividendi eventualmente maturati, di cui al primo comma, lettera c), dell’articolo 26» del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947.

La norma impugnata ha stabilito che detti artt. 11, comma 5, e 26 «si interpretano nel senso che la soppressione da parte di società cooperative o loro consorzi delle clausole di cui al predetto articolo 26», ovvero la fusione o la trasformazione dei medesimi «in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato art. 26», nonché la decadenza dai benefici fiscali, comportano «comunque per le stesse l'obbligo di devolvere il patrimonio effettivo in essere alla data della soppressione, dedotti il capitale versato e rivalutato ed i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici di cui al citato art. 11, comma 5».

Pertanto, poiché la Banca di Credito Cooperativo del Piave e Livenza e Veneto Banca (già Banca Popolare di Asola e Montebelluna), con delibere assembleari del 30 ottobre e del 6 novembre 1999, hanno deliberato la fusione per incorporazione in Veneto Banca, secondo l’attrice, sussiste l’obbligo di quest’ultima di versare ad essa istante, ai sensi del citato art. 11, comma 5, una somma corrispondente al patrimonio di detta Banca di Credito Cooperativo.

Nel giudizio si è costituita Veneto Banca, contestando la legittimazione attiva dell’attrice e, nel merito, la fondatezza della domanda, eccependo altresì l’illegittimità costituzionale del citato art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000, in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102 e 104 Cost.

2.1. – Posta questa premessa, il rimettente deduce che, secondo la convenuta, la norma censurata avrebbe innovato il contenuto dell’art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, in quanto «allarga la fattispecie di cui al comma 5 anche alle ipotesi di fusione e di trasformazione» e fa riferimento al patrimonio effettivo, anziché al patrimonio residuo.

Ad avviso del Tribunale, l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla convenuta è non manifestamente infondata, poiché la giurisprudenza costituzionale ritiene ammissibili le norme interpretative, retroattive, in materia diversa da quella penale, sempre che siano coerenti con la funzione «di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti».

Pertanto, qualora la lettera della norma interpretata sia chiara, al punto da non avere mai dato adito a dubbi interpretativi ed a contrasti nella giurisprudenza, la stessa qualificazione della disposizione come interpretativa conforterebbe l’inesistenza di detto carattere, facendo emergere il reale intento del legislatore, di attribuirle efficacia retroattiva.

Secondo il rimettente, tanto si riscontrerebbe nella specie, in quanto la lettera del citato art. 11, comma 5, non avrebbe fatto sorgere dubbi in ordine alla sua irriferibilità ai casi «di fusione e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato articolo 26». La liquidazione della società è, infatti, fattispecie differente dalla fusione e la norma censurata introduce anche il nuovo concetto di «patrimonio effettivo», in luogo di quello di «patrimonio residuo».

Inoltre, non risulterebbe che la norma interpretata avesse dato luogo a contrasti nella giurisprudenza, dato che le uniche pronunce al riguardo sono state emanate nella vigenza della legge n. 388 del 2000 ed hanno ritenuto il carattere interpretativo della disposizione, senza affrontare la questione della possibilità di intendere la liquidazione anche come fusione.

Pertanto, il citato art. 17, comma 1, inciderebbe retroattivamente su diritti acquisiti e la autoqualificazione come interpretativa rivelerebbe l’intento di produrre questo effetto che, tuttavia, ne determinerebbe il contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 Cost. La norma violerebbe, altresì, i limiti entro i quali possono essere emanate norme aventi efficacia retroattiva, che attengono alla salvaguardia dei fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto ed il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

3. – Nel giudizio innanzi a questa Corte si è costituita Fondosviluppo s.p.a., attrice nel processo principale, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, che la questione sia dichiarata non fondata.

A suo avviso, l’art. 26 del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947 tutela il requisito della mutualità “pura”; la fusione delle società, in virtù di una risalente configurazione, costituiva una causa di scioglimento e comportava l’estinzione della società incorporata; inoltre, l’art. 14 della legge 17 febbraio 1971, n. 127 (Modifiche al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, modificato con legge 18 maggio 1949, n. 285, e ratificato con ulteriori modificazioni dalla legge 2 aprile 1951, n. 302, concernente provvedimenti per la cooperazione), vietava la trasformazione delle società cooperative in società lucrative, con conseguente divieto anche della fusione cosiddetta eterogenea.

