Sentenza n. 153 del 1994

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SENTENZA N. 153

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE giudice

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 26 aprile 1993 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto da Manino Anna ed altri contro la U.S.L. RM/35, iscritta al n.658 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1993.

Visto l'atto di costituzione di Manino Anna ed altri, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 22 febbraio 1994 il Giudice relatore Francesco Guizzi;

Uditi l'avv. Giovanni Di Gioia per Manino Anna ed altri e l'Avvocato dello Stato Antonino Freni per il Presidente del Consiglio dei ministri

 

Ritenuto in fatto

 

1. Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 5, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), che modifica l'art.1 della legge 24 maggio 1970, n. 336 (Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed enti pubblici ex combattenti ed assimilati).

 

La questione trae origine dal ricorso al TAR avanzato da alcuni dipendenti di una USL per veder affermato il loro diritto a fruire del beneficio dei due anni di anzianità convenzionale attribuito dal predetto art. 1 della legge n.336 e, conseguentemente, veder dichiarato il diritto al ricalcolo dell'anzianità convenzionale sulla base di successivi accordi collettivi di settore, essendo circoscritto soltanto all'ipotesi di modificazioni della situazione di carriera il divieto di applicazione dei benefici combattentistici, per non più di una volta, stabilito dall'art. 3 della legge 9 ottobre 1971, n. 824 (Norme di attuazione, modificazione ed integrazione della legge 24 maggio 1970, n. 336).

 

L'art. 4, comma 5, della legge n. 498 del 1992 - entrata in vigore successivamente alla proposizione del ricorso - avrebbe innovato, e non interpretato, disponendo il riassorbimento degli eventuali maggiori trattamenti economici già in godimento. Onde, la questione di costituzionalità sol levata con l'ordinanza in epigrafe.

 

Ad avviso del giudice a quo il ricorso andrebbe accolto in ossequio a una consolidata giurisprudenza amministrativa, secondo cui l'anzianità di servizio attribuita agli ex combattenti non differirebbe da quella derivante dal servizio effettivamente prestato. Ma esso non può esserlo, poichè all'orientamento giurisprudenziale dominante osta, appunto, l'art. 4, comma 5, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, con cui il legislatore ha stabilito che, d'ora in poi, non si dovrà più procedere al computo di dette maggiori anzianità quando si passi a una successiva ricostruzione della retribuzione già spettante al pubblico dipendente. Tale norma, tuttavia, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, non diversamente da quanto deciso da questa Corte con la sentenza n. 39 del 1993 in ordine alla ingiustificata disparità di trattamento fra pubblici dipendenti che si trovavano nella condizione di ex combattenti e categorie equiparate.

 

Disparità che, nel caso in esame, non potrebbe dirsi sanata dal riassorbimento dei maggiori trattamenti in godimento, atteso che la situazione di eguaglianza potrebbe ristabilirsi, non senza incertezze, in un arco di tempo necessariamente ampio e tale, quindi, da perpetuarla di fatto.

 

2. Si sono costituite le parti private, chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, che sarebbe stata preceduta, a loro giudizio, da una serie di tentativi posti in essere dal Governo mediante decreti-legge, tutti non convertiti, volti a forzare il diritto vivente dei Tribunali amministrativi regionali, del Consiglio di Stato e, da ultimo, della Corte dei conti.

 

Sulla interpretazione autentica, le parti private hanno richiamato la giurisprudenza costituzionale (sentt. n. 39 del 1993; n. 455 del 1992; n.380 e 155 del 1990) che ne delimita il concetto, al di là delle enunciazioni formali del legislatore, con la conseguenza che il legislatore non potrebbe alterare il principio di separazione dei poteri attraverso norme innovative, dissimulate come interpretative.

 

Così realizzando uno < sviamento strumentale della funzione legislativa> non conforme al sistema costituzionale (sent. n.187 del 1981): compete al giudice d'interpretare la legge, mentre tocca al legislatore - ai sensi dell'art. 11 delle preleggi - disporre per l'avvenire.

 

In applicazione di tali principi, questa Corte ha dichiarato, con la sentenza n. 39 del 1993, l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, < nella parte in cui è applicabile anche ai rapporti sorti precedentemente alla data della sua entrata in vigore o comunque pendenti alla stessa data>.

 

Argomentando sugli artt. 3 e 36, invocati nell'ordinanza di rimessione, i ricorrenti hanno altresì prospettato un contrasto anche con gli artt. 52, 101, 103 e 104 della Costituzione.

 

3. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità o l'infondatezza.

