ANNO 2007
Commenti alla decisione di
I. Claudio Zanghì, La Corte
costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti
dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione:le
sentenze n. 347 e 348 del 2007, nella Rubrica "Studi” di Consulta OnLine
II. Antonio Ruggeri, La CEDU alla ricerca di una nuova identità (sentt. nn.
348/2007 e 349/2007), per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
III. Renzo Dickmann, Corte costituzionale e diritto internazionale nel sindacato delle leggi per
contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione per g.c. della Rivista telematica Federalismi.it
IV. Anna Moscarini, Indennità di espropriazione e valore di mercato del bene: un passo avanti e
uno indietro della Consulta nella costruzione del patrimonio costituzionale
europeo, per g.c. della Rivista telematica Federalismi.it
V. Tommaso F. Giupponi, Corte costituzionale,
obblighi internazionali e "controlimiti allargati”: che tutto cambi perché
tutto rimanga uguale?, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VI. Diletta Tega, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e
349 del 2007: la Cedu da fonte ordinaria a fonte
"sub-costituzionale” del diritto, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VII. Nicola Pignatelli, La dilatazione della tecnica della "interposizione” (e del giudizio
costituzionale), per g.c.
del Forum dei Quaderni Costituzionali
VIII. Cristina Napoli, La nuova collocazione della CEDU nel sistema delle fonti e le conseguenti
prospettive di dialogo tra le Corti, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
IX. Cesare Pinelli, Sul trattamento giurisdizionale della CEDU e delle leggi con essa confliggenti per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei
Costituzionalisti
X. Giulia Pili, Il nuovo "smalto costituzionale” della CEDU agli occhi della Consulta (sentt. nn.
348 e 349 del 2007), per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XI. Vincenzo Sciarabba, Nuovi punti fermi (e questioni aperte) nei rapporti tra fonti e corti
nazionali ed internazionali per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti
XII. Stefano Cicconetti, Creazione indiretta del diritto e norme interposte per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei
Costituzionalisti
XIII. Andrea Filippini, Il caso Dorigo, La
CEDU e la Corte costituzionale: l'effettività della tutela dei diritti dopo le
sentenze 348 e 349 del 2007, per g.c. della Rivista telematica Costituzionalismo.it
XIV. Dian Schefold, L’osservanza dei
diritti dell’uomo garantiti nei trattati internazionali da parte del giudice
italiano per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XV. Fulvio Cortese, La garanzia
costituzionale del diritto di proprietà tra espropriazione e occupazione
acquisitiva per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XVI. Simone Penasa, Tanto rumore per nulla o meglio tardi che mai? Ancora sulle sentenze
348-349/2007 della Corte costituzionale, tra dubbi ermeneutici e possibili
applicazioni future per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XVII. Filippo Donati, La CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle
sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007 per g.c. della Rivista telematica Osservatorio sulle
fonti
XVIII. Ilaria Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n.
349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito
giurisprudenziale per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei
Costituzionalisti
XIX. Elisabetta Lamarque, Il vincolo alle leggi
statali e regionali derivante dagli obblighi internazionali nella
giurisprudenza comune, dalla Rubrica Atti di convegni e seminari del sito della Corte costituzionale
XX. Monica Lugato, Struttura e contenuto
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo al vaglio della Corte
costituzionale, nella Rubrica Studi, 2009, di questa
XXI. Felice Giuffré, Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'uomo: un dialogo
senza troppa confidenza, per g.c. della Rivista telematica Federalismi.it
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE ”
- Ugo DE
SIERVO ”
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge
8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze del 29 maggio e del 19 ottobre
2006 (nn. 2 ordd.) dalla Corte di cassazione,
rispettivamente iscritte ai nn. 402 e 681 del registro ordinanze 2006 ed al n.
2 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale,
dell’anno 2006 e nn. 6 e 7, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Visti gli atti di costituzione di R.A., di A.C., di M.T.G.,
nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica
del 3 luglio 2007 il Giudice relatore
uditi gli avvocati Felice Cacace e Francesco Manzo per R.A., Nicolò Paoletti per
A.C., Nicolò Paoletti e Alessandra Mari per M.T.G. e l’avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. − Con
ordinanza depositata il 29 maggio 2006 (r.o. n. 402
del 2006),
La norma è
oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione
dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di
calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale
rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data
dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
1.1. −
Nel giudizio di
legittimità si sono costituiti il Comune di Torre Annunziata, il quale ha
proposto ricorso incidentale, e l’Istituto autonomo case popolari della
Provincia di Napoli.
Con memoria
illustrativa
La censura
della parte ricorrente è estesa all’art. 37 del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), in quanto si
tratta della disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di
calcolo censurato.
1.2. − Il
rimettente esclude la rilevanza della questione avente ad oggetto la norma
citata da ultimo, in quanto applicabile solo ai procedimenti espropriativi
iniziati a partire dal 1° luglio 2003, secondo la previsione contenuta
nell’art. 57 del medesimo d.P.R. n. 327 del 2001. Nel
caso di specie, invece, il giudizio è iniziato nel 1988.
Al contempo,
1.3 – In merito
alla rilevanza della questione sollevata, il rimettente sottolinea come nella
specie si tratti «indiscutibilmente» di suoli edificabili, ai quali è
applicabile il citato art. 5-bis,
commi 1 e
1.4. −
Quanto alla non manifesta infondatezza,
In relazione
alla prima, sono richiamate in particolare le sentenze del 29 luglio 2004 e del 29 marzo 2006, entrambe emesse nella causa
Scordino contro Italia, con le quali lo Stato italiano è stato condannato per
violazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella pronunzia del 2004,
Con la sentenza del 2006, invece,
Sul fronte
interno, il giudice rimettente evidenzia come la norma oggetto di censura sia
stata più volte scrutinata dalla Corte costituzionale, che l’ha ritenuta
conforme all’art. 42, terzo comma, Cost., perché introduttiva di un criterio
mediato che assicura un ristoro «non irrisorio» ai soggetti espropriati, nel
rispetto della funzione sociale della proprietà (sentenze n. 283, n. 414 e n. 442 del 1993). Anche sotto il profilo
dell’applicazione ai giudizi in corso,
In esito alla
disamina risulterebbe evidente, a parere del giudice a quo, che la questione debba essere posta oggi in riferimento ai
diversi parametri individuati negli artt. 111 e 117 Cost., secondo una
prospettiva inedita che è quella del sopravvenuto contrasto della norma
censurata con i principi del giusto processo e del rispetto degli obblighi
internazionali assunti dallo Stato, attraverso il richiamo delle norme convenzionali
contenute nell’art. 6 CEDU e nell’art. 1 del primo Protocollo, in funzione di
parametri interposti.
1.5. −
In particolare,
L’impossibilità
di disapplicare la norma interna in contrasto con quella della Convenzione
deriverebbe, a dire della Corte, anche da altre considerazioni. In primo luogo,
va escluso che, in riferimento alle norme CEDU, sia ravvisabile un meccanismo
idoneo a stabilire la sottordinazione della fonte del
diritto nazionale rispetto a quella internazionale, assimilabile alle
limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost.,
derivanti dalle fonti normative dell’ordinamento comunitario. Non sembra
infatti sostenibile la tesi dell’avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, ai
sensi del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio
Il giudice a quo richiama altresì il principio
della soggezione dei giudici alla legge, sancito dall’art. 101 Cost., che impedirebbe di ritenere ammissibile un potere (a fortiori, un obbligo) di
disapplicazione della normativa interna, atteso che ciò significherebbe
attribuire al potere giudiziario una funzione di revisione legislativa del
tutto estranea al nostro sistema costituzionale, nel quale l’abrogazione della
legge statale rimane «legata alle ipotesi contemplate dagli artt. 15 disp. prel. cod. civ. e 136 Cost.», mentre il mancato rispetto della regola di
conformazione si traduce nel vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi
alla Corte di cassazione (è richiamata Cass., 26 gennaio 2004, n. 1340), anche
se non mancano opinioni che attenuano ulteriormente l’efficacia vincolante
delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cass., 26 aprile
2005, n. 8600, e 15 settembre 2005, n. 18249).
