SENTENZA N. 1
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 774, 775 e 776 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso dalla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale centrale d’appello nel procedimento vertente tra Lascala Renata e l’I.N.P.D.A.P. con ordinanza del 16 novembre 2009 iscritta al n. 72 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di costituzione dell’I.N.P.D.A.P.;
udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;
udito l’avvocato Filippo Mangiapane per l’I.N.P.D.A.P.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza del 16 novembre 2009, la Corte dei conti – Sezione giurisdizionale centrale d’appello, ha sollevato, in riferimento agli articoli 111 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 774, 775 e 776, della legge 29 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), «nella parte in cui – interpretando l’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, e abrogando il comma 5 dell’art. 15 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 – fanno salvi, con riassorbimento sui futuri miglioramenti, soltanto i trattamenti pensionistici più favorevoli già definiti, e non anche quelli in corso di definizione, in sede di contenzioso».
1.1. - Secondo quanto evidenziato dal rimettente, Lascala Renata, ricorrente nel giudizio a quo, è titolare di pensione di reversibilità a decorrere dal 1° febbraio 2003, quale coniuge superstite di Caruso Ugo, pensionato pubblico dal 1° dicembre 1991, ed alla medesima è stata liquidata la pensione di reversibilità nella misura del sessanta per cento unitamente all’indennità integrativa speciale (I.I.S.) nella stessa misura.
La pensionata ha, quindi, proposto ricorso dinanzi alla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria al fine di ottenere il riconoscimento del diritto alla liquidazione dell’indennità integrativa speciale (I.I.S.) in misura intera, «come assegno accessorio da corrispondersi separatamente dalla pensione base», secondo l’interpretazione dell’art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), data dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con la pronuncia di massima n. 8/QM del 17 aprile 2002. Il giudice di primo grado ha, invece, respinto il ricorso, applicando l’art. 1, comma 774, della legge n. 296 del 2006, «che ha fornito una interpretazione autentica della normativa opposta a quella delle Sezioni riunite».
Il giudice a quo è, dunque, chiamato a decidere sull’appello proposto dalla pensionata avverso la anzidetta negativa decisione; appello con il quale è stata eccepita l’incostituzionalità dei commi 774, 775 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006.
1.2. - Ciò evidenziato, il rimettente rammenta quale sia il quadro normativo e giurisprudenziale in cui viene ad inscriversi la disciplina oggetto del dubbio di costituzionalità, rilevando che l’art. 15 della legge n. 724 del 1994, al comma 3, ha stabilito, dal 1° gennaio 1995 ed in attesa «dell’armonizzazione delle basi contributive e pensionabili previste dalle diverse gestioni obbligatorie dei settori pubblico e privato», che le pensioni delle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria vengono determinate «sulla base degli elementi retributivi assoggettati a contribuzione, ivi compresa l’indennità integrativa speciale, ovvero l’indennità di contingenza, ovvero l’assegno per il costo della vita spettante»; aggiungendo, al comma 4, che la pensione così determinata è «reversibile, con riferimento alle categorie di superstiti aventi diritto, in base all’aliquota in vigore nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti». Precisa, però, il rimettente che il comma 5 dello stesso art. 15 ha previsto che «le disposizioni relative alla corresponsione della indennità integrativa speciale sui trattamenti di pensione previste dall’art. 2 della legge 27 maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni ed integrazioni, sono applicabili limitatamente alle pensioni dirette liquidate fino al 31 dicembre 1994 e alle pensioni di reversibilità ad esse riferite».
A sua volta – argomenta ancora il giudice a quo – la legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), al comma 41 dell’art. 1, ha disposto l’estensione a tutte le forme esclusive o sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria (A.G.O.) della disciplina del trattamento pensionistico prevista, per l’appunto, nel regime di A.G.O., facendo salvi i trattamenti previdenziali più favorevoli in godimento alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 335, «con riassorbimento sui futuri miglioramenti».
