Sentenza n. 283 del 1993

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SENTENZA N. 283

ANNO 1993

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5 bis del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n. 359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), dell'art. 1 della legge 8 agosto 1992 n. 359 e dell'art. 15, n. 5, della legge 23 agosto 1988 n. 400 (Disciplina dell'attività di governo ed ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), ordinanze emesse il 2 ottobre (n. 2 ordinanze) dalla Corte di appello di Torino, il 16 ottobre 1992 dalla Corte di appello di Bologna, il 20 novembre 1992 (n. 3 ordinanze) dalla Corte di appello di Palermo, il 4 dicembre 1992 dalla Corte di Appello di Reggio Calabria ed il 16 ottobre 1992 dalla Corte di appello di Cagliari, rispettivamente iscritte ai nn. 792, 798 e 799 del registro ordinanze 1992 ed ai nn. 41, 42, 45, 86 e 94 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 1, 2, 7, 10 e 11, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visti gli atti di costituzione di Uguccioni Igino, della s.p.a. Immobiltorre, degli eredi di Macrì Giuseppe Raffaele, di Sanna Salvatore e di Sanna M. Maddalena ed altri nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 4 maggio 1993 il Giudice relatore Renato Granata;

uditi l'avv. Alessandro Mantero per Uguccioni Igino, l'avv. Gaetano Marano per la s.p.a. Immobiltorre, gli avvocati Francesco Scaglione e Carolina Valensise per gli eredi di Macrì Giuseppe Raffaele, l'avv. Giorgio Piras per Sanna Salvatore e per Sanna M.

Ritenuto in fatto

Maddalena ed altri e l'Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri l. Le Corti di appello di Torino (con due ordinanze in data 2 ottobre 1992), di Cagliari (con provvedimento del 16 ottobre 1992), di Bologna (con ordinanza del 16 ottobre 1992) di Palermo (con altre tre ordinanze in pari data del 20 novembre 1992) e di Reggio Calabria (con provvedimento del 4 dicembre dello stesso anno), in altrettanti giudizi (ex art. 19 l. 1971 n. 865) di opposizione alla stima di aree edificabili espropriate alcuni anni prima in favore di Comuni - ritenuto (tutte le Corti per implicito, e solo quella di Reggio Calabria con argomentata reiezione di contraria tesi interpretativa dell'opponente) che anche nei rispettivi "procedimenti" (in quanto ancora) "in corso" debba trovare applicazione il nuovo criterio di liquidazione dell'indennità di espropriazione di aree edificabili introdotto (con effetto dichiaratamente retroattivo) dall'art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992 n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992 n. 359 - hanno, sotto plurimi profili e con motivazioni varia mente modulate (di cui più dettagliatamente si dirà direttamente nella parte in diritto), prospettato l'illegittimità della norma suddetta, nella sua interezza (anche in correlazione all'art. 1 della stessa l. 359/92 ed all'art. 15 della 1988 n. 400) e/o con particolare riguardo ai commi primo, secondo, quinto, sesto e settimo in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 della Costituzione.

In particolare:

- la Corte torinese ha denunciato il comma primo del menzionato art. 5 bis, [il quale dispone che l'indennità in questione è determinata a norma dell'art. 13, comma 3, della legge n. 2892 del 1885 sostituendo ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli artt. 24 ss. t.u. n.917 del 1986 e riducendo l'importo, così ottenuto, del 40%] - ed, implicitamente, anche il comma secondo [a tenore del quale "in ogni fase del procedimento espropriativo il soggetto espropriato può convenire la cessione volontaria del bene", ed "in tal caso non si applica la riduzione cui al comma primo"] per assunto contrasto con gli artt. 3 e 42, comma 3, della Costituzione, sotto il profilo della non adeguatezza e congruità, oltre che del carattere astratto, dell'indennizzo così determinato, e con l'art. 24 della Costituzione, in ragione di una paventata "remora all'esercizio del diritto di difesa" (id est di opposizione alla stima), indotta dal descritto meccanismo di sostanziale conseguenzialità tra mancata cessione volontaria del bene e riduzione ulteriore del 40%;

- la Corte di Cagliari ha impugnato il citato art. 5 bis nella sua interezza (anche in relazione all'art. 1 della stessa legge n. 359/92), per suo vizio di formazione, stante l'avvenuta approvazione direttamente del solo articolo unico del disegno della suddetta legge di conversione (secondo le indicazioni, dell'art. 15 n. 5 della legge n. 400 del 1988, pure esso per ciò denunciato), per asserito contrasto con gli artt. 71 e 72 Cost.(in quanto prescriventi una previa votazione "articolo per articolo"). Ed ha poi, in linea gradata, prospettato l'illegittimità del comma primo del medesimo art. 5 bis in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione (sotto il profilo del maggior contributo richiesto al proprietario del bene espropriato rispetto a tutti gli altri contribuenti); il comma secondo in riferimento sia all'art. 3 (per disparità di trattamento tra espropriati secondo che convengano o non la cessione del bene), sia all'art. 113 (per motivi analoghi a quel li che fondano l'ipotesi di violazione dell'art. 24) oltrechè del comma quinto [che demanda al Ministro dei lavori pubblici di definire, con proprio decreto, "i criteri ed i requisiti per la edificabilità di fatto"], per contrasto con l'art. 117 Cost. della Costituzione (quanto ad una possibile menomazione delle attribuzioni regionali in materia di urbanistica);

- la Corte di Bologna ha impugnato anch'essa il comma primo dell'art. 5 bis, per contrasto con l'art. 42, comma terzo, della Costituzione. Ed inoltre, il comma secondo del medesimo articolo 5 bis in riferimento, oltrechè all'art.24, comma 1, anche all'art. 3 della Costituzione (per assunta discriminazione dei proprietari già espropriati alla data di entrata in vigore della legge e che non possono per ciò avvalersi della cessione volontaria del bene); ed il comma quinto in relazione sia all'art.42, comma 2, (per violazione della riserva di legge in tema di disciplina della proprietà), sia agli artt. 42, comma 3, e 24, comma 1, Cost. (per mancata previsione di un termine per l'emanazione del regolamento individuativo della edificabilità di fatto);

- a sua volta, la Corte palermitana ha chiesto di scrutinare: ancora il primo comma dell'art. 5 bis d.l. n. 333/92 cit., sempre per contrasto con l' art. 42, comma 3, Cost. ma anche in riferimento all'art. 3 Cost. (quanto al profilo di una ulteriore disparità di trattamento tra proprietari di aree edificabili oggetto di espropriazione e proprietari di aree, aventi identiche caratteristiche ed ubicazione, che possono viceversa disporne in regime di libera contrattazione) e all'art. 24 Cost. (con implicito riferimento alla disciplina della cessione volontaria); il comma secondo in relazione all'art. 3 della Costituzione; il comma sesto (disciplinante, in collegamento al successivo comma settimo l'applicabilità dello ius superveniens ai procedimenti nei quali la determinazione dell'indennità sia ancora sub iudice), per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in ragione della disparità di trattamento che si verrebbe, per tal via, a determinare tra proprietari espropriati, soggetti o non alla nuova disciplina per fattori assolutamente casuali, connessi alla durata delle controversie giudiziarie;

- infine la Corte di Reggio Calabria ha formulato anch'essa dubbi di illegittimità dei commi primo ed (implicitamente) secondo dell'articolo in esame, per contrasto con i precetti costituzionali sub artt. 3, 24 e 42, comma terzo.

  1. In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che preliminarmente ha eccepito l'inammissibilità, per irrilevanza:
  2. a) della impugnativa dell'art. 15 n. 5 l. n. 400 del 1988 perchè non applicabile nel giudizio a quo;
  3. b) delle questioni di costituzionalità del comma quinto dell'art. 5 bis del d.l. n. 333/92 come prospettate dalla [sola] Corte di Bologna, atteso che nel correlativo giudizio - concernente un terreno legalmente edificabile alla stregua dei vigenti strumenti urbanistici - non dovrebbe per ciò ricevere applicazione l'emanando regolamento sui criteri di individuazione della c.d. edificabilità di fatto;
  4. c) delle questioni di illegittimità del comma secondo della medesima norma per la duplice ragione che la "cessione volontaria", ivi disciplinata, non verrebbe comunque in applicazione nei giudizi (come quelli a quibus) in cui risulti già emesso il decreto espropriativo; e perchè la violazione, in particolare, dell'art. 24 della Costituzione, sotto il profilo della "remora all'esercizio della difesa", non sarebbe, per definizione, ipotizzabile con riguardo a giudizi di fatto già instaurati.