A tutto
concedere, secondo
Al riguardo, il
giudice a quo esprime perplessità
circa l’incidenza, in ipotesi di disapplicazione dell’art. 5-bis, della norma suppletiva costituita
dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore venale
dei beni e che è richiamata dalla sentenza 29 luglio 2004 della Corte di
Strasburgo come criterio sul quale poggiava l’affidamento delle parti
ricorrenti al momento dell’instaurazione del giudizio. Detta norma, infatti,
non costituisce «regola tendenziale dell’ordinamento», in quanto non essenziale
per la funzione sociale riconosciuta alla proprietà dalla Carta fondamentale,
secondo l’affermazione costante della giurisprudenza costituzionale (sono
richiamate le sentenze n. 61 del 1957, n. 231 del 1984, n. 173 del 1991, n. 138 del 1993 e n. 283 del 1993), mentre l’art. 5-bis, come già evidenziato, è stato
ritenuto conforme a Costituzione anche sotto il profilo della efficacia
retroattiva. In definitiva, in caso di disapplicazione della norma censurata,
il giudice sarebbe chiamato ad individuare un criterio di determinazione
dell’indennizzo che, pur non essendo coincidente con il valore di mercato dei
beni ablati, attesa la funzionalizzazione del diritto
dominicale alla pubblica utilità, sia comunque idoneo ad assicurare un quid pluris rispetto
al criterio contenuto nell’art. 5-bis,
così compiendo un’operazione «palesemente ammantata da margini di
discrezionalità che competono solo al legislatore», anche per la necessità di
reperire i mezzi finanziari per farvi fronte.
Il rimettente
evidenzia come la stessa giurisprudenza CEDU non sia univoca con riferimento
alla identificazione del valore venale dei beni quale unico criterio
indennitario ammissibile alla luce dell’art. 1 del primo Protocollo. Infatti,
mentre nella citata pronuncia del 29 marzo 2006
Quanto rilevato
con riferimento all’art. 11 Cost., per negare la
«comunitarizzazione» della CEDU e, quindi, la praticabilità della
disapplicazione della norma interna, varrebbe altresì ad escludere l’utilizzo
del predetto parametro ai fini dello scrutinio.
Secondo il
rimettente, il recupero del dictum
della Corte europea non potrebbe avvenire neppure attraverso il richiamo
all’obbligo di conformazione del diritto interno alle norme internazionali che,
ai sensi dell’art. 10 Cost., impegna l’intero ordinamento; infatti, per un
verso il parametro citato non ha per oggetto il diritto pattizio e, per altro
verso, la commisurazione dell’indennizzo espropriativo al valore di mercato del
bene non costituisce principio generalmente riconosciuto dagli Stati.
L’intervento
giudiziale, infine, secondo
Dunque, l’«inadeguatezza in abstracto» del
criterio indennitario contenuto nell’art. 5-bis
a compensare la perdita della proprietà dei suoli edificabili per motivi di
interesse pubblico, definitivamente sancita dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, unitamente alla acquisita definitività della
disciplina, riproposta dal legislatore nel 2001, all’art. 37 del d.P.R. n. 327, renderebbe necessario un nuovo scrutinio di
costituzionalità.
Le
argomentazioni che dimostrano l’impercorribilità della strada della disapplicazione
da parte del giudice nazionale varrebbero, al tempo stesso, ad escludere che il
contrasto possa essere composto in via interpretativa.
1.6. – Su
questa premessa, il giudice a quo passa ad illustrare i motivi di
contrasto della norma impugnata rispetto ai parametri costituzionali evocati.
In particolare, richiamate ancora le pronunce della Corte costituzionale sul
menzionato art. 5-bis, precisa che,
per un verso, quest’ultimo non è stato scrutinato rispetto al parametro di cui
all’art. 111 Cost., nel testo modificato dalla legge costituzionale 23 novembre
1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della
Costituzione), e che, per altro verso, i contenuti della disposizione
costituzionale in esame, avuto riguardo agli aspetti programmatici (primo e
secondo comma), sarebbero in gran parte ancora da esplorare, così come sarebbe
da chiarire il rapporto «di discendenza della nuova formulazione della norma
costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
Seppure, come è
noto, l’originario intento di "costituzionalizzare” l’art. 6 della Convenzione
abbia subito modifiche nel corso dei lavori parlamentari, non di meno, a parere
della Corte rimettente, andrebbe avallata la tesi secondo cui la ricostruzione
dei nuovi precetti costituzionali debba essere condotta proprio alla luce della
giurisprudenza della Corte europea. Pertanto, nel ricercare il significato
precettivo del riformulato art. 111 Cost. si potrebbe
utilmente fare ricorso all’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo
dell’analoga disposizione contenuta nell’art. 6 della Convenzione. A questo
proposito, le pronunce rese nella causa Scordino contro Italia, in materia di
indennizzo espropriativo, hanno affermato che il principio della parità delle
parti dinanzi al giudice implica l’impossibilità per il potere legislativo di
intromettersi nell’amministrazione della giustizia, allo scopo di influire
sulla risoluzione della singola causa o di una circoscritta e determinata
categoria di controversie.
Il giudice a quo evidenzia come la vicenda
giudiziaria che ha dato luogo alle citate sentenze della Corte europea e quella
che ha originato la presente questione di legittimità costituzionale risultino
del tutto assimilabili: in entrambi i casi, infatti, i soggetti espropriati
hanno agito in giudizio sul presupposto che, espunti dall’ordinamento (per
effetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983) i penalizzanti criteri di
quantificazione dell’indennizzo previsti dalla legge 29 luglio 1980, n. 385
(Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione di aree edificabili nonché
modificazioni di termini previsti dalle leggi 28 gennaio 1977, n. 10, 5 agosto
1978, n. 457, e 15 febbraio 1980, n. 25), si fosse determinata la reviviscenza
del criterio del valore venale, con la conseguente nullità dell’atto di
cessione volontaria per indeterminatezza dell’oggetto e con l’insorgenza del
diritto all’indennità commisurata al predetto valore.
Il giudice di
merito, invece, dovendo stabilire il «prezzo della cessione» da commisurare
all’indennità di esproprio, ha dovuto fare applicazione del sopravvenuto art.
5-bis del decreto-legge n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, ed ha di
conseguenza condannato il Comune espropriante al pagamento della differenza, a
titolo di conguaglio della somma in precedenza corrisposta.
Il risultato è
stato che le proprietarie espropriate, «a giudizio iniziato», si sono viste
ridurre del 50 per cento la somma per il conseguimento della quale si erano
determinate ad agire.
Per le ragioni
suesposte
1.7. –
Infatti la
nuova formulazione della norma costituzionale, introdotta dalla legge di
riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, avrebbe colmato
«una lacuna dell’ordinamento». In tal senso, a detta della rimettente, la sedes materiae non
risulterebbe decisiva per «ridimensionare» l’effetto innovativo dell’art. 117,
primo comma, Cost., circoscrivendolo al solo riparto
di competenze legislative tra Stato e Regioni. Al contrario, nella norma in
esame «sembra doversi ravvisare il criterio ispiratore di tutta la funzione
legislativa, anche di quella contemplata dal secondo comma, riguardante le
competenze esclusive dello Stato, cui è riconducibile la normativa in tema di
indennità di espropriazione».
Dunque, secondo
il giudice a quo, le norme della
Convenzione europea, e specialmente l’art. 6 CEDU e l’art. 1 del primo
Protocollo, diverrebbero, «attraverso l’autorevole interpretazione che ne ha
reso
2. – È
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di
legittimità costituzionale siano dichiarate infondate.
2.1. – La
difesa erariale individua il thema decidendum nei seguenti punti: a) «se, in caso di contrasto tra la giurisprudenza europea e la
legge nazionale, prevalga la prima, e dunque quale sia il destino della
seconda»; b) «se, in caso di risposta
affermativa al primo quesito, la soluzione valga anche con riguardo alle norme
costituzionali».
Prima di
rispondere ai quesiti indicati, a parere dell’Avvocatura generale, occorre
stabilire se davvero la giurisprudenza della Corte europea possa, in via
interpretativa, imporre agli Stati aderenti di considerare ridotte o espanse le
norme convenzionali «in una sorta di diritto di esclusiva che farebbe premio
sia sui procedimenti di formazione dei patti internazionali sia sulla diretta
interpretazione del giudice nazionale, il quale pur si trova ad applicare le
stesse norme [CEDU] in quanto recepite dalla legge nazionale 4 agosto 1955 n.
