SENTENZA N. 349
ANNO 2007
Commenti alla decisione di
I. Claudio Zanghì,
La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea
dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione:le sentenze n. 347 e 348 del 2007, nella
Rubrica "Studi” di Consulta OnLine
II. Antonio Ruggeri, La CEDU alla ricerca di
una nuova identità (sentt. nn. 348/2007 e 349/2007 , per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
III. Renzo Dickmann,
Corte costituzionale e diritto
internazionale nel sindacato delle leggi per contrasto con l’articolo 117,
primo comma, della Costituzione per g.c. della
Rivista telematica Federalismi.it
IV. Anna Moscarini,
Indennità di espropriazione e valore di
mercato del bene: un passo avanti e uno indietro della Consulta nella
costruzione del patrimonio costituzionale europeo per g.c.
della Rivista telematica Federalismi.it
V. Tommaso F. Giupponi, Corte
costituzionale, obblighi internazionali e "controlimiti allargati”: che tutto
cambi perché tutto rimanga uguale?, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VI. Diletta Tega, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la Cedu
da fonte ordinaria a fonte "sub-costituzionale” del diritto, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VII. Nicola Pignatelli, La dilatazione della tecnica della
"interposizione” (e del giudizio costituzionale), per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
VIII. Cristina Napoli, La nuova collocazione della CEDU nel
sistema delle fonti e le conseguenti prospettive di dialogo tra le Corti, per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
IX. Cesare Pinelli, Sul trattamento giurisdizionale della CEDU
e delle leggi con essa confliggenti per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
X. Giulia Pili, Il nuovo "smalto costituzionale” della CEDU
agli occhi della Consulta (sentt. nn. 348 e 349 del 2007), per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XI. Vincenzo Sciarabba, Nuovi punti fermi e questioni aperte) nei rapporti tra
fonti e corti nazionali ed internazionali per g.c.
del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
XII. Stefano Cicconetti, Creazione indiretta del diritto e norme interposte per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
XIII. Andrea Filippini, Il caso Dorigo,
La CEDU e la Corte costituzionale: l'effettività della tutela dei diritti dopo
le sentenze 348 e 349 del 2007, per g.c. della Rivista telematica Costituzionalismo.it
XIV. Dian Schefold, L’osservanza
dei diritti dell’uomo garantiti nei trattati internazionali da parte del
giudice italiano per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XV. Fulvio Cortese, La
garanzia costituzionale del diritto di proprietà tra espropriazione e
occupazione acquisitiva per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XVI. Simone Penasa, Tanto rumore per nulla o meglio tardi che
mai? Ancora sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, tra dubbi
ermeneutici e possibili applicazioni future per g.c. del Forum dei Quaderni Costituzionali
XVII. Filippo Donati, La
CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle sentenze
della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007 per g.c. della Rivista telematica Osservatorio sulle fonti
XVIII. Ilaria Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi
internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte
costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale per g.c. del sito dell’AIC – Associazione Italiana
dei Costituzionalisti
XIX. Elisabetta Lamarque, Il
vincolo alle leggi statali e regionali derivante dagli obblighi internazionali
nella giurisprudenza comune, dalla Rubrica Atti di convegni e seminari del sito della Corte costituzionale
XX. Monica Lugato, Struttura e contenuto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
al vaglio della Corte costituzionale, nella Rubrica Studi, 2009, di questa Rivista
XXI. Felice Giuffré, Corte
costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'uomo: un dialogo senza
troppa confidenza, per g.c. della Rivista
telematica Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK
Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nei giudizi
di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma
65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), promossi con ordinanza del 20 maggio 2006 dalla Corte di
cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Comune di Avellino
ed altri ed E. P. in proprio e n. q. di procuratore di G. P. e di D. P. ed
altri e con ordinanza del 29 giugno 2006 dalla Corte d’appello di Palermo nel
procedimento civile vertente tra A. G. ed altre e il Comune di Leonforte ed
altro, iscritte ai nn. 401 e 557 del registro
ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visti gli
atti di costituzione di G. C. n. q. di erede di E. P. e di G. P. ed altri n. q.
di eredi di D. P., di A. G. ed altre, fuori termine, nonché gli atti di
intervento di A. C. fu G. s.r.l., della Consulta per la giustizia europea dei
diritti dell’uomo CO.G.E.D.U. e del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2007 e nella camera di consiglio del 4
luglio 2007 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Maurizio de Stefano e Anton Giulio Lana per la Consulta per
la giustizia europea dei diritti dell’uomo CO.G.E.D.U.,
Antonio Barra per G. C. n. q. di erede di E. P. e per G. P. ed altri n. q. di
eredi di D. P. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – La
Corte di cassazione e la Corte d’appello di Palermo, con ordinanze del 20
maggio e del 29 giugno 2006, hanno sollevato, in riferimento all’art. 111,
primo e secondo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU),
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed
esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo
addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nonché
all’art. 117, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 6 della
CEDU ed all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo),
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis,
comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333
(Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall’art. 3,
comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica).
