SENTENZA N. 349
ANNO 2007
Commenti alla decisione di
I. Claudio Zanghì,
La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea
dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione:le sentenze n. 347 e 348 del 2007, nella
Rubrica "Studi” di Consulta OnLine
II. Antonio Ruggeri, La CEDU alla ricerca di
una nuova identità (sentt. nn. 348/2007 e 349/2007 , per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
III. Renzo Dickmann,
Corte costituzionale e diritto
internazionale nel sindacato delle leggi per contrasto con l’articolo 117,
primo comma, della Costituzione per g.c. della
Rivista telematica Federalismi.it
IV. Anna Moscarini,
Indennità di espropriazione e valore di
mercato del bene: un passo avanti e uno indietro della Consulta nella
costruzione del patrimonio costituzionale europeo per g.c.
della Rivista telematica Federalismi.it
V. Tommaso F. Giupponi, Corte
costituzionale, obblighi internazionali e "controlimiti allargati”: che tutto
cambi perché tutto rimanga uguale?, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VI. Diletta Tega, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la Cedu
da fonte ordinaria a fonte "sub-costituzionale” del diritto, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VII. Nicola Pignatelli, La dilatazione della tecnica della
"interposizione” (e del giudizio costituzionale), per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VIII. Cristina Napoli, La nuova collocazione della CEDU nel
sistema delle fonti e le conseguenti prospettive di dialogo tra le Corti, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
IX. Cesare Pinelli, Sul trattamento giurisdizionale della CEDU
e delle leggi con essa confliggenti per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
X. Giulia Pili, Il nuovo "smalto costituzionale” della CEDU
agli occhi della Consulta (sentt. nn. 348 e 349 del 2007), per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XI. Vincenzo Sciarabba, Nuovi punti fermi e questioni aperte) nei rapporti tra
fonti e corti nazionali ed internazionali per g.c.
del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
XII. Stefano Cicconetti, Creazione indiretta del diritto e norme interposte per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
XIII. Andrea Filippini, Il caso Dorigo,
La CEDU e la Corte costituzionale: l'effettività della tutela dei diritti dopo
le sentenze 348 e 349 del 2007, per g.c. della Rivista telematica Costituzionalismo.it
XIV. Dian Schefold, L’osservanza
dei diritti dell’uomo garantiti nei trattati internazionali da parte del
giudice italiano per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XV. Fulvio Cortese, La
garanzia costituzionale del diritto di proprietà tra espropriazione e
occupazione acquisitiva per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XVI. Simone Penasa, Tanto rumore per nulla o meglio tardi che
mai? Ancora sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, tra dubbi
ermeneutici e possibili applicazioni future per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XVII. Filippo Donati, La
CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle sentenze
della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007 per g.c. della Rivista telematica Osservatorio sulle fonti
XVIII. Ilaria Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi
internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte
costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
XIX. Elisabetta Lamarque, Il
vincolo alle leggi statali e regionali derivante dagli obblighi internazionali
nella giurisprudenza comune, dalla Rubrica Atti di convegni e seminari del sito della Corte costituzionale
XX. Monica Lugato, Struttura e contenuto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
al vaglio della Corte costituzionale, nella Rubrica Studi, 2009, di questa
XXI. Felice Giuffré, Corte
costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'uomo: un dialogo senza
troppa confidenza, per g.c. della Rivista
telematica Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK
Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nei giudizi
di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma
65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), promossi con ordinanza del 20 maggio 2006 dalla Corte di
cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Comune di Avellino
ed altri ed E. P. in proprio e n. q. di procuratore di G. P. e di D. P. ed
altri e con ordinanza del 29 giugno 2006 dalla Corte d’appello di Palermo nel
procedimento civile vertente tra A. G. ed altre e il Comune di Leonforte ed
altro, iscritte ai nn. 401 e 557 del registro
ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visti gli
atti di costituzione di G. C. n. q. di erede di E. P. e di G. P. ed altri n. q.
di eredi di D. P., di A. G. ed altre, fuori termine, nonché gli atti di
intervento di A. C. fu G. s.r.l., della Consulta per la giustizia europea dei
diritti dell’uomo CO.G.E.D.U. e del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2007 e nella camera di consiglio del 4
luglio 2007 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Maurizio de Stefano e Anton Giulio Lana per la Consulta per
la giustizia europea dei diritti dell’uomo CO.G.E.D.U.,
Antonio Barra per G. C. n. q. di erede di E. P. e per G. P. ed altri n. q. di
eredi di D. P. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – La
Corte di cassazione e la Corte d’appello di Palermo, con ordinanze del 20
maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all’art. 111,
primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU),
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed
esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo
addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché
all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della
CEDU ed all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo),
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis,
comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333
(Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall’art. 3,
comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica).
2. – La
Corte di cassazione premette che il giudizio principale ha ad oggetto una
domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune di Avellino e
dell’Istituto autonomo case popolari (IACP) della stessa città, al fine di ottenerne la
condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva
di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati realizzati alloggi
popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento dell’indennità per
l’occupazione temporanea degli stessi immobili.
La stessa
Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo il ricorso
proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la pronuncia d’appello,
ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha introdotto un criterio
riduttivo per il computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.
Riassunto
il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato l’indennità in base
alla disposizione censurata; la pronuncia è stata impugnata dalle parti
private, che, tra l’altro, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale del
citato art. 5-bis, comma 7-bis.
2.1. – La
rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che inducono ad escludere
l’abrogazione della norma denunciata ad opera dell’art. 111 Cost.
– come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2
(Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della
Costituzione) – ovvero dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e
modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sintetizza le
pronunce di questa Corte che hanno già scrutinato la norma censurata, in riferimento
agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost.
L’ordinanza
esamina, quindi, l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in
ordine all’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo, evolutosi
nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di proprietà. In
particolare, ricorda che la previsione di un’indennità equitable
è stata limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere
illecito dell’occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della
quantificazione dell’indennità, sicché, qualora non sia possibile la
restituzione in natura del bene, all’espropriato è dovuta una somma
corrispondente al valore venale.