L’art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, integrando il citato art. 26, lettera c), ha utilizzato la formula «cooperative in liquidazione», appunto perché la fusione eterogenea era vietata dall’art. 14 della legge n. 127 del 1971.

Tuttavia, le elaborazioni della prassi (quindi, l’ammissibilità della trasformazione della società cooperativa in associazione) e nuove norme (in particolare, l’art. 35 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia»), che hanno autorizzato la fusione tra banche di credito cooperativo e banche popolari, avevano indebolito la tutela del fine mutualistico.

Pertanto, benché la dottrina, il Consiglio di Stato ed il Ministero delle finanze avessero ritenuto applicabile il citato art. 26 anche nel caso di fusione, parte della giurisprudenza aveva privilegiato una diversa interpretazione.

Dunque, sussisteva una situazione di incertezza che conforterebbe il carattere interpretativo della norma censurata. Inoltre, le nozioni di «patrimonio residuo» (posta dal citato art. 11, comma 5) e di «patrimonio effettivo» (contenuta nella norma censurata) sarebbero sostanzialmente coincidenti, poiché anche la seconda identifica il patrimonio che risulta una volta dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi eventualmente maturati.

Peraltro, anche ritenendo che la lettera della norma interpretata non permetteva l’esegesi sopra sintetizzata, questa risulterebbe plausibile in forza del criterio sistematico ed alla luce dell’art. 45 Cost., che impegna il legislatore ordinario a favorire lo sviluppo della mutualità, preservandone i caratteri tipici.

Finalità della norma censurata sarebbe stata quella di garantire un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni che ne costituiscono oggetto, allo scopo di assicurare la devoluzione ai fondi mutualistici del patrimonio delle società cooperative in tutti i casi in cui viene meno il carattere della mutualità.

Siffatta finalità è stata perseguita anche con la novellazione delle norme del codice civile che disciplinano le società, dato che l’art. 2545-decies permetterebbe la trasformazione delle sole società cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente, mentre l’art. 2545-undecies chiarisce che la trasformazione comporta la devoluzione del valore effettivo del patrimonio ai fondi mutualistici.

Infine, la considerazione che la norma non ha inciso sul giudicato condurrebbe ad escludere che il citato art. 17, comma 1, vulneri i parametri costituzionali evocati dal rimettente.

4. – Nel giudizio si è costituita altresì Veneto Banca s.c.p.a.r.l., parte convenuta nel giudizio principale chiedendo che la questione sia accolta.

A suo avviso, l’art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992 si riferiva al solo caso dello scioglimento della società, mentre il fine mutualistico era garantito dalla sanzione prevista dal comma 10, che operava sul piano tributario. La considerazione che mai sarebbe stata sostenuta l’applicabilità di detta norma al caso della fusione conforterebbe il carattere innovativo della disposizione, dimostrato anche dalla circostanza che introduce la nuova nozione di «patrimonio effettivo», in luogo di quella di «patrimonio residuo».

La parte privata sostiene che la norma denunciata realizzerebbe una invasione della sfera delle attribuzioni spettanti al potere giudiziario, secondo quanto sarebbe desumibile dalle pronunce di questa Corte richiamate nell’atto di costituzione. In ogni caso, la norma sarebbe iniqua, poiché imporrebbe a poche società di pagare somme alla Fondoviluppo s.p.a., che nulla ha fatto, per operazioni che mai sarebbero state realizzate, se si fosse avuta contezza del prezzo che avrebbero comportato.

Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la parte deduce che, sebbene l’ordinanza di rimessione abbia formalmente indicato quali parametri costituzionali soltanto gli artt. 101, 102 e 104 Cost., la questione deve ritenersi proposta anche in relazione all’art. 3 Cost., poiché il rimettente ha richiamato anche i princípi di ragionevolezza e di tutela dell’affidamento.

Veneto Banca ripercorre, quindi, la disciplina delle Casse rurali ed artigiane, deducendo che l’art. 14 della legge n. 127 del 1971 non concerneva queste ultime, alle quali era riferibile l’art 30 del regio decreto 26 agosto 1937 n. 1706 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento delle Casse rurali e artigiane); inoltre, una disciplina speciale della fusione era stabilita dall’art. 7 del regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375 (Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1938, n. 141, specialità confermata dall’art. 35 del d.lgs. n. 385 del 1993.