 

L'Avvocatura ha preliminarmente rilevato l'esistenza di una divergenza, quanto all'interpretazione della norma, fra i giudici amministrativi e la Corte dei conti, la quale - almeno sino al 1988 - avrebbe sostenuto che il riconoscimento dell'anzianità non poteva essere in alcun modo reiterato.

 

Sì che, in presenza di tale divergenza, la norma si configurerebbe come interpretativa e non come innovativa con effetto retroattivo. Il che induce a escludere il denunciato contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, giacchè non vi sarebbe alcuna violazione sia del canone della sufficienza del la retribuzione sia di quello della sua proporzione alle < qualità-quantità> del lavoro prestato. Nè sussisterebbe disparità di trattamento, avendo il legislatore previsto un meccanismo, ragionevole, di graduale riassorbimento (anche per i pensionati) grazie al meccanismo della perequazione.

 

4. In una memoria presentata in prossimità dell'udienza, i ricorrenti hanno replicato sottolineando la univocità della giurisprudenza amministrativa, sostanzialmente ammessa - a loro avviso - dall'Avvocatura dello Stato allorchè essa prende atto dell'inversione di tendenza operata dalla Corte dei conti nel 1988. E - ribadendo la violazione dell'art. 11 delle preleggi nonchè dell'art. 73 della Costituzione - negano la natura interpretativa dell'art. 4, comma 5, della legge 23 dicembre 1992, n. 498, in quanto intervenuta dopo oltre vent'anni dalla emanazione della norma interpretata, e insistono nel denunciare il vero scopo del legislatore: che è quello di innovare, abrogando con effetto retroattivo l'art. 1 della legge 24 maggio 1970, n. 336, nel dispregio di fondamentali principi costituzionali e senza che sussista una valida ragione giustificativa. Tale, infatti, non sarebbe la contrazione della spesa pubblica addotta dalla già citata sentenza n. 39 del 1993.

 

5. In una successiva memoria l'Avvocatura generale dello Stato ha sottolineato, invece, come i molteplici tentativi effettuati dal Governo con lo strumento della decretazione d'urgenza (decreti- legge 24 marzo 1989, n. 102; 26 maggio 1989, n. 191; 26 luglio 1989, n. 260; 23 settembre 1989, n.326) testimonierebbero la necessità di chiarire la portata e i limiti applicativi della norma contenuta nell'art. 1 della legge n. 336 del 1970; e ha rilevato come non si possa seriamente porre in discussione la ragione giustificatrice del contenimento della spesa pubblica, quasi che le < ragioni> della finanza statale non siano meritevoli di tutela.

 

Per quanto riguarda la pretesa invasione del campo riservato al giudice, appare in tutta evidenza la confusione in cui incorrono le parti private circa il potere del legislatore e quello del giudice in materia di interpretazione: l'uno incide sul piano delle fonti, mentre l'altro - come insegna questa Corte con la sentenza n. 339 del 1993 - riguarda l'applicazione della norma. Circa l'asserita disparità di trattamento, l'Avvocatura ribadisce, infine, che il meccanismo del graduale riassorbimento asseconda una linea di ragionevolezza già seguita fra l'altro dal legislatore con l'art. 1, comma 6, della legge 8 agosto 1991, n. 265.

 

Considerato in diritto

 

1. Viene all'esame della Corte, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, in riferimento agli artt.3 e 36 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe, la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 4, comma 5, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), la quale stabilisce che il computo delle maggiori anzianità previste per gli ex combattenti (e assimilati) dall'art. 1 della legge 24 maggio 1970, n. 336 (Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed enti pubblici ex combattenti ed assimilati), non possa avvenire in sede di successiva ricostruzione economica dei trattamenti retributivi ad opera e per effetto di disposizioni di carattere generale.

 

Due, sostanzialmente, le doglianze del giudice rimettente:

 

- la norma non avrebbe natura interpretativa di quella contenuta nell'art.1 della legge n. 336 del 1970, ma natura novativa e, in contrasto con la consolidata giurisprudenza amministrativa e contabile, avrebbe effetti retroattivi;

 

- essa creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento fra quanti hanno già ottenuto l'applicazione del beneficio sulla base di quella consolidata interpretazione giurisprudenziale e quanti non l'avrebbero ancora ottenuta.

 

Nè il previsto meccanismo del riassorbimento dei maggiori trattamenti in godimento sarebbe razionale, posto che il ristabilimento della situazione di eguaglianza potrebbe ottenersi (non senza incertezze) solo in un arco di tempo ampio e consistente, tale da perpetuare di fatto la disparità di trattamento tra dipendenti che si trovano nella medesima condizione di ex combattenti (ed assimilati).