Secondo il
rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze, puntualmente indicate, ha
ritenuto che l’occupazione acquisitiva si pone in contrasto con le citate norme
convenzionali, tra l’altro, nella parte in cui non garantisce il diritto degli
espropriati al risarcimento del danno in misura corrispondente al valore venale
del bene, affermando analogo criterio di computo per il calcolo dell’indennità
nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta indennità può non essere
commisurata al «valore pieno ed intero dei beni» nei soli casi di
espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica utilità e,
tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti con misure
di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare
cambiamenti del sistema costituzionale.
In seguito,
la medesima Corte, con le sentenze indicate nell’ordinanza di rimessione, ha
applicato questi princípi anche in riferimento al
criterio stabilito dal censurato art. 5-bis e,
ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una complessa
manovra finanziaria, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento
commisurato alla differenza tra l’indennità percepita ed il valore venale del
bene, reputando che l’espropriato, a causa del tempo trascorso, aveva visto
leso il proprio affidamento ad un indennizzo calcolato in base a quest’ultimo parametro.
In virtù delle sentenze di questa Corte n. 5 del 1980
e n. 223 del 1983,
il criterio di liquidazione per l’espropriazione delle aree edificabili avrebbe
infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di
compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante
«Espropriazioni per causa di utilità pubblica»); quindi, l’applicabilità del
sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il diritto della
persona al rispetto dei propri beni, anche perché la disciplina fiscale incide
ulteriormente sulla somma concretamente percepita.
Pertanto,
secondo la Corte di Strasburgo, l’espropriazione indiretta o occupazione
acquisitiva – riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità») e dalla
giurisprudenza italiane – sarebbe incompatibile con l’art. l del Protocollo e
la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del
pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla retroattività della
disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso.
In
definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto con l’art. 1 del
Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché al solo scopo di
sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di riforme
economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore pari al
valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio
riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di
espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone l’applicabilità del
criterio ai giudizi in corso, in violazione dell’art. 6 della CEDU; in quarto luogo, poiché viola il principio di
legalità ed il diritto ad un processo equo, dato che la disposizione ha inciso
sull’esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni
pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su
presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la parte aveva legittimamente
fatto affidamento all’atto dell’instaurazione della lite.
2.2. – Secondo
la rimettente, benché la disposizione censurata si ponga in contrasto con le
citate norme convenzionali, come interpretate dalla Corte europea, non sarebbe
tuttavia ammissibile la sua "non applicazione”, mentre la Corte di cassazione
talora ha affermato che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed
applicare il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme alla CEDU ed all’interpretazione offertane dalla Corte di
Strasburgo, talaltra ha attenuato l’efficacia vincolante delle sentenze della
Corte europea.
A suo
avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del giudice comune di
"non applicare” la norma interna, in quanto sussistente soltanto nel caso di
contrasto con norme comunitarie e fondato sull’art. 11 Cost.
Il paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht neppure permetterebbe di
ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con la conseguenza che l’interpretazione della
Convenzione non spetta alla Corte di giustizia delle Comunità europee,
dichiaratasi incompetente a fornire elementi interpretativi per la valutazione
da parte del giudice nazionale della conformità delle norme di diritto interno
ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l’osservanza (nel contesto
comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando
«tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di
applicazione del diritto comunitario» (sentenza
29 maggio 1997, causa C-299/1995).
Peraltro,
la teoria dei "controlimiti” potrebbe far ipotizzare un contrasto tra la regola
che commisura l’indennità di espropriazione al valore venale del bene ed il
principio costituzionale in virtù del quale il diritto di proprietà sarebbe
recessivo rispetto all’interesse primario dell’utilità sociale. In ogni caso,
siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione ai sensi dell’art.
10 Cost.,
sia in quanto tale norma costituzionale non concerne il diritto pattizio, sia
in quanto essa neppure esprime un valore generalmente riconosciuto dagli Stati
e, comunque, in quanto il giudice nazionale, se pure potesse direttamente
recepire l’interpretazione della Corte europea, non avrebbe il potere di
stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista dalla
norma denunciata.
In
conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna con le
norme convenzionali non può essere evitato attraverso un’interpretazione secundum constitutionem della
prima e, d’altro canto, il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma
interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti e ad
affermare la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte interna.
2.3. –
L’ordinanza di rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non
irragionevole la retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del
1999), non ha scrutinato tale norma in riferimento all’art.
111 Cost.
Ad avviso
del giudice a quo, il contenuto precettivo del parametro costituzionale evocato
non sarebbe stato compiutamente approfondito e, sebbene l’intento del
legislatore, di costituzionalizzare la disposizione convenzionale, sia stato
accantonato nel corso dei lavori preparatori, ciò non esclude che la
giurisprudenza della Corte europea possa contribuire alla sua corretta
interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la collocazione
della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata
ancora chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di
Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l’art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parità delle parti
davanti al giudice vieta al legislatore di intervenire nella risoluzione di una
singola causa, o di una determinata categoria di controversie. Le fattispecie
decise dal giudice europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio
principale, nella quale i proprietari, espropriati nell’anno 1985 in forza
della occupazione acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere
l’indennizzo di natura risarcitoria loro spettante in virtù dei principi
enunciati dalla Corte regolatrice – fondati sull’art. 39 della legge n. 2359
del 1865 e sull’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello
Stato nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri
delle indennità di esproprio) – corrispondente al valore venale dei beni; il
giudice di merito aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel
corso del giudizio innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma
impugnata che ha diversamente commisurato l’indennizzo, disponendo
l’applicabilità del nuovo criterio ai giudizi in corso non definiti con
sentenza passata in giudicato, con il risultato di ridurre, a giudizio
iniziato, l’indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello in vista
del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio.
2.4. –
Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata si porrebbe, inoltre, in
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel testo novellato a seguito della riforma del
titolo V della Costituzione, mira ad eliminare una lacuna del nostro
ordinamento, determinata dal contenuto dell’art. 10 Cost.,
stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale.
La
disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo ed il
diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU
ed 1 del Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e,
conseguentemente, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
3. – La
Corte d’appello di Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di
rinvio avente ad oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da
alcuni privati, i quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro
proprietà ha costituito oggetto di un procedimento di espropriazione per la
costruzione di alloggi di edilizia popolare ed è stato irreversibilmente
trasformato, in difetto della adozione di regolare provvedimento di
espropriazione; gli enti pubblici si sono costituiti nel giudizio contestando
la fondatezza della domanda e chiedendo che siano applicate le norme recate dal
d.P.R. n. 327 del 2001; è stata inoltre accertata l’irreversibile
trasformazione del fondo.