La parte privata dà atto che l’art. 11 della legge n. 59 del 1992 era stato applicato alle banche di credito cooperativo e, tuttavia, a suo avviso, esso concernerebbe il solo caso della società posta in liquidazione. La disciplina della fusione eterogenea, per dette banche, prevede invece l’autorizzazione della Banca d’Italia, che potrebbe essere concessa soltanto se strumentale a garantire i creditori della banca, obiettivo questo coerente con la tutela della cooperazione, quindi con l’art. 45 Cost.

Secondo Veneto Banca, il dubbio interpretativo sarebbe originato da un quesito proposto dalla Confederazione Italia delle Cooperative, che avrebbe ottenuto pronta risposta dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale prima, quindi dall’Agenzia delle entrate, con la circolare 30 ottobre 2000, n. 195/E, che ha, tuttavia, chiarito di non affrontare il profilo civilistico della questione.

La considerazione che una pronuncia di primo grado, che aveva ritenuto la norma censurata interpretativa, è stata riformata in grado di appello conforterebbe la fondatezza delle proprie conclusioni.

5. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

La difesa erariale richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, nella materia diversa da quella penale, sono ammissibili norme retroattive, qualora non sia vulnerato il principio di ragionevolezza, con la conseguenza che non sussiste il denunciato vulnus degli artt. 101, 102, 104 Cost, non avendo il rimettente neppure esplicitato le ragioni che dovrebbero dimostrare che la norma censurata incide sulla funzione giurisdizionale.

La questione sarebbe, comunque, non fondata, poiché la norma denunciata mira a favorire la mutualità, preservandone caratteri e finalità e, in coerenza con i princípi stabiliti dall’art. 45 Cost., è strumentale ad assicurare la devoluzione ai fondi mutualistici del patrimonio della società cooperativa in tutti i casi nei quali è soppressa la struttura cooperativistica.

6. – All’udienza pubblica la difesa erariale e le parti private hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1. – La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Treviso investe l’art. 17, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), nella parte in cui stabilisce che le disposizioni di cui all’articolo 26 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 (Provvedimenti per la cooperazione), ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302 (Ratifica, con modificazioni, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, recante provvedimenti per la cooperazione, e modificazione della legge 8 maggio 1949, n. 285), all’articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie), e all’articolo 11, comma 5, della legge 31 gennaio 1992, n. 59 (Nuove norme in materia di società cooperative), si interpretano nel senso che all’obbligo delle società cooperative e loro consorzi di devolvere il patrimonio effettivo ai fondi mutualistici di cui al citato articolo 11, comma 5, «si intendono soggette le stesse società cooperative e loro consorzi nei casi di fusione e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato articolo 26, nonché in caso di decadenza dai benefici fiscali».

1.1. – Secondo il rimettente, la norma censurata, nonostante si autoqualifichi come interpretativa, sarebbe priva di tale carattere e, conseguentemente, inciderebbe retroattivamente su diritti acquisiti, ponendosi in contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.

Inoltre, la disposizione violerebbe i limiti entro i quali possono essere emanate norme aventi efficacia retroattiva, che attengono alla salvaguardia dei «fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario».

2. – In linea preliminare, va osservato che il rimettente ha motivato non implausibilmente in ordine all’applicabilità della norma censurata nel giudizio principale, anche se, in considerazione dell’oggetto del medesimo, come individuato nell’ordinanza di rimessione, la questione deve ritenersi rilevante esclusivamente in riferimento alla parte della disposizione concernente l’obbligo di devoluzione nel caso di fusione.

Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la questione deve essere scrutinata avendo riguardo anche ai parametri costituzionali non formalmente evocati, ma desumibili in modo univoco dall’ordinanza di rimessione (sentenza n. 69 del 1999), qualora tale atto faccia ad essi chiaro riferimento, sia pure implicito (sentenze n. 26 del 2003; n. 99 del 1997), mediante il richiamo dei principi da questi enunciati.

Nella specie, sebbene il giudice a quo abbia espressamente indicato quali parametri costituzionali soltanto gli artt. 101, 102 e 104 Cost., ha censurato il citato art. 17, comma 1, anche in riferimento all’art. 3 Cost., tenuto conto che dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione risulta palese il riferimento a detta norma, operato mediante il richiamo dei principi di ragionevolezza e di tutela dell’affidamento.

3. – Nel merito, la questione non è fondata.