2. – La
Corte di cassazione premette che il giudizio principale ha ad oggetto una
domanda proposta da alcuni privati nei confronti del Comune di Avellino e
dell’Istituto autonomo case popolari (IACP) della stessa città, al fine di ottenerne la
condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione acquisitiva
di alcuni terreni di loro proprietà, sui quali sono stati realizzati alloggi
popolari ed opere di edilizia sociale, nonché al pagamento dell’indennità per
l’occupazione temporanea degli stessi immobili.
La stessa
Corte, con sentenza del 14 gennaio 1998, n. 457, accogliendo il ricorso
proposto dagli enti pubblici, aveva cassato con rinvio la pronuncia d’appello,
ritenendo applicabile la norma censurata, la quale ha introdotto un criterio
riduttivo per il computo del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva.
Riassunto
il giudizio, il giudice del rinvio ha, quindi, liquidato l’indennità in base
alla disposizione censurata; la pronuncia è stata impugnata dalle parti
private, che, tra l’altro, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale del
citato art. 5-bis, comma 7-bis.
2.1. – La
rimettente, dopo avere esposto le argomentazioni che inducono ad escludere
l’abrogazione della norma denunciata ad opera dell’art. 111 Cost.
– come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2
(Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della
Costituzione) – ovvero dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e
modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sintetizza le
pronunce di questa Corte che hanno già scrutinato la norma censurata, in riferimento
agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113 Cost.
L’ordinanza
esamina, quindi, l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo in
ordine all’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo, evolutosi
nel senso di garantire una più intensa tutela del diritto di proprietà. In
particolare, ricorda che la previsione di un’indennità equitable
è stata limitata al caso della espropriazione legittima e che il carattere
illecito dell’occupazione è stato ritenuto rilevante al fine della
quantificazione dell’indennità, sicché, qualora non sia possibile la
restituzione in natura del bene, all’espropriato è dovuta una somma
corrispondente al valore venale.
Secondo il
rimettente, la Corte europea, in alcune sentenze, puntualmente indicate, ha
ritenuto che l’occupazione acquisitiva si pone in contrasto con le citate norme
convenzionali, tra l’altro, nella parte in cui non garantisce il diritto degli
espropriati al risarcimento del danno in misura corrispondente al valore venale
del bene, affermando analogo criterio di computo per il calcolo dell’indennità
nel caso di espropriazione legittima. Infatti, detta indennità può non essere
commisurata al «valore pieno ed intero dei beni» nei soli casi di
espropriazioni dirette a conseguire legittimi obiettivi di pubblica utilità e,
tuttavia, questi ultimi sono stati individuati in quelli coincidenti con misure
di riforme economiche o di giustizia sociale, ovvero strumentali a provocare
cambiamenti del sistema costituzionale.
In seguito,
la medesima Corte, con le sentenze indicate nell’ordinanza di rimessione, ha
applicato questi princípi anche in riferimento al
criterio stabilito dal censurato art. 5-bis e,
ritenuta irrilevante la circostanza che questa norma era parte di una complessa
manovra finanziaria, ha condannato lo Stato italiano al risarcimento
commisurato alla differenza tra l’indennità percepita ed il valore venale del
bene, reputando che l’espropriato, a causa del tempo trascorso, aveva visto
leso il proprio affidamento ad un indennizzo calcolato in base a quest’ultimo parametro.
In virtù delle sentenze di questa Corte n. 5 del 1980
e n. 223 del 1983,
il criterio di liquidazione per l’espropriazione delle aree edificabili avrebbe
infatti dovuto essere quello del giusto prezzo in una libera contrattazione di
compravendita (art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, recante
«Espropriazioni per causa di utilità pubblica»); quindi, l’applicabilità del
sopravvenuto art. 5-bis avrebbe leso il diritto della
persona al rispetto dei propri beni, anche perché la disciplina fiscale incide
ulteriormente sulla somma concretamente percepita.