848».
La difesa
erariale contesta che tale potere, per quanto rivendicato dalla Corte europea,
sia previsto da norme convenzionali. L’art. 32 del Protocollo n. 11 della
Convenzione EDU, reso esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296
(Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione
del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo
l’11 maggio 1994), circoscrive la competenza della predetta Corte «a tutte le
questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e
dei suoi protocolli». Ad avviso dell’Avvocatura generale, si tratterebbe di una
norma posta a garanzia dell’indipendenza dei giudici di Strasburgo, che «non
può trasformarsi in una fonte di produzione normativa vincolante oltre il
processo e, addirittura, limitativa dei poteri istituzionali dei Parlamenti
nazionali o della nostra Corte di cassazione o perfino della Corte
costituzionale».
La pretesa
della Corte di Strasburgo di produrre norme convenzionali vincolanti non
sarebbe compatibile con l’ordinamento internazionale generale e ancor più con
il sistema della Convenzione di Vienna, cui è stata data esecuzione con la
legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sul
diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969),
secondo cui l’interpretazione di qualunque trattato deve essere testuale ed
oggettiva.
Pertanto, la
difesa dello Stato evidenzia come le questioni odierne abbiano ragione d’essere
soltanto se si riconosce alle norme di origine giurisprudenziale della Corte
europea il valore di parametro interposto. Diversamente, non vi sarebbe motivo
di dubitare che, ai sensi degli artt. 25 e 42 Cost.,
il legislatore nazionale possa introdurre norme di carattere retroattivo,
operanti anche nei processi in corso, e conformare sistemi indennitari che
contemperino il diritto dei singoli con le esigenze della collettività, così
evitando che gli indennizzi degli espropri coincidano con il prezzo di mercato
degli immobili.
2.2. – La difesa dello Stato contesta l’impostazione del
ragionamento della Corte rimettente anche con riferimento ai parametri evocati.
Secondo
l’Avvocatura generale, l’art. 111 Cost., una volta
depurato «da ogni suggestione di prevalenza degli "insegnamenti” CEDU sulla
legislazione ordinaria e costituzionale o sulla giurisprudenza della Corte di
cassazione e della stessa Corte costituzionale», non stabilisce affatto quello
che il giudice a quo crede di leggervi. Il «giusto processo» non
riguarda le prerogative del legislatore, in particolare non gli impedisce di
intervenire sulla disciplina sostanziale con norme di carattere retroattivo,
che il giudice è tenuto ad applicare in ossequio al disposto dell’art. 101
Cost. Del resto, osserva la difesa erariale, neppure l’art. 6 CEDU, che ha
ispirato la novella dell’art. 111 Cost., contiene
riferimenti al divieto di leggi retroattive in materia extrapenale; tale
divieto esiste, quindi, soltanto nella giurisprudenza della Corte europea, la
quale, peraltro, secondo gli argomenti già esposti, sarebbe priva di potere
creativo di norme convenzionali.
Discorso
parzialmente analogo varrebbe per l’art. 117, primo comma, Cost.,
il quale impone il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali, là dove, per l’appunto, le predette norme
configurino limitazioni all’esercizio della potestà legislativa.
La difesa
erariale richiama in proposito l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3), il quale stabilisce che costituiscono vincoli alla potestà
legislativa dello Stato e delle Regioni «quelli derivanti […] da accordi di
reciproca limitazione della sovranità, di cui all’art. 11 della Costituzione,
dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali». Nulla di tutto
ciò, secondo l’Avvocatura generale, è presente nella CEDU, sia con riferimento
alla previsione di leggi retroattive di immediata applicazione ai processi in
corso, e per le quali opera quindi la sola disciplina delle fonti di produzione
nazionali, sia con riguardo ai diritti del proprietario espropriato. A tale
proposito, l’interveniente rileva che l’art. 1 del primo Protocollo,
diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, si limita ad
affermare il principio per cui il sacrificio della proprietà privata è
ammissibile solo per cause di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla
legge e dai principi generali del diritto internazionale. La norma
convenzionale richiamata non imporrebbe in alcun modo, quindi, che l’indennizzo
dovuto al proprietario espropriato debba corrispondere al valore venale del
bene.
2.3. – In conclusione, la difesa erariale evidenzia come
il valore venale del terreno urbano non esista in rerum natura, ma sia direttamente collegato agli strumenti
urbanistici e perciò determinato in funzione della utilizzabilità dell’area,
con la conseguenza che un sistema indennitario che imponga una drastica
riduzione del valore del bene non è così distante dalla realtà degli scambi
economici.
3. – Si
è costituita in giudizio R.A., ricorrente in via principale nel giudizio a
quo, richiamando genericamente tutte le censure, eccezioni e deduzioni
svolte nei diversi gradi del procedimento, ed in particolare l’eccezione di
illegittimità costituzionale formulata nel giudizio di cassazione, con riserva
di depositare successive memorie.
4. – In data 19
giugno 2007 la stessa parte privata ha depositato una memoria illustrativa con
la quale insiste affinché la questione sia dichiarata fondata.
4.1. – In
particolare, dopo aver riassunto l’intera vicenda giudiziaria dalla quale è
originato il giudizio a quo, la
difesa della parte rileva che la misura dell’indennizzo espropriativo prevista
nella norma censurata, non presentando le caratteristiche del «serio ristoro»,
sarebbe tutt’ora censurabile sotto il profilo del contrasto con l’art. 42,
terzo comma, Cost., nonostante l’esito dei precedenti scrutini (sentenze n. 283 e n. 442 del 1993). Infatti, nelle pronunzie
richiamate,
4.2. – Con
riferimento al profilo afferente l’applicazione della norma censurata ai
giudizi in corso, la parte privata ritiene violati gli artt. 24 e 102 Cost.
L’avvenuta modifica della norma sostanziale in corso di causa e la conseguente
variazione della «dimensione qualitativa e quantitativa» del diritto azionato
costituirebbero un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’esito del
processo, in violazione della riserva contenuta nell’art. 102 Cost. Non si
tratterebbe, nel caso di specie, di mera retroattività, ma di vera e propria
interferenza nell’esercizio della funzione giudiziaria da parte del
legislatore, «allo scopo dichiarato di limitare l’onere (legittimo) a carico
della pubblica amministrazione».
Inoltre, la
censura prospettata in riferimento all’art. 42, terzo comma, Cost. andrebbe estesa all’art. 37 del d.P.R.
n. 327 del 2001, nel quale è contenuto un criterio di calcolo dell’indennizzo
espropriativo che conduce ad una riduzione di circa il 50 per cento rispetto al
valore reale del bene. Tale norma, peraltro, non presenta i caratteri di provvisorietà
e urgenza che avevano connotato l’art. 5-bis,
trattandosi, con ogni evidenza, di disciplina definitiva.
Da ultimo, sul
rilievo che gli argomenti svolti dal giudice a quo per escludere la violazione degli ulteriori parametri
indicati nell’eccezione di parte non assumono valore preclusivo, la parte
auspica che
5. – Con
ordinanza depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681
del 2006),
La norma è
oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione
dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di
calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale
rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data
dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
5.1. –
Il Comune
ricorrente lamenta l’erronea qualificazione dell’area espropriata come
edificabile, e in subordine, la mancata applicazione della riduzione del 40 per
cento, nonché l’insufficiente motivazione a sostegno del computo del valore dei
manufatti preesistenti. La parte privata si è costituita ed ha proposto, a sua
volta, ricorso incidentale nel quale censura la quantificazione dell’indennità
di esproprio, nonché il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria
degli importi liquidati; chiede altresì la disapplicazione dell’art. 5-bis, in quanto contrastante con l’art. 1
del primo Protocollo (che sarebbe stato "comunitarizzato”
dall’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), ed invoca un
mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in virtù del quale «l’indennità
viene corrisposta come debito pecuniario di valuta, con la conseguenza che
nulla compete per la rivalutazione all’espropriato». Con successiva memoria, la
ricorrente incidentale ha formulato, subordinatamente al mancato accoglimento
della richiesta di disapplicazione, eccezione di illegittimità costituzionale
dell’art. 5-bis, per violazione degli
artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost., in relazione
all’art. 1 del primo Protocollo ed all’art. 6 CEDU.