Il rimettente ricorda che una «giurisprudenza minoritaria ha interpretato questa disposizione, in quanto contenuta in una legge di riforma organica del sistema pensionistico come abrogativa dell’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, che la giurisprudenza prevalente, al contrario, ha ritenuto ancora vigente, dato il suo carattere di norma transitoria e, come tale, non confliggente con la disciplina generale». La medesima prevalente giurisprudenza ha, peraltro, affermato che l’indennità integrativa speciale in misura intera (secondo la legge 27 maggio 1959, n. 324, recante «Miglioramenti economici al personale statale in attività ed in quiescenza») trovava applicazione alle pensioni dirette liquidate entro il 31 dicembre 1994, «pur se le corrispondenti pensioni di riversibilità siano liquidate dopo tale data».
In tale quadro, precisa il giudice a quo, le Sezioni riunite della Corte dei conti, alle quali era stata devoluta questione di massima, «con sentenza n. 8/QM del 17 aprile 2002, hanno abbracciato la tesi maggioritaria, dichiarando che “in ipotesi di decessi di pensionato, titolare di trattamento di riposo, liquidato prima del 31 dicembre 1994, il consequenziale trattamento di reversibilità deve essere in ogni caso liquidato secondo le norme di cui all'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, indipendentemente dalla data della morte del dante causa. L’art. 1 comma 41 della legge 8 agosto 1995, n. 335 non ha effetto abrogativo dell’art. 15, comma 5 della legge 23 novembre 1994, n. 724”».
Nel delineato contesto, prosegue il rimettente, è intervenuto il legislatore con la disciplina denunciata, prevedendo, al comma 774, che l’estensione di disciplina operata a suo tempo dall’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, «si interpreta nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995. n. 335, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità». Si è, poi, stabilito, al comma 775, la salvezza dei trattamenti più favorevoli «in godimento alla data di entrata in vigore della presente legge, già definiti in sede di contenzioso, con riassorbimento sui futuri miglioramenti pensionistici». Si è, infine, provveduto, al comma 776, all’abrogazione dell’art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724.
Ad avviso del rimettente, la normativa del 2006, «presentandosi espressamente come interpretazione autentica, e quindi con efficacia retroattiva, dell’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335», avrebbe impedito al giudice delle pensioni di seguire l’interpretazione fornita dalle Sezioni riunite del 2002; peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza n. 74 del 2008, ha dichiarato non fondati i dubbi di costituzionalità prospettati sui citati commi 774-776, «ritenendo la ragionevolezza delle norme in questione, che non potevano non tener conto “anche delle esigenze di bilancio”».
Con ciò, prosegue ancora il giudice a quo, la «giurisprudenza prevalente della Corte dei conti ha di conseguenza ritenuto superata e perciò ha disatteso la pronuncia di massima delle Sezioni riunite, proprio in applicazione all’art. 1, commi 774-776, della legge n. 296 del 2006». Tuttavia, a seguito dell’articolo 42 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), integrativo dell’articolo 1, comma 7, del d.l. 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, recante disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), la sezione giurisdizionale, centrale o regionale, che ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni riunire, deve rimettere «a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del giudizio».
Secondo il rimettente, detta disposizione imporrebbe «una maggiore cautela» nel considerare la sentenza delle Sezioni riunite n. 8/QM/2002 «effettivamente travolta» dalla disciplina interpretativa denunciata, così da suggerire «di accertare con maggior rigore se detta normativa resista alle censure di illegittimità costituzionale rivoltele dall’appellante». Difatti, ove la Corte costituzionale dovesse dichiarare l’incostituzionalità delle norme censurate, la predetta sentenza delle Sezioni riunite «rivivrebbe, dotata della novella efficacia attribuitale dall'art. 42 della legge n. 69 del 2009, e questo giudice non potrebbe che conformarsi ad essa o rimettere la decisione alle stesse Sezioni riunite»; di qui, «la sicura rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale».
1.3. - Ciò premesso, il giudice a quo sostiene che i profili di incostituzionalità della disciplina recata dai commi 774-776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, prospettati dalla parte appellante in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 36 e 28 Cost., sarebbero privi di consistenza e, comunque, in parte già scrutinati nel senso della non fondatezza dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 74 del 2008.