Pertanto,
secondo la Corte di Strasburgo, l’espropriazione indiretta o occupazione
acquisitiva – riconosciuta dalla legislazione (art. 43 del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità») e dalla
giurisprudenza italiane – sarebbe incompatibile con l’art. l del Protocollo e
la norma censurata violerebbe la regola della riparazione integrale del
pregiudizio, realizzando una lesione aggravata dalla retroattività della
disposizione e dalla sua applicabilità ai giudizi in corso.
In
definitiva, la norma censurata è stata giudicata in contrasto con l’art. 1 del
Protocollo sotto i seguenti profili: in primo luogo, poiché al solo scopo di
sopperire ad esigenze di bilancio, al di fuori di un contesto di riforme
economiche o sociali, viola la regola della corresponsione di un valore pari al
valore venale del bene; in secondo luogo, in quanto stabilisce un criterio
riduttivo, fondato su di un parametro irragionevole anche nel caso di
espropriazione legittima; in terzo luogo, poiché dispone l’applicabilità del
criterio ai giudizi in corso, in violazione dell’art. 6 della CEDU; in quarto luogo, poiché viola il principio di
legalità ed il diritto ad un processo equo, dato che la disposizione ha inciso
sull’esito di giudizi in corso, nei quali erano parti amministrazioni
pubbliche, obbligando il giudice ad adottare una decisione fondata su
presupposti diversi rispetto a quelli sui quali la parte aveva legittimamente
fatto affidamento all’atto dell’instaurazione della lite.
2.2. – Secondo
la rimettente, benché la disposizione censurata si ponga in contrasto con le
citate norme convenzionali, come interpretate dalla Corte europea, non sarebbe
tuttavia ammissibile la sua "non applicazione”, mentre la Corte di cassazione
talora ha affermato che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare ed
applicare il diritto interno, per quanto possibile, in modo conforme alla CEDU ed all’interpretazione offertane dalla Corte di
Strasburgo, talaltra ha attenuato l’efficacia vincolante delle sentenze della
Corte europea.
A suo
avviso, nella specie non sarebbe configurabile il potere del giudice comune di
"non applicare” la norma interna, in quanto sussistente soltanto nel caso di
contrasto con norme comunitarie e fondato sull’art. 11 Cost.
Il paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht neppure permetterebbe di
ritenere la avvenuta «comunitarizzazione» della CEDU, con la conseguenza che l’interpretazione della
Convenzione non spetta alla Corte di giustizia delle Comunità europee,
dichiaratasi incompetente a fornire elementi interpretativi per la valutazione
da parte del giudice nazionale della conformità delle norme di diritto interno
ai diritti fondamentali di cui essa garantisce l’osservanza (nel contesto
comunitario), quali risultano dalla CEDU, quando
«tale normativa riguarda una situazione che non rientra nel campo di
applicazione del diritto comunitario» (sentenza
29 maggio 1997, causa C-299/1995).
Peraltro,
la teoria dei "controlimiti” potrebbe far ipotizzare un contrasto tra la regola
che commisura l’indennità di espropriazione al valore venale del bene ed il
principio costituzionale in virtù del quale il diritto di proprietà sarebbe
recessivo rispetto all’interesse primario dell’utilità sociale. In ogni caso,
siffatta regola non è suscettibile di diretta applicazione ai sensi dell’art.
10 Cost.,
sia in quanto tale norma costituzionale non concerne il diritto pattizio, sia
in quanto essa neppure esprime un valore generalmente riconosciuto dagli Stati
e, comunque, in quanto il giudice nazionale, se pure potesse direttamente
recepire l’interpretazione della Corte europea, non avrebbe il potere di
stabilire una disciplina indennitaria sostitutiva di quella prevista dalla
norma denunciata.
In
conclusione, secondo la rimettente, il contrasto della norma interna con le
norme convenzionali non può essere evitato attraverso un’interpretazione secundum constitutionem della
prima e, d’altro canto, il giudice nazionale non potrebbe disapplicare la norma
interna, provvedendo, in luogo del legislatore, a coordinare le fonti e ad
affermare la prevalenza della fonte convenzionale sulla fonte interna.
2.3. –
L’ordinanza di rimessione osserva che questa Corte, benché abbia ritenuto non
irragionevole la retroattività della norma censurata (sentenza n. 148 del
1999), non ha scrutinato tale norma in riferimento all’art.