5.2. –
Preliminarmente,
Il giudice a quo procede, quindi, all’esame della
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, citata anche dalla parte ricorrente a
sostegno sia della richiesta di disapplicazione della norme interna, sia
dell’eccezione di illegittimità costituzionale. L’esame è condotto a partire
dal contenuto della pronuncia resa il 28 luglio 2004, in causa Scordino
contro Italia, alla quale è seguita, nella medesima controversia, la pronuncia definitiva resa dalla Grande chambre il 29 marzo 2006, sul ricorso proposto
dal Governo italiano.
Tanto premesso,
la rimettente evidenzia l’analogia
intercorrente tra la fattispecie oggetto del giudizio principale e quella che
ha dato luogo alla richiamata pronuncia della Grande chambre: anche nel presente giudizio, infatti, il profilo
della utilità pubblica risulterebbe di modesta rilevanza, essendo le aree
espropriate destinate alla costruzione di un parcheggio e alla realizzazione di
"verde attrezzato”.
5.3. –
Il giudice a quo dà atto che
Tale
conclusione è condivisa dall’attuale rimettente, la quale rammenta che la
sentenza della Corte europea del 29 marzo 2006, in causa Scordino contro
Italia, ha rimesso allo Stato italiano l’adozione delle misure
«legislative, amministrative e finanziarie» necessarie all’adeguamento del sistema
interno alle norme sopranazionali (par. 237), così implicitamente chiarendo che
la propria pronuncia non ha «effetti abrogativi».
Quanto al
carattere precettivo delle norme contenute nella Convenzione, il giudice a quo ritiene debbano essere distinti i
diritti da essa protetti, «riconosciuti» dagli Stati contraenti come
«fondamentali» anche nel diritto interno (art. 1), dai mezzi e dalle modalità
di tutela di tali diritti, rimessi ai singoli Stati aderenti. In caso di
violazione, anche da parte di soggetti che agiscono nell’esercizio di funzioni
pubbliche, l’art. 13 della Convenzione prevede il ricorso alla magistratura
interna di ciascuno Stato, salvo l’intervento sussidiario della Corte di
Strasburgo sui ricorsi individuali ai sensi dell’art. 34 della stessa
Convenzione, e la conseguente condanna dello Stato inadempiente all’equa
riparazione di cui all’art. 41. Nello stesso senso deporrebbe la previsione
contenuta nell’art. 46 della Convenzione, a mente del quale «le Alte Parti
contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle
controversie nelle quali sono parti», escludendosi così ogni effetto
immediatamente abrogativo di norme interne.
Risulterebbe
chiara, pertanto, l’esclusione del potere di disapplicazione in capo ai singoli
giudici; tanto più che nelle fattispecie riguardanti l’indennizzo espropriativo
si porrebbe l’esigenza di assicurare copertura finanziaria alla modifica di
sistema, conseguente alla scelta di un diverso criterio indennitario, stante la
previsione dell’art. 81 Cost.
Il giudice a quo ribadisce, riprendendo le
precedenti ordinanze della stessa Corte di cassazione, la ritenuta
impossibilità di assimilare le norme della Convenzione EDU ai regolamenti
comunitari ai fini di applicazione immediata nell’ordinamento interno
(sull’argomento è richiamata Cass. 19 luglio 2002, n. 10542). E’ condiviso
anche l’assunto che il richiamo contenuto nell’art. 6, par. 2, del Trattato di
Maastricht, al rispetto dei «diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione europea […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto
comunitario», non esclude la diversità tra l’organo giurisdizionale preposto
alla tutela di tali diritti (Corte di Strasburgo) e quello cui è invece
demandata l’interpretazione delle norme comunitarie, cioè
Del resto,
aggiunge il rimettente,
In definitiva,
il riconoscimento con carattere precettivo dei diritti tutelati dall’accordo
sopranazionale non rileverebbe ai fini dell’abrogazione di norme interne
contrastanti, fino a quando il legislatore interno non abbia specificato i
rimedi a garanzia di detti diritti (è richiamata Cass. 12 gennaio 1999, n.
254). Nondimeno, prosegue il giudice a
quo, i diritti tutelati dalla Convenzione EDU esistono sin dal momento
della ratifica, o anche prima, se già garantiti dal diritto interno, sicché i
successori degli originari titolari potranno chiederne la tutela al giudice
nazionale una volta che sia stata modificata la disciplina interna.
5.4. – Esclusa
la possibilità di disapplicare l’art. 5-bis,
Riaffermata
l’edificabilità delle aree espropriate, il giudice a quo ritiene «certamente rilevante» la questione di legittimità
sollevata, dato che, nella espropriazione oggetto di causa, l’indennità è stata
liquidata con i criteri di determinazione di cui all’art. 5-bis.
5.5. – Con
riferimento alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo procede all’esame delle pronunce
con le quali
Nella citata pronuncia n. 283 del 1993,
Assume il
giudice a quo che la norma censurata,
incidendo sulla liquidazione delle indennità nei procedimenti in corso,
«anteriormente alla futura opposizione alla stima ancora non proponibile per
ragioni imputabili all’espropriante» (è richiamata la sentenza n. 67 del 1990 della Corte
costituzionale), ha determinato una ingerenza del legislatore nel processo a
sfavore dell’espropriato. Questi, infatti, in assenza della predetta norma,
avrebbe potuto pretendere e ottenere una maggiore somma, se i procedimenti
amministrativi o giurisdizionali in corso fossero stati conclusi prima della
relativa entrata in vigore.
Il rimettente
richiama, in proposito, l’affermazione contenuta nella sentenza Scordino del 29
marzo 2006, secondo cui l’ingerenza del legislatore nei procedimenti in corso
viola l’art. 6 della Convenzione, in rapporto all’art. 1 del primo Protocollo,
poiché la previsione della perdita di una parte dell’indennità con efficacia
retroattiva non risulta giustificata da una rilevante causa di pubblica
utilità.
Quanto al
merito del criterio di calcolo dell’indennità, contenuto nella norma censurata,
il rimettente osserva come
6. – È
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non
fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con
quelle sviluppate nel giudizio promosso con l’ordinanza del 29 maggio 2006
della Corte di cassazione (r.o. n. 402 del 2006).
Pertanto, si richiama integralmente quanto sopra riportato al punto 2.
7. – Si è
costituita in giudizio A.C., controricorrente e ricorrente in via incidentale
nel giudizio a quo, la quale ha
concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni – dovendosi
ritenere che spetti ai giudici nazionali disapplicare le norme interne in
contrasto con quelle della Convenzione europea – ed in subordine per
l’accoglimento delle questioni medesime.
7.1. – La parte
privata ritiene che il contrasto tra norma interna e norma CEDU debba esser
risolto con la disapplicazione della prima. In proposito è richiamato il
Protocollo n. 11 della Convenzione, il quale ha riformulato il meccanismo di
controllo istituito dalla stessa, stabilendo che i singoli cittadini degli
Stati contraenti possano adire direttamente
La medesima
parte privata ricorda come l’intero meccanismo di controllo si fondi sul
principio di sussidiarietà, in virtù del quale
A questo
proposito, la parte privata sottolinea come
La parte
privata richiama, inoltre, il contenuto della sentenza 29 marzo 2006 della Corte di Strasburgo in causa
Scordino contro Italia, in riferimento sia alla inadeguatezza del criterio
generale di cui all’art. 5-bis,
applicato indipendentemente dalla tipologia dell’opera che deve essere
realizzata, sia all’effetto di interferenza del potere legislativo sul potere
giudiziario, che si è determinato con l’applicazione della predetta norma ai
giudizi in corso. Secondo
Tutto ciò
premesso, se la conformità dell’ordinamento ai principi affermati nella
sentenza citata deve essere assicurata dai giudici nazionali, come rilevato dal
Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella richiamata Raccomandazione Rec(2004)5, e se
La diversa
conclusione cui è giunta
Sulla base
delle considerazioni sopra svolte, la difesa di A.C. conclude sollecitando una
dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.
7.2. – In via
subordinata, la parte privata insiste per la declaratoria di incostituzionalità
della norma censurata per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., sviluppando argomentazioni analoghe a quelle
contenute nell’ordinanza di rimessione.
