SENTENZA N. 282
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Fernanda CONTRI Giudice
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), promosso con ordinanza del 14 luglio 2004 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto da Giuseppe Severini ed altri contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, iscritta al n. 886 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di costituzione di Giuseppe Severini ed altri;
udito nell’udienza pubblica del 3 maggio 2005 il Giudice relatore Paolo Maddalena;
udito l’avvocato Celestino Biagini per Giuseppe Severini ed altri.
Ritenuto in fatto
1. ¾ Con ordinanza emessa il 14 luglio 2004 nel corso di un procedimento promosso da nove consiglieri di Stato per l’annullamento della nota della Presidenza del Consiglio dei ministri del 3 febbraio 2003 che aveva respinto, previo riesame, le istanze di esecuzione delle decisioni del Presidente della Repubblica emesse in data 27 settembre 1999 a seguito di ricorso straordinario, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001).
La norma denunciata prevede che il nono comma dell’art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425 (ai sensi del quale per il personale che ha conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità viene determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo) si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, e che perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata. In ogni caso – prosegue la norma – non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti.
Riferisce il TAR remittente che l’oggetto sostanziale della controversia dinanzi ad esso pendente si identifica nella richiesta degli interessati di ottenere, da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri, la piena esecuzione dei decreti del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 che, in accoglimento dei loro pregressi ricorsi straordinari, hanno dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di determinare i trattamenti economici di loro pertinenza alla stregua dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, tenendo conto del superiore trattamento spettante ai colleghi che li seguivano nel ruolo dei consiglieri di Stato.
Allo stesso fine dell’esecuzione dei predetti decreti del Presidente della Repubblica, gli interessati avevano in precedenza esperito un ricorso per l’esecuzione del giudicato. Questo, peraltro, pur avendo trovato accoglimento da parte del Consiglio di Stato (sez. IV, sentenza 15 dicembre 2000, n. 6695), aveva poi dato adito ad una sentenza di annullamento della relativa pronuncia ad opera delle Sezioni Unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione (sentenza 18 dicembre 2001, n. 15978).
Circa l’interpretazione della norma denunciata, il Tribunale amministrativo remittente esclude che essa possa essere letta nel senso di fare comunque salvi gli effetti prodotti da decisioni del Capo dello Stato ormai immutabili. L’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 avrebbe infatti una portata tale da vanificare le decisioni giustiziali rese a suo tempo in favore dei ricorrenti.
Secondo il TAR del Lazio, tuttavia, questa norma presterebbe il fianco a dubbi di costituzionalità in riferimento agli articoli 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui, esplicitando la portata retroattiva dell’abrogazione da essa contemplata, prevede che questa possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute mediante sentenze o decisioni di ricorsi straordinari che erano ormai divenute definitive.
Il giudice a quo, richiamando, in particolare, la sentenza n. 525 del 2000 di questa Corte, ricorda che le norme di interpretazione autentica non possono travolgere situazioni regolate da giudicato.
La condizione giuridica del provvedimento decisorio di un ricorso straordinario, pur non presentandosi identica a quella propria della sentenza, sarebbe comunque ampiamente suscettibile di essere ad essa raffrontata: il Capo dello Stato, allorché con la decisione di sua competenza aderisca al parere reso nel procedimento dal Consiglio di Stato, coopererebbe all’esplicazione di una funzione essenzialmente giurisdizionale.
Ad avviso del TAR remittente, la decisione del ricorso straordinario avrebbe la funzione di definire immutabilmente la lite in regime di alternatività nel segno della difesa delle posizioni soggettive individuali meritevoli di tutela ai sensi degli articoli 24 e 113 Cost. La tutela delle posizioni degli amministrati sarebbe perseguita nel diritto vivente, ed assegnata dall’ordinamento positivo, oltre che al ricorso giurisdizionale amministrativo, anche al ricorso straordinario: sicché le limitazioni che pregiudicano l’effettività di quest’ultimo si tradurrebbero nello stesso tempo in lesioni del valore costituzionale di cui agli articoli 24 e 113 Cost. (oltre a presentarsi prive di giustificazione razionale anche sotto il profilo della parità di trattamento).
Ed anche a prescindere da ogni parallelismo tra ricorsi straordinari e ricorsi giurisdizionali, l’incisione retroattiva, attraverso una nuova norma di legge, di una decisione giustiziale definitiva presenterebbe comunque, ad avviso del remittente, profili di incompatibilità anche rispetto alla funzione costituzionale del Consiglio di Stato di assicurare «la tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100 Cost.).
