SENTENZA N. 73
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
-
Cesare RUPERTO, Presidente
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Fernando SANTOSUOSSO
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Massimo VARI
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Gustavo ZAGREBELSKY
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Valerio ONIDA
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Carlo MEZZANOTTE
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Fernanda CONTRI
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Guido NEPPI MODONA
-
Piero Alberto CAPOTOSTI
-
Annibale MARINI
-
Franco BILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2
della legge 25 luglio 1988, n. 334 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione
sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo
1983), promosso con ordinanza emessa
il 24 novembre 2000 dal Tribunale di sorveglianza di Roma sull’istanza promossa
da S. B., iscritta al n. 860 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
3, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visti
l’atto di costituzione di S. B. nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 marzo 2001 il Giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky;
uditi l’avvocato Grazia Volo per S. B. e l’avvocato dello
Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con
ordinanza del 24 novembre
Nel procedimento di sorveglianza, il Tribunale
rimettente è chiamato a decidere su una istanza di
rinvio (obbligatorio: art. 146 cod. pen.)
dell’esecuzione della pena - o, in subordine, di applicazione della detenzione
domiciliare (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge di ordinamento
penitenziario 26 luglio 1975, n. 354) - formulata, per ragioni di grave
infermità fisica, da persona in espiazione di pena in carcere. L’istanza, precisa il rimettente, è stata disattesa in via
provvisoria dal magistrato di sorveglianza, che non ha ritenuto sussistente
l’estremo del «grave pregiudizio» del condannato, a norma dell’art. 684, comma
2, del codice di procedura penale, in attesa della decisione collegiale del
Tribunale.
1.1. – Ai fini della questione, il giudice a quo espone tre premesse in punto di
fatto.
La prima concerne la vicenda giuridica della
richiedente.
La persona detenuta - riferisce il Tribunale –
sta espiando in Italia le pene inflitte: a) con una sentenza del 15 febbraio
1984 della Corte distrettuale Federale per il Distretto meridionale di New York
(condanna a quaranta anni di reclusione e 50.000 dollari statunitensi di
multa), e b) con una sentenza del 19 aprile 1984 della Corte distrettuale
Federale per il Distretto orientale di New York (tre anni di reclusione). Dette condanne sono state riconosciute ai fini del
trasferimento dell’interessata in Italia, in base alla legge 3 luglio 1989, n.
257 (Disposizioni per l’attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali), dalla Corte
d’appello di Roma, con sentenza del 9 luglio 1999. Questa sentenza costituisce
il titolo dell’esecuzione in Italia delle condanne emesse dalla giurisdizione
statunitense, per la pena residua la cui conclusione è prevista in data 29
luglio 2008, alle condizioni stabilite nell’accordo concluso tra i Governi
degli Stati Uniti d’America e dell’Italia e accettate dall’interessata all’atto
della prestazione del consenso al trasferimento.
1.2. – La seconda premessa concerne le
condizioni di salute della detenuta, che, già operata per un tumore nel 1988,
durante la detenzione presso stabilimenti statunitensi, ha sviluppato una nuova
e diversa forma tumorale, per la quale è stata sottoposta in Italia a verifiche
in struttura sanitaria esterna (in base all’art. 11,
secondo comma, della legge n. 354 del 1975) e quindi a un intervento chirurgico;
a seguito della patologia, del tipo di intervento eseguito e dei fattori di
rischio, le – esaurienti, precisa il Tribunale - consulenze mediche espletate
indicano ora la necessità di un trattamento radiante, per un ciclo di sei
settimane (con cadenza quotidiana da lunedì a venerdì) e di un successivo
trattamento chemioterapico di sei cicli per la durata di sei mesi.
1.3. – La terza premessa attiene alla impraticabilità delle terapie complementari sopra dette
nell’ambito delle strutture penitenziarie e in regime di detenzione, secondo
quanto risulta da una nota ufficiale in data 9 novembre 2000 del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria, che informa che la radioterapia non è
eseguibile nei centri diagnostici terapeutici dell’amministrazione penitenziaria,
mentre la chemioterapia sarebbe eseguibile solo presso un centro che, allo
stato, per circostanze di fatto, è però inagibile.