E, nel merito, ha contestato la fondatezza di ogni altra sollevata questione attesa, tra l'altro, la ritualità del procedimento di formazione della legge n. 359/92; la congruità della indennità computata ai sensi del comma primo dell'art. 5 bis d.l. n. 333/92, in sostanziale aderenza ai principi in tema di serio indennizzo più volte enunciati da questa Corte; la non conferenza in materia del richiamo all'art. 53 della Costituzione; la ragionevolezza - in relazione alle perseguite finalità acceleratorie (delle procedure di acquisizione delle aree edificabili) e deflattive (delle controversie giudiziarie) - del meccanismo "premiale" di cessione volontaria di cui al comma secondo; l'esclusione di ogni profilo di contrasto tra la disciplina dei criteri della edificabilità di fatto, ai fini del computo della indennità di esproprio", quale demandata dal comma quinto alla decretazione ministeriale, e le attribuzioni regionali in materia di urbanistica; la conformità infine delle disposizioni transitorie sub comma sesto (e settimo) ai principi della successione, nel tempo, delle leggi.

  1. La fondatezza di tutte le questioni sollevate (nei rispettivi giudizi a quibus) è stata viceversa sostenuta dalle parti private - Uguccioni, società Immobiltorre, eredi Macrì, Sanna (quest'ultima anche con memoria) - opponenti rispettivamente innanzi alle Corti di Bologna, Palermo (ordinanza n. 45/93), Reggio Calabria e Cagliari.

La difesa degli eredi Macrì ha preliminarmente, per altro, riproposto l'eccezione di irrilevanza (già disattesa dal Collegio reggino) per inapplicabilità dello ius superveniens in fattispecie - come quella in oggetto - in cui risulti già emanato il decreto di esproprio, atteso che il "procedimento" [da intendere nella corretta accezione di "procedimento amministrativo di espropriazione"] non sarebbe, in questo caso, più "in corso".

Considerato in diritto

  1. Attesa l'identità o connessione delle questioni sollevate può disporsi la riunione dei correlativi giudizi.
  2. Viene sotto più profili - come in narrativa detto - denunciato l'art. 5 bis, introdotto dalla legge 8 agosto 1992 n.359, in sede di conversione del d.l. 11 luglio 1992 n. 333, (recante "misure urgenti per risanamento della finanza pubblica").

La riferita norma stabilisce nuovi criteri - da valere "fino alla emanazione di una organica disciplina delle espropriazioni" per pubblica utilità - per la stima della indennità di espropriazione "per le aree edificabili" [per quelle agricole, o comunque non classificabili come edificabili, continuando viceversa ad applicarsi i criteri di cui al titolo II della l. n.865 del 1971 ai sensi del comma quarto dello stesso art. 5 bis].

Prevede, all'uopo, il comma primo della citata disposizione che la suddetta indennità "è determinata a norma dell'art. 13, comma 3, della legge [sul risanamento della città di Napoli] n.2892 del 1885 (e cioé sulla base della media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio], sostituendo ai fitti coacervati il reddito dominicale rivalutato di cui agli artt. 24 ss. d.P.R. n. 917 del 1986". E che "l'importo così determinato è ridotto del 40%".

Aggiunge poi, peraltro, il comma secondo che "il soggetto espropriato può convenire la cessione volontaria del bene" ed "in tal caso non si applica la riduzione di cui al comma 1".

Precisa, quindi, il comma terzo [non oggetto di autonoma impugnazione, ma richiamato come disposizione interagente sulla legittimità del precedente comma primo] che "per la valutazione della edificabilità delle aree", agli effetti appunto dell'applicazione dei suddetti nuovi criteri di stima, "si devono considerare le possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell'apposizione dei vincolo preordinato all'esproprio". Ed a tal fine - prosegue il comma quinto - "con regolamento del Ministro dei Lavori Pubblici, da emanarsi ai sensi dell'art. 17 l. 1988 n. 400", saranno "definiti i criteri ed i requisiti per la individuazione della edificabilità di fatto".

Tale nuova disciplina è dichiaratamente applicabile anche ai "procedimenti in corso" (comma settimo), salvo che l'indennità non sia già stata accettata dalle parti ovvero definita con giudicato (comma sesto legge cit.).

  1. Per il combinato effetto delle censure formulate nelle varie ordinanze di rinvio il richiamato art. 5 bis viene quindi in sostanza sospettato di incostituzionalità, oltrechè [A] pregiudizialmente nella sua interezza per vizio genetico (che si assume, dalla Corte di Cagliari, correlato alla previsione dell'art. 15 n. 5 della legge n. 400 del 1988, per questo parallelamente denunciato), sotto i profili in particolare: [B] del nuovo adottato criterio di computo dell'indennità in questione (comma 1);[C] del meccanismo di interrelazione tra "cessione volontaria del bene" ed esonero dalla applicazione dell'ulteriore riduzione del 40% (comma 2);[D] della definizione dei criteri individuativi della edificabilità di fatto, rimessa al potere esecutivo (comma 5);[E] della disciplina intertemporale (commi 6 e 7).

I parametri evocati sono rispettivamente: per il profilo sub A: gli artt. 71 e 72 Cost.; per il profilo sub B: gli artt.3, 42 co.3, e 53 Cost.; per il profilo sub C: gli artt. 3, 24, 42, comma 3, e 113 Cost.; per il profilo sub D: gli artt. 42, commi 2 e 3; 24, comma 1, e 117 Cost.; per il profilo sub E: l'art. 3 Cost.

  1. Preliminarmente al merito delle riferite questioni - che si affronterà seguendo l'ordine numerico dei commi della norma segnatamente impugnati - va esaminata l'eccezione di inammissibilità per inapplicabilità dello ius superveniens nel processo a quo.

Questa eccezione - espressamente prospettata solo nel giudizio innanzi alla Corte di Reggio Calabria, ma virtualmente riferibile a tutti gli altri giudizi a quibus nei quali parimenti risulta (dalla narrativa delle stesse ordinanze di rinvio) la già avvenuta adozione del decreto espropriativo - è formulata sulla premessa interpretativa che i "procedimenti in corso", ai quali il comma settimo del citato art. 5 bis espressamente dichiara applicabile la nuova disciplina, siano i procedimenti amministrativi ancora aperti; con la conseguente esclusione, quindi, dei procedimenti - come quelli cui si riferiscono le controversie indennitarie pendenti innanzi ai giudici a quibus - viceversa già conclusi sul piano della procedura ablatoria con il disposto trasferimento coattivo della proprietà del bene occupato.

La interpretazione così proposta non può però essere ricevuta dalla Corte perchè disattesa per implicito da tutte le autorità rimettenti e, esplicitamente, dalla Corte di appello di Reggio Calabria con motivazione affatto plausibile e confortata dalla recente giurisprudenza della Cassazione (cfr. sent. n.12393 del 1992).

Delle altre preliminari eccezioni di inammissibilità afferenti a singole disposizioni dell'art. 5 bis si dirà (pregiudizialmente) in occasione dell'esame delle correlative questioni, nell'ordine che si è detto.

  1. Passando all'esame del merito, vanno innanzi tutto prese in considerazione le censure che hanno ad oggetto il cit. art. 5 bis, nella sua interezza, e l'art. 15 n. 5 della legge 23 agosto 1988 n. 400, norme che la Corte d'appello di Cagliari sospetta confliggere con gli artt. 71 e 72, comma 1, Cost. sotto il profilo della violazione del procedimento di formazione della legge non essendo stato rispettato il canone che prescrive che il disegno o il progetto di legge debba essere approvato prima "articolo per articolo" e dopo con (complessiva) votazione finale.

La questione, così come posta dalla Corte remittente, è per più versi inammissibile.

Lo è relativamente all'art. 15 n.5 legge n. 400/88, perchè di tale norma - che, prescrivendo che "le modifiche apportate al decreto legge, sono elencate in allegato alla legge", riguarda il modo di formulazione del testo da pubblicare in Gazzetta ufficiale - il giudice non deve fare applicazione.