8. – In data 20
giugno 2007 la parte privata A.C. ha depositato una memoria illustrativa con la
quale insiste nelle conclusioni già formulate nell’atto di costituzione.
8.1. – In
particolare, nella memoria si evidenzia come la posizione assunta dalla
Presidenza del Consiglio dei ministri nel presente giudizio si ponga in
contrasto con il «preciso obbligo dello Stato italiano di eseguire
Al riguardo, la
parte privata sottolinea come l’art. 1 della legge n. 12 del 2006, introducendo
la lettera a-bis), nel comma 3
dell’art. 5 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di
Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), abbia
individuato proprio nella Presidenza del Consiglio dei ministri l’organo
deputato non solo a promuovere «gli adempimenti di competenza governativa
conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei
confronti dello Stato italiano», ma anche a comunicare «tempestivamente alle
Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti
Commissioni parlamentari permanenti» ed a presentare «annualmente al Parlamento
una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce».
Per le ragioni
anzidette la parte privata reputa necessaria una pronunzia di illegittimità
costituzionale dell’art. 5-bis, «che
consenta all’Italia di assolvere i propri obblighi internazionali, di non
uscire dalla legalità internazionale e di far recuperare unità
all’ordinamento».
8.2. – In
merito all’esistenza di un presunto contrasto tra la giurisprudenza della Corte
europea e quella della Corte costituzionale, la difesa privata ritiene che si
tratti di una divergenza soltanto apparente, determinata dalla diversità dei
parametri di giudizio finora adottati dalle due Corti. Si tratterebbe,
pertanto, di «interpretare (ed applicare) le norme rilevanti nel presente
giudizio di costituzionalità con lo stesso parametro di tutela dei diritti
umani utilizzato dalla Corte europea»; infatti – osserva la parte costituita –
se il giudizio è condotto sulla base del parametro sopra indicato, l’esito non
può non essere identico.
Peraltro, le
divergenze interpretative tra le Corti costituzionali degli Stati membri e
8.3. – La
difesa della parte privata passa, poi, in rassegna la più recente
giurisprudenza della Corte europea in tema di «violazioni strutturali»,
evidenziando le condizioni in presenza delle quali ricorre un «problema strutturale»
e non una mera violazione «episodica» della Convenzione europea.
In particolare,
si rileva come finora siano state «per lo più proprio le Corti costituzionali
degli Stati contraenti – in applicazione dei principi di sussidiarietà e
solidarietà – a rimediare ai problemi strutturali evidenziati nelle sentenze
della Corte europea». A questo proposito, sono richiamate numerose pronunzie
della Corte europea, cui hanno fatto seguito svariate decisioni delle Corti
costituzionali degli Stati contraenti, tendenti a far fronte ai problemi
strutturali evidenziati dai giudici di Strasburgo.
In alcuni casi,
poi, l’accertamento dell’esistenza di una violazione strutturale della CEDU ha
spinto lo Stato interessato a modificare
Con specifico
riferimento all’Italia, sono richiamati il caso Sejdovic (sentenza della Grande chambre del 1° marzo 2006), a
seguito del quale si è resa necessaria la modifica dell’art. 175 del codice di
procedura penale a seguito dell’accertamento di violazione strutturale ai sensi
dell’art. 46 CEDU, la modifica dell’art. 111 Cost., attuata in relazione alle
sentenze della Corte europea che avevano rilevato violazioni delle garanzie
dell’equo processo, e infine le sentenze n. 152 e n. 371 del 1996 della Corte costituzionale,
che hanno fatto seguito, rispettivamente, alle sentenze CEDU
Cantafio contro Italia del 20 novembre 1995 e Ferrantelli/Santangelo contro Italia del 7 agosto 1996.
8.4. – In
merito all’odierna questione, la difesa della parte privata osserva che la
tutela del diritto di proprietà prevista nell’art. 1 del primo Protocollo non
differisce nel contenuto dalla tutela apprestata dall’art. 42 Cost., posto che entrambe le norme richiedono un giusto
bilanciamento tra interessi del singolo e interesse della comunità.
Secondo la
parte costituita, la necessità di un «giusto equilibrio» porta alla conclusione
per cui «ogni volta che venga sacrificato il diritto e l’interesse di un
singolo per la realizzazione di una singola opera pubblica e/o di pubblica
utilità, l’indennizzo deve essere pari al valore venale integrale del bene,
mentre è soltanto nei casi eccezionali, in cui la privazione della proprietà
riguardi una serie indeterminata di soggetti e sia volta ad attuare
fondamentali riforme politiche, economiche e/o sociali, che l’indennizzo
potrebbe, se del caso, essere inferiore all’integrale valore venale del bene,
fermo restando che, anche in questi casi, l’indennizzo deve sempre e comunque
essere in ragionevole collegamento con detto valore».
Dunque, a
parere della parte privata, l’integrale compensazione della perdita subita dal
proprietario sarebbe perfettamente compatibile con il principio contenuto
nell’art. 42 Cost., come dimostrerebbe la circostanza
che il criterio seguito fino al 1992 è stato quello previsto dall’art. 39 della
legge n. 2359 del 1865, che fa riferimento al valore di mercato, con l’unica
eccezione costituita dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della
città di Napoli). Peraltro, si sarebbe trattato di un’eccezione solo apparente,
poiché la legge n. 2892 del 1885 riguardava essenzialmente l’espropriazione di
edifici, sicché l’indennità era determinata «sulla media del valore venale e
dei fitti coacervati dell’ultimo decennio, purché essi abbiano data certa
corrispondente al rispettivo anno di locazione», ed era assistita da una logica
legata alla contingente situazione della città di Napoli (fabbricati di scarso
valore perché degradati, che però producevano un reddito alto per la condizione
di sovraffollamento e di canoni elevati). Il criterio ivi previsto non
conduceva, pertanto, a risultati penalizzanti per gli espropriati, i quali, se
si fosse applicato il criterio generale del valore venale, avrebbero percepito
un’indennità minore.
Il criterio
previsto nel censurato art. 5-bis,
invece, non attuerebbe «il necessario ed imprescindibile giusto equilibrio tra
il diritto umano del singolo e l’interesse della collettività», assumendo,
pertanto, un «carattere sostanzialmente "punitivo”».
9. – Con ordinanza
depositata il 19 ottobre 2006 (r.o. n. 2 del 2007),
La norma è
oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione
dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di
calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale
rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data
dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
9.1. – Nel
giudizio a quo, la parte privata
M.T.G., già proprietaria di terreni siti nel comune di Ceprano, occupati nel
1980 ed espropriati nel
Con successiva
memoria, la parte ricorrente in via principale ha formulato, subordinatamente
al mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione, eccezione di
illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis,
per violazione degli artt. 2, 10, 11, 42, 97, 111 e 117 Cost.,
in relazione all’art. 1 del primo Protocollo e all’art. 6 CEDU.
9.2. – Il
giudice a quo procede preliminarmente
alla delibazione del motivo di ricorso incidentale relativo all’inammissibilità
della opposizione alla indennità, e ciò in quanto l’eventuale suo accoglimento
comporterebbe l’inapplicabilità dell’art. 5-bis
nel giudizio in corso. Superato il profilo preliminare, nel senso della
infondatezza del motivo di impugnazione, è esaminata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5-bis,
come eccepita dalla parte ricorrente.
Il percorso
argomentativo, in esito al quale
9.3. – Avuto
riguardo alla rilevanza della questione, il giudice a quo precisa che, essendo incontestata la natura edificabile delle
aree espropriate, nel giudizio principale trova applicazione, ratione temporis, la
norma contenuta nell’art. 5-bis, e
non l’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, pure
richiamato dalla parte ricorrente, il quale risulta applicabile ai soli giudizi
iniziati dopo il 1° luglio 2003. Il giudizio di opposizione alla stima è stato
introdotto nel
10. – È
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la non
fondatezza delle questioni, svolgendo considerazioni del tutto coincidenti con
quelle sviluppate nei giudizi promossi con le ordinanze del 29 maggio 2006 (r.o. n. 402 del 2006) e del 19 ottobre 2006 (r.o. n. 681 del 2006) della Corte di cassazione. Si rinvia,
pertanto, a quanto esposto nel paragrafo 2.