Secondo il
giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio
comporta che il decreto di espropriazione dell’immobile, in quanto adottato
dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, è
illegittimo e deve essere disapplicato. La fattispecie oggetto del giudizio va
qualificata come occupazione acquisitiva, poiché la trasformazione del bene è
stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità,
quindi, alla data di scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n.
2359 del 1865, il bene è stato acquistato dagli enti pubblici, a titolo
originario, e gli attori sono titolari del diritto ad ottenere il risarcimento
del danno. Nella specie sarebbe applicabile il citato art. 5-bis,
comma 7-bis, mentre, ad avviso del rimettente, alla
data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti
private, in virtù dei princípi enunciati dalla
sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di
quanto previsto dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare
affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno pari al valore venale
del fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato.
La Corte
d’appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in riferimento agli
stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione e con
argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella relativa
ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate.
4. – Nel
giudizio promosso dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato che, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica,
ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Secondo la
difesa erariale, l’ordinanza di rimessione richiede di accertare: a) se, nel
caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza della Corte
europea, prevalga la seconda; b) se l’eventuale prevalenza della giurisprudenza
di detta Corte concerna anche le norme costituzionali.
A suo
avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in via
interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme
convenzionali; l’art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a
Strasburgo l’11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto
1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante
ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto
a Strasburgo l’11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta Corte
concerne tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della
Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un potere creativo
di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema della Convenzione di
Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione
della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il
23 maggio 1969), «che vuole testuale ed oggettiva l’interpretazione di
qualunque trattato».
Pertanto,
se la Corte europea non ha titolo per dubitare della legittimità, nel diritto
nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di calcolo
dell’indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione conforme agli
artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l’art. 111 Cost.,
contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non concerne la disciplina
sostanziale e, comunque, l’art. 6 della CEDU non
stabilisce il divieto di retroattività della legge in materia diversa da quella
penale.
Secondo la
difesa erariale, l’art. 117, primo comma, Cost., fa
riferimento ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali» che, come chiarisce l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da «accordi di
reciproca limitazione della sovranità di cui all’art. 11 della Costituzione,
dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali» e «nulla di tutto
ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo a proposito delle leggi
retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le quali opera,
tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale». Analogamente,
l’art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte EDU, che l’indennizzo per l’espropriazione debba coincidere
con il valore venale del bene.
Infine, la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta anche perchè il valore venale del bene è dato dall’utilizzabilità
dell’area per edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione
del terreno al lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo
l’interveniente, l’esperienza insegna «che su un terreno di X mq l’area
edificabile al netto degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e
per l’assetto del territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è irragionevole che
la legge disponga in detti casi una drastica riduzione del valore per metro
quadro.
4.1. – Nel
giudizio di costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti
del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione, anche sulla
scorta di argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte
nell’ordinanza di rimessione.
Dopo avere
esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del principio secondo il
quale il diritto non può porsi in contrasto con il senso comune del giusto, le
parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche l’art. 3 della legge
n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonché alcune
sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto di quanti hanno
subito un’occupazione acquisitiva di conservare la proprietà del bene e di
ottenere un risarcimento pari al valore venale del bene, si porrebbero in
contrasto con l’art. 1 del Protocollo.
La
retroattività della norma denunciata è censurata anche attraverso richiami alla
Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati Uniti d’America e
ad un ampio excursus storico, svolti per evidenziare il contrasto di detta
norma con l’art. 1 del Protocollo, violato altresì dal riconoscimento
dell’istituto dell’accessione invertita e dalla legittimazione di un’attività
illecita quale fonte di acquisto del diritto di proprietà da parte della
pubblica amministrazione.
Pertanto,
secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto illecito come fonte
di estinzione del diritto di proprietà del privato, violerebbe l’art. 10, primo
comma, Cost., in relazione all’art. 1, secondo comma, del Protocollo,
nonché l’art. 53 Cost..
Infine, la
disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 10, primo comma, e con l’art.
111, secondo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6, n. 1, della legge n. 848
del 1955, fermo restando l’obbligo di risarcire il danno conseguente dalla
violazione del termine di durata ragionevole del processo (art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89).
4.2. – Nel
giudizio è intervenuta una società a r.l., chiedendo
l’accoglimento della questione e deducendo di essere titolare di un interesse
che ne legittimerebbe l’intervento, in quanto parte di un altro processo avente
anch’esso ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva,
sospeso sino all’esito del presente giudizio.
4.3. –
Infine, ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia
Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.), in persona
del legale rappresentante, la quale, anche nella memoria depositata in
prossimità dell’udienza pubblica, espone che non è parte del processo
principale «e non sarebbe direttamente toccata dalla legislazione oggetto del
giudizio presupposto», poiché non ha alcun interesse particolare che possa
riguardare l’espropriazione per pubblica utilità. Tuttavia, la legittimazione
all’intervento si fonderebbe sulla circostanza che l’esito del giudizio
inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e sul suo interesse ad
una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU
rango costituzionale.
5. – Nel
giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, svolgendo, nell’atto di intervento e nella memoria depositata in
prossimità della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute
nell’atto di intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di
cassazione e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.
5.1. – Nel
giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo si sono altresì costituite,
con atto depositato fuori termine, le parti private del processo principale.
Considerato in diritto
1. – Le
questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di
Palermo investono l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall’art. 3,
comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni
illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente
al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione
del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato
del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche
ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato».
Secondo le
ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale
alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all’art. 1 del
Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l’applicabilità ai giudizi in
corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno
da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo
indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di
proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i
corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Inoltre,
detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e
secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU,
poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il
principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità
delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre
una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di
controversie.
2. – I
giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli
stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni
sostanzialmente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con un’unica
sentenza.
3. –
Preliminarmente, deve essere ribadita l’inammissibilità degli interventi della
Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.)
e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della quale è stata data
lettura in udienza, allegata alla presente sentenza.