E lo è anche in riferimento al cit. art. 5 bis.

Infatti il giudice a quo, ricordato che <<secondo..... l'art.72 l'approvazione delle camere deve essere fatta separatamente articolo per articolo e poi, complessivamente, con votazione fina le>>, constata che <<la legge di conversione in oggetto è stata approvata mediante votazione soltanto del suo articolo unico e non anche mediante votazione dei singoli articoli del decreto da convertire e delle relative modifiche>> e ne deduce <<l'illegittimità costituzionale.... del citato art. 5 bis, per il quale l'illegittimità risulta particolarmente evidente: esso infatti non ha nemmeno carattere di modifica del decreto legge, giacchè contiene una norma completamente nuova rispetto alla materia del decreto legge n. 333/92>>.

Orbene - non senza considerare che il riferimento all'art. 71 Cost. si rivela non pertinente giacchè il canone della redazione del progetto di legge <<in articoli>>, da tale norma prescritto, riguarda l'iniziativa popolare delle leggi - dalla scarna motivazione dell'ordinanza non risulta con chiarezza se il giudice rimettente intenda far riferimento in generale a qualsiasi disegno di legge formulato in un articolo unico (come parrebbe desumersi dal richiamo dell'art. 72 Cost. che riguarda il procedimento di formazione della legge in generale, mentre la sedes materiae della legge di conversione è l'art. 77 Cost.);

ovvero se si riferisca più in particolare all'ipotesi del disegno di legge di conversione del decreto legge (come sembrerebbe potersi inferire dal fatto che nella specie la norma censurata è contenuta in un decreto legge convertito); ovvero, infine, se - tenuto conto del concreto svolgimento dell'iter parlamentare - non abbia inteso dolersi del fatto che sia stata inserita una disposizione (in tesi) "estranea" alla materia del decreto legge, ovvero del fatto che, avendo il Governo posto la fiducia sul testo come emendato in sede di Commissione referente con l'inserimento in particolare della norma censurata, l'Assemblea - limitandosi all'approvazione dell'articolo unico del disegno di legge di conversione del decreto legge - non abbia in concreto dibattuto (e quindi consapevolmente approvato) l'inserimento nel decreto legge dell'art. 5 bis in esame.

La questione quindi si presenta priva dell'indefettibile requisito della chiarezza con conseguente sua inammissibilità.

  1. Possono ora in sequenza esaminarsi le censure che - con riferimento soprattutto all'art. 42, comma 3 Cost., ma anche agli artt. 3 e 53 Cost. - afferiscono alle distinte disposizioni contenute nell'art. 5 bis, cominciando dal primo comma che prevede che l'indennità di espropriazione per le aree edificabili è determinata a norma dell'art. 13, comma 3, della l. n. 2892 del 1885, sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli artt. 24 ss. d.P.R. n. 917 del 1986; l'importo così determinato è ridotto del 40%.

6.l. Con riferimento al parametro costituito dall'art. 42, comma 3, Cost. la questione è posta innanzi tutto (dalle Corti d'appello di Bologna e Torino) sotto il profilo, più generale e radicale, della non adeguatezza e congruità del ristoro in tal modo assicurato al proprietario espropriato.

Inoltre, pure a prescindere dalla riduzione del 40%, il criterio adottato dal primo comma dell'art. 5 bis sarebbe, secondo la Corte di Palermo, illegittimo già soltanto per avere il legislatore sostituito al parametro rapportato ai fitti coacervati quello - affatto disomogeneo perchè concernente i terreni agricoli - del reddito dominicale; e comunque si censura il carattere astratto dell'indennizzo così computato, non rispondente alle obiettive ed effettive caratteristiche del bene ablato.

La Corte d'appello di Reggio Calabria sostiene poi che la ritenuta di imposta del 20%, prevista dall'art. 11 della legge n.413 del 1991, rappresenterebbe un ulteriore elemento di riduzione che porterebbe l'indennizzo al di sotto del livello di congruità.

Inoltre il riferimento temporale della valutazione circa la edificabilità di fatto al momento della apposizione del vincolo preordinato all'esproprio rappresenterebbe un altro elemento di inadeguatezza del criterio di calcolo dell'indennità espropriativa.

La questione quindi si focalizza essenzialmente, come profilo principale, nell'affermazione di fondo della non adeguatezza in sè della liquidazione della indennità nella misura del 60% della semisomma del valore venale e del reddito dominicale;

mentre gli altri profili secondari, ed in un certo senso serventi al primo, sono diretti a rafforzare tale censura di inadeguatezza dell'indennizzo.

Tutti però si riconducono e si saldano nella prospettazione secondo cui risulterebbe violata la prescrizione del terzo comma dell'art. 42 Cost. che consente l'espropriazione per pubblica utilità solo <<salvo indennizzo>>.

6.2. Va premesso che - prima della norma censurata e dopo che la Corte aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 16, commi 5, 6 e 7 della legge n.865 del 1971, come modificati dall'art. 14 della legge n.10 del 1977 (sent. n.5 del 1980), nonchè della legge n.385 del 1980 (sent.n.223 del 1983) - trovava applicazione, per la quantificazione dell'indennità di espropriazione delle aree fabbricabili, il criterio del valore venale quale previsto dall'art. 39 legge 25 giugno 1865 n.2359, che non era stato abrogato, ma soltanto derogato dalle disposizioni dichiarate illegittime (sentt. n.1022 del 1988 e n.216 del 1990); invece per le aree a destinazione agricola era, ed è, ancora operante il criterio del valore agrario medio previsto dalla cit. legge n.865 del 1971 (così anche sent. n.355 del 1985).

Con l'introduzione della norma censurata - che riguarda soltanto le aree edificabili o a destinazione edificatoria - al criterio del valore venale l'art. 5 bis sostituisce quello della semisomma del valore venale e del reddito dominicale, ridotta del 40%; criterio questo sensibilmente meno favorevole (per i titolari delle aree espropriate) perchè - in ragione della notoria esiguità del reddito dominicale - pari a circa un terzo del valore venale.

La radicale censura di inadeguatezza di tale criterio - che rappresenta il profilo principale delle questioni di costituzionalità in esame - non può che essere valutata alla luce della precedente giurisprudenza di questa Corte. La quale si è subito attestata su un principio di fondo, ripetutamente affermato, secondo cui, da una parte, l'indennità di espropriazione non garantisce all'espropriato il diritto ad un'indennità esattamente commisurata al valore venale del bene e, dall'altra, l'indennità stessa non può essere (in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma deve essere (in positivo) congrua, seria, adeguata. Per un verso, infatti, l'integrale ristoro del sacrificio negherebbe ogni incidenza sotto tale profilo agli scopi di pubblica utilità che persegue il procedimento espropriativo; scopi la cui realizzazione non può risultare impedita dall'esigenza di una piena ed integrale riparazione dell'interesse privato del proprietario. Per altro verso, però, quest'ultimo non può essere chiamato ad un sacrificio che azzeri il suo diritto, atteso il rilievo costituzionale della proprietà privata che il secondo comma dell'art. 42 Cost. predica essere <<riconosciuta e garantita>> ancorchè con il limi te (tra l'altro) della <<funzione sociale>>. Ed infatti fin dalla sentenza n.61 del 1957 è stata respinta quella che veniva qualificata come <<interpretazione letterale>> del concetto di indennizzo, in quanto identificato con il pieno ristoro del danno subito per effetto dell'ablazione; <<indennizzo non può significare ... integrale risarcimento ... ma soltanto il massimo di contributo e di riparazione che, nell'ambito degli scopi di generale interesse, la Pubblica Amministrazione può garantire all'interessato>>; solo <<un indennizzo stabilito in misura simbolica sarebbe un indennizzo inesistente>> con conseguente vulnerazione dell'art. 42, comma 3, Cost.