11. – Con
memoria depositata il 25 gennaio 2007 si è costituita M.T.G., ricorrente
principale nel giudizio a quo, la
quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità delle questioni ed in
subordine per l’accoglimento delle stesse, con conseguente declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma censurata.
La memoria
della parte privata è in tutto coincidente con quella depositata nel giudizio
di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia
a quanto esposto nel paragrafo 7.
12. – In data
20 giugno 2007
Nella memoria
si contestano il contenuto dell’atto di costituzione della Presidenza del
Consiglio dei ministri e le conclusioni ivi raggiunte, nel senso della
infondatezza delle questioni poste dalla Corte rimettente, e sono svolti
ulteriori argomenti a sostegno delle conclusioni già rassegnate nel proprio
atto di costituzione.
La memoria
propone, in maniera pressoché identica, le argomentazioni svolte nell’omologo
atto depositato dalla parte privata A.C. nel giudizio di cui al r.o. n. 681 del 2006, e pertanto si rinvia a quanto esposto
nel paragrafo 8.
Viene
segnalata, inoltre, la sproporzione ancor più grave che si produrrebbe, a
carico dei proprietari espropriati, per effetto dell’applicazione nel caso di
specie del criterio indennitario contenuto nell’art. 5-bis, trattandosi di suoli espropriati per essere destinati a fini
di edilizia residenziale pubblica. In virtù della legge 17 febbraio 1992, n.
179 (Norme per l’edilizia residenziale
pubblica), antecedente all’introduzione dell’art. 5-bis, gli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica
possono liberamente cedere tali alloggi a terzi, a qualunque prezzo, dopo che
siano trascorsi cinque anni dall’assegnazione. Ciò fa sì che il depauperamento
subito dal proprietario del suolo oggetto di espropriazione vada a beneficio di
altri privati, rientrando gli immobili ivi edificati nel mercato delle libere
contrattazioni dopo cinque anni dall’assegnazione, con la conseguenza di
rendere ancor più inaccettabile, perché ingiustificato, il criterio
indennitario previsto dalla norma censurata.
Considerato in diritto
1. – Con tre
distinte ordinanze
La norma è
oggetto di censura nella parte in cui, ai fini della determinazione
dell’indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevede il criterio di
calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale
rivalutato, disponendone altresì l’applicazione ai giudizi in corso alla data
dell’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.
2. – I giudizi,
per l’identità dell’oggetto e dei parametri costituzionali evocati, possono
essere riuniti e decisi con la medesima sentenza.
3. –
Preliminarmente, occorre valutare la ricostruzione, prospettata dalla parte
privata A.C., dei rapporti tra sistema CEDU, obblighi derivanti dalle asserite
violazioni strutturali accertate con sentenze definitive della Corte europea e
giudici nazionali.
3.1. – Secondo la suddetta parte privata, il
contrasto, ove accertato, tra norme interne e sistema CEDU dovrebbe essere
risolto con la disapplicazione delle prime da parte del giudice comune. Viene
richiamato, in proposito, il Protocollo n. 11 della Convenzione EDU, reso
esecutivo in Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione
del protocollo n. 11 alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, recante ristrutturazione del meccanismo di controllo
stabilito dalla convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994). L’art. 34 di
tale Protocollo prevede la possibilità di ricorsi individuali diretti alla
Corte europea da parte dei cittadini degli Stati contraenti, mentre, con l’art.
46, gli stessi Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della
Corte nelle controversie delle quali sono parti.
Sono parimenti
invocate
3.2. – La
prospettata ricostruzione funge da premessa alla richiesta, avanzata dalla
predetta parte privata, che la questione sia dichiarata inammissibile, posto
che i giudici comuni avrebbero il dovere di disapplicare le norme interne che
3.3. –
L’eccezione di inammissibilità non può essere accolta.
Questa Corte ha
chiarito come le norme comunitarie «debbano avere piena efficacia obbligatoria
e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi
di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni
Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e
conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i
destinatari» (sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984). Il fondamento
costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell’art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della
sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni
internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni.
Il riferito indirizzo giurisprudenziale non
riguarda le norme CEDU, giacché questa Corte aveva escluso, già prima di
sancire la diretta applicabilità delle norme comunitarie nell’ordinamento
interno, che potesse venire in considerazione, a proposito delle prime, l’art.
11 Cost. «non essendo individuabile, con riferimento
alle specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità
nazionale» (sentenza n. 188 del 1980). La distinzione tra
le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente
procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa
Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto
tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono
pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non
producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la
competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad
essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in
eventuale contrasto.
L’art. 117,
primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con
la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato
il precitato orientamento giurisprudenziale di questa Corte. La disposizione
costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i
vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da
quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».
Si tratta di
una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale.
Con l’adesione
ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un "ordinamento” più
ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in
riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi,
con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali
garantiti dalla Costituzione.
Correttamente il giudice a quo ha escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della
norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di
Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con
3.4. – Si
condivide anche l’esclusione – argomentata nelle ordinanze di rimessione –
delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall’ambito di operatività
dell’art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla
costante giurisprudenza di questa Corte sul punto. La citata disposizione
costituzionale, con l’espressione «norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute», si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e
dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento
giuridico italiano. Le norme pattizie, ancorché generali, contenute in trattati
internazionali bilaterali o multilaterali, esulano pertanto dalla portata
normativa del suddetto art. 10. Di questa categoria fa parte
4. – La
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata in riferimento all’art.
117, primo comma, Cost., è fondata.
4.1. – La
questione, così come proposta dal giudice rimettente, si incentra sul presunto
contrasto tra la norma censurata e l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU,
quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo, in quanto i
criteri di calcolo per determinare l’indennizzo dovuto ai proprietari di aree
edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse condurrebbero alla
corresponsione di somme non congruamente proporzionate al valore dei beni
oggetto di ablazione.
Il parametro
evocato negli atti introduttivi del presente giudizio è l’art. 117, primo
comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione). Il giudice
rimettente ricorda infatti che la stessa norma ora censurata è già stata
oggetto di scrutinio di costituzionalità da parte di questa Corte, che ha
rigettato la questione di legittimità costituzionale, allora proposta in
relazione agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 Cost. (sentenza n.
283 del 1993). La sentenza citata è stata successivamente confermata
da altre pronunce di questa Corte del medesimo tenore. Il rimettente non chiede
oggi alla Corte costituzionale di modificare la propria consolidata
giurisprudenza nella materia de qua,
ma mette in rilievo che il testo riformato dell’art. 117, primo comma, Cost., renderebbe necessaria una nuova valutazione della
norma censurata in relazione a questo parametro, non esistente nel periodo in
cui la pregressa giurisprudenza costituzionale si è formata.
4.2. –
Impostata in tal modo la questione da parte del rimettente, è in primo luogo
necessario riconsiderare la posizione e il ruolo delle norme della CEDU, allo
scopo di verificare, alla luce della nuova disposizione costituzionale, la loro
incidenza sull’ordinamento giuridico italiano.
L’art. 117,
primo comma, Cost. condiziona l’esercizio della
potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi
internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla
Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Prima della sua introduzione,
l’inserimento delle norme internazionali pattizie nel sistema delle fonti del
diritto italiano era tradizionalmente affidato, dalla dottrina prevalente e
dalla stessa Corte costituzionale, alla legge di adattamento, avente
normalmente rango di legge ordinaria e quindi potenzialmente modificabile da
altre leggi ordinarie successive. Da tale collocazione derivava, come naturale
corollario, che le stesse norme non potevano essere assunte quali parametri del
giudizio di legittimità costituzionale (ex
plurimis, sentenze n. 188 del 1980, n. 315 del 1990, n. 388 del 1999).
4.3. –
Rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti alla difficile individuazione
del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovevano nell’ambito della
tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integravano
l’attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa
Costituzione italiana, ma dall’altra mantenevano la veste formale di semplici
fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore potesse
modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo quanto
affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non
seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema
degli effetti giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse
ed una norma legislativa posteriore.