111 Cost.
Ad avviso
del giudice a quo, il contenuto precettivo del parametro costituzionale evocato
non sarebbe stato compiutamente approfondito e, sebbene l’intento del
legislatore, di costituzionalizzare la disposizione convenzionale, sia stato
accantonato nel corso dei lavori preparatori, ciò non esclude che la
giurisprudenza della Corte europea possa contribuire alla sua corretta
interpretazione, anche tenendo conto della circostanza che la collocazione
della CEDU nella gerarchia delle fonti non è stata
ancora chiarita. Pertanto, nella specie rileverebbe il fatto che la Corte di
Strasburgo ha ritenuto la norma censurata in contrasto con l’art. 6 della CEDU, in quanto il principio della parità delle parti
davanti al giudice vieta al legislatore di intervenire nella risoluzione di una
singola causa, o di una determinata categoria di controversie. Le fattispecie
decise dal giudice europeo sarebbero omologhe a quella oggetto del giudizio
principale, nella quale i proprietari, espropriati nell’anno 1985 in forza
della occupazione acquisitiva, hanno agito in giudizio per ottenere
l’indennizzo di natura risarcitoria loro spettante in virtù dei principi
enunciati dalla Corte regolatrice – fondati sull’art. 39 della legge n. 2359
del 1865 e sull’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello
Stato nella spesa degli enti locali in relazione ai pregressi maggiori oneri
delle indennità di esproprio) – corrispondente al valore venale dei beni; il
giudice di merito aveva accolto la domanda, applicando detto criterio; nel
corso del giudizio innanzi alla Corte di cassazione è sopravvenuta la norma
impugnata che ha diversamente commisurato l’indennizzo, disponendo
l’applicabilità del nuovo criterio ai giudizi in corso non definiti con
sentenza passata in giudicato, con il risultato di ridurre, a giudizio
iniziato, l’indennizzo a poco meno del 50 per cento rispetto a quello in vista
del quale i proprietari avevano instaurato il giudizio.
2.4. –
Secondo la Corte di cassazione, la norma denunciata si porrebbe, inoltre, in
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel testo novellato a seguito della riforma del
titolo V della Costituzione, mira ad eliminare una lacuna del nostro
ordinamento, determinata dal contenuto dell’art. 10 Cost.,
stabilendo una regola vincolante anche per il legislatore statale.
La
disposizione censurata violerebbe il principio del giusto processo ed il
diritto di proprietà, quali risultano dagli artt. 6 della CEDU
ed 1 del Protocollo, come interpretati dalla Corte europea, e,
conseguentemente, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
3. – La
Corte d’appello di Palermo espone di essere stata adita in sede di giudizio di
rinvio avente ad oggetto le domande restitutorie e risarcitorie proposte da
alcuni privati, i quali hanno dedotto che un suolo edificabile di loro
proprietà ha costituito oggetto di un procedimento di espropriazione per la
costruzione di alloggi di edilizia popolare ed è stato irreversibilmente
trasformato, in difetto della adozione di regolare provvedimento di
espropriazione; gli enti pubblici si sono costituiti nel giudizio contestando
la fondatezza della domanda e chiedendo che siano applicate le norme recate dal
d.P.R. n. 327 del 2001; è stata inoltre accertata l’irreversibile
trasformazione del fondo.
Secondo il
giudice a quo, il principio di diritto enunciato nella sentenza di rinvio
comporta che il decreto di espropriazione dell’immobile, in quanto adottato
dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359 del 1865, è
illegittimo e deve essere disapplicato. La fattispecie oggetto del giudizio va
qualificata come occupazione acquisitiva, poiché la trasformazione del bene è
stata realizzata in pendenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità,
quindi, alla data di scadenza dei termini di cui all’art. 13 della legge n.
2359 del 1865, il bene è stato acquistato dagli enti pubblici, a titolo
originario, e gli attori sono titolari del diritto ad ottenere il risarcimento
del danno. Nella specie sarebbe applicabile il citato art. 5-bis,
comma 7-bis, mentre, ad avviso del rimettente, alla
data di instaurazione del giudizio di primo grado (12 aprile 1984), le parti
private, in virtù dei princípi enunciati dalla
sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 1464 del 1983 e di
quanto previsto dall’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, potevano fare
affidamento sulla spettanza di un risarcimento del danno pari al valore venale
del fondo, che invece la norma censurata ha dimezzato.
La Corte
d’appello di Palermo censura, quindi, la norma in esame in riferimento agli
stessi parametri costituzionali indicati dalla Corte di cassazione e con
argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nella relativa
ordinanza di rimessione, sopra sintetizzate.