Diversamente dovrebbe, invece, opinarsi, ad avviso del rimettente, in relazione all’eccezione di legittimità costituzionale che la stessa appellante, richiamando anche la sentenza della Corte EDU 14 febbraio 2006 (Lecarpentier v. Francia), ha prospettato con riferimento agli artt. 117 e 111 Cost., giacché le norme denunciate non rispetterebbero, nel primo caso, «i vincoli internazionali gravanti sullo Stato in forza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e più specificamente il principio di preminenza del diritto evincibile dal Preambolo CEDU e l’art. 1 del Protocollo n. 1 della CEDU in tema di diritto di proprietà»; mentre, nel secondo caso, contrasterebbero con il principio di “equo processo”, posto che la relativa disciplina opererebbe «una palese ingerenza del potere legislativo sul funzionamento del potere giudiziario, vietato dalla CEDU».
Il rimettente reputa non manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità prospettati dalla parte appellante osservando che il legislatore, con i denunciati commi 774-776, è intervenuto sul “diritto vivente” costituito dalla pronuncia delle Sezioni riunite n. 8/QM/2002, introducendo «una normativa diversa ed opposta», alla quale ha espressamente attribuito efficacia retroattiva, qualificandola come di interpretazione autentica. La retroattività della disciplina - argomenta il giudice a quo - «di per sé non sarebbe anticostituzionale», ma potrebbe «diventarlo indirettamente, per via del contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.», andando così a confliggere con l’art. 6, par. l, della CEDU, sottoscritta dall’Italia il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).
1.3.1. - A tal riguardo, il rimettente sostiene che, in base all’interpretazione della Corte di Strasburgo, nel contenuto dell’art. 6 citato «rientra il divieto per lo Stato contraente, che sia parte in un giudizio, di legiferare nella materia oggetto di giudizio in corso ingerendosi così nell’amministrazione della giustizia». E, secondo quanto precisato dalla Corte di cassazione, Sezione lavoro, con l’ordinanza n. 22260 del 4 settembre 2008 (richiamando la sentenza della Corte di Strasburgo del 21 giugno 2007, in causa n. 12106/03 fra Scanner de l’Ouest e altri contro Stato francese), per configurare detta ingerenza è sufficiente che lo Stato, parte del giudizio, «possa conseguire, dall’applicazione della nuova normativa, la positiva definizione della controversia in suo favore», come, del resto, verrebbe ad accadere nel giudizio principale per effetto delle norme denunciate.
Inoltre, il giudice a quo esclude che nel procedimento nel quale è chiamato a decidere, avente ad oggetto materia pensionistica, «parte in giudizio sia l’ente previdenziale e non lo Stato legislatore», giacché in tal modo si vanificherebbe l’interpretazione fornita dalla Corte EDU non potendo quasi mai ravvisarsi la fattispecie da essa «stigmatizzata». Sarebbe, invece, «conforme a ragionevolezza» reputare – prosegue il rimettente – che la fattispecie anzidetta «si verifichi ogni volta che vengano in questione pubbliche risorse, e la nuova normativa abbia l’effetto di salvaguardare tali risorse in danno della privata controparte».
1.3.2. - Il rimettente ritiene, altresì, di sollevare la questione di costituzionalità anche in riferimento all’art. 111 Cost., sostanzialmente corrispondendo al “giusto processo”, di cui a tale norma, l’“equo processo” di cui all’art. 6 della CEDU.
Non potrebbe, infatti, considerarsi “giusto” «un processo nel corso del quale una delle parti è arbitra di “cambiare le carte in tavola” e i parametri normativi del giudizio, travolgendo le aspettative della controparte, che tale giudizio ha promosso sulla base di norme e di orientamenti giurisprudenziali diversi». Così operando, «lo Stato – considerato unitamente nei suoi Poteri – cessa di essere giudice terzo e imparziale».
In definitiva, secondo la Corte dei conti rimettente, non sarebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 774-776 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007, «i quali, nell’imporre una interpretazione del sistema che non può che portare a una decisione di siffatte vertenze favorevole all’erario pubblico e sfavorevole al pensionato pretendendo che tale interpretazione abbia efficacia nei procedimenti giudiziari in corso, sembrano violare l’art. 111 Cost., che postula il giusto processo, nonché l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e di converso l’art. 117 Cost., a norma del quale l’attività legislativa trova un limite nella necessità del rispetto degli obblighi internazionali».