Inoltre, va
dichiarata l’inammissibilità della costituzione delle parti del giudizio
pendente dinanzi alla Corte d’appello di Palermo, poiché avvenuta oltre il
termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato secondo
quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte, sentenza
n. 190 del 2006).
4. – Le due
ordinanze di rimessione hanno motivato non implausibilmente
in ordine alle ragioni dell’applicabilità, in entrambi i giudizi, della norma
censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla
circostanza che gli stessi hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione
acquisitiva, disciplinata appunto da detta norma.
Inoltre, in
virtù di un principio che va confermato, la questione di legittimità
costituzionale può avere ad oggetto anche l’interpretazione risultante dal «principio
di diritto» enunciato dalla Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel
giudizio di impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in
quanto il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce
di censurare la norma dalla quale detto principio è stato tratto (sentenze n. 78 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993; ordinanza n. 501 del 2000).
Le
questioni sono, quindi, ammissibili.
5. – Le
questioni vanno esaminate entro i limiti del thema decidendum individuato dalle ordinanze di rimessione, dato
che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere
prese in considerazione le censure svolte dalle parti del giudizio principale,
con riferimento a parametri costituzionali ed a profili non evocati dal giudice
a quo (ex plurimis,
sentenze n. 310
e n. 234 del
2006).
6. – La
questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è
fondata.
6.1. – In
considerazione del parametro costituzionale evocato dai giudici a quibus e delle argomentazioni svolte in entrambe le
ordinanze di rimessione, il preliminare profilo da affrontare è quello delle
conseguenze del prospettato contrasto della norma interna con «i vincoli
derivanti […] dagli obblighi internazionali» e, in particolare, con gli
obblighi imposti dalle evocate disposizioni della CEDU
e del Protocollo addizionale.
In
generale, la giurisprudenza di questa Corte, nell’interpretare le disposizioni
della Costituzione che fanno riferimento a norme e ad obblighi internazionali –
per quanto qui interessa, gli artt. 7, 10 ed 11 Cost.
– ha costantemente affermato che l’art. 10, primo comma, Cost.,
il quale sancisce l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme
di diritto internazionale generalmente riconosciute, concerne esclusivamente i
princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del
2001, n. 15
del 1996, n.
168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in
accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del
diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e l’art. 7 Cost. fanno riferimento a ben
identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello
straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non
possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente
menzionate.
L’art. 11 Cost., il quale stabilisce, tra l’altro, che l’Italia
«consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni», è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme
comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del
2007; n. 170
del 1984).
Con
riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte
ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione
costituzionale, le medesime, rese esecutive nell’ordinamento interno con legge
ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello
costituzionale (tra le molte, per la continuità dell’orientamento, sentenze n. 388 del
1999, n. 315
del 1990, n.
188 del 1980; ordinanza
n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l’esclusione delle
norme meramente convenzionali dall’ambito di operatività dell’art. 10, primo
comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate,
si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994).
L’inconferenza, in relazione alle norme della CEDU, e per quanto qui interessa, del parametro dell’art.
10, secondo comma, Cost., è resa chiara dal preciso contenuto di tale disposizione.
Né depongono in senso diverso i precedenti di questa Corte in cui si è fatto
riferimento anche a quel parametro, dato che ciò è accaduto essenzialmente in
considerazione della coincidenza delle disposizioni della CEDU
con le fonti convenzionali relative al trattamento dello straniero: ed è
appunto questa la circostanza della quale le pronunce in questione si sono
limitate a dare atto (sentenze n. 125 del
1977, n. 120
del 1967).
In
riferimento alla CEDU, questa Corte ha, inoltre,
ritenuto che l’art. 11 Cost. «neppure
può venire in considerazione non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche
norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del
1980), conclusione che si intende in questa sede ribadire. Va
inoltre sottolineato che i diritti fondamentali non possono considerarsi una
"materia” in relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che
un’attribuzione di competenza limitata all’interpretazione della Convenzione,
anche una cessione di sovranità.
Né la
rilevanza del parametro dell’art. 11 può farsi valere in maniera indiretta, per
effetto della qualificazione, da parte della Corte di giustizia della Comunità
europea, dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario.
E’ vero,
infatti, che una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, anche a
seguito di prese di posizione delle Corti costituzionali di alcuni Paesi
membri, ha fin dagli anni settanta affermato che i diritti fondamentali, in
particolare quali risultano dalla CEDU, fanno parte
dei princìpi generali di cui essa garantisce l’osservanza. E’ anche vero che
tale giurisprudenza è stata recepita nell’art. 6 del Trattato sull’Unione
Europea e, estensivamente, nella Carta dei diritti fondamentali proclamata a
Nizza da altre tre istituzioni comunitarie, atto formalmente ancora privo di
valore giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n. 393 del
2006). In primo luogo, tuttavia, il Consiglio d’Europa, cui
afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte
della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale
e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma
del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992.
In secondo
luogo, la giurisprudenza è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte
integrante dei princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice
comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (da
ultimo, su rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale belga, sentenza
26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordini avvocati c. Consiglio, punto 29). Tuttavia, tali
princìpi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto
sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di
attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme
comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto
dei diritti fondamentali (sentenza
18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La
Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei
confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto
comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90, Society
for the Protection of Unborn
Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/95, Kremzow): ipotesi che si verifica
precisamente nel caso di specie.
In terzo
luogo, anche a prescindere dalla circostanza che al momento l’Unione europea
non è parte della CEDU, resta comunque il dato
dell’appartenenza da tempo di tutti gli Stati membri dell’Unione al Consiglio
d’Europa ed al sistema di tutela dei diritti fondamentali che vi afferisce, con
la conseguenza che il rapporto tra la CEDU e gli
ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una
competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni
comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun
ordinamento nazionale. Né, infine, le conclusioni della Presidenza del
Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22 giugno 2007 e le modifiche dei
trattati ivi prefigurate e demandate alla conferenza intergovernativa sono allo
stato suscettibili di alterare il quadro giuridico appena richiamato.