4. – Nel
giudizio promosso dalla Corte di cassazione è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato che, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica,
ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
Secondo la
difesa erariale, l’ordinanza di rimessione richiede di accertare: a) se, nel
caso di contrasto di una norma interna con la giurisprudenza della Corte
europea, prevalga la seconda; b) se l’eventuale prevalenza della giurisprudenza
di detta Corte concerna anche le norme costituzionali.
A suo
avviso, deve anzitutto escludersi che la Corte di Strasburgo, in via
interpretativa, possa ridurre o estendere il contenuto delle norme
convenzionali; l’art. 32 del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a
Strasburgo l’11 maggio 1994, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto
1997, n. 296 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 11 alla convenzione di
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recante
ristrutturazione del meccanismo di controllo stabilito dalla convenzione, fatto
a Strasburgo l’11 maggio 1994), stabilisce che la competenza di detta Corte
concerne tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della
Convenzione e dei suoi protocolli, senza affatto prevedere un potere creativo
di norme convenzionali vincolanti, inesistente nel sistema della Convenzione di
Vienna ratificata con la legge 12 febbraio 1974, n. 112 (Ratifica ed esecuzione
della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il
23 maggio 1969), «che vuole testuale ed oggettiva l’interpretazione di
qualunque trattato».
Pertanto,
se la Corte europea non ha titolo per dubitare della legittimità, nel diritto
nazionale, della norma retroattiva e del sistema italiano di calcolo
dell’indennizzo, non potrebbe essere censurata una disposizione conforme agli
artt. 25 e 42 Cost.; inoltre, l’art. 111 Cost.,
contrariamente a quanto sostiene la rimettente, non concerne la disciplina
sostanziale e, comunque, l’art. 6 della CEDU non
stabilisce il divieto di retroattività della legge in materia diversa da quella
penale.
Secondo la
difesa erariale, l’art. 117, primo comma, Cost., fa
riferimento ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali» che, come chiarisce l’art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sono quelli derivanti da «accordi di
reciproca limitazione della sovranità di cui all’art. 11 della Costituzione,
dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali» e «nulla di tutto
ciò è nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo a proposito delle leggi
retroattive di immediata applicazione ai processi in corso, per le quali opera,
tutta e sola, la disciplina delle fonti di produzione nazionale». Analogamente,
l’art. 1 del Protocollo non disporrebbe, come invece ritiene la Corte EDU, che l’indennizzo per l’espropriazione debba coincidere
con il valore venale del bene.
Infine, la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo sarebbe inesatta anche perchè il valore venale del bene è dato dall’utilizzabilità
dell’area per edificare, ma nessuno strumento urbanistico lascia la dimensione
del terreno al lordo delle esigenze derivanti dalla pianificazione. Secondo
l’interveniente, l’esperienza insegna «che su un terreno di X mq l’area
edificabile al netto degli spazi che servono per le opere di urbanizzazione e
per l’assetto del territorio, è pari ad X/2» e, quindi, non è irragionevole che
la legge disponga in detti casi una drastica riduzione del valore per metro
quadro.
4.1. – Nel
giudizio di costituzionalità si sono costituiti, con separati atti, le parti
del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione, anche sulla
scorta di argomentazioni in larga misura coincidenti con quelle svolte
nell’ordinanza di rimessione.
Dopo avere
esposto considerazioni storico-filosofiche a conforto del principio secondo il
quale il diritto non può porsi in contrasto con il senso comune del giusto, le
parti sostengono che non solo la norma censurata, ma anche l’art. 3 della legge
n. 458 del 1988 e le sentenze di questa Corte n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991, nonché alcune
sentenze della Corte di cassazione, laddove negano il diritto di quanti hanno
subito un’occupazione acquisitiva di conservare la proprietà del bene e di
ottenere un risarcimento pari al valore venale del bene, si porrebbero in
contrasto con l’art. 1 del Protocollo.
La
retroattività della norma denunciata è censurata anche attraverso richiami alla
Costituzione francese del 1791, alla Costituzione degli Stati Uniti d’America e
ad un ampio excursus storico, svolti per evidenziare il contrasto di detta
norma con l’art. 1 del Protocollo, violato altresì dal riconoscimento
dell’istituto dell’accessione invertita e dalla legittimazione di un’attività
illecita quale fonte di acquisto del diritto di proprietà da parte della
pubblica amministrazione.