Il giudice a quo esclude che possa addivenirsi ad una lettura costituzionalmente orientata della disciplina denunciata, «resa impossibile dal chiaro e inequivoco dettato del comma 775»; esclude, infine, che la medesima disciplina possa essere “disapplicata”, non essendo le norme della CEDU «ancora “comunitarizzate”» e rimanendo «pertanto mere norme internazionali, prive di efficacia diretta nell’ordinamento italiano».
2. - Si è costituito l’INPDAP, parte appellata nel giudizio principale, concludendo per l’inammissibilità della questione o, in subordine, per una declaratoria di non fondatezza.
2.1. - L’Istituto, nel delineare l’evoluzione normativa e giurisprudenziale interessante lo specifico settore, rammenta, in primo luogo, che in ordine alla portata ed agli effetti dell’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 sulla previgente disciplina recata dall’art. 15 della legge n. 724 del 1994 e, segnatamente, dal relativo comma 5, si contrapponevano due interpretazioni, avendo poi le Sezioni riunite della Corte dei conti, con la sentenza n. 8/QM/02, seguito l’indirizzo maggioritario, così da negare l’abrogazione implicita del detto comma dell’art. 15 della legge n. 724 del 1994 da parte del comma 41 dell’art. 1 della legge n. 335 del 1995. La parte costituita sostiene, tuttavia, che un tale arresto giurisprudenziale non si presentava consonante con gli orientamenti di massima della giurisprudenza costituzionale e di quella ordinaria in tema di affidamento nella certezza giuridica e sulla natura della pensione di reversibilità, con la conseguenza che «l’interpretazione delle Sezioni Riunite del Giudice contabile non poteva considerarsi risolutiva». Di qui, per l’appunto, l’intervento legislativo del 2006, di chiarificazione e sistemazione organica della materia, dovendo pertanto ascriversi alle norme denunciate natura effettivamente interpretativa; norme che, del resto, hanno superato il vaglio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost., a seguito della sentenza n. 74 del 2008, di non fondatezza.
2.2. - Ciò premesso, l’INPDAP argomenta, quindi, sull’inammissibilità della questione per contraddittorietà della motivazione in ordine alla rilevanza, avendo il rimettente fatto riferimento alla necessità, derivante dall’art. 42 della legge n. 69 del 2009, di «conformarsi al dictum dell’organo nomofilattico del Giudice delle pensioni», rappresentato dalla sentenza delle Sezioni riunite n. 8/QM/ 2002, pur riconoscendo che le norme denunciate, emanate nel 2006, hanno già superato il vaglio di costituzionalità.
Semmai, soggiunge l’Istituto, il giudice a quo avrebbe dovuto rimettere nuovamente la decisione sulla questione di massima alle Sezioni riunite e non già sollevare la questione per ottenere l’avallo di una determinata interpretazione della disciplina censurata.
2.3. - Inoltre, ad avviso della parte costituita, la questione sarebbe inammissibile, o comunque infondata, riproponendo, sostanzialmente, profili su cui la Corte costituzionale si è già pronunziata con la citata sentenza n. 74 del 2008 e, sebbene avuto riguardo ad altra normativa di interpretazione autentica, con la sentenza n. 311 del 2009, in riferimento agli artt. 111 e 117 Cost. ed alla CEDU.
Proprio con quest’ultima pronuncia, avente ad oggetto l’art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006) – nella specie, concernente la regolamentazione del personale A.T.A. – si è riconosciuto, ad avviso dell’INPDAP, che l’emanazione di norme interpretative, anche in corso di giudizio, non si pone necessariamente in contrasto con la normativa della CEDU, avendo la stessa Corte di Strasburgo escluso la violazione dell’art. 6, «qualora, oltre a motivi cogenti di interesse generale, il Legislatore debba ristabilire l’originario intento della norma interpretata, nonché correggere un’imperfezione tecnica della legge interpretata».