Tale situazione
di incertezza ha spinto alcuni giudici comuni a disapplicare direttamente le
norme legislative in contrasto con quelle CEDU, quali interpretate dalla Corte
di Strasburgo. S’è fatta strada in talune pronunce dei giudici di merito, ma
anche in parte della giurisprudenza di legittimità (Cass.,
sez. I, sentenza n. 6672 del 1998; Cass., sezioni unite, sentenza n. 28507 del
2005), l’idea che la specifica antinomia possa essere eliminata con i normali
criteri di composizione in sistema delle fonti del diritto. In altre parole, si
è creduto di poter trarre da un asserito carattere sovraordinato della fonte
CEDU la conseguenza che la norma interna successiva, modificativa o abrogativa
di una norma prodotta da tale fonte, fosse inefficace, per la maggior forza
passiva della stessa fonte CEDU, e che tale inefficacia potesse essere la base
giustificativa della sua non applicazione da parte del giudice comune.
Oggi questa
Corte è chiamata a fare chiarezza su tale problematica normativa e
istituzionale, avente rilevanti risvolti pratici nella prassi quotidiana degli
operatori del diritto. Oltre alle considerazioni che sono state svolte nel
paragrafo 3.3 (per più ampi svolgimenti si rinvia alla sentenza n. 349
del 2007), si deve aggiungere che il nuovo testo dell’art. 117,
primo comma, Cost, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di
resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra
attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli
eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo
o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in
contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Il giudice comune non
ha, dunque, il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta
in contrasto con una norma CEDU, poiché l’asserita incompatibilità tra le due
si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di
esclusiva competenza del giudice delle leggi.
Ogni
argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una
sorta di "adattamento automatico”, sul modello dell’art. 10, primo comma,
Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla
Costituzione italiana – di cui s’è detto al paragrafo 3.4 – e più volte
ribadito da questa Corte, secondo cui l’effetto previsto nella citata norma
costituzionale non riguarda le norme pattizie (ex plurimis, sentenze n. 32 del 1960, n. 323 del 1989, n. 15 del 1996).
4.4. – Escluso
che l’art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo,
possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme
costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure
escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell’ambito dei
rapporti tra lo Stato e le Regioni. L’utilizzazione del criterio interpretativo
sistematico, isolato dagli altri e soprattutto in contrasto con lo stesso
enunciato normativo, non è sufficiente a circoscrivere l’effetto condizionante
degli obblighi internazionali, rispetto alla legislazione statale, soltanto al
sistema dei rapporti con la potestà legislativa regionale. Il dovere di
rispettare gli obblighi internazionali incide globalmente e univocamente sul
contenuto della legge statale; la validità di quest’ultima non può mutare a
seconda che la si consideri ai fini della delimitazione delle sfere di
competenza legislativa di Stato e Regioni o che invece la si prenda in esame
nella sua potenzialità normativa generale. La legge – e le norme in essa
contenute – è sempre la stessa e deve ricevere un’interpretazione uniforme, nei
limiti in cui gli strumenti istituzionali predisposti per l’applicazione del
diritto consentono di raggiungere tale obiettivo.
Del resto,
anche se si restringesse la portata normativa dell’art. 117, primo comma, Cost.
esclusivamente all’interno del sistema dei rapporti
tra potestà legislativa statale e regionale configurato dal titolo V della
parte seconda della Costituzione, non si potrebbe negare che esso vale comunque
a vincolare la potestà legislativa dello Stato sia nelle materie indicate dal
secondo comma del medesimo articolo, di competenza esclusiva statale, sia in
quelle indicate dal terzo comma, di competenza concorrente. Poiché, dopo la
riforma del titolo V, lo Stato possiede competenza legislativa esclusiva o
concorrente soltanto nelle materie elencate dal secondo e dal terzo comma,
rimanendo ricomprese tutte le altre nella competenza residuale delle Regioni,
l’operatività del primo comma dell’art. 117, anche se considerata solo
all’interno del titolo V, si estenderebbe ad ogni tipo di potestà legislativa,
statale o regionale che sia, indipendentemente dalla sua collocazione.
4.5. – La
struttura della norma costituzionale, rispetto alla quale è stata sollevata la
presente questione, si presenta simile a quella di altre norme costituzionali,
che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto
collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare
contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una
qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a
tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra
questa e la legge ordinaria. A prescindere dall’utilizzazione, per indicare
tale tipo di norme, dell’espressione "fonti interposte”, ricorrente in dottrina
ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 101 del 1989, n. 85 del 1990, n. 4 del 2000, n. 533 del 2002, n. 108 del 2005, n. 12 del 2006, n. 269 del 2007), ma di cui viene talvolta
contestata l’idoneità a designare una categoria unitaria, si deve riconoscere
che il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. diventa concretamente operativo solo se vengono determinati
quali siano gli "obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa
dello Stato e delle Regioni. Nel caso specifico sottoposto alla valutazione di
questa Corte, il parametro viene integrato e reso operativo dalle norme della
CEDU, la cui funzione è quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza
degli obblighi internazionali dello Stato.
4.6. –
Poiché le norme
giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto,
i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32,
paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti
dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di
adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato
attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse
interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza
giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato
italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti
hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro
obblighi internazionali nella specifica materia.
4.7. – Quanto
detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla
Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono
perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte.
Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma
rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse
siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme,
diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo
scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei
principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni
profilo di contrasto tra le "norme interposte” e quelle costituzionali.
L’esigenza che
le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse
conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso
che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un’altra
norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con
Nell’ipotesi di
una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale,
questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare
il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento
giuridico italiano.
Poiché, come
chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle
stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità
costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non
la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le
pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini
del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve
sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli
obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente
protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
In sintesi, la
completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro
compatibilità con l’ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato
da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni
internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di
sovranità come quelle previste dall’art. 11 della Costituzione.
5. – Alla luce
dei principi metodologici illustrati sino a questo punto, lo scrutinio di
legittimità costituzionale chiesto dalla Corte rimettente deve essere condotto
in modo da verificare: a) se
effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la
norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed
assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui
all’art. 117, primo comma, Cost.; b)
se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro,
nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con
l’ordinamento costituzionale italiano.
5.1. – L’art.
5-bis del decreto-legge n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prescrive, al
primo comma, i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica
utilità delle aree edificabili, che consistono nell’applicazione dell’art. 13,
terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di
Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell’ultimo decennio il
reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo
unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R.
22 dicembre 1986, n. 917». L’importo così determinato è ridotto del 40 per
cento. Il secondo comma aggiunge che, in caso di cessione volontaria del bene
da parte dell’espropriato, non si applica la riduzione di cui sopra.
La norma
censurata è stata oggetto di questione di legittimità costituzionale, definita
con la sentenza n. 283 del 1993.
Nel dichiarare
non fondata la questione, questa Corte ha richiamato la sua pregressa
giurisprudenza, consolidatasi negli anni, sul concetto di «serio ristoro»,
particolarmente illustrato nella sentenza n. 5 del 1980. Quest’ultima
pronuncia ha stabilito che «l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art.
42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una
integrale riparazione della perdita subita – in quanto occorre coordinare il
diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a
realizzare – non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o
meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro. Perché ciò possa
realizzarsi, occorre far riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al
valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi
dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal
modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed
evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del
bene».
Il principio
del serio ristoro è violato, secondo tale pronuncia, quando, «per la
determinazione dell’indennità, non si considerino le caratteristiche del bene
da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di
esso».
5.2. –
L’effetto della sentenza da ultimo richiamata (e della successiva n. 223 del 1983) è stato quello di rendere
nuovamente applicabile il criterio del valore venale, quale previsto dall’art.
39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità
pubblica) sino all’introduzione, nel 1992, della norma censurata.
A proposito di
quest’ultima,
Posto che, in
conformità all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, deve essere
esclusa «una valutazione del tutto astratta in quanto sganciata dalle
caratteristiche essenziali del bene ablato», questa
Corte ha ritenuto ammissibili criteri «mediati», lasciando alla discrezionalità
del legislatore l’individuazione dei parametri concorrenti con quello del
valore venale.