2. ¾ Nel giudizio dinanzi alla Corte non è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
3. ¾ Si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio a quo, concludendo, in via principale, per il rigetto della questione, sul rilievo che l’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000 dovrebbe essere interpretato, diversamente da quanto prospettato dal remittente, nel senso di non precludere l’esecuzione delle decisioni irrevocabili, rese nel regime dell’alternatività dal Presidente della Repubblica, prima della sua entrata in vigore; in subordine, per l’accoglimento della questione – anche con riferimento agli articoli 28 e 97 della Costituzione – e, dunque, per l’incostituzionalità della norma denunciata, nella parte in cui dispone la perdita degli effetti delle decisioni irrevocabili, rese nel regime della alternatività dal Presidente della Repubblica, prima della sua entrata in vigore.
La difesa delle parti private esclude innanzitutto che la portata della disposizione denunciata sia nel senso di incidere sugli effetti delle pregresse decisioni del Presidente della Repubblica. Una tale interpretazione emergerebbe dai lavori preparatori, ed in particolare dall’ordine del giorno approvato nella seduta del 22 dicembre 2000, con cui la Camera – sul presupposto che «secondo consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale sono incostituzionali le norme che incidano direttamente sui giudicati, anche della giustizia amministrativa» – ha impegnato il Governo «a dare applicazione all’art. 50, comma 4, della legge finanziaria 2001 nel senso che esso non si riferisce alle decisioni irrevocabili insuscettibili di impugnazione».
A tale riguardo nella memoria si osserva che il testo della norma denunciata non è così univoco come affermato dal TAR remittente, perché esso ha tolto efficacia alle decisioni, ma non ai “giudicati” o alle “decisioni irrevocabili”, sicché solo qualora vi fosse stato un espresso richiamo alla perdita di efficacia dei “giudicati” o delle “decisioni irrevocabili” sarebbe stata necessaria una pronuncia di incostituzionalità. E tra due possibili interpretazioni della norma, sarebbe corretta quella più conforme alla Costituzione e all’art. 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In subordine, la difesa delle parti private condivide il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal TAR del Lazio e sollecita il confronto anche con ulteriori parametri costituzionali (gli articoli 28 e 97 della Costituzione).
Nella memoria ci si diffonde ampiamente sull’istituto del ricorso straordinario e si afferma che gli effetti delle decisioni del Capo dello Stato rese nel regime della alternatività sono equiparabili a quelli delle sentenze non impugnabili. Infatti, non si può riesaminare in sede giurisdizionale la controversia già chiusa e decisa in sede straordinaria. In particolare, la decisione del Capo dello Stato comporta l’obbligo dell’Amministrazione di darvi “puntuale esecuzione”; non può essere modificata o revocata dalla stessa autorità che l’ha emessa, né ad istanza di parte né d’ufficio, ed è irretrattabile in ogni sede, anche se contrasta con una norma di interpretazione autentica, perfino antecedente, o con una sentenza di incostituzionalità della normativa posta a base della decisione; vincola l’Amministrazione allo stesso modo del giudicato; si pone su un piano corrispondente e parallelo a quello della decisione giurisdizionale, proprio per la forza che ad essa deriva dal principio di alternatività.
Peraltro, al fine di giungere ad una dichiarazione di incostituzionalità, non sarebbe necessario attribuire espressamente natura anche giurisdizionale alla decisione del Capo dello Stato. Basterebbe infatti rilevare come – nel regime della alternatività ed in base al diritto vivente – la decisione del Capo dello Stato assume l’efficacia del giudicato (art. 15 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199) o almeno una efficacia analoga.
La norma denunciata, ove interpretabile nel senso prospettato dal remittente, sarebbe viziata da eccesso di potere legislativo, perché avrebbe regolato situazioni concrete e inciso sugli effetti di decisioni irrevocabili.
4. ¾ In prossimità dell’udienza la difesa delle parti private ha depositato una memoria integrativa.
In essa si precisa che gli incrementi retributivi derivanti dalle decisioni del Capo dello Stato si fondano su una norma – abrogata con effetto retroattivo dalla disposizione denunciata – che dava rilievo meritocratico al superamento del concorso, sicché non dovrebbe esservi un trattamento deteriore rispetto a coloro che hanno ottenuto e mantengono incrementi retributivi in base al “casuale” allineamento stipendiale (ed i cui giudicati non sono stati incisi dal decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438).
In via ulteriormente subordinata rispetto alle già formulate conclusioni, le parti private chiedono che la Corte dichiari l’illegittimità dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui ha disposto la perdita degli effetti delle decisioni irrevocabili, rese nel regime della alternatività dal Presidente della Repubblica, prima della sua entrata in vigore, anziché disporre che per i relativi incrementi economici si applica il meccanismo del riassorbimento degli scatti, nel corso della progressione economica.