 

2. La questione non è fondata.

 

Questa Corte ha più volte ribadito la legittimità costituzionale delle norme legislative aventi efficacia retroattiva, dal momento che il principio di irretroattività della legge - pur riconosciuto come generale dall'art. 11, primo comma, delle disposizioni preliminari del codice civile - non ha ottenuto in sede costituzionale (salvo quanto espresso nell'art. 25 della Costituzione con riferimento alla materia penale) una garanzia specifica (cfr. da ultimo sent.n. 6 del 1994).

 

Unico limite alla possibilità di adottare norme aventi efficacia retroattiva è una loro adeguata e ragionevole giustificazione, tale da evitare che la disposizione retroattiva possa < trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti> o possa contrastare < con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti> (sentt. nn. 6 del 1994, 822 del 1988 e 349 del 1985). E ciò a prescindere dal fatto che, nella specie, il contrasto interpretativo sulla norma era durato a lungo prima che si consolidasse l'orientamento giurisprudenziale che il legislatore ha inteso rimuovere. Sì che, in questa sede, è di indubbia importanza la verifica della ragionevolezza della norma impugnata.

 

3. L'art. 1 della legge 24 maggio 1970, n. 336, prevedeva per i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, ex combattenti e assimilati, la possibilità di < chiedere una sola volta nella carriera di appartenenza> la valutazione di due anni o, se più favorevole, il computo della campagne di guerra o del periodo di prigionia (o di internamento, ecc.), ai fini < dell'attribuzione degli aumenti periodici e del conferimento della successiva classe di stipendio, paga o retribuzione>.

 

La legge 9 ottobre 1971, n. 824, nel dettare norme di attuazione, modificazione e integrazione, dispose che i benefici di cui agli artt.1, 2 e 3 della menzionata legge n.336 del 1970, fossero cumulabili tra di loro, e che ciascun beneficio potesse essere goduto una sola volta (art.3, terzo comma). La giurisprudenza, amministrativa e conta bile, non senza oscillazioni e ripensamenti, ha sintetizzato un indirizzo estensivo, la prima, ed un indirizzo restrittivo, la seconda. Da un lato, i giudici amministrativi, per i quali l'anzianità attribuita ai sensi del citato art. 1 della legge n. 336 del 1970, andava assimilata, per fictio iuris, a quella maturata con il servizio effettivo e, quindi, valutata ogni qualvolta venissero attribuiti miglioramenti economici, anche in ragione di una qualifica o livello superiore.

 

Dall'altro, la Corte dei conti, per la quale era inammissibile la reiterazione del beneficio attribuito dall'art. 1 della medesima legge, che andava fatto valere solo con riferimento a una qualifica o livello retributivo determinati.

 

Il contrasto, superato solo nel corso del 1988 con la prevalenza dell'indirizzo estensivo anche nell'ambito della giurisprudenza contabile, ha indotto il legislatore a intervenire fin dal marzo 1989 con il citato decreto - legge n. 102. E la legge 23 dicembre 1992, n. 498, ha risolto la questione con la norma impugnata davanti a questa Corte.

 

4. La norma non viola (nè offende) il parametro di cui all'art. 36 della Costituzione, poichè non comporta lesioni di sorta al diritto del lavoratore alla < retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro>. Che, anzi, eliminando la strutturale permanenza del beneficio, ha in un qualche modo ripristinato il pari trattamento dei lavoratori in rapporto al lavoro effettivamente prestato. Nè contrasta con il principio di ragionevolezza sotto il duplice profilo indicato nell'ordinanza di rimessione.

 

Se è vero che l'art. 1 della legge n. 336 del 1970 ha concesso un beneficio economico ad alcune categorie di lavoratori meritevoli per i servigi (direttamente o indirettamente) resi alla patria, è pur vero che la norma impugnata non ha inteso revocarlo, ma soltanto riportarlo allo spirito originario sia della legge istitutiva del 1970 sia di quella attuativa dell'anno seguente.

 

Del resto, per i diritti di natura economica connessi al rapporto di pubblico impiego, non è dato desumere < una particolare protezione contro l'eventualità di norme retroattive>, salvo il limite del principio generale di ragionevolezza (sent. n. 6 del 1994). Nè è irrazionale il meccanismo del riassorbimento dei trattamenti più favorevoli già erogati, atteso che, in considerazione della modesta entità delle somme e dell'esiguo numero degli interessati (dati ragionevolmente ricavabili in considerazione dell'età degli appartenenti alle categorie degli ex combattenti), la tendenziale omogeneizzazione dei trattamenti, quand'anche non pervenisse a un perfetto livellamento, costituirebbe, infatti, disparità davvero trascurabile e perciò non apprezzabile in questa sede.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 5, della legge 23 dicembre 1992, n. 498 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14/04/94.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Francesco GUIZZI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 21/04/94.