Come emerge
chiaramente dalla citata pronuncia, questa Corte, accanto al criterio del serio
ristoro – che esclude la pura e semplice identificazione dell’indennità
espropriativa con il valore venale del bene – ha pure riconosciuto la
relatività sincronica e diacronica dei criteri di determinazione adottabili dal
legislatore. In altri termini, l’adeguatezza dei criteri di calcolo deve essere
valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al momento
del giudizio. Né il criterio del valore venale (pur rimasto in vigore dal 1983
al 1992), né alcuno dei criteri «mediati» prescelti dal legislatore possono
avere i caratteri dell’assolutezza e della definitività. La loro collocazione
nel sistema e la loro compatibilità con i parametri costituzionali subiscono
variazioni legate al decorso del tempo o al mutamento del contesto
istituzionale e normativo, che non possono restare senza conseguenze nello
scrutinio di costituzionalità della norma che li contiene.
5.3. –
5.4. – Sul
primo punto, si deve rilevare che l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU è
stato oggetto di una progressiva focalizzazione interpretativa da parte della
Corte di Strasburgo, che ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una
portata ritenuti dalla stessa Corte incompatibili con la disciplina italiana
dell’indennità di espropriazione.
In esito ad una
lunga evoluzione giurisprudenziale, la Grande Chambre,
con la decisione del 29 marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, ha fissato alcuni
principi generali: a) un atto della autorità
pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto
equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui (punto 93); b) nel controllare il rispetto di questo
equilibrio,
Poiché i
criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione previsti dalla legge
italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma
largamente inferiore al valore di mercato (o venale),
5.5. – Per
stabilire se e in quale misura la suddetta pronuncia della Corte europea incide
nell’ordinamento giuridico italiano, occorre esaminare analiticamente il
criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione previsto dalla norma
censurata.
L’indennità
dovuta al proprietario espropriato, secondo la citata norma, è pari alla media
del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito
all’ultimo decennio, con un’ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra
così ottenuta.
Si deve, in
primo luogo, osservare che è stato modificato l’originario criterio previsto
dalla legge n. 2892 del 1885, che, essendo mirata al risanamento di una grande
città, prevedeva coerentemente il ricorso, ai fini della media, alla somma
risultante dai «fitti coacervati» dell’ultimo decennio. C’era l’evidente e
dichiarata finalità di indennizzare i proprietari di fabbricati ricadenti
nell’area urbana, tenendo conto che gli stessi erano per lo più degradati, ma
densamente abitati da inquilini che pagavano alti canoni di locazione. Si
intendeva, in tal modo, indennizzare i proprietari per il venir meno di un
reddito concreto costituito dai fitti che gli stessi percepivano. L’indennizzo
così calcolato poteva essere anche più alto del valore venale del bene in sé e
per sé considerato.
La sostituzione
dei fitti coacervati con il reddito dominicale ha spostato verso il basso
l’indennità rispetto a quella prevista dalla legge per il risanamento di
Napoli, con il risultato pratico che, nella generalità dei casi, la somma
ottenuta in base alla media prevista dalla legge è di circa il 50 per cento del
valore venale del bene. A ciò si aggiunge l’ulteriore decurtazione del 40 per
cento, evitabile solo con la cessione volontaria del bene.
5.6. – Sia la
giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte
europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare
l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del
bene ablato. V’è pure concordanza di principio – al
di là delle diverse espressioni linguistiche impiegate – sulla non coincidenza
necessaria tra valore di mercato e indennità espropriativa, alla luce del
sacrificio che può essere imposto ai proprietari di aree edificabili in vista
del raggiungimento di fini di pubblica utilità.
Rispetto alla
pregressa giurisprudenza di questa Corte, si deve rilevare un apparente
contrasto tra le sentenze di rigetto (principalmente la n. 283 del 1993) sulle questioni riguardanti
la norma oggi nuovamente censurata e la netta presa di posizione della Corte di
Strasburgo circa l’incompatibilità dei criteri di computo previsti in tale
norma e l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU.
In realtà, come
rilevato, questa Corte – nel dichiarare non fondata la questione relativa
all’art. 5-bis del decreto-legge n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 – ha
posto in rilievo il carattere transitorio di tale disciplina, giustificata
dalla grave congiuntura economica che il Paese stava attraversando ed ha
precisato – come s’è ricordato al paragrafo 5.2 – che la valutazione
sull’adeguatezza dell’indennità deve essere condotta in termini relativi,
avendo riguardo al quadro storico-economico ed al contesto istituzionale.
Sotto il primo
profilo, si deve notare che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto
dalla norma censurata è divenuto oggi definitivo, ad opera dell’art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità) – non censurato ratione temporis dal giudice rimettente –, che contiene una
norma identica, conformemente, del resto, alla sua natura di atto normativo
compilativo. È venuta meno, in tal modo, una delle condizioni che avevano
indotto questa Corte a ritenere la norma censurata non incompatibile con
Un’indennità
«congrua, seria ed adeguata» (come precisato dalla sentenza n. 283 del 1993) non può adottare il
valore di mercato del bene come mero punto di partenza per calcoli successivi
che si avvalgono di elementi del tutto sganciati da tale dato, concepiti in
modo tale da lasciare alle spalle la valutazione iniziale, per attingere
risultati marcatamente lontani da essa. Mentre il reddito dominicale mantiene
un sia pur flebile legame con il valore di mercato (con il risultato pratico
però di dimezzare, il più delle volte, l’indennità), l’ulteriore detrazione del
40 per cento è priva di qualsiasi riferimento, non puramente aritmetico, al
valore del bene. D’altronde tale decurtazione viene esclusa in caso di cessione
volontaria e quindi risulta essere non un criterio, per quanto "mediato”, di
valutazione del bene, ma l’effetto di un comportamento dell’espropriato.
5.7. – Da
quanto sinora detto si deve trarre la conclusione che la norma censurata – la
quale prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per
cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di
costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale,
prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata di
questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia minima accettabile
di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del
fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene ulteriormente falcidiata
dall’imposizione fiscale, la quale – come rileva il rimettente – si attesta su
valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere imposto
in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla pratica
vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà.
Non emergono,
sulla base delle considerazioni fin qui svolte, profili di incompatibilità tra
l’art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte di
Strasburgo, e l’ordinamento costituzionale italiano, con particolare
riferimento all’art. 42 Cost.
Si deve
tuttavia riaffermare che il legislatore non ha il dovere di commisurare
integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato. L’art. 42 Cost. prescrive
alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in
risalto la «funzione sociale». Quest’ultima deve essere posta dal legislatore e
dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost.,
che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà economica e sociale. Livelli troppo elevati di spesa per
l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di
pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti
fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli
altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle
infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa
economica privata.
Valuterà il
legislatore se l’equilibrio tra l’interesse individuale dei proprietari e la
funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in
conformità all’orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in
modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica
perseguiti. Certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità
limitate a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati
di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti,
l’eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o
troppo onerose iniziative di questo tipo; tale effetto non deriverebbe invece
da una riparazione, ancorché più consistente, per gli «espropri isolati», di
cui parla
Esiste la
possibilità di arrivare ad un giusto mezzo, che possa rientrare in quel
«margine di apprezzamento», all’interno del quale è legittimo, secondo la
costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il singolo Stato si
discosti dagli standard previsti in via generale dalle norme CEDU, così come
interpretate dalle decisioni della stessa Corte. Ciò è conforme peraltro a
quella «relatività dei valori» affermata, come ricordato sopra, dalla Corte
costituzionale italiana. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano
di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il
bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata
sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre
definite e classificate dalla legge in via generale.
È inoltre
evidente che i criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione
riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo
rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento
non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici
vigenti nei diversi territori.
6. – La
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., rende
superflua ogni valutazione sul dedotto contrasto con l’art. 111 Cost., in
rapporto all’applicabilità della stessa norma ai giudizi in corso al momento
della sua entrata in vigore, poiché, ai sensi dell’art. 30, terzo comma, della
legge 11 marzo 1953, n. 87, essa non potrà avere più applicazione dal giorno
successivo alla pubblicazione delle presente sentenza.
7. – Ai sensi
dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, deve essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale, in via consequenziale, dei commi 1 e 2 dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, che contengono norme identiche a
quelle dichiarate in contrasto con
per questi motivi
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359;
dichiara, ai sensi dell’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.
F.to:
Depositata in