4. – I dubbi di legittimità costituzionale sono stati sollevati dal rimettente muovendo dalla considerazione che la norma censurata non avrebbe carattere interpretativo e, appunto per questo, si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali sopra indicati.

Ai fini del presente giudizio occorre quindi stabilire anzitutto la natura della norma.

La disposizione, come questa Corte ha affermato, è interpretativa qualora, esistendo una oggettiva incertezza del dato normativo (ordinanza n. 400 del 2007) ed un obiettivo dubbio ermeneutico (sentenza n. 29 del 2002), sia diretta a chiarire il contenuto di preesistenti norme, ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati tra quelli plausibilmente ascrivibili a queste.

Tuttavia, il legislatore può emanare norme che precisino il significato di preesistenti disposizioni anche se non siano insorti contrasti giurisprudenziali (sentenza n. 123 del 1988; ordinanza n. 480 del 1992), ma sussista comunque una situazione di incertezza nella loro applicazione (sentenze n. 291 del 2003; n. 374 del 2002; n. 525 del 2000), essendo sufficiente che la scelta imposta rientri tra le possibili varianti di senso del testo interpretato e sia compatibile con la sua formulazione (sentenze n. 409 del 2005; n. 168 del 2004; n. 292 del 2000), fermo restando che non spetta a questa Corte esprimere valutazioni sulla fondatezza delle differenti esegesi (sentenza n. 229 del 1999).

5. – Nel caso in esame, una delle disposizioni interpretate dalla norma censurata che assumono rilievo,  l’art. 26, primo comma, lettera c), del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947, stabilisce che, agli effetti tributari, la sussistenza dei requisiti mutualistici si presume quando negli statuti delle cooperative sono contenute le clausole che, tra l’altro, prevedono, in caso di scioglimento della società, l’obbligo di devolvere l’intero patrimonio sociale – dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati – «a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico».

Successivamente, l’art. 11 della legge n. 59 del 1992  ha specificato il contenuto di detto obbligo, individuando i beneficiari del medesimo nei fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (comma 5) e sanzionando la sua violazione con la decadenza sia dai benefici fiscali, sia da quelli di «altra natura concessi ai sensi della normativa vigente» (comma 10).

La finalità di dette norme è stata concordemente identificata in quella di garantire che i benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo svolgimento di un’attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito.

L’interpretazione di dette disposizioni, in particolare della seconda, non è stata invece univoca in ordine alla natura dell’obbligo dalle stesse previsto; ad un orientamento della giurisprudenza e della dottrina, secondo il  quale all’obbligo di devoluzione corrispondeva il diritto dei citati fondi mutualistici di vedersi attribuire il patrimonio residuo di liquidazione, si contrapponeva, infatti, un diverso indirizzo, che riteneva desumibile dalle norme la prescrizione di un onere avente rilievo esclusivamente sotto il profilo fiscale.

5.1. – Un’altra questione controversa aveva ad oggetto l’interpretazione del divieto di trasformazione delle società cooperative in società ordinarie (art. 14 della legge 17 febbraio 1971, n. 127, recante «Modifiche al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, modificato con legge 18 maggio 1949, n. 285, e ratificato con ulteriori modificazioni dalla legge 2 aprile 1951, n. 302, concernente provvedimenti per la cooperazione»), e l’identificazione dei limiti di questa modificazione dell’atto costitutivo.

Secondo un orientamento, il divieto non era, infatti, riferibile alla trasformazione in enti diversi dalle società lucrative; questa esegesi non era condivisa da un differente indirizzo, il quale aveva, invece, negato l’ammissibilità di detta trasformazione, ma soprattutto valorizzando i profili della incompatibilità causale e di scopo, nonché la diversità della natura degli enti e del tipo di rapporto associativo.

Un importante argomento per la risoluzione della questione era stato apportato dalla Corte di cassazione, che aveva individuato la ratio del divieto dell’art. 14 della legge n. 127 del 1971, nell’esigenza di «prevenire possibili forme fraudolente di accesso ai benefici previsti per l’esercizio di attività mutualistiche da parte di chi, dopo averli conseguiti, voglia destinarli ad un’attività lucrativa» (sentenza 14 luglio 1997, n. 6349). Siffatta finalità poneva in luce la relazione esistente tra tale divieto – giustificato da ragioni diverse da quelle di ordine concettuale, inerenti alla natura e struttura degli enti – e l’obbligo di devoluzione, permettendo di ritenerlo operante in tutti i casi nei quali la modificazione dell’atto costitutivo ne comportava l’elusione e di escluderne, invece, la violazione, qualora detto obbligo risultasse comunque osservato.