Di qui, si argomenta diffusamente nella memoria, la non fondatezza, anche manifesta, della questione prospettata dal rimettente, posto che il legislatore del 2006, attenendosi ad “imperiosi motivi di interesse generale”: a) «si è proposto di definire ed armonizzare il complesso quadro normativo in tema di trattamento di quiescenza spettante ai superstiti, eliminando le precedenti differenze esistenti tra il comparto pubblico e quello privato»; b) «ha inteso garantire una generale perequazione dell’importo spettante a titolo di indennità integrativa speciale, ricomprendendola all’interno del complessivo trattamento di quiescenza»; c) «non ha pregiudicato i diritti acquisiti in modo definitivo, proprio perché ha inciso, con la norma interpretativa, solamente sulle questioni ancora pendenti ed accogliendo un indirizzo giurisprudenziale in precedenza elaborato»; d) «ha risolto una imperfezione tecnica, raccordando la normativa transitoria, recata dall’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, con la sopravvenuta disciplina di ampia riforma pensionistica, e segnatamente con quanto da essa disposto all’art. 1, comma 41»; e) «non ha pregiudicato lo svolgimento di un processo equo così come può evincersi dalla circostanza che in detta materia la questione è stata devoluta» alla stessa Corte costituzionale.
2.3.1. - L’INPDAP evidenzia altresì che la disciplina denunciata, riguardante una materia, come quella previdenziale, incidente in modo particolare sugli equilibri di bilancio, avrebbe assunto una funzione perequativa e «non necessariamente peggiorativa» del trattamento pensionistico degli interessati, posto che l’adesione al dictum recato dalla sentenza delle Sezioni riunite del 2002 aveva determinato, in un consistente filone giurisprudenziale, il riconoscimento dell’I.I.S. in forma separata ed in misura intera, unitamente però alla liquidazione della pensione di reversibilità nella percentuale del 50% (spettante ai pensionati del settore pubblico) e non già del 60% prevista per il settore privato, così da rendersi, in talune ipotesi (quelle in cui l’importo della sola voce pensione risultava superiore all’importo dell’indennità integrativa speciale), pregiudizievole per il pensionato.
Peraltro, soggiunge l’Istituto, si erano formate anche prassi giurisprudenziali, non collimanti con il sistema normativo, per cui l’indennità integrativa speciale veniva liquidata per intero e la pensione di reversibilità nella misura del 60%, ovvero la stessa indennità veniva conglobata per intero nella pensione di reversibilità.
In tale contesto, sostiene la parte costituita, l’intervento legislativo censurato «è stato, dunque, non solo opportuno ma anche necessario, sia per consentire la compiuta applicazione dei principi di riforma economico-sociale dettati già nel 1995, sia per ristabilire certezza del diritto».
Considerato in diritto
1. - La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale centrale d’appello, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei commi 774, 775 e 776 dell’articolo 1 della legge 29 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) «nella parte in cui – interpretando l’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nel senso che per le pensioni di reversibilità sorte decorrere dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, e abrogando il comma 5 dell’art. 15 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 – fanno salvi, con riassorbimento sui futuri miglioramenti, soltanto i trattamenti pensionistici più favorevoli già definiti, e non anche quelli in corso di definizione, in sede di contenzioso».
Ad avviso del giudice rimettente, le norme censurate violerebbero gli artticoli 111 e 117 della Costituzione, giacché, «nell’imporre una interpretazione del sistema che non può che portare a una decisione di siffatte vertenze favorevole all’erario pubblico e sfavorevole al pensionato pretendendo che tale interpretazione abbia efficacia nei procedimenti giudiziari in corso», verrebbero a porsi in contrasto con il principio del “giusto processo”, nonché «con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e di converso (con) l’art. 117 Cost., a norma del quale l’attività legislativa trova un limite nella necessità del rispetto degli obblighi internazionali».
2. - In via preliminare, è da respingere l’eccezione di inammissibilità avanzata dell’INPDAP in ragione della asserita contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza di rimessione quanto alla rilevanza della questione, avendo il giudice a quo fatto riferimento alla necessità, derivante dall’art. 42 della legge n. 69 del 2009, di «conformarsi al dictum dell’organo nomofilattico del Giudice delle pensioni», rappresentato dalla sentenza delle Sezioni riunite n. 8/QM/ 2002, pur riconoscendo che le norme denunciate, emanate nel 2006, hanno già superato il vaglio di costituzionalità.