Pertanto,
secondo le parti, la norma in esame, configurando un fatto illecito come fonte
di estinzione del diritto di proprietà del privato, violerebbe l’art. 10, primo
comma, Cost., in relazione all’art. 1, secondo comma, del Protocollo,
nonché l’art. 53 Cost..
Infine, la
disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 10, primo comma, e con l’art.
111, secondo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6, n. 1, della legge n. 848
del 1955, fermo restando l’obbligo di risarcire il danno conseguente dalla
violazione del termine di durata ragionevole del processo (art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89).
4.2. – Nel
giudizio è intervenuta una società a r.l., chiedendo
l’accoglimento della questione e deducendo di essere titolare di un interesse
che ne legittimerebbe l’intervento, in quanto parte di un altro processo avente
anch’esso ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione acquisitiva,
sospeso sino all’esito del presente giudizio.
4.3. –
Infine, ha spiegato intervento nel giudizio la Consulta per la Giustizia
Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.), in persona
del legale rappresentante, la quale, anche nella memoria depositata in
prossimità dell’udienza pubblica, espone che non è parte del processo
principale «e non sarebbe direttamente toccata dalla legislazione oggetto del
giudizio presupposto», poiché non ha alcun interesse particolare che possa
riguardare l’espropriazione per pubblica utilità. Tuttavia, la legittimazione
all’intervento si fonderebbe sulla circostanza che l’esito del giudizio
inciderebbe sul conseguimento dei suoi scopi statutari e sul suo interesse ad
una pronuncia che riconosca alle norme della CEDU
rango costituzionale.
5. – Nel
giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, svolgendo, nell’atto di intervento e nella memoria depositata in
prossimità della camera di consiglio, deduzioni identiche a quelle contenute
nell’atto di intervento concernente il giudizio promosso dalla Corte di
cassazione e chiedendo che la Corte dichiari infondate le questioni.
5.1. – Nel
giudizio promosso dalla Corte d’appello di Palermo si sono altresì costituite,
con atto depositato fuori termine, le parti private del processo principale.
Considerato in diritto
1. – Le
questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di
Palermo investono l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 –, comma aggiunto dall’art. 3,
comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), il quale stabilisce: «In caso di occupazioni
illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente
al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di
determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione
del 40 per cento. In tal caso l’importo del risarcimento è altresì aumentato
del 10 per cento. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche
ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato».
Secondo le
ordinanze di rimessione, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a
Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale
alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all’art. 1 del
Protocollo addizionale, in quanto, disponendo l’applicabilità ai giudizi in
corso della disciplina dalla stessa stabilita in tema di risarcimento del danno
da occupazione illegittima e quantificando in misura incongrua il relativo
indennizzo, violerebbe il principio del giusto processo ed il diritto di
proprietà di cui rispettivamente ai citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, quindi violerebbe i
corrispondenti obblighi internazionali assunti dallo Stato.
Inoltre,
detta disposizione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e
secondo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU,
poiché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il
principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità
delle parti, da ritenersi leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre
una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di
controversie.
2. – I
giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli
stessi parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni
sostanzialmente coincidenti, devono essere riuniti e decisi con un’unica
sentenza.
3. –
Preliminarmente, deve essere ribadita l’inammissibilità degli interventi della
Consulta per la Giustizia Europea dei Diritti dell’Uomo (CO.GE.DU.)
e di A. C. fu G. s.r.l., dichiarata con ordinanza della quale è stata data
lettura in udienza, allegata alla presente sentenza.
Inoltre, va
dichiarata l’inammissibilità della costituzione delle parti del giudizio
pendente dinanzi alla Corte d’appello di Palermo, poiché avvenuta oltre il
termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato secondo
quanto previsto dagli artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale, da ritenersi perentorio (per tutte, sentenza
n. 190 del 2006).
4. – Le due
ordinanze di rimessione hanno motivato non implausibilmente
in ordine alle ragioni dell’applicabilità, in entrambi i giudizi, della norma
censurata, anche a seguito della emanazione del d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), nonché sulla
circostanza che gli stessi hanno ad oggetto una fattispecie di occupazione
acquisitiva, disciplinata appunto da detta norma.
Inoltre, in virtù di un principio che va confermato, la questione di legittimità costituzionale può avere ad oggetto anche l’interpretazione risultante dal «principio di diritto» enunciato dalla Corte di cassazione (che vincola questa stessa nel giudizio di impugnazione della sentenza pronunciata in sede di rinvio), in quanto il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di censurare la norma dalla quale detto principio è stato tratto