Altrettanto
inesatto è sostenere che la incompatibilità della norma interna con la norma
della CEDU possa trovare rimedio nella semplice non
applicazione da parte del giudice comune. Escluso che ciò possa derivare dalla
generale "comunitarizzazione” delle norme della CEDU, per le ragioni già precisate, resta da chiedersi se
sia possibile attribuire a tali norme, ed in particolare all’art. 1 del
Protocollo addizionale, l’effetto diretto, nel senso e con le implicazioni
proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la
possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle
norme interne con esse confliggenti. E la risposta è che, allo stato, nessun
elemento relativo alla struttura e agli obiettivi della CEDU
ovvero ai caratteri di determinate norme consente di ritenere che la posizione
giuridica dei singoli possa esserne direttamente e immediatamente tributaria,
indipendentemente dal tradizionale diaframma normativo dei rispettivi Stati di
appartenenza, fino al punto da consentire al giudice la non applicazione della
norma interna confliggente. Le stesse sentenze della Corte di Strasburgo, anche
quando è il singolo ad attivare il controllo giurisdizionale nei confronti del
proprio Stato di appartenenza, si rivolgono allo Stato membro legislatore e da
questo pretendono un determinato comportamento. Ciò è tanto più evidente
quando, come nella specie, si tratti di un contrasto "strutturale” tra la
conferente normativa nazionale e le norme CEDU così
come interpretate dal giudice di Strasburgo e si richieda allo Stato membro di
trarne le necessarie conseguenze.
6.1.1. –
Nella giurisprudenza di questa Corte sono individuabili pronunce le quali hanno
ribadito che le norme della CEDU non si collocano
come tali a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire un rango
diverso da quello dell’atto – legge ordinaria – che ne ha autorizzato la
ratifica e le ha rese esecutive nel nostro ordinamento. Le stesse pronunce,
d’altra parte, hanno anche escluso che, nei casi esaminati, la disposizione
interna fosse difforme dalle norme convenzionali (sentenze n. 288 del
1997 e n. 315 del 1990),
sottolineando la «sostanziale coincidenza» tra i princìpi dalle stesse
stabiliti ed i princìpi costituzionali (sentenze n. 388 del
1999, n. 120 del 1967,
n. 7 del 1967),
ciò che rendeva «superfluo prendere in esame il problema […] del rango» delle
disposizioni convenzionali (sentenza n. 123 del
1970). In altri casi, detta questione non è stata
espressamente affrontata, ma, emblematicamente, è stata rimarcata la
«significativa assonanza» della disciplina esaminata con quella stabilita
dall’ordinamento internazionale (sentenza n. 342 del
1999; si vedano anche le sentenze n. 445 del
2002 e n. 376 del 2000).
E’ stato talora osservato che le norme interne assicuravano «garanzie ancora
più ampie» di quelle previste dalla CEDU (sentenza n. 1 del
1961), poiché «i diritti umani, garantiti anche da
convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano
espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione» (sentenze n. 388 del
1999, n. 399 del 1998).
Così il diritto del singolo alla tutela giurisdizionale è stato ricondotto nel
novero dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dall’art. 2 della
Costituzione, argomentando «anche dalla considerazione che se ne è fatta
nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 98 del
1965).
In linea
generale, è stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle
norme censurate (sentenza n. 505 del
1995; ordinanza n. 305
del 2001), richiamando, per avvalorare una determinata
esegesi, le «indicazioni normative, anche di natura sovranazionale» (sentenza n. 231 del
2004). Inoltre, in taluni casi, questa Corte, nel fare
riferimento a norme della CEDU, ha svolto
argomentazioni espressive di un’interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del
2000 e n. 310 del 1996),
ovvero ha richiamato dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell’esegesi
accolta (sentenze n. 299 del
2005 e n. 29 del 2003),
avvalorandola anche in considerazione della sua conformità con i «valori
espressi» dalla Convenzione, «secondo l’interpretazione datane dalla Corte di
Strasburgo» (sentenze n. 299 del
2005; n. 299 del 1998),
nonché sottolineando come un diritto garantito da norme costituzionali sia
«protetto anche dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
[…] come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (sentenza n. 154 del
2004).
È rimasto
senza seguito il precedente secondo il quale le norme in esame deriverebbero da
«una fonte riconducibile a una competenza atipica» e, come tali, sarebbero
«insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di
legge ordinaria» (sentenza n. 10 del
1993).
6.1.2. –
Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile
desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme
della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi
nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la
tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è
tenuto a rispettare e realizzare.
La
peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla
Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti,
dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti
dell’uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo
stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l’efficacia della
protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla
Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la
legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi
finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte europea
(art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a
garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare violazioni che
possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n.
296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata
disciplinata l’attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri,
stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di
Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 – Misure per l’esecuzione della
legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della
Corte europea dei diritti dell’uomo).
6.2. – E’
dunque alla luce della complessiva disciplina stabilita dalla Costituzione,
quale risulta anche dagli orientamenti di questa Corte, che deve essere preso
in considerazione e sistematicamente interpretato l’art. 117, primo comma, Cost., in
quanto parametro rispetto al quale valutare la compatibilità della norma
censurata con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU,
così come interpretato dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Il dato
subito emergente è la lacuna esistente prima della sostituzione di detta norma
da parte dell’art. 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
(Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), per il fatto
che la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale
convenzionale era suscettibile di controllo da parte di questa Corte soltanto
entro i limiti e nei casi sopra indicati al punto 6.1. La conseguenza era che
la violazione di obblighi internazionali derivanti da norme di natura
convenzionale non contemplate dall’art. 10 e dall’art. 11 Cost.
da parte di leggi interne comportava
l’incostituzionalità delle medesime solo con riferimento alla violazione
diretta di norme costituzionali (sentenza n. 223 del
1996). E ciò si verificava a dispetto di uno degli elementi
caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione,
costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in
generale delle fonti esterne, ivi comprese quelle richiamate dalle norme di
diritto internazionale privato; e nonostante l’espressa rilevanza della
violazione delle norme internazionali oggetto di altri e specifici parametri
costituzionali. Inoltre, tale violazione di obblighi internazionali non
riusciva ad essere scongiurata adeguatamente dal solo strumento interpretativo,
mentre, come sopra precisato, per le norme della CEDU
neppure è ammissibile il ricorso alla "non applicazione” utilizzabile per il
diritto comunitario.