L’accesso alla delibazione di merito dell’incidente di costituzionalità è, infatti, consentito in ragione della chiara affermazione da parte dello stesso rimettente circa l’applicabilità della disciplina censurata alla fattispecie oggetto di cognizione, tale che, proprio in base ad essa, l’appello della pensionata dovrebbe essere respinto.
3. - Nel merito, le questioni non sono fondate.
4. - La prospettazione del giudice a quo, che si incentra sull’asserito contrasto delle disposizioni denunciate con il principio del giusto processo quale desumibile anche dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), sottoscritta dall’Italia il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), impone, in primo luogo, di verificare, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, se sussistano le condizioni che consentano un siffatto scrutinio.
A tal riguardo, in più di un’occasione questa Corte ha affermato che le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione), integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone il rispetto dei vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, n. 311 e n. 317 del 2009, n. 93 del 2010). Pertanto, ove emerga un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve preventivamente verificare la possibilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sentenze n. 239 del 2009 e n. 93 del 2010), e, in caso negativo, deve investire la Corte costituzionale del dubbio di legittimità in riferimento al citato art. 117 (sentenze n. 239 del 2009 e n. 196 del 2010).
In siffatta evenienza, questa Corte è tenuta a verificare che il contrasto sussista e «che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenza n. 311 del 2009). Sicché, nel caso in cui sia riscontrato detto contrasto (e non si ponga problema di conflitto della norma CEDU con altre norme della Costituzione), la norma interna dovrà essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU.
5. - Alla luce di quanto premesso, è necessario, quindi, soffermarsi sulla portata della disciplina denunciata, che è stata già oggetto di esame da parte di questa Corte, la quale, con le sentenze n. 74 del 2008 e n. 228 del 2010, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni allora sollevate in riferimento a parametri differenti da quello di cui all’art. 117, primo comma, Cost.
5.1. - In particolare, occorre rammentare che le questioni decise dalla sentenza n. 74 del 2008 investivano il comma 774 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, censurato sulla premessa dell’esistenza di un diritto vivente alla pensione di reversibilità nel caso di decesso di titolare di pensione diretta liquidata entro il 31 dicembre 1994, da liquidarsi in base alle norme di cui all’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, indipendentemente dalla data della morte del dante causa, non avendo l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 abrogato il comma 5 dell’art. 15 appena citato.
La norma denunciata, nello smentire un siffatto diritto vivente, era stata, quindi, ritenuta in contrasto – dai giudici a quibus – con l’art. 3 della Costituzione, non potendo l’intervento legislativo essere qualificato come norma di interpretazione autentica e ledendo, comunque, il principio dell’affidamento nella sicurezza giuridica.
La Corte, nel ricostruire il quadro normativo di riferimento, pose allora in luce come nel settore privato operasse, «da epoca risalente, il principio di onnicomprensività della retribuzione pensionabile, essendo essa individuata in base ad un coacervo di elementi che, salvo specifiche eccezioni, entrano, tutti, a comporla, secondo le disposizioni che recano la disciplina di riferimento». Diversamente nel settore pubblico, in base al sistema originariamente delineato dal decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), si prevedeva che la pensione del pubblico dipendente fosse calcolata su una determinata base pensionabile «e, una volta determinata la prestazione, a questa si aggiungeva l’indennità integrativa speciale, la quale – come reso palese dall’art. 2 della legge n. 324 del 1959 e poi dall’art. 99 del t.u. del 1973 – era elemento accessorio del trattamento pensionistico». Di qui, la diversità di detti sistemi, che si ripercuoteva, pertanto, sul calcolo della pensione di reversibilità, spettante al superstite in misura percentuale rispetto alla pensione diretta del dante causa: nel «settore privato il 60 per cento in favore del coniuge (aliquota fissata dall’art.13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, modificato anche dall’art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903) era calcolato sulla pensione del dante causa determinata in base al principio di onnicomprensività (includente quindi tutti gli elementi retributivi sui quali operava l’aliquota del 60 per cento); nel settore pubblico, una volta determinata la pensione diretta e calcolata su questa la misura spettante al pensionato di reversibilità (al coniuge, in forza dell’art. 88 del t.u., il 50 per cento, di regola, della pensione del dante causa), si aggiungeva, in misura piena, l’indennità integrativa speciale».