Questo principio - costantemente riaffermato (da ultimo v. sentt. nn. 138 del 1993, 173 del 1991 e 216 del 1990) - si è poi ulteriormente evoluto, da una parte, affermandosi in positivo che l'indennizzo deve essere - come già indicato - congruo, serio, ed adeguato (sentt. nn. 91 del 1963, 22 del 1965, 115 del 1969, 63 del 1970, 58 del 1974, 138 del 1977) e, d'altra parte, precisandosi che è legittima la combinazione di più criteri purchè almeno uno sia agganciato al valore venale e che pertanto risulta compatibile con la garanzia dell'art. 42, comma 3, Cost. la previsione di un criterio "mediato" (sentt. nn. 216 del 1990, 1165 del 1988 e 160 del 1981).

In particolare la sentenza n.15 del 1976 ha ritenuto legittimo il criterio di valutazione dell'indennità di esproprio previsto dalla legge 15 gennaio 1885 n.2892 (sul risanamento della città di Napoli) che stabilisce il riferimento alla media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio dei terreni espropriati, ovvero, in difetto di locazioni accertate, alla me dia del valore venale e dell'imponibile netto ai fini dell'imposta sui fabbricati, precisando che, anche nell'ipotesi in cui non risultino canoni di locazione, entra sempre a far parte del calcolo relativo, come dato componente della media, il valore venale dell'immobile; ciò <<contribuisce in modo determinante ad adeguare, sia pure entro certi limiti, l'ammontare dell'indennizzo alla realtà dei valori economici>> (cfr. anche ord. 607 del 1987 e sent. n.216 del 1990).

Parimenti la sentenza n.160 del 1981 ha ritenuto congruo un analogo criterio "mediato", quello previsto dall'art. 4 r.d.l.n.981 del 1931, che quantificava l'indennità di espropriazione come pari alla media del valore venale e dell'imponibile netto, capitalizzato ad un tasso dal 3,50% al 7% secondo le condizioni dell'edificio e della località;

in particolare la Corte ha precisato che <<il riferimento al valore venale del fondo fuor di dubbio consente, sulla base di dati oggettivamente accertabili, che la liquidazione si avvicini adeguatamente alla realtà ed attualità dei valori economici>> e che tale riferimento consente di escludere il <<rischio di irrisorietà dell'indennizzo>>.

In questi criteri "mediati" c'è però una costante che è quella dell'indefettibile <<riferimento ... al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali>> (sent. 5 del 1980) sicchè risulta viceversa violato il canone di congruità ex art. 42 Cost. ove si adotti un diverso criterio che <<prescinda>> del tutto da tale valore venale; la mancanza di questo riferimento (come nel caso delle leggi n.865 del 1971, n.247 del 1974 e n.10 del 1977 che determinavano l'indennizzo delle aree fabbricabili in base al solo loro valore agricolo, donde la dichiarazione di incostituzionalità resa con la citata sent. n. 5 del 1980) comporta una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato. Analogo vizio di astrattezza è stato ravvisato dalla Corte nella successiva sentenza n.223 del 1983 relativamente alla legge n.385 del 1980 che surrettiziamente faceva rivivere, quale mero <<acconto>>, il criterio già colpito dalla precedente dichiarazione di incostituzionalità.      

Una più netta ed inequivocabile puntualizzazione, suscettibile di generalizzazione, è poi contenuta nella sentenza n.1165 del 1988, che ha precisato quale sia il principio cui deve attenersi il legislatore nel determinare l'indennità di esproprio: <<quello di assumere il valore effettivo del bene come base di riferimento dell'indennizzo, onde evitare una valutazione dello stesso del tutto astratta>>; in particolare - nella specie, in quella occasione esaminata, relativa all'art. 28 della legge della Provincia di Trento 20 dicembre 1972 n.31, come modificato dalla successiva legge 2 maggio 1983 n.14 - la Corte ha ritenuto che il correttivo del valore venale potesse essere costituito dal valore agricolo tabellare (che - può rilevarsi a margine - non è poi concettualmente dissimile dal reddito dominicale previsto dall'art. 5 bis in esame) sicchè l'indennità di esproprio delle aree edificabili risultava legittimamente commisurata alla media aritmetica tra il valore venale ed il valore che, entro le valutazioni fornite da una determinata Commissione, doveva essere attribuito all'area quale terreno agricolo (anche la sentenza n.231 del 1984 parla del valore venale come di mero criterio di riferimento nella determinazione dell'indennità).

Quindi - volendo tirare le fila di questi più recenti sviluppi giurisprudenziali che peraltro si sono mossi lungo una linea di continuità con la giurisprudenza maggiormente risalente - può dirsi, conclusivamente, che il rischio dell'<<astrattezza>> del criterio di quantificazione dell'indennità di espropriazione è evitato quando uno dei parametri che concorrono sia ancorato al valore venale.

6.3. La ritenuta ammissibilità in linea di massima di criteri "mediati" comporta una conseguente discrezionalità del legislatore nell'individuazione dei parametri concorrenti con quelli del valore venale; nella sentenza n. 216 del 1990 la Corte ha infatti affermato che residuano al legislatore <<ampi margini di dicrezionalità ..., dato che il valore effettivo del bene viene in rilievo non quale misura, ma come criterio di riferimento per la determinazione dell'indennizzo>>. Così anche la sentenza n.138 del 1993 ha affermato che <<il legislatore rimane libero di adottare criteri più o meno automatici di determinazione dell'indennizzo, per esempio rapportandolo al valore catastale dell'immobile ... oppure alla media, eventualmente corretta, del valore venale col reddito dominicale rivalutato>>.

Nell'esercizio di questa discrezionalità il legislatore opera il coordinamento e bilanciamento con il pubblico interesse, peraltro tenendo anche conto delle esigenze della finanza pubblica, che - come già ritenuto da questa Corte (sent. n.15 del 1976) - legittimamente possono ispirare la scelta del criterio "mediato" soprattutto se inserito nel contesto di una più vasta ed organica manovra finanziaria dello Stato.

Tale mediazione tra l'interesse generale sotteso all'espropriazione e l'interesse privato, espresso dalla proprietà privata, non può fissarsi in un indefettibile e rigido criterio quantitativo, ma risente sia del contesto complessivo in cui storicamente si colloca, sia dello specifico che connota il procedimento espropriativo, non essendo il legislatore vincolato ad individuare un unico criterio di determinazione dell'indennità, valido in ogni fattispecie espropriativa.

Sotto quest'ultimo profilo la determinazione dell'indennità delle aree fabbricabili non può non risentire del fatto che la destinazione urbanistica comporta un valore aggiunto (rendita di posizione) rispetto al contenuto essenziale del diritto di proprietà sicchè diverso può essere il bilanciamento tra interesse generale ed interesse privato rispetto all'ipotesi dell'espropriazione di aree non fabbricabili. Come anche un contesto complessivo che risulti caratterizzato da una sfavorevole congiuntura economica - che il legislatore mira a contrastare con un'ampia manovra economico-finanziaria - può conferire un diverso peso ai confliggenti interessi oggetto del bilanciamento legislativo.

Questa essenziale relatività dei valori in giuoco impone una verifica settoriale e legata al contesto di riferimento nel momento in cui si pone il raffronto tra il risultato del bilanciamento operato dal legislatore con la scelta di un determinato criterio "mediato" ed il canone di adeguatezza dell'indennità ex art. 42, comma 3, Cost.

Verifica questa che - operata con riferimento all'art. 5 bis censurato - impone di considerare:

  1. a) la particolare urgenza e valenza degli "scopi" che - attraverso l'acquisizione dei suoli edificabili (e cioè delle aree nude, destinabili alla edificazione) che la riferita normativa specificamente disciplina - il legislatore si propone di perseguire. Scopi, in particolare legati alla ripresa degli interventi di edilizia residenziale pubblica, anche in funzione della positiva ricaduta che l'auspicato incremento edilizio può avere sui collegati settori lavorativi e sulla realizzazione del diritto alla abitazione, ed agli effetti di calmiere che la conseguente crescita dell'offerta abitativa può produrre nel mercato, in guisa da secondare e modulare l'iniziale liberalizzazione degli affitti di abitazione, coevamente avviata;
  2. b) il parallelo obiettivo di perequare il costo della indennità in limiti quanto più possibili aderenti al valore proprio dei suoli, decurtandolo dal valore aggiunto determinato dall'azione della P.A. e che, con riguardo ai proprietari non espropriati, viene, anche se non interamente, recuperato o attraverso misure di contribuzione all'atto della edificazione o attraverso la tassazione dei così acquisiti incrementi di valore all'atto dell'eventuale trasferimento del suolo;
  3. c) la particolare congiuntura economica nella quale si inserisce la legge emanata avente carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un'organica disciplina dell'espropriazione per pubblica utilità.