5. ¾ In successive memorie, la difesa delle parti private sottolinea che la norma denunciata avrebbe inciso sugli effetti di decisioni irrevocabili, che hanno dato l’assetto definitivo alle liti nell’esercizio di funzione giustiziale, ben diversa da quella dell’amministrazione attiva; avrebbe soppresso posizioni (qualificate) di diritto soggettivo nei confronti di persone determinate; avrebbe alterato l’assetto degli interessi, che un provvedimento amministrativo mai avrebbe potuto alterare; avrebbe alterato l’assetto definitivo della lite, ribaltando una soccombenza affermata in una sede di giustizia nell’amministrazione prevista dall’art. 100 Cost.
La discrezionalità del legislatore di vanificare le decisioni del Capo dello Stato toglierebbe giustificazione all’alternatività e all’irrevocabilità, rendendo del tutto inutile l’istituto del ricorso straordinario, mortificandone la funzione giustiziale. Il primato della legge non significa che – quanto meno per le determinazioni assunte nella sede giustiziale – possa continuamente irrompere una posteriore norma primaria, destinata a regolare gli stessi casi concreti.
La violazione dell’art. 3 della Costituzione sussisterebbe anche perché l’impugnata norma-provvedimento avrebbe turbato la certezza del diritto e inciso sull’affidamento. Il legislatore – si sostiene – non potrebbe ex post annientare l’effettività di un rimedio di giustizia, le cui conseguenze giuridiche si siano già prodotte.
La norma provvedimento in questione non sarebbe sorretta da alcuna apprezzabile giustificazione e – si sostiene – avrebbe un carattere palesemente arbitrario.
Considerato in diritto1. ¾ La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio in riferimento agli articoli 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione, investe l’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001).
La disposizione censurata, in tema di trattamento economico dei magistrati, disciplina, con una norma di interpretazione autentica, la portata e la decorrenza dell’abrogazione del nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, norma, quest’ultima, ai sensi della quale per il personale che avesse conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità veniva determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo seguiva nel ruolo.
La disposizione oggetto del dubbio di legittimità costituzionale precisa, in primo luogo, che il citato nono comma dell’art. 4 si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, il quale, con l’art. 2, comma 4, aveva soppresso l’istituto dell’allineamento stipendiale; prevede inoltre che, per effetto di detta abrogazione con effetto retroattivo, perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati, dopo la data suindicata, difformemente dalla predetta interpretazione, e che, in ogni caso, non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti.
Il giudice a quo denuncia questa norma nella parte in cui, esplicitando la portata retroattiva dell’abrogazione da essa contemplata, dispone la perdita degli effetti delle decisioni irrevocabili rese nel regime dell’alternatività dal Presidente della Repubblica adito con ricorso straordinario ed intervenute prima della sua entrata in vigore.
Ad avviso del TAR remittente, l’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, così disponendo, si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione. Premesso che le norme di interpretazione autentica non possono travolgere situazioni regolate da giudicato e che la decisione del ricorso straordinario ha la funzione di definire immutabilmente la lite nel segno della difesa delle posizioni soggettive individuali, la disposizione denunciata pregiudicherebbe l’effettività del ricorso straordinario, svuotando la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi che gli amministrati hanno ottenuto esperendo questo rimedio giustiziale, si presenterebbe priva di giustificazione razionale anche sotto il profilo della parità di trattamento, ed inoltre menomerebbe la funzione costituzionale del Consiglio di Stato di assicurare la tutela della giustizia nell’amministrazione.
2. ¾ Preliminarmente, si deve precisare che la questione va esaminata entro i limiti del thema decidendum individuati dall’ordinanza di remissione. Rimane perciò estraneo al presente giudizio l’esame della questione di legittimità costituzionale con riferimento anche agli ulteriori parametri e profili prospettati dalla difesa delle parti private costituite, in quanto, con essi, viene introdotto un tema del tutto nuovo rispetto a quello devoluto dal giudice a quo (cfr., da ultimo, sentenza n. 168 del 2005).
3. ¾ Nel merito la questione non è fondata.
3.1. ¾ L’art. 50, comma 4, della legge finanziaria per il 2001, nei periodi penultimo e ultimo, oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, introduce una norma di interpretazione autentica, con un corollario. La norma di interpretazione autentica consiste nel riconoscimento di un’incompatibilità sistematica già realizzatasi: il venir meno, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, dell’istituto del riallineamento stipendiale, riguarda anche la norma dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, che prevedeva una particolare forma di allineamento stipendiale per i magistrati (di appello e) di cassazione vincitori di concorso per esami, stabilendo che l’anzianità di questi ultimi fosse determinata «in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo». Il corollario è il seguente: per effetto del riconoscimento dell’intervenuta abrogazione ex tunc «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali» comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, e non sono dovuti né possono essere eseguiti pagamenti «sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti».