Su un tale assetto era, dunque, intervenuto l’art. 15 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, stabilendo «che la corresponsione dell’indennità integrativa speciale nella misura piena si sarebbe dovuta fermare (per dar luogo, poi, al suo conglobamento nel trattamento pensionistico, con liquidazione complessiva di esso nella misura percentuale del 60 per cento secondo quanto previsto dall’assicurazione speciale obbligatoria), per quanto riguarda le pensioni dirette, al 31 dicembre 1994, ed avrebbe potuto continuare ad essere corrisposta alle pensioni di reversibilità, purché “riferite” alle pensioni dirette liquidate entro detta data».
Con il successivo art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 si stabilì «che la disciplina del trattamento di reversibilità in essere nell’àmbito dell’assicurazione obbligatoria fosse esteso anche al settore pubblico – determinando così la liquidazione della pensione con il conglobamento della indennità integrativa speciale – dalla data di entrata in vigore della legge stessa (e cioè dal 17 agosto 1995)». Tuttavia, il problema della implicita abrogazione, per effetto della successione delle leggi nel tempo, del comma 5 della legge n. 724 del 1994, venne risolto in termini negativi dalla giurisprudenza maggioritaria della Corte dei conti.
5.2. - In tale quadro, la sentenza n. 74 del 2008, nello scrutinare le questioni allora prospettate, affermò, anzitutto, che l’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995 «pone in rilievo due dati essenziali: a) l’indipendenza del trattamento pensionistico di reversibilità rispetto alla data di liquidazione della pensione diretta del dante causa; b) la decorrenza della estensione della disciplina della pensione di reversibilità prevista dall’assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime dalla data di entrata in vigore della legge n. 335 del 1995». Sicché, in riferimento alla decorrenza della estensione della disciplina a regime della assicurazione generale obbligatoria, la norma censurata risultava effettivamente interpretativa dell’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, giacché l’intervento del legislatore era stato dettato dall’«atteggiamento della giurisprudenza contabile, sicuramente maggioritaria, ma non univoca, essendo presenti anche orientamenti diversi», così da scegliere, «in definitiva, uno dei possibili significati della norma interpretata».
La Corte precisò, anche, che l’abrogazione – ad opera del comma 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 – del comma 5 dell’art. 15 della legge n. 724 del 1994, non poteva reputarsi irragionevole per contraddittorietà, «giacché essa risulta rispondente ad una esigenza di ordine sistematico imposta proprio dalle vicende che hanno segnato la sua applicazione».
Inoltre, potendo il legislatore, in sede di interpretazione autentica, «modificare in modo sfavorevole, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti economici con esiti privilegiati senza per questo violare l’affidamento nella sicurezza giuridica (sent. n. 6 del 1994 e sent. n. 282 del 2005), là dove, ovviamente, l’intervento possa dirsi non irragionevole», nella specie era da escludersi una siffatta irragionevolezza anche perché «l’assetto recato dalla norma denunciata riguarda anche il complessivo riequilibrio delle risorse e non può, pertanto, non essere attenta alle esigenze di bilancio».
Infine, ulteriore elemento a supporto della non irragionevolezza dell’intervento legislativo si è radicato nel fatto che «il legislatore, con il comma 775 dell’art. 1 della stessa legge n. 296 del 2006, ha salvaguardato i trattamenti di miglior favore già definiti in sede di contenzioso, con ciò garantendo non solo la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che su tali trattamenti soltanto poteva dirsi ingenerato».
5.3. - Con la successiva sentenza n. 228 del 2010, questa Corte, ripercorrendo l’impianto argomentativo della sentenza precedente, ha ribadito, tra l’altro, l’insussistenza dei denunciati profili di irragionevolezza dell’intervento legislativo che ha portato a regime il conglobamento della indennità integrativa speciale nella pensione di reversibilità dalla data di entrata in vigore della stessa legge n. 335 del 1995, posto che esso, operando su rapporti di durata, è volto a soddisfare «esigenze, non solo di contenimento della spesa pubblica, ma anche di armonizzazione dei trattamenti pensionistici tra settore pubblico e privato».