Non v’è
dubbio, pertanto, alla luce del quadro complessivo delle norme costituzionali e
degli orientamenti di questa Corte, che il nuovo testo dell’art. 117, primo
comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia
con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua
collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei princìpi che
espressamente già garantivano a livello primario l’osservanza di determinati
obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Ciò non
significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire
rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di
una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta,
infatti, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la
conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli "obblighi internazionali” di cui
all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale.
Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile
alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e
contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi,
al parametro, tanto da essere comunemente qualificata "norma interposta”; e che
è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di
compatibilità con le norme della Costituzione.
Ne consegue
che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme
alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai
testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della
compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale
‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di
legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma,
come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione.
In
relazione alla CEDU, inoltre, occorre tenere conto
della sua peculiarità rispetto alla generalità degli accordi internazionali,
peculiarità che consiste nel superamento del quadro di una semplice somma di
diritti ed obblighi reciproci degli Stati contraenti. Questi ultimi hanno
istituito un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali.
L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso
in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici
comuni della Convenzione. La definitiva uniformità di applicazione è invece
garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU
attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta
la parola ultima e la cui competenza «si estende a tutte le questioni
concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi
protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste» dalla
medesima (art. 32, comma 1, della CEDU). Gli stessi Stati
membri, peraltro, hanno significativamente mantenuto la possibilità di
esercitare il diritto di riserva relativamente a questa o quella disposizione
in occasione della ratifica, così come il diritto di denuncia successiva, sì
che, in difetto dell’una e dell’altra, risulta palese la totale e consapevole
accettazione del sistema e delle sue implicazioni. In considerazione di questi
caratteri della Convenzione, la rilevanza di quest’ultima, così come
interpretata dal "suo” giudice, rispetto al diritto interno è certamente
diversa rispetto a quella della generalità degli accordi internazionali, la cui
interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di
controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o
comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale.
Questa
Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi
al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali
dell’uomo. L’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta
alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l’applicazione del livello
uniforme di tutela all’interno dell’insieme dei Paesi membri. A questa Corte,
qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma
nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o
più norme della CEDU, spetta invece accertare il
contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo,
garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello
garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare
l’interpretazione della norma CEDU operata dalla
Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso
di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU,
nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente
attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In
tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l’esigenza di
garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e
quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione
stessa.
7. –
Premessa la lettura sistematica dell’art. 117, primo comma, Cost., invocato dai
rimettenti, è opportuna una ricognizione dell’evoluzione normativa e
giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, oggetto della norma denunciata.
In origine
(legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante «Espropriazioni per causa di utilità
pubblica»), fu prevista l’occupazione temporanea (artt. 64 e 70), senza alcun
trasferimento di proprietà; e l’occupazione d’urgenza (artt. 71 e 73),
inizialmente collegata ai casi contingenti di calamità naturali, fu poi
generalizzata ai casi di occupazione per l’espletamento di lavori dichiarati
urgenti dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella prassi, tuttavia,
l’istituto dell’occupazione d’urgenza è divenuto un passaggio normale della
procedura espropriativa, fino al punto che sovente l’opera pubblica era
realizzata sul fondo occupato in via di urgenza, sulla base di una previa
dichiarazione di pubblica utilità, senza che poi seguisse alcun valido
provvedimento espropriativo.
A tali casi
si riferisce l’istituto, di origine giurisprudenziale, della c.d. «accessione
invertita» o «occupazione appropriativa», consacrato
dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983,
più volte confermata negli anni successivi. Le sezioni unite, in particolare,
sulla premessa della illegittimità dell’occupazione al di fuori di un compiuto
procedimento espropriativo, della realizzazione di un’opera di interesse
pubblico e della impossibilità di far coesistere una proprietà del bene
realizzato con una diversa proprietà del fondo, affermarono l’acquisto a titolo
originario da parte della pubblica amministrazione a seguito e per effetto
della trasformazione irreversibile del bene. A tale conclusione, il giudice di
legittimità pervenne utilizzando quell’esigenza di bilanciamento di interessi
che pure è presente nella disciplina dell’accessione (art. 934 e seguenti del
codice civile) e che nell’ipotesi di specie faceva ritenere prevalenti le
ragioni dell’amministrazione in quanto a soddisfazione di interessi pubblici.
La ricaduta di tale pronuncia in termini patrimoniali, peraltro, è stata il
diritto del proprietario non all’indennità di espropriazione, ma al
risarcimento del danno da illecito, equivalente almeno al valore reale del
bene, con prescrizione quinquennale dal momento della trasformazione
irreversibile del bene.
L’orientamento
successivo della Cassazione, pur con qualche oscillazione di minor rilievo (ad
esempio sul termine di prescrizione), sostanzialmente ha confermato i punti
principali della sentenza del 1983: trasferimento in capo alla pubblica
amministrazione della proprietà del bene e risarcimento del danno
corrispondente al suo valore di mercato. La logica di tale orientamento era
focalizzata soprattutto sull’aspetto civilistico, relativo al mutamento di
titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni giuridiche, mentre
rimaneva pacifico il principio della responsabilità aquiliana e per ciò stesso
la negazione di un’alternativa al ristoro del danno, corrispondente al valore
reale del bene e con le somme accessorie di rito.
7.1 – Negli
anni successivi, il legislatore ordinario non sempre ha mantenuto ferma la
sopra precisata ricaduta patrimoniale dell’occupazione acquisitiva. E sono al riguardo
da ricordare, ai fini che qui interessano, gli interventi di questa Corte.
Inizialmente,
la legge 27 ottobre 1988, n. 458, all’art. 3, aveva dato espressa base
normativa all’istituto giurisprudenziale dell’occupazione acquisitiva, sia pure
con riferimento ad una specifica tipologia di opere pubbliche; e confermato il
principio del risarcimento integrale del danno subito dal titolare del bene,
limitandosi a disciplinare l’ipotesi che il provvedimento espropriativo fosse
dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato. Investita della
questione di legittimità costituzionale di tale norma in riferimento all’art.
42, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte l’ha
dichiarata infondata, osservando, significativamente, che con essa il
legislatore, «in una completa ed adeguata valutazione degli interessi in gioco,
non si è limitato a corrispondere "l’indennizzo”, ma ha previsto l’integrale
risarcimento del danno subito», con la conseguenza che «al mancato adempimento
della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico
interesse, si sostituisce la tutela risarcitoria (art. 2043 cod. civ.),
integralmente garantita» (sentenza n. 384 del 1990; le argomentazioni sono
state ribadite dall’ordinanza n. 542 del 1990). La Corte ha poi dichiarato
illegittima la stessa normativa appena evocata, nella parte in cui non si
estendeva anche all’ipotesi in cui mancasse del tutto un provvedimento
espropriativo, confermando il principio del risarcimento integrale del danno (sentenza 486 del
1991). La sentenza n. 188 del 1995 ha ribadito come questa
disciplina fosse appunto «coerente alla connotazione illecita della vicenda»,
produttiva del «diritto al risarcimento e non all’indennità».
Successivamente
il legislatore, con la legge 28 dicembre 1995, n. 549, art. 5-bis,
ha stabilito la parificazione tra ristoro del danno per occupazione acquisitiva
ed indennizzo espropriativo. Questa Corte, con la sentenza n. 369 del
1996, ha censurato tale parificazione in riferimento all’art.
3 Cost., sottolineando che, «mentre la misura
dell’indennizzo – obbligazione ex lege per atto
legittimo – costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera e interesse del privato alla conservazione del bene,
la misura del risarcimento – obbligazione ex delicto
– deve realizzare il diverso equilibrio tra l’interesse pubblico al
mantenimento dell’opera già realizzata e la reazione dell’ordinamento a tutela
della legalità violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del
bene privato». Dunque, ha rimarcato la pronuncia, «sotto il profilo della
ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione), poiché nella occupazione appropriativa l’interesse pubblico è già essenzialmente
soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla
conservazione dell’opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio
alla misura dell’indennità si prospetta come un di più che sbilancia
eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e
privato, in eccessivo favore del primo. Con le ulteriori negative incidenze,
ben poste in luce dalle varie autorità rimettenti, che un tale "privilegio” a
favore dell’amministrazione pubblica può comportare, anche sul piano del buon
andamento e legalità dell’attività amministrativa e sul principio di
responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato».
Infine, secondo detta pronuncia, la «perdita di garanzia che al diritto di
proprietà deriva da una così affievolita risposta dell’ordinamento all’atto
illecito compiuto in sua violazione», vulnerava anche l’art. 42, secondo comma,
della Costituzione.
Il
principio desumibile dalla giurisprudenza di questa Corte è, pertanto, che
l’accessione invertita «realizza un modo di acquisto della proprietà […]
giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico (correlato alla conservazione
dell’opera in tesi pubblica) e l’interesse privato (relativo alla riparazione
del pregiudizio sofferto dal proprietario) la cui correttezza "costituzionale”
è ulteriormente» confortata «dal suo porsi come concreta manifestazione, in
definitiva, della funzione sociale della proprietà» (sentenza n. 188 del 1995, che richiama la sentenza n. 384 del 1990). E, tuttavia, essendo
l’interesse pubblico già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell’opera
pubblica, la misura della liquidazione del danno non può prescindere dalla
adeguatezza della tutela risarcitoria che, nel quadro della conformazione
datane dalla giurisprudenza di legittimità, comportava la liquidazione del
danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento
di una somma pari al valore venale del bene, con la rivalutazione per
l’eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno
della liquidazione.
Successivamente,
l’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996 ha introdotto nell’art. 5-bis del decreto-legge
n. 333 del 1992, il comma 7-bis, secondo cui in caso di occupazione illegittima di suoli
per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996,
si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione
dell’indennità di cui al comma 1» (quella, cioè, prevista per l’espropriazione
dei suoli edificatori: semisomma tra valore di mercato e reddito catastale
rivalutato, decurtata del 40 per cento), con esclusione di tale riduzione e con
la precisazione che «in tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato
del 10 per cento».
Il profilo
della misura della liquidazione del danno, con specifico riferimento alla norma
appena ricordata, è stato esaminato dalla sentenza n. 148 del
1999, che va valutata al giusto. Essa ha dichiarato
l’infondatezza delle censure riferite – per quanto qui interessa – agli artt. 3
e 42 Cost., essenzialmente in considerazione della
mancanza di copertura costituzionale della regola della integralità della
riparazione del danno e della equivalenza della medesima al pregiudizio
cagionato, della «eccezionalità del caso», giustificata «soprattutto dal
carattere temporaneo della norma denunziata», nonché della esigenza di
salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento
della finanza pubblica.
La
legittimità rispetto all’art. 42 Cost. di un ristoro inferiore (e di molto) al valore reale del
bene, in definitiva, è stata ancorata dalla pronuncia del 1999 anzitutto in
riferimento ad un parametro diverso da quello evocato in questa sede. Inoltre,
a tale conclusione questa Corte è pervenuta essenzialmente in considerazione
della temporaneità della disciplina, nonché di esigenze congiunturali di
carattere finanziario. E ancora sulla temporaneità pone l’accento la sentenza n. 24 del 2000.
8. –
Precisato il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si colloca la
normativa qui impugnata, va ora esaminata la censura con la quale si prospetta,
per la prima volta, che la norma denunciata violerebbe l’art. 117, primo comma,
Cost.,
in quanto si porrebbe in contrasto con le norme internazionali convenzionali e,
anzitutto, con l’art. 1 del Protocollo addizionale della CEDU,
nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Al
riguardo, occorre premettere che entrambe le ordinanze di rimessione non
sollevano il problema della compatibilità dell’istituto dell’occupazione
acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma
denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta
patrimoniale. Pertanto, oggetto del thema decidendum posto dalla questione di costituzionalità è solo
il profilo della compatibilità di tale ricaduta patrimoniale disciplinata dalla
norma censurata con la disposizione convenzionale, ciò che impone di fare
riferimento alle conferenti sentenze del giudice europeo di Strasburgo.
L’art. 1
del Protocollo addizionale stabilisce: «Ogni persona fisica o giuridica ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste
dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».
La Corte
europea ha interpretato tale norma in numerose sentenze, puntualmente e
diffusamente richiamate nell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione,
dando vita ad un orientamento ormai consolidato, confermato dalla Grande Chambre della Corte
(per tutte, Grande Chambre, sentenza 29 marzo 2006,
Scordino),
dove anche una completa ricostruzione dell’indirizzo confermato dalla
pronuncia), formatosi anche in processi concernenti la disciplina ordinaria
dell’indennità di espropriazione stabilita dal citato art. 5-bis
(per più ampi svolgimenti v. sentenza n. 348 in
pari data).