Né – prosegue sul punto il Tribunale –
potrebbe nella specie farsi ricorso alla possibilità di ricoveri, più o meno prolungati, presso ospedali o luoghi di cura
civili, su autorizzazione del magistrato di sorveglianza e in costanza dello
stato di detenzione, in applicazione del citato art. 11 della legge n. 354 del
1975; tale possibilità, «in astratto sussistente», deve, ad avviso del
rimettente, essere «problematicamente rapportata alla continuità temporale e
[alla] complessiva durata del trattamento, nonché ai noti suoi [del trattamento
sanitario] riflessi collaterali», incidenti sul carattere afflittivo della
pena, fino al limite di un aggravio inutile e vessatorio.
Dunque, conclude in
fatto il Tribunale, si delinea – per la serietà della patologia e la sua recidivanza, per il tipo di terapia, e anche per i profili
psicologici, così pregnanti nelle malattie tumorali – una condizione di
incompatibilità tra lo stato di salute della persona interessata e la
detenzione in ambiente carcerario, incompatibilità che troverebbe il suo più
adeguato strumento di risoluzione nell’applicazione del rinvio (facoltativo)
dell’esecuzione della pena, a norma dell’art. 147, primo comma, numero 2), cod.
pen.; un istituto, precisa il Tribunale, che appare
maggiormente congruente al caso, rispetto alla richiesta di applicazione del
rinvio obbligatorio dell’esecuzione di pena (art. 146), che postula una
irreversibilità e una terminalità della malattia che
qui non sussistono.
1.4. – Ma l’art. 147, primo comma, numero 2), cod. pen. non è applicabile al
caso in esame, in conseguenza del peculiare regime giuridico che regola
l’esecuzione in Italia delle pene irrogate nei confronti dell’interessata.
Quest’ultima è stata infatti
trasferita in Italia, in applicazione della Convenzione di Strasburgo del 1983,
per «continuare» [secondo l’art. 9, paragrafo 1, lettera a), della Convenzione] l’esecuzione delle pene irrogate negli Stati
Uniti d’America, e il consenso al trasferimento da parte dell’amministrazione
statunitense è stato espressamente subordinato al rispetto di puntuali
condizioni concernenti il regime detentivo, condizioni che costituiscono il
presupposto dell’accordo tra Stato di condanna – gli Stati Uniti – e Stato di
esecuzione - l’Italia - e che sono state espressamente accettate dalla
detenuta, cittadina italiana, in sede di prestazione del consenso al
trasferimento, consenso che è richiesto come necessario dall’art. 3 della
Convenzione. E la Corte d’appello, nel procedere al riconoscimento delle
sentenze penali emesse negli Stati Uniti, ha affermato la legittimità delle
condizioni di detenzione concordate tra i due Governi.
Ora, osserva il Tribunale, l’accordo
intergovernativo detta, al punto 5 dell’allegato A che
ne fa parte, la seguente condizione: «Che la condanna venga eseguita senza la
possibilità di permessi dallo stabilimento penale, anche per brevi periodi. Ciò
includerebbe permessi per fine settimana, per giorni festivi, assenze di
qualsiasi tipo, permessi di lavoro, libertà provvisoria di qualsiasi tipo,
inclusa libertà vigilata oppure reclusione in strutture meno restrittive, o
qualsiasi altra forma di visite o attività al di fuori dello stabilimento». Per
quanto specificamente concerne i profili sanitari, al successivo punto 6 si prevede, per il caso di malattia, che la detenuta
«resti reclusa in uno stabilimento ospedaliero penale e non in altro
stabilimento e che ogni altro problema medico venga trattato nella stessa
maniera in cui lo sarebbe se [la persona] continuasse a scontare la pena negli
U.S.A.». E a tale riguardo, nell’allegato B all’accordo si precisa (punto d) che negli Stati Uniti d’America
esistono strutture ospedaliere penitenziarie idonee a far fronte a qualunque
patologia.