In conclusione - affermata in generale la legittimità dei criteri "mediati" sempre che facciano riferimento al valore venale del bene espropriato e ritenuta in concreto la correttezza del bilanciamento di interessi operato dal legislatore nel definire i parametri concorrenti con il valore venale - può escludersi , sotto il profilo principale della censura in esame, che l'indennizzo calcolato alla stregua della disposizione denunciata sia "apparente", "meramente simbolico" od "irrisorio" e deve invece ritenersene la sufficienza e congruità rispetto alla funzione - che lo stesso, nel contesto dell'attuale situazione economico-finanziaria del paese, è chiamato ad assolvere - di esprimere <<il massimo di contributo e di riparazione che nell'ambito degli scopi, di generale interesse la P.A. può garantire all'interesse privato>>.

6.4. La ritenuta adeguatezza dell'indennizzo consente anche di superare gli altri profili, afferenti sempre al parametro costituito dall'art. 42, comma 3, Cost.

Infatti da una parte mette conto rilevare che l'introduzione del criterio concorrente del reddito dominicale in luogo del coacervo dei fitti (quale previsto dalla legge n.2892 del 1885) non è disomogenea ed incoerente alla luce della già vista giurisprudenza della Corte, non senza considerare che anche il reddito catastale (come già previsto per il coacervo dei fitti dalla legge su Napoli) va moltiplicato per dieci anni. Giova rilevare in particolare che secondo la cit. sent. n. 1165/88 la media con il valore tabellare agricolo è legittima, quando tale concorrente criterio sia inserito in un insieme che tiene conto del valore effettivo (analogamente la sent. n. 231 del 1984 ha ritenuto utilizzabile il valore agricolo purchè si tenga conto, insieme, del valore effettivo; così anche secondo la sent.n.15 del 1976 è possibile il riferimento all'imponibile catastale).

Nemmeno ha poi pregio il profilo di censura secondo cui la menzionata ritenuta di imposta del 20% rappresenterebbe un ulteriore elemento di riduzione che porterebbe l'indennizzo al di sotto del livello di congruità.

Va infatti considerato che la illegittimità denunziata, semmai, riguarderebbe la norma impositiva, mentre il trattamento tributario della indennità è estraneo alla vicenda espropriativa.

Quanto poi all'evidenziato riferimento temporale della valutazione circa la edificabilità di fatto al momento della apposizione del vincolo preordinato all'esproprio, riferimento che - secondo la Corte d'appello di Reggio Calabria - giocherebbe nel senso di far dubitare anche sotto questo ulteriore profilo della congruità dell'indennizzo, mette conto osservare che la censura è sotto questo profilo irrilevante non essendo nella specie dedotta la sopravvenienza, medio tempore, di un mutamento della edificabilità di fatto.

6.5. Ulteriori censure poi investono il primo comma dell'art. 5 bis in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.

In relazione al primo parametro si lamenta la disparità di trattamento tra i proprietari di aree edificabili oggetto del provvedimento di espropriazione che si vedranno liquidata una siffatta non satisfattiva indennità ed i proprietari di aree aventi le stesse caratteristiche e poste nella stessa zona, i quali possono disporne in regime di libera contrattazione e ottenere così il pieno valore di mercato.

Ma l'argomento allegato a sostegno della censura prova troppo.

Una volta affermata - come è pacifico in giurisprudenza e come è stato sopra esposto - che non necessariamente l'indennità di espropriazione deve essere pari al valore venale del bene espropriato, consegue inevitabilmente che possa esserci una differenza tra tali due termini; differenza che, nei confronti del proprietario espropriato, si giustifica come limitazione del suo diritto in ragione della <<funzione sociale>> della proprietà. Una volta verificata la compatibilità con l'art. 42, comma 3, Cost. (e quindi la legittimità) di questo quid minoris che percepisce il soggetto espropriato non può poi rinnovarsi la valutazione di costituzionalità sotto il profilo dell'art. 3 Cost. assumendo una pretesa violazione della disparità di trattamento rispetto ai proprietari delle aree non espropriate.

Se la parità di trattamento dovesse ritenersi assicurata unicamente ove al proprietario dell'area espropriata fosse garantita, come indennizzo, la stessa attribuzione economica che può conseguire, come corrispettivo, il proprietario dell'area non espropriata, si finirebbe per leggere nel terzo comma dell'art. 42 un criterio rigido e vincolato: l'indennità non potrebbe essere altro che il valore venale.

Ma così non è per le ragioni già indicate: l'indennizzo può risultare da un criterio in cui il valore venale è mediato, e quindi corretto, da altri concorrenti parametri.

Pertanto non c'è disparità di trattamento perchè diverse sono le situazioni poste a raffronto; in un caso, e non nell'altro, l'area edificabile presenta il connotato dell'idoneità alla realizzazione (su di essa) di un'opera di pubblica utilità; ciò giustifica la diversità (tra l'altro) della ragione dell'attribuzione patrimoniale, compensativa nell'un caso e corrispettiva nell'altro della dismissione del bene, attribuzione costituita rispettivamente dall'<<indennizzo>> nell'ambito di un procedimento espropriativo e dal <<prezzo>> nell'ambito di una compravendita.

Se quindi l'<<indennizzo>> è adeguato ex art. 42, comma 3, Cost. non può risultare sperequato per difetto ex art. 3 Cost (cfr. sent. n.216 del 1990 nella quale - seppur con riguardo alla diversa questione di criteri di liquidazione differenziati - è enunciato il principio che il criterio adottato, se legittimo in relazione all'art. 42, lo è anche in relazione all'art. 3).

Viceversa (e simmetricamente) se l'<<indennità>> non risponde al parametro di adeguatezza dell'art. 42, comma 3, Cost., come nell'ipotesi di un criterio astratto del tutto sganciato dal valore venale, risulta violato anche il principio di eguaglianza perchè viene meno la giustificazione della differenziazione (ed infatti la sentenza n.5 del 1980 - dopo aver ritenuto violato il primo parametro - ha accolto anche il profilo di censura riferito all'art. 3 Cost.).

6.6. Una questione di costituzionalità contigua al profilo appena esaminato è quella riferita all'art. 53 Cost. (e congiuntamente all'art. 3 Cost.): l'art. 5 bis cit. è censurato nella parte in cui il proprietario del bene espropriato, per effetto della riduttiva quantificazione dell'indennizzo spettantegli, sarebbe di fatto chiamato a concorrere alla spesa di realizzazione dell'opera pubblica con un contributo personale e diretto, oltre che in ragione della sua capacità contributiva generale. É sufficiente però rilevare - come già affermato da questa Corte (sent. n.5 del 1960), seppur in epoca risalente - che la materia espropriativa è estranea all'area di operatività dell'art. 53 Cost. Come appena evidenziato al paragrafo che precede, se l'esistenza di una differenza tra indennità espropriativa e valore venale del bene espropriato non viola l'art. 42, comma 3, Cost., è nell'ambito dell'operatività di tale parametro che va apprezzato il quid minoris non percepito dal proprietario e non è invece possibile attribuire a tale differenza la natura tributaria così da richiedere una seconda verifica della legittimità della quantificazione dell'indennizzo sotto il diverso ed ulteriore profilo della capacità contributiva del soggetto espropriato.

In realtà la verifica della adeguatezza dell'indennizzo si esaurisce nell'ambito dell'art. 42, comma 3, Cost.; ci si deve quindi arrestare alla considerazione che - una volta rispettato il canone di adeguatezza espresso da tale parametro - rientra nella discrezionalità del legislatore fissare i criteri di determinazione dell'indennità espropriativa secondo generali valutazioni di politica economico-finanziaria che possono tenere conto anche del fatto che la rendita di posizione, della quale è parzialmente privato il soggetto espropriato, è frutto in larga parte - oggi più ancora che in passato - di investimenti della collettività (elemento questo peraltro preso in considerazione anche in occasione di precedenti iniziative legislative in tema di espropriazione - non pervenute però a compimento - proprio per giustificare l'abbattimento percentuale della quantificazione dell'indennizzo).