In tal senso, sostanzialmente, si era orientato anche il Consiglio di Stato che, proprio nell’affrontare la questione dei limiti della trasformazione della società cooperativa, aveva appunto affermato che, «ove siano rispettate le disposizioni sostanziali di cui al citato articolo 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, la società cooperativa può senz’altro trasformarsi in associazione riconosciuta o fondazione senza passare attraverso la fase della liquidazione effettiva» (parere della sezione I, 31 luglio 1996, n. 1443/96).

Una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina aveva, quindi, valorizzato proprio la finalità del suindicato divieto, per ritenere consentita la trasformazione della società cooperativa in enti diversi dalle società, purché non avesse comportato la violazione dell’obbligo di devoluzione. In tal modo, mediante l’interpretazione logico-sistematica e tenendo conto della ratio dell’art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, la modificazione dell’atto costitutivo era ammissibile, secondo un orientamento, qualora risultasse soddisfatta la finalità dell’obbligo di devoluzione, che quindi assumeva contenuto più ampio di quello desumibile dalla mera lettera delle norme in esame.

5.2. – Siffatte questioni si erano poste anche in relazione alla fattispecie della fusione cosiddetta eterogenea.

Una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, anche anteriormente alla riforma delle norme del codice civile sulle società (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, recante «Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366»), configurava la fusione quale mera modificazione dell’atto costitutivo, non riconducibile alla successione a titolo universale. Secondo questa concezione, la fusione – nel caso di enti aventi causa diversa, ovvero differenti schemi organizzativi – implicava la trasformazione della società in vista della compenetrazione degli atti costitutivi e, conseguentemente, l’obbligo di devoluzione avrebbe potuto essere ritenuto sussistente alla luce della ratio del divieto sopra richiamato, sebbene non comportasse la liquidazione e l’estinzione della società incorporata.

A conclusioni non dissimili poteva pervenirsi anche aderendo alla tesi – prevalente nella giurisprudenza di legittimità – che enfatizzava l’effetto estintivo della fusione, ritenendo che essa desse luogo ad una successione a titolo universale. Questa configurazione era, infatti, compatibile con l’affermazione dell’obbligo di devoluzione, quale enucleabile alla luce della ratio della norma e delle finalità sopra richiamate, ferma restando la diversità tra le fattispecie della liquidazione e dello scioglimento della società e quella dell’estinzione della medesima, conseguente appunto alla fusione.

Analoghe considerazioni potevano essere svolte anche in riferimento alla fattispecie oggetto del giudizio principale. Il decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), benché avesse disciplinato la fusione eterogenea delle banche di credito cooperativo, modificando anche l’art. 21 della legge n. 59 del 1992, non aveva, infatti, introdotto innovazioni in ordine all’applicabilità a queste dell’obbligo di devoluzione (non implausibilmente ritenuta dal rimettente), mantenendo ferma la diversità di disciplina rispetto a quella stabilita per le banche popolari (art. 21, commi 3 ed 8, della legge n. 59 del 1992). Ciò era in armonia con la complessa evoluzione della normativa di settore, caratterizzata dalla distinta regolamentazione di dette banche da parte del legislatore ordinario, in considerazione della configurabilità delle banche cooperative come categoria autonoma ed a sé stante.

L’inesistenza di ogni interferenza tra autorizzazione alla fusione (art. 36 del d.lgs. n. 385 del 1993) ed obbligo di devoluzione è, peraltro, confortata, sul piano storico-sistematico, dalla circostanza che, anche a séguito delle innovazioni introdotte nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, rese necessarie dalle modifiche delle norme del codice civile sulle società, è stato espressamente mantenuto fermo detto obbligo (art. 150-bis, comma 5, del d.lgs. n. 385 del 1993), con una previsione anteriormente già desumibile dalle norme di detto testo unico e della legge n. 59 del 1992.

Infine, il riferimento alla nozione di «patrimonio effettivo» contenuto nella norma censurata può essere ritenuto una precisazione, conseguente alla necessità di operare nel caso di fusione una valutazione anche della parte dinamica del patrimonio. Tale precisazione era, tuttavia, rilevabile già in via interpretativa, una volta ritenuto applicabile l’obbligo di devoluzione anche nel caso in cui la società non si estingueva, ma continuava ad esistere come soggetto diverso da quello che fruiva dei benefici delle mutualità.