6. - Ciò premesso, venendo all’applicazione, da parte della Corte di Strasburgo, dell’art. 6 della CEDU, in relazione alle norme nazionali interpretative concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali è parte lo Stato, giova rammentare – come messo già in luce dalla sentenza n. 311 del 2009 di questa Corte (emessa nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale promosso a seguito, anche, dell’ordinanza n. 22260 del 2008 della Corte Suprema di Cassazione e cioè della medesima pronuncia su cui, in parte, fa leva la motivazione del rimettente in punto di non fondatezza della sollevata questione) – che la legittimità di tali interventi è stata riconosciuta: 1) in presenza di “ragioni storiche epocali”, come nel caso della riunificazione tedesca, unitamente alla considerazione «della sussistenza effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalità del riassetto, l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito» (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003); 2) per «ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore», al fine di «porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata» (sentenza 23 ottobre 1997, nel caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito; sentenza del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia).
Alla stregua di quanto evidenziato dalla citata sentenza n. 311 del 2009 nella vicenda da essa scrutinata, i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza delle Corte europea «costituiscono espressione di quegli stessi principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parità delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e della certezza delle situazioni giuridiche, che questa Corte ha escluso siano stati vulnerati dalla norma qui censurata».
Peraltro, in quell’occasione si è anche soggiunto che l’identificazione dei “motivi imperativi d’interesse generale”, che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi, è opportuno che sia in parte lasciata agli stessi Stati contraenti, «trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo», considerato che «le decisioni in questo campo implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali».
7. - Nella complessiva cornice dianzi tratteggiata, deve ritenersi che le denunciate norme di cui ai commi 774, 775 e 776 dell’art. 1 della legge 29 dicembre 2006, n. 296, sono effettivamente interpretative e assumono come referente un orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario, così da scegliere, «in definitiva, uno dei possibili significati della norma interpretata».
Inoltre, se si tiene presente che nella fattispecie vengono in evidenza rapporti di durata, non può parlarsi di un legittimo affidamento nella loro immutabilità, mentre d’altro canto si deve tenere conto del fatto che le innovazioni che sono state apportate, e che non hanno trascurato del tutto i diritti acquisiti, hanno non irragionevolmente mirato alla armonizzazione e perequazione di tutti i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. La legge n. 335 del 1995, infatti, ha costituito il primo approdo di un progressivo riavvicinamento della pluralità dei sistemi pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa pubblica e sugli equilibri di bilancio, anche ai fini del rispetto degli obblighi comunitari in tema di patto di stabilità economica finanziaria nelle more del passaggio alla moneta unica europea.
L’intervento legislativo ha, poi, salvaguardato i trattamenti di miglior favore già definiti in sede di contenzioso, «con ciò garantendo non solo la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che su tali trattamenti poteva dirsi ingenerato» (sentenza n. 74 del 2008).
Infine, in modo particolare e “determinante” – come posto in risalto anche nella sent. n. 311 del 2009 – il “processo equo” e con esso il “giusto processo”, ha trovato concretezza ed effettività anche tramite l’incidente di costituzionalità in una duplice occasione «conclusosi con una dichiarazione di infondatezza della questione, rispetto a parametri costituzionali coerenti con la norma convenzionale, pienamente compatibile, così interpretata, con il quadro costituzionale italiano».
8. - Di qui, pertanto, la non fondatezza della questione, sotto entrambi i profili di censura che evocano la lesione degli artt. 117, primo comma, Cost. e 6 CEDU, da un lato, e art. 111 Cost., dall’altro, i quali, con riguardo al caso di specie e secondo le stesse prospettazioni del rimettente, si presentano del tutto sovrapponibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 774, 775 e 776, della legge 29 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), sollevata, in riferimento agli articoli 111 e 117 della Costituzione, dalla Corte dei conti – Sezione giurisdizionale centrale d’appello, con l’ordinanze in epigrafe indicata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 2010.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Paolo MADDALENA, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 gennaio 2011.