Rimane l'esigenza generale di coerenza e ragionevolezza che il legislatore deve rispettare sicchè la determinazione dell'indennità espropriativa in un ammontare sensibilmente inferiore al valore venale potrebbe richiedere una più adeguata disciplina riequilibratrice (soprattutto fiscale) delle aree fabbricabili non assoggettate ad espropriazione; profilo, questo, peraltro estraneo alla normativa espropriativa in questione.

7.l. Occorre ora passare all'esame del secondo comma dell'art.5 bis - che dispone che "in ogni fase del procedimento espropriativo il soggetto espropriato può convenire la cessione volontaria del bene. In tal caso non si applica la riduzione di cui al comma 1" - norma che è censurata sotto più profili. É evocato l'art. 24 Cost. perchè la disposizione censurata condizionerebbe pesantemente la proposizione della opposizione al la stima, con l'indurre il proprietario <<ad accettare l'indennità determinata in sede amministrativa anche se il valore venale posto a base del calcolo è inferiore a quello effettivo>>, stante che l'eventuale recupero di valore derivante dalla determinazione giudiziale sarebbe in tutto o in notevole parte vanificato dall'applicazione della riduzione del quaranta per cento. Analogamente viene richiamato l'art. 113 Cost., per la parallela remora, che ne consegue, anche nei confronti della tutela degli interessi legittimi avverso provvedimenti della P.A.

Si sospetta poi la violazione dell'art. 3 Cost., sia per l'irragionevole disparità di trattamento tra chi al momento della entrata in vigore della normativa censurata ha già subito l'espropriazione e non può più convenire la cessione volontaria del bene e chi invece non è ancora colpito dal provvedimento ablativo e può addivenire alla detta cessione volontaria senza subire la riduzione del quaranta per cento; sia per disparità di trattamento tra espropriato che convenga la cessione del bene ed espropriato che proponga viceversa opposizione alla stima ed impugni il decreto di espropriazione. Infine il secondo comma dell'art. 5 bis è censurato in riferimento all'art. 42 co. 3 Cost., in quanto il previsto meccanismo di subordinazione dell'esonero dalla riduzione del 40% della indennità alla accettazione della stima provvisoria indicata dall'espropriante, ovvero della indennità definitiva fissata dalla Commissione Provinciale, avrebbe un sostanziale carattere sanzionatorio e punitivo nei confronti dell'espropriato (che non accetti l'indennità offertagli), facendo così convergere nell'indennizzo una "finalità afflittiva" estranea alla previsione del precetto costituzionale.

7.2. Va preliminarmente considerata l'eccezione di inammissibilità della Avvocatura dello Stato per essere la norma censurata inapplicabile nei giudizi a quibus che concernono procedimenti espropriativi in cui è già intervenuto il decreto di esproprio e nei quali quindi non è più possibile la cessione volontaria (l'eccezione è pertinente a tutti i giudizi, ancorchè formulata solo in alcuni di essi, giacchè in tutti è già intervenuta l'espropriazione).

Deve a questo proposito considerarsi che nelle censure mosse dalle Corti rimettenti al secondo comma dell'art. 5 bis possono enuclearsi due distinti profili: uno più particolare, che attiene al fatto che i soggetti già espropriati risultano esclusi dalla possibilità di ricorrere alla cessione volontaria per sottrarsi alla riduzione del 40%, ed uno più generale che riguarda la disciplina della cessione volontaria; distinzione questa che si rende necessaria perchè diversa è la valutazione della rilevanza delle censure di costituzionalità che investono, pur sotto distinte prospettive, la medesima disposizione in esame.

Infatti l'eccezione di difetto di rilevanza sollevata dall'Avvocatura non è fondata se riferita al primo profilo di costituzionalità giacchè - pur vertendosi in tutti i giudizi a quibus in ipotesi di procedimenti espropriativi conclusi e non già in itinere sicchè non è più ipotizzabile una cessione volontaria essendosi l'effetto traslativo realizzato con il provvedimento ablativo - la disciplina del secondo comma cit. viene direttamente in rilievo in quanto le ordinanze dei giudici rimettenti mirano proprio a superare l'esclusione dei soggetti già espropriati dall'area di applicabilità della disposizione stessa. La quale infatti viene censurata dalla Corte d'appello di Bologna e dalla Corte d'appello di Palermo per la (assunta) disparità di trattamento tra chi al momento dell'entrata in vigore della stessa ha già subito l'esproprio e chi invece non è stato ancora raggiunto dal provvedimento ablativo giacchè quest'ultimo può convenire la cessione volontaria senza subire la riduzione del 40% , mentre il primo è escluso da tale possibilità. L'obiettivo di entrambe le ordinanze - ancorchè non esplicitato ma non di meno palese - è quello di una pronuncia additiva che, incidendo sul secondo comma cit., consenta ai soggetti già espropriati di sottrarsi alla falcidia della riduzione del 40%.

Tale censura va quindi intesa come rivolta non tanto a conseguire la estensione anche ai già espropriati del diritto di imporre alla P.A. la cessione volontaria (per un corrispettivo pari alla semisomma determinata secondo i criteri del primo comma, ma senza la riduzione del 40%), estensione non possibile per il principio di non contraddizione che non consente al soggetto di cedere il diritto di proprietà di cui è già stato privato in forza del decreto autoritativo di esproprio, quanto piuttosto a permettere comunque ai già espropriati il conseguimento del risultato economico consentito ai non ancora espropriati. Si addebita, cioè, al legislatore la omissione della previsione di uno strumento negoziale che - coerente alla situazione in cui tali soggetti versano - sia altresì idoneo a conseguire lo stesso vantaggio economico conseguibile dai non ancora espropriati mediante la cessione volontaria.

7.3. In questi termini, la censura è fondata.

Non appare infatti ragionevole che il legislatore - nel predisporre un meccanismo negoziale, alternativo al procedimento autoritativo e di natura sostanzialmente transattiva, finalizzato a conseguire un effetto deflattivo del contenzioso ed acceleratorio delle procedure mediante la offerta al proprietario di un quid pluris rispetto alla somma da lui conseguibile nell'ambito della procedura autoritativa - abbia omesso di considerare la situazione di quei soggetti che, già espropriati al momento della entrata in vigore della legge, hanno tuttavia ancora pendente il contenzioso relativo alla indennità. E la non ragionevolezza della omissione si appalesa ancor più evidente se si considera che si tratta di soggetti, in favore dei quali al momento della espropriazione era prevista dalla legge la corresponsione di una somma pari al pieno valore venale del bene, e che invece - per effetto del combinato giuoco, da un lato, della già intervenuta espropriazione alla data di entrata in vigore della nuova legge e, dall'altro, della applicazione di questa anche ai giudizi pendenti - vengono contemporaneamente a subire la forte riduzione di oltre due terzi di quella somma ed a vedersi preclusa la possibilità di fruire, se lo vogliono, del non indifferente incremento collegato dalla nuova legge alla definizione negoziale della vicenda.

Deve poi tenersi conto che nel bilanciamento complessivo operato dal legislatore la speciale disciplina della cessione volontaria svolge anche un ruolo di contrappeso del (nuovo) meno favorevole criterio di determinazione dell'indennità di espropriazione. E pure se le ragioni esposte al paragrafo n. 6.3, che precede, consentono di ritenere che non di meno tale criterio è compatibile con il canone di adeguatezza dell'indennizzo desumibile dall'art. 42, comma 3, Cost., è vero che ad esso si affianca un criterio più vantaggioso (quello della semisomma piena) sol che l'espropriato (secondo la tradizionale terminologia del legislatore, ma - recte - l'espropriando) addivenga alla cessione del bene, oggetto del procedimento espropriativo.

Non a caso quando il legislatore ha adottato l'analogo criterio (della semisomma ridotta) per la determinazione dell'indennità di espropriazione nell'area metropolitana di Roma (art. 7, comma 1, legge n.396 del 1990) ha anche abbinato (al secondo comma) un criterio più favorevole in caso di cessione volontaria con la previsione dell'inapplicabilità della riduzione del 40%.