Ancora, il punto 7
dell’allegato A all’accordo prescrive che le condizioni suddette vengano
applicate «anche se persone in circostanze analoghe condannate e recluse in
Italia possano ricevere un trattamento diverso o [essere] ammesse a uno o a
tutti i benefici che non potranno essere concessi» alla condannata.
Il successivo punto 11,
infine, prevede che l’accordo vincoli lo Stato italiano, e non solo l’attuale
Governo, e che, nel caso del mancato rispetto di una qualunque di dette
condizioni, «l’accordo di trasferimento sia nullo» e l’Italia e l’interessata
acconsentano, «senza appello», alla richiesta degli Stati Uniti di riportare la
persona condannata in uno stabilimento penitenziario dello Stato di condanna
per scontare la parte restante della pena, senza possibilità da parte
dell’Italia di rilascio dalla reclusione «in pendenza di una decisione o altra
risoluzione in merito a tale richiesta».
Il quadro così delineato preclude dunque qualsiasi
forma di rilascio dalla carcerazione, sia pure come reclusione in ambiente meno
restrittivo (ad esempio attraverso la detenzione domiciliare),
indipendentemente dalla causa che possa esserne alla base e pertanto anche in presenza di esigenze sanitarie non eludibili. Anzi,
afferma il rimettente, avrebbe potuto perfino dubitarsi
della legittimità, rispetto all’accordo, dello stesso ricorso alla misura
temporanea di cui all’art. 11 dell’ordinamento
penitenziario, anche se il magistrato di sorveglianza e l’amministrazione
competente hanno, sul punto, fornito una interpretazione adeguatrice,
imposta dalla totale indisponibilità di centri clinici interni alle strutture
carcerarie idonei a svolgere gli interventi sanitari resisi indispensabili.
Ma, conclude su tale
punto il rimettente, ciò che sicuramente può escludersi a tenore dell’accordo è
la possibilità di ricorrere al differimento temporaneo dell’esecuzione di pena.
1.5. – Il Tribunale di sorveglianza svolge
quindi una disamina delle finalità della Convenzione di Strasburgo, rivolta
essenzialmente a favorire il reinserimento sociale di chi sia condannato in un
Paese estero, attraverso l’espiazione della pena nel Paese di origine; pena, si
precisa, quale è stata inflitta dallo Stato di
condanna, essendo lo Stato di esecuzione vincolato alla natura giuridica e alla
durata della sanzione così come stabilite dal primo, pur con gli adattamenti
che risultassero indispensabili (art. 10 della Convenzione).
In tale assetto, è coerente che lo Stato di
condanna – che non è obbligato a disporre il
trasferimento – voglia garantirsi condizioni di detenzione nel Paese di
esecuzione il più possibile prossime a quelle sue proprie, escludendo gli
eventuali trattamenti penitenziari più vantaggiosi previsti nell’ordinamento
dello Stato di destinazione. In simili casi, aggiunge il Tribunale, può dirsi
che comunque, nonostante la rinuncia a uno o più benefici penitenziari, è
preferibile, alla stregua della ratio della Convenzione, effettuare
un trasferimento regolato da condizioni restrittive piuttosto che impedire, per
rispetto di una uniformità astratta, il trasferimento medesimo; e ciò, osserva,
non è contraddetto dalla disposizione dell’art. 9, paragrafo 3, della
Convenzione, secondo cui «l’esecuzione della condanna è regolata dalla legge
dello Stato di esecuzione [che] è l’unico competente a prendere ogni decisione
al riguardo», formulazione questa che, nel quadro così delineato, deve essere
intesa, restrittivamente, in riferimento al solo regime materiale di
esecuzione.
E’
appunto sulla base di questa ricostruzione che la
Corte d’appello, valutando la compatibilità tra le condizioni negoziate dai due
Governi e i principi dell’ordinamento giuridico italiano (specie quanto a
natura e durata della pena), ha recepito le medesime condizioni, in quanto
conformi alla finalità primaria della Convenzione.
La conseguenza di quanto sopra detto, conclude il Tribunale di sorveglianza, è che l’esecuzione
della pena in Italia nei confronti della persona trasferita si svolge secondo
le norme penitenziarie interne così come integrate e in larga misura derogate
dall’accordo intergovernativo citato, e che la sentenza della Corte d’appello
italiana è il titolo che legittima la carcerazione secondo il quadro delineato,
titolo che non compete al Tribunale di sorveglianza sindacare.
1.6. – Tutto ciò posto, il Tribunale di
sorveglianza ritiene che l’impossibilità di applicare, alla stregua
dell’accordo, un istituto del diritto interno posto a presidio della integrità personale del detenuto, quale è il rinvio
dell’esecuzione di pena ex art. 147
cod. pen., si ponga in contrasto con diversi
parametri costituzionali.
1.7. – Per un primo aspetto, il rimettente
ravvisa un contrasto con gli artt. 2 e 32 della
Costituzione, poiché tra i diritti inviolabili dell’uomo, che la Repubblica
riconosce e garantisce, rientra il diritto alla salute, che riveste carattere
di diritto fondamentale e, appunto, inviolabile, connesso a un bene
indisponibile da parte del singolo.
Né potrebbe dubitarsi dell’inclusione, nell’ambito soggettivo di
tutela, della persona in stato di detenzione; la legislazione interna appresta
a tal fine diversi strumenti di garanzia, sia per la prevenzione, sia per
l’organizzazione del servizio sanitario, assicurando gli interventi terapeutici
necessari sia intra- che extra-murari; prevede poi
forme diverse di esecuzione della pena, allorché sia necessario conciliare
questa con le esigenze della salute, ad esempio con l’istituto della detenzione
domiciliare per motivi sanitari (art. 47-ter
ordinamento penitenziario); infine, per i casi limite di assoluta
incompatibilità tra la detenzione e le condizioni di salute, pone istituti come
quelli di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen., che,
sospendendo temporaneamente l’esercizio della potestà punitiva dello Stato,
consentono il rinvio dell’esecuzione della pena, a tutela del bene primario
della salute individuale.
L’assoluta preclusione all’applicazione del
rimedio del differimento, che è un istituto di civiltà giuridica a tutela
dell’integrità fisica di chi sia detenuto, equivale a menomare un diritto
fondamentale, in un caso che viceversa esigerebbe una più intensa garanzia. Né
la violazione del diritto costituzionale alla salute potrebbe essere esclusa in
base al consenso espresso dall’interessata rispetto alle condizioni contenute
nell’accordo, vertendosi in materia di diritti
indisponibili.
1.8. – Sarebbe violato, in secondo luogo, il
principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, della
Costituzione).
Se infatti possono
ammettersi deroghe all’applicazione di istituti "premiali” dell’ordinamento, in
applicazione della Convenzione e nel quadro degli accordi intergovernativi, in
vista del raggiungimento dell’obiettivo fondamentale rappresentato dal trasferimento
del condannato, che è appunto mezzo al fine rieducativo, ciò che non può
ammettersi è la previsione di condizioni tali da delineare un "trattamento”
che, comprimendo l’applicazione di istituti basilari di protezione della
integrità fisica, finisce per contraddire l’essenza stessa della prescrizione
costituzionale, nessuna risocializzazione essendo
possibile in danno del bene della salute dell’individuo.
1.9. – Sarebbero altresì violati gli artt. 27, terzo comma – sul divieto di trattamenti contrari al
senso di umanità –, e 25, secondo comma – sul principio di legalità della pena
–, della Costituzione.
Ratio della norma di cui all’art. 147, primo comma, numero
2), cod. pen. è proprio
quella di evitare sia una esecuzione penale contrastante con il senso di
umanità e con la dignità della persona, sia una espiazione che, per il surplus di afflittività,
finisca per trasformarsi in una sanzione qualitativamente diversa e più grave,
perché incidente non solo sulla libertà personale ma addirittura sull’integrità
fisica.
1.10. – Infine, sarebbe violato il principio
di uguaglianza.
Per effetto delle condizioni definite
dall’accordo, si verifica che la persona di cui si
tratta è l’unica cittadina italiana che, in condizioni detentive, viene a
essere privata della possibilità di usufruire di uno strumento essenziale posto
dalla legislazione nazionale a tutela della salute, cioè del rinvio
dell’esecuzione per grave infermità fisica.
Né la macroscopica
disparità di trattamento potrebbe giustificarsi con la particolarità del caso,
che non può costituire un elemento di differenziazione di tale portata.
1.11. – I plurimi dubbi di costituzionalità debbono indirizzarsi, conclude il Tribunale rimettente,
verso la norma (art. 2 della legge 25 luglio 1988, n. 334) che dà esecuzione
alla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate,
immettendone le disposizioni nell’ordinamento interno, in quanto queste rendono
possibile [nel loro complesso e in particolare attraverso la previsione del
necessario accordo tra lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione sul
trasferimento: art. 3, paragrafo 1, lettera f)]
la stipula di accordi che, come si verifica nella specie, derogano
all’applicazione dell’art. 147, primo comma, numero 2), cod. pen.
La rilevanza della proposta questione, afferma
infine il Tribunale, è ravvisabile nel diverso esito che il giudizio cui il
rimettente è chiamato potrebbe avere in caso di accoglimento di essa; solo così
l’accordo più volte citato sarebbe privato della base legislativa che lo
abilita a porsi come eccezione alla regola, ripristinandosi la piena
operatività di quest’ultima anche in relazione al caso
di specie.
2. – Nel giudizio costituzionale così promosso
si è costituita la parte privata. Nell’atto di costituzione, riservando a una
successiva memoria le argomentazioni a sostegno dell’accoglimento della
questione, il difensore ne ha chiesto una sollecita trattazione, in relazione alle condizioni sanitarie dell’interessata,
precisando che la stessa, terminato il ciclo di radioterapia, ha iniziato il
trattamento di chemioterapia, che dovrebbe essere praticato in regime di day hospital anziché in condizioni di
ricovero ospedaliero e che in pari tempo è evidentemente incompatibile con il
regime carcerario; si verifica, in concreto, una situazione «ibrida», in attesa
della decisione sul rinvio dell’esecuzione della pena: da un lato l’interessata
dovrebbe essere dimessa dalla struttura sanitaria, che non potrebbe mantenere
il ricovero per quella specifica terapia, dall’altro non è però possibile
neppure il ripristino della detenzione, che non consentirebbe di prestare la
cura necessaria.
3. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato.
3.1. – L’Avvocatura eccepisce in primo luogo
l’inammissibilità della questione, sotto il profilo della rilevanza, osservando
che il giudice chiamato a fare applicazione della disciplina censurata non è il
Tribunale di sorveglianza rimettente, ma (era) la Corte di appello, tenuta a
valutare l’accordo intergovernativo e a determinare la pena da eseguire in
Italia in sede di riconoscimento delle sentenze penali straniere. E la Corte di
appello, con la sentenza, ha espressamente preso in considerazione la
disciplina di cui si tratta, valutando rispetto a essa l’accordo e concludendo nel senso della sua legittimità, delibando il
riconoscimento delle due sentenze di condanna emesse negli Stati Uniti. Sotto
questo primo profilo, dunque, la questione sarebbe inammissibile perché
«coperta dal giudicato».
3.2. – In secondo luogo, ad avviso
dell’Avvocatura, la eventuale dichiarazione di
incostituzionalità, così come prospettata, avrebbe per effetto l’invalidità
dell’accordo e dunque il venir meno del titolo di legittimazione del
trasferimento della persona e dell’esecuzione in Italia della pena inflitta
negli Stati Uniti, cosicché il Tribunale di sorveglianza rimettente non
potrebbe disporre neppure in tale ipotesi il differimento dell’esecuzione in
applicazione della normativa quale risultante dalla dichiarazione di
incostituzionalità.
Dal testo dell’accordo risulta
infatti che il differimento ex art.
147, primo comma, numero 2), cod. pen., in quanto
contrastante con le condizioni stabilite, qualora venisse disposto in concreto,
farebbe operare la clausola espressa (non sospettata di incostituzionalità) che
sancisce la nullità dell’accordo in caso di inosservanza delle relative
prescrizioni e che impone il rientro della detenuta negli Stati Uniti; con
l’effetto, quindi, non di sospendere temporaneamente l’esecuzione della pena,
ma di farla semplicemente proseguire nello Stato di condanna.
In nessun caso, quindi, il Tribunale di
sorveglianza potrebbe dirsi chiamato a fare applicazione della disciplina sul
trasferimento delle persone condannate, perché il differimento della pena che
si richiede di disporre non potrebbe avere luogo neppure a seguito della
richiesta dichiarazione di incostituzionalità della
normativa denunciata.
3.3. – Ancora, l’Avvocatura osserva che il
sistema – prescelto dall’Italia in sede di adesione e ratifica – delineato nella Convenzione comporta la continuazione dell’esecuzione della pena inflitta all’estero, e che
ciò solo – indipendentemente da specifici accordi in tal senso – sembra
escludere il ricorso a un differimento facoltativo
dell’esecuzione di pena (diversamente da quanto probabilmente potrebbe dirsi
per il differimento obbligatorio), specie se un corrispondente istituto non è
previsto nell’ordinamento dello Stato di condanna. Infatti
il differimento interviene sull’esecuzione non per regolarne lo svolgimento ma
facendola venire meno, sia pure temporaneamente, impedendo così in radice la
«continuazione» dell’esecuzione.
In questa prospettiva, può affermarsi che
l’accordo intergovernativo tra Stati Uniti e Italia non ha aggiunto nulla alla
disciplina generale, e anche per tale aspetto la norma interna di esecuzione
del trattato internazionale non verrebbe in rilievo.
3.4. – Ulteriore
ragione di inammissibilità, secondo l’Avvocatura dello Stato, risiederebbe
nella circostanza che, se è vero che fonti esterne all’ordinamento nazionale
sono soggette a controllo di costituzionalità attraverso la legge di esecuzione
del trattato che le prevede, è anche vero che tale principio postula che le
disposizioni attivate sul piano pattizio abbiano
carattere normativo e siano, nella scala delle fonti, equiordinate
agli atti con forza e valore di legge, come ad esempio avviene per i
regolamenti comunitari (sentenze nn. 170 del 1984 e 183 del 1973
della Corte costituzionale).
Nulla di tutto ciò è riscontrabile nella
specie: il trattato internazionale, e quindi la legge che a esso dà esecuzione,
considera non già una fonte produttiva di norme, che cioè possa stabilire regole generali e astratte, ma una fonte convenzionale, che
produce accordi specifici su singoli casi concreti; e la regola convenzionale
che di volta in volta sia posta non potrebbe non conformarsi all’ordinamento
nel quale si inserisce la norma che la prevede, cioè all’ordinamento italiano.
Pertanto, conclude in
rito l’Avvocatura, la questione non può avere ingresso, perché spetta al
giudice ordinario e non al giudice costituzionale il sindacato di conformità
dell’accordo intercorso tra Stati Uniti e Italia, rispetto all’ordinamento
interno.
3.5. – Nel merito, l’Avvocatura deduce
l’infondatezza della questione, in riferimento a tutti
i parametri invocati.
La Corte costituzionale ha di recente
affrontato il tema dei rapporti tra le convenzioni internazionali concernenti
la cooperazione giudiziaria nella materia penale e i principi costituzionali, e
ha affermato la sussistenza di alcuni principi di carattere assoluto,
coessenziali al quadro costituzionale, come il divieto della pena di morte o il
divieto di pene contrarie al senso di umanità (sentenza n. 223 del
1996).
Ma non è questo –
osserva l’Avvocatura – il caso di specie: è anzi la finalità che ispira la
Convenzione e quindi la normativa denunciata a muoversi per rendere la pena il
più possibile conforme al senso di umanità.
Quanto al principio della finalità rieducativa
della pena e al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità,
l’Avvocatura fa rilevare che le condizioni negoziate tra gli Stati in
applicazione della Convenzione di Strasburgo sono rivolte proprio a mettere in
opera la Convenzione in casi nei quali essa resterebbe altrimenti inoperante; come è evidente nel caso specifico, nel quale ben cinque
richieste di trasferimento erano state in precedenza respinte dagli Stati
Uniti. E proprio con riferimento alla vicenda in esame il Comitato per i
problemi criminali - che, nell’ambito del Consiglio d’Europa, verifica il
funzionamento delle convenzioni stipulate in materia penale - ha sottolineato, in un proprio rapporto del 25-27 settembre
1995, che, mentre l’obiettivo della esecuzione della condanna è raggiungibile a
prescindere dalla Convenzione, non altrettanto è a dirsi per il fine del
reinserimento del condannato, che dunque è la «ragion d’essere» dello strumento
convenzionale internazionale.
Tale finalità di risocializzazione
è stata del resto riconosciuta dallo stesso giudice rimettente, essendo da
preferire, nell’alternativa tra l’applicazione
"condizionata” e la non applicazione della Convenzione, in nome dell’uniformità
di trattamento, la prima possibilità.
Quando dunque le restrizioni rispetto
all’ordinario regime di detenzione dello Stato di esecuzione rappresentano
condizioni imprescindibili per l’applicazione della Convenzione, non può dirsi
violato il principio della finalità rieducativa perché, in difetto di un
accordo, il trasferimento non avrebbe luogo e la risocializzazione
del condannato ne risulterebbe compromessa in modo
maggiore, in quanto l’esecuzione della pena dovrebbe proseguire, alle medesime
condizioni, ma nel Paese estero di condanna.
Circa il principio di legalità della pena, sia
inteso come rispetto della riserva di legge sia come esigenza di tassatività,
esso sarebbe rispettato, per il recepimento della Convenzione nell’ordinamento
attraverso la legge di ratifica ed esecuzione e perché in essa è posta una
disciplina analitica sull’esecuzione della condanna.
Quanto alla dedotta violazione del diritto
fondamentale alla salute, l’Avvocatura rileva che nel caso concreto il diritto
appare salvaguardato poiché la magistratura di sorveglianza ha disposto il
trasferimento della detenuta in struttura ospedaliera civile, a norma dell’art.
11 ordinamento penitenziario; mentre è affidata alla
discrezionalità del giudice di merito l’eventuale valutazione di insufficienza
di detto strumento rispetto alle esigenze sanitarie dell’interessata. Proprio
per la – praticata – possibilità di ricovero in una struttura ospedaliera
esterna, pur se in regime di detenzione, l’Avvocatura richiama l’attenzione
sulla necessità di una valutazione della disciplina che operi un bilanciamento
degli interessi in gioco, tenendo conto del fatto che è questione di rinvio
facoltativo e non di rinvio obbligatorio della esecuzione:
le restrizioni concordate rappresentano una conditio sine qua non per il trasferimento e
pertanto, se si ritenesse incostituzionale la normativa che tali restrizioni
consente, si perverrebbe al risultato, paradossale, di negare la stessa
possibilità del trasferimento, così contrastando proprio l’attuazione dei
principi di risocializzazione e umanizzazione del
trattamento di cui il Tribunale lamenta la violazione.
Ove l’accordo in questione non sussistesse,
infatti