5.3. – In questo dibattito, agli inizi dello stesso anno nel quale è stata promulgata la norma censurata, erano intervenuti il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (12 aprile 2000, “Risposta a quesito scritto dalla Confederazione Cooperative italiane”) ed il Ministero delle finanze (Agenzia delle entrate, circolare 30 ottobre 2000, n. 195/E), offrendo un’interpretazione ampia del contenuto dell’obbligo di devoluzione, comprensiva di tutti i casi nei quali sussisteva l’esigenza di evitare che benefici conseguiti grazie alle agevolazioni stabilite in favore dell’attività mutualistica fossero eterodestinati rispetto a questo scopo. Pertanto, risultava incrementata quella situazione di incertezza che – come affermato da questa Corte in riferimento ad un caso, sotto certi profili, omologo a quello in esame (sentenze n. 291 del 2003; n. 374 del 2002) – costituisce il presupposto per l’emanazione di norme interpretative.

6. – Di questi dibattiti, delle questioni sopra sintetizzate e della plausibilità delle divergenti interpretazioni offerte di parti delle disposizioni sopra richiamate, costituisce testimonianza la molteplicità di orientamenti espressi dalla giurisprudenza e dalla dottrina, anche in ordine alla questione della natura della norma censurata, così da rendere chiara la complessità dell’esegesi delle norme.

Pertanto, risulta palese che l’art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000 è intervenuto in una situazione di incertezza del dato normativo e che i criteri legali di ermeneutica rendevano possibile desumere dalle disposizioni interpretate la variante di senso che il legislatore ha inteso privilegiare, senza incidere né su orientamenti a tal punto consolidati da far ritenere implausibile la soluzione accolta, né su sentenze passate in cosa giudicata.

Il carattere interpretativo della disposizione censurata comporta che essa si è saldata «a norme precedenti intervenendo sul significato normativo di queste, dunque lasciandone intatto il dato testuale ed imponendo una delle possibili opzioni ermeneutiche già ricomprese nell'ambito semantico della legge interpretata» (tra le molte, sentenze n. 425 del 2000; n. 397 del 1994), in modo che il suo sopravvenire non ha fatto venire meno le norme interpretate, in quanto le disposizioni si sono congiunte, dando luogo ad un precetto unitario (sentenze n. 311 del 1995; n. 94 del 1995; n. 397 del 1994).

Siffatta configurazione conduce ad escludere che il citato art. 17, comma 1, sia sostanzialmente innovativo, con effetti retroattivi, ed assume importanza sotto il profilo del controllo di ragionevolezza, in relazione al quale rileva la funzione di interpretazione autentica che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, in deroga al principio per cui la legge non dispone che per l’avvenire (sentenze n. 234 del 2007; n. 374 del 2002).

La circostanza che la norma censurata, in quanto interpretativa, si è limitata ad assegnare alle disposizioni interpretate un significato in esse già contenuto, riconoscibile come una delle loro possibili varianti di senso, influisce, quindi, sul positivo apprezzamento sia della sua ragionevolezza (sentenza n. 234 del 2007; n. 274 del 2006; n. 135 del 2006; n. 409 del 2005; n. 291 del 2003), sia della non configurabilità di una lesione dell’affidamento dei destinatari (sentenza n. 229 del 1999; si veda anche sentenza n. 26 del 2003). Questo affidamento deve reputarsi, evidentemente, attenuato, e comunque non vulnerato, perché il testo originario rendeva plausibile una lettura diversa da quella che i destinatari stessi avevano ritenuto di privilegiare.

L’art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000, avendo natura interpretativa, ha dunque operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, poiché si è limitato a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l’esercizio di tale potestà deve attenersi (ex plurimis, sentenze n. 274 del 2006; n. 282 del 2005; n. 15 del 2005; ordinanza n. 240 del 2007), definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima. Pertanto, la norma censurata non ha vulnerato le attribuzioni del potere giudiziario e la sua formulazione rende chiaro che neppure ha violato l’intangibilità del giudicato (sentenze n. 234 del 2007; n. 282 del 2005), mentre, anche in considerazione delle interpretazioni rese plausibili dalle norme, difetta ogni elemento per potere desumere che sia stata diretta ad incidere sui giudizi in corso, per determinarne gli esiti (sentenze n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Treviso con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.