E la Corte (sent. n. 1022 del 1988) ha valorizzato questo nesso puntualizzandone l'aspetto funzionale; ha infatti affermato che quando si adotta un criterio risultante da una media <<la maggiorazione per la cessione volontaria da parte del proprietario ha una sua peculiare funzione nel senso che la spinta della valutazione verso valori più vicini a quelli reali contribuisce ad accelerare l'acquisizione del bene espropriando>>.

Orbene, pur potendo il nuovo meno favorevole criterio avere applicazione retroattiva (per quanto si dirà infra al paragrafo n. 9), non è però consentito scindere questo parallelismo per la contraddizione intrinseca (e quindi il difetto di ragionevolezza) che ne deriverebbe giacchè tra il vecchio più favorevole criterio del valore venale - applicabile (o, meglio, applicato) ai rapporti esauriti (o dove ci siano preclusioni processuali) - ed il nuovo meno favorevole criterio della semi somma ridotta ed alternativamente della semisomma piena in caso di cessione volontaria - applicabile ai procedimenti espropriativi in corso (oltre, come è ovvio, ai nuovi procedimenti espropriativi) - si collocherebbe di fatto un ulteriore criterio (quello esclusivamente della semisomma ridotta) più sfavorevole di entrambi, applicabile ad una residua fascia di espropriazioni: quelle, appunto, per le quali è intervenuto il decreto di esproprio, ma il rapporto non è ancora esaurito.

Quindi sulla linea di confine, che dovrebbe vedere la saldatura della nuova disciplina alla vecchia, c'è invece uno iato, una frattura, dove il bilanciamento operato dal legislatore ha un temporaneo e contingente irrigidimento in termini meno favorevoli per gli espropriati per poi risalire a quel livello (peraltro già fortemente restrittivo) che risponde alle valutazioni economico-politiche sottese alla norma censurata.

Questa frattura non può avere altra motivazione che quella tecnico-giuridica della impossibilità della cessione volontaria quando sia intervenuto il decreto di esproprio. Ma non è questa una ragione sufficiente a giustificare un trattamento così fortemente differenziato, tenuto conto della preminente finalità transattiva in ordine proprio alla determinazione dell'onere economico dell'acquisizione dell'area fabbricabile, quale sottesa alla norma censurata.

La circostanza che il decreto di esproprio sia stato già emesso avrebbe dovuto comportare non già l'esclusione, ma la riduzione della fattispecie agevolata; nel senso che - per le situazioni di diritto transitorio - in presenza di tale circostanza la fattispecie della cessione volontaria, connotata dal consenso dell'espropriando sia sul trasferimento dell'area, sia sul quantum spettantegli, ben può <<ridursi>> - senza alterare la sostanza del meccanismo transattivo - in una fattispecie più semplice connotata dalla attribuzione al soggetto già espropriato del diritto di accettare la indennità di espropriazione di cui al primo comma con esclusione della riduzione del 40%, ferma restando l'acquisizione, per ablazione, dell'area.

Nè potrebbe obiettarsi - come fa l'Avvocatura - che la facoltà di cessione volontaria già c'era nel regime precedente (legge n.865/71) e di essa gli espropriati non avevano inteso fruire. Infatti - pur potendo dubitarsi dell'esattezza del presupposto interpretativo da cui muove l'Avvocatura avendo questa Corte (sent. 1022 del 1988) affermato che la cessione volontaria ex art. 12 della legge n.865 del 1971, dopo gli interventi operati con le sentenze nn. 5/80 e 223/83 cit., non è più applicabile alle espropriazioni di immobili con destinazione edificatoria giacchè non è ipotizzabile una maggiorazione dell'indennizzo quando questo è pari al valore venale - è agevole comunque osservare che sono mutati i termini di raffronto giacchè al criterio del valore venale si è sostituito quello della semisomma ridotta.

La possibilità di riduzione della fattispecie assicura poi che la pronuncia additiva si innesta sulla norma censurata seguendo un binario obbligato. Si impone quindi una dichiarazione di parziale sua illegittimità nella parte in cui non prevede in favore dei soggetti già espropriati al momento della entrata in vigore della legge n. 359 del 1992, e nei confronti dei quali la indennità di espropriazione non sia ancora divenuta incontestabile, il diritto di accettare l'indennità di cui al primo comma con esclusione della riduzione del 40%.

7.4. Le altre censure che investono il secondo comma cit. riguardano - come già detto - la disciplina della cessione volontaria. Ma tali censure - come esattamente ha eccepito l'Avvocatura dello Stato - difettano di rilevanza perchè in nessuno dei giudizi a quibus si fa questione di cessione volontaria; nè potrebbe farsene perchè, essendo già intervenuto il provvedimento ablatorio, si è realizzato l'effetto traslativo onde non c'è più spazio per un trasferimento del medesimo bene su base consensuale. Sicchè, quand'anche le censure si rivelassero fondate ed imponessero una pronuncia demolitoria dell'istituto, nessuna conseguenza potrebbe derivarne nei giudizi a quibus.

Nè il difetto di rilevanza può dirsi emendato per effetto della pronuncia di incostituzionalità di cui al precedente paragrafo. Poichè, infatti, la possibilità di accettare l'indennità di espropriazione rappresenta un minus rispetto alla cessione volontaria, la mancanza di una piena sovrapposizione dell'una all'altra impone di tener distinti i due profili con la conseguenza che le censure che investono la disciplina della cessione volontaria possono riguardare soltanto fattispecie in cui di tale cessione volontaria si controverta e non anche quelle in cui - essendosi già realizzato l'effetto traslativo dell'area edificabile - si controverta unicamente della misura dell'indennità di espropriazione.

  1. Deve ora esaminarsi la censura che investe il comma quinto dell'articolo citato, che demanda ad un regolamento, da emanarsi con decreto del Ministero dei lavori pubblici, di definire i criteri ed i requisiti per la individuazione della edificabilità di fatto. Tale disposizione, secondo i giudici rimettenti, si pone in contrasto sia con l'art. 42, comma 2, Cost., per non avere il legislatore fissato i criteri direttivi cui deve con formarsi il potere esecutivo, così sostanzialmente violando la riserva di legge (se pur relativa) esistente in materia; sia con gli artt. 42, comma 3, e 24 Cost. per la mancata indicazione di un termine entro cui il regolamento deve essere emanato; sia infine con l'art. 117 Cost., per la ragione che la definizione dei criteri di edificabilità (rimessa alla regolamentazione ministeriale) rientrerebbe viceversa nella competenza legislativa della Regione, in materia di "attività costruttiva edilizia".

Con riferimento alla questione di costituzionalità sollevata dalla Corte d'appello di Bologna (che prospetta la vulnerazione degli artt. 42, commi 2 e 3, e 24, comma 1, Cost.) va preliminarmente esaminata l'eccezione di difetto di rilevanza, sollevata dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui dalla ordinanza risulterebbe trattarsi di terreno legalmente edificabile in forza dello strumento urbanistico impositivo del vincolo sicchè non verrebbe in rilievo la eventuale edificabilità di fatto.

La questione è in effetti irrilevante; non tanto per la ragione indicata dall'Avvocatura (giacchè non rileva lo strumento urbanistico impositivo del vincolo espropriativo, da cui bisogna prescindere nella valutazione della edificabilità, dovendosi invece fare riferimento al regime precedente), quanto perchè l'ordinanza nulla dice in ordine ad un'ipotetica edificabilità di fatto, in concreto sopravvenuta, che rappresenta l'indefettibile presupposto perchè possa avere ingresso la censura mossa dalla Corte d'appello di Bologna.

Quanto poi alla questione sollevata dalla Corte d'appello di Cagliari nessuna eccezione di irrilevanza è sollevata dall'Avvocatura ed in effetti dalla ordinanza risulta che si controverte proprio in materia di edificabilità' di fatto.

Con tale ordinanza la Corte rimettente ha denunziato la violazione dell'art.117 Cost. (parametro al quale è riconducibile anche il richiamo, che la parte costituita fa all'art. 3, lett. f, dello Statuto di autonomia della Sardegna).

La questione non è fondata perchè non si versa in materia urbanistica essendo la nozione di edificabilità di fatto (cui si riferisce la delega al Ministro) finalizzata soltanto al calcolo dell'indennità di espropriazione e non già ad incidere sull'assetto normativo posto dai vigenti strumenti urbanistici.