3.2. ¾ La riconosciuta natura effettivamente interpretativa di una legge non esclude che da essa possano derivare violazioni costituzionali. Invero, al di fuori della materia penale (dove il divieto di retroattività della legge è stato elevato a dignità costituzionale dall’art. 25 Cost.), l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato, e che attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (da ultimo, sentenze n. 376 del 2004, n. 291 del 2003 e n. 446 del 2002). In particolare, al legislatore è precluso intervenire, con norme aventi portata retroattiva, «per annullare gli effetti del giudicato» (sentenza n. 525 del 2000): se vi fosse un’incidenza sul giudicato, la legge di interpretazione autentica non si limiterebbe a muovere, come ad essa è consentito, sul piano delle fonti normative, attraverso la precisazione della regola e del modello di decisione cui l’esercizio della potestà di giudicare deve attenersi, ma lederebbe i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (cfr. sentenze n. 374 del 2000 e n. 15 del 1995).
Diversamente da quanto ritenuto dal giudice remittente, deve tuttavia escludersi che la portata retroattiva del denunciato art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 sia tale da riguardare e da porre nel nulla anche gli effetti di sentenze passate in giudicato basate su un’interpretazione in ordine alla vigenza del nono comma dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984 difforme da quella ora imposta dal legislatore. La norma censurata contempla infatti la perdita di efficacia delle «decisioni di autorità giurisdizionali», quindi delle decisioni impugnate o impugnabili, non già delle decisioni irrevocabili o passate in giudicato. Il silenzio del legislatore deve ritenersi significativo di un’implicita salvezza del giudicato; ed in questa direzione orientano sia il canone interpretativo per cui, tra due possibili interpretazioni consentite dalla lettera di una disposizione, è corretta quella conforme alla (o non contrastante con la) Costituzione, sia i lavori preparatori della legge, dai quali emerge che, in sede di dibattito parlamentare (Atti parlamentari – Camera dei deputati, seduta del 22 dicembre 2000), fu escluso che la norma in corso di approvazione riguardasse anche le sentenze coperte dal giudicato.
3.3. ¾ La salvezza del giudicato formatosi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di interpretazione autentica non è anche la salvezza delle decisioni adottate, nel regime dell’alternatività, con decreto del Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario.
Essendo il ricorso straordinario al Capo dello Stato un rimedio per assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa, deve escludersi che la decisione che conclude questo procedimento amministrativo di secondo grado abbia la natura o gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale. Questa Corte ha più volte affermato la natura amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: giudicando manifestamente infondata la questione di costituzionalità della normativa di cui al d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, concernente il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, prospettata per violazione, tra l’altro, degli articoli 76 e 77 della Costituzione, proprio sul rilievo che, nonostante la peculiarità del suindicato ricorso, esso rientrava indubbiamente tra quelli amministrativi cui la legge di delegazione si riferiva (ordinanze n. 301 e n. 56 del 2001; v., altresì, sentenza n. 298 del 1986); ritenendo che il Consiglio di Stato, in sede di parere sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, opera come organo non giurisdizionale ed è pertanto privo di legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale (sentenza n. 254 del 2004; ordinanza n. 357 del 2004).
3.4. ¾ La disposta perdita di efficacia dei provvedimenti (tali dovendosi considerare i decreti del Presidente della Repubblica con cui vengono decisi i ricorsi straordinari) comunque adottati difformemente dalla interpretazione che vuole abrogato il nono comma dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984 sin dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, non lede i parametri costituzionali evocati dal giudice remittente.
Non risultano vulnerati gli articoli 24 e 113 della Costituzione, perché la garanzia costituzionale da essi prevista si riferisce al diritto di agire nella sede giurisdizionale e non nella sede amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Non è violato l’art. 100 della Costituzione, che individua nel Consiglio di Stato l’organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione, essendo l’atto in esame del Consiglio di Stato espressione di una funzione consultiva su cui peraltro la norma non incide.
Non è pertinente il richiamo all’art. 103 della Costituzione, giacché nella presente questione di costituzionalità non vengono in considerazione profili concernenti l’attività giurisdizionale affidata al Consiglio di Stato.
Quanto alla prospettata lesione dell’art. 3 della Costituzione, la norma denunciata, infine, non viola l’affidamento nella sicurezza giuridica, perché il legislatore, in sede di interpretazione autentica, può modificare sfavorevolmente, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti economici con esiti privilegiati (cfr. sentenza n. 6 del 1994).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2005.