In sintesi,
relativamente alla misura dell’indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea
è ormai costante l’affermazione secondo la quale, in virtù della norma
convenzionale, «una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto
dei beni deve trovare il "giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse
generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti
fondamentali dell’individuo». Pertanto, detta norma non garantisce in tutti i
casi il diritto dell’espropriato al risarcimento integrale, in quanto
«obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti dalle misure
di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso
inferiore al valore commerciale effettivo». Per converso, proprio in
riferimento alla disciplina stabilita dal richiamato art. 5-bis
della legge qui in discussione, la Corte europea ha affermato che, quando si
tratta di «esproprio isolato che non si situa in un contesto di riforma
economica, sociale o politica e non è legato ad alcun altra circostanza
particolare», non sussiste «alcun obiettivo legittimo di "pubblica utilità” che
possa giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale», osservando
altresì che, al fine di escludere la violazione della norma convenzionale,
occorre dunque «sopprimere qualsiasi ostacolo per l’ottenimento di un indennizzo
avente un rapporto ragionevole con il valore del bene espropriato» (sentenza
29 marzo 2006, Scordino).
La Corte
europea, inoltre, nel considerare specificamente la disciplina dell’occupazione
acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che l’ingerenza dello Stato nel
caso di espropriazione deve sempre avvenire rispettando il «giusto equilibrio»
tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei
diritti fondamentali dell’individuo (Sporrong
e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, punto 69).
Inoltre, con riferimento allo specifico profilo della congruità della
disciplina qui censurata, la Corte europea ha ritenuto che la liquidazione del
danno per l’occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella
stabilita per l’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non
apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del
diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale (tra le
molte, I
Sezione, sentenza 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV
sezione, sentenza 17 maggio 2005, Scordino; IV
Sezione, sentenza 17 maggio 2006, Pasculli); e
ciò dopo aver da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno
deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal
provvedimento illegittimo (sentenza
7 agosto 1996, Zubani).
Il
bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri
costituzionali deve essere ora operato, pertanto, tenendo conto della sopra
indicata rilevanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, e cioè
della regola stabilita dal citato art. 1 del Protocollo addizionale, così come
attualmente interpretato dalla Corte europea. E sul punto va ancora
sottolineato che, diversamente da quanto è accaduto per altre disposizioni
della CEDU o dei Protocolli (ad esempio, in occasione
della ratifica del Protocollo n. 4), non vi è stata alcuna riserva o denuncia
da parte dell’Italia relativamente alla disposizione in questione e alla
competenza della Corte di Strasburgo.
In definitiva,
essendosi consolidata l’affermazione della illegittimità nella fattispecie in
esame di un ristoro economico che non corrisponda al valore reale del bene, la
disciplina della liquidazione del danno stabilita dalla norma nazionale
censurata si pone in contrasto, insanabile in via interpretativa, con l’art. 1
del Protocollo addizionale, nell’interpretazione datane dalla Corte europea; e
per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione.
D’altra
parte, la norma internazionale convenzionale così come interpretata dalla Corte
europea, non è in contrasto con le conferenti norme della nostra Costituzione.
La
temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma censurata, le
congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l’astratta ammissibilità
di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della
riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere
che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione censurata realizzi
un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare
utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è
coerente con l’esigenza di garantire la legalità dell’azione amministrativa ed
il principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al
privato. Per converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali,
principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto
equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto
da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un
bene in difformità dallo schema legale e di conservare l’opera pubblica
realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di
mercato del bene, sia integralmente risarcito.
In
conclusione, l’art. 5-bis, comma 7-bis,
del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 359 del 1992, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996,
non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto
dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione,
corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della
Costituzione.
9. –
Restano assorbite le censure incentrate sugli ulteriori profili e parametri
costituzionali invocati dai rimettenti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis,
comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333
(Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto
1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996,
n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2007.
F.to:
Franco
BILE, Presidente
Giuseppe
TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 24 ottobre 2007.
Allegato:
ordinanza letta all’udienza del 3 luglio 2007
ORDINANZA
Rilevato che
nel presente giudizio di legittimità costituzionale sono intervenute la
Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU),
in persona del legale rappresentante, e la s.r.l. Cappelletto Andreina fu
Giuseppe, in persona del legale rappresentante, che non sono parti del giudizio
principale.
Considerato
che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare al giudizio
di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri
e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) solo le
parti del giudizio principale e che la deroga è consentita solo «a favore di
soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al
rapporto sostanziale dedotto in giudizio» (per tutte, ordinanza letta all’udienza del 6 giugno 2006,
allegata alla sentenza n. 279 del
2006; ordinanza n. 251
del 2002);
che,
pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente non deve
derivare, come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge
censurata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della
legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce
sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ordinanza letta
all’udienza del 6 giugno 2006, allegata alla sentenza n. 279 del
2006; ordinanza letta
all’udienza del 21 giugno 2005, allegata alla sentenza n. 345 del
2005);
che, nella
specie, la CO.GE.DU., per sua stessa ammissione, non
è «direttamente toccata dalla legislazione oggetto del giudizio presupposto»,
ma, in considerazione dello scopo statutario, intende ottenere che questa Corte
«qualifichi in via generale ed astratta la categoria delle norme» della
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, sicché non è titolare di un
interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato
immediatamente ed irrimediabilmente dalla eventuale pronuncia di accoglimento
di questa Corte;
che è altresì inammissibile l’intervento della s.r.l. Cappelletto Andreina fu
Giuseppe, non rilevando, in contrario, che la stessa abbia in corso un giudizio
nel quale debba farsi applicazione della norma censurata, in attesa della
pronuncia di questa Corte, in quanto la contraria soluzione si risolverebbe
nella sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di
legittimità costituzionale (tra le molte, sentenza n. 190 del 2006, ordinanza
n. 179 del 2003).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi della Consulta per la Giustizia Europea dei
Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.) e della Cappelletto
Andreina fu Giuseppe s.r.l.
F.to: Franco BILE, Presidente