Il decreto ministeriale costituisce uno strumento meramente qualificatorio del terreno ai fini della indennità di espropriazione e non già conformativo ai fini urbanistici; esso deve intendersi diretto a consentire di considerare nel procedimento espropriativo (proprio al fine di evitare che il parametro di calcolo dell'indennità possa risultare astratto ove sganciato dalla situazione concreta) quella particolare <<posizione>> dell'area, già apprezzata dal libero mercato, che può conferire contenuto economico - in termini di valore venale - anche alla mera vocazione edificatoria dei terreni. Ciò quindi vale solo a rendere <<concreto>> il parametro di calcolo dell'indennità, ma non altera la disciplina urbanistica (nel senso che non rende edificabili aree che tali non siano alla stregua di quest'ultima) e quindi, meno che mai, può negativamente incidere sulle competenze regionali in materia.

  1. L'ultima censura investe la disposizione transitoria, di cui al comma sesto [e settimo] del predetto art. 5 bis, che prevede l'applicazione retroattiva della nuova normativa nei "procedimenti in corso": è sospettata la vulnerazione dell'art. 3 Cost. per la irragionevole e grave disparità di trattamento, che così si determina, tra gli espropriati che hanno accettato la indennità loro proposta, convenendo la cessione volontaria, o nei confronti dei quali la indennità sia divenuta non impugnabile o sia stata definita con sentenza passata in giudicato prima dell'entrata in vigore della legge di conversione, e gli altri soggetti "espropriati con lo stesso procedimento di espropriazione, le cui opposizioni alla stima, per vicissitudini giudiziarie non imputabili agli stessi opponenti, non siano ancora concluse con sentenza passata in giudicato e che si vedranno quindi applicare il nuovo criterio di determinazione dell'indennità, venendo così a percepire soltanto il 30% circa di quanto hanno percepito i primi". La disparità di trattamento è più in particolare denunziata tra i proprietari assoggettati allo stesso procedimento di espropriazione, per alcuni dei quali l'indennità è stata definita prima della entrata in vigore della nuova legge (e quindi alla stregua del ragguaglio al valore venale pieno), mentre per altri, con indennità non ancora definita per accidentalità procedimentali o processuali, diventa applicabile il nuovo criterio in base al quale essi vengono a percepire soltanto il 30% di quanto (a parità di valore) hanno percepito i primi.

Pertanto la questione non riguarda la possibilità o meno di cedere in conseguenza del non esservi o dell'esservi già stata la espropriazione (sopra esaminata al paragrafo n. 7.3); ma riguarda invece l'applicabilità, o meno, del nuovo criterio di determinazione della indennità secondo che l'indennità sia divenuta incontestabile prima della entrata in vigore della nuova legge ovvero a tale momento sia ancora sub iudice.

Nei termini così puntualizzati la questione non è fondata.

Infatti, come esattamente ha rilevato la Avvocatura dello Stato, si tratta di differenziazione dipendente dalla successione di leggi nel tempo.

Questa Corte (sentt. nn. 39 del 1993; n. 155 del 1990; 91, 123, 754 e 822 del 1988; 36 del 1985) ha più volte ribadito che il legislatore - salvo l'espresso limite previsto dall'art. 25 Cost. in materia penale - può, nell'introdurre una nuova disciplina, disporne la operatività anche per il passato prevedendone la efficacia retroattiva.

L'irretroattività, pur costituendo un principio del nostro ordinamento (art. 11 preleggi), non è elevato, fuori dalla materia penale, al rango di generale canone costituzionale (sent. n.155 del 1990) ed <<è rimessa alla valutazione del legislatore la scelta tra retroattività ed irretroattività in ordine ai fini che intende raggiungere, con il solo limite che non siano contraddetti principi e valori costituzionali>> (sent. 190 del 1988). Quindi è possibile una disciplina a carattere retroattivo che incida sfavorevolmente anche su posizioni di diritto soggettivo perfetto; è però necessario che non risultino violati specifici canoni costituzionali, primo tra tutti quello della ragionevolezza che ridonda in ingiustificata disparità di trattamento (art. 3 Cost.) sicchè la riconosciuta retroattività della disposizione non può <<trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti>> (sent. 822 del 1988).

Nella fattispecie, non vertendosi in materia penale, è in generale consentito al legislatore di adottare una nuova disciplina dell'indennità espropriativa con efficacia retroattiva non essendo in particolare vulnerato - per quanto sopra detto al paragrafo n. 6.3 - il canone dell'obbligo di indennizzo in caso di espropriazione (art. 42, comma 3, Cost.).

Nè tale retroattività confligge con il principio di ragionevolezza giacchè da tempo in materia, per effetto delle pronunce di incostituzionalità n.5 del 1980 e n.223 del 1983, si versava in una situazione di carenza normativa, colmata dalla giurisprudenza con il ricorso al risalente criterio dettato dall'art. 39 della legge generale del 1865, criterio che il legislatore già aveva inteso superare con la legge n.865 del 1971 e che non poteva non apparire datato giacchè questa Corte ha più volte affermato che la nozione di <<indennizzo>> di cui all'art. 42, comma 3, Cost. non coincide con quello di valore venale.

Ben poteva quindi il legislatore colmare , anche per il passato, tale risalente carenza normativa con l'attribuire efficacia retroattiva alla nuova disciplina dell'indennità espropriativa non costituendo limite invalicabile di tale sua facoltà di scelta l'aspettativa dei titolari di aree fabbricabili di vedersi liquidata la indennità espropriativa secondo un criterio (quello del valore venale) per essi più favorevole di quello con cui lo stesso legislatore ha ritenuto, nell'attuale momento, di realizzare il giusto bilanciamento tra interesse pubblico ed interesse privato, senza incorrere, come si è visto, nelle denunziate violazioni di principi costituzionali.

Viceversa, una volta che la indennità sia divenuta incontestabile (vuoi perchè si sia formato un giudicato, vuoi perchè si siano determinate delle preclusioni), il relativo rapporto è esaurito e quindi è conforme ai principi che sfugga alla incidenza della nuova disciplina.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

  1. a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 bis, comma 2, del decreto legge 11 luglio 1992 n.333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n.359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) nella parte in cui non prevede in favore dei soggetti già espropriati al momento della entrata in vigore della legge n. 359 del 1992, e nei confronti dei quali la indennità di espropriazione non sia ancora divenuta incontestabile, il diritto di accettare l'indennità di cui al primo comma con esclusione della riduzione del 40%;
  2. b) dichiara inammissibili le ulteriori questioni di costituzionalità dell'art. 5 bis, comma 2, del decreto legge 11 luglio 1992 n.333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n.359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), sollevate, con riferimento agli artt. 3, 24, 42, comma 3, e 113 della Costituzione, dalle Corti d'appello di Torino, Reggio Calabria, Bologna, Palermo e Cagliari con le ordinanze indicate in epigrafe;
  3. c) dichiara inammissibili le questioni di costituzionalità dell'art. 5 bis del decreto legge 11 luglio 1992 n. 333; dell'art. 1 della legge di conversione 8 agosto 1992 n.359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) e dell'art. 15 n. 5 della legge 23 agosto 1988 n.400 (Disciplina dell'attività di Governo ed ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri) sollevate, con riferimento agli artt. 71 e 72 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Cagliari con l'ordinanza indicata in epigrafe;
  4. d) dichiara inammissibili le questioni di costituzionalità dell'art. 5 bis, comma 5, del decreto legge 11 luglio 1992 n.333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n.359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), sollevate, con riferimento agli artt.24, comma 1, e 42, commi 2 e 3, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Bologna con l'ordinanza indicata in epigrafe;
  5. e) dichiara non fondate le questioni di costituzionalità dell'art. 5 bis, commi 1, 5, e 6, del decreto legge 11 luglio 1992 n.333, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992 n.359 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), sollevate, con riferimento agli artt.3, 42, comma 3, 53 e 117 Cost., dalle Corti d'appello di Cagliari, Reggio Calabria, Torino, Bologna e Palermo con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/06/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Renato GRANATA, Redattore

Depositata in cancelleria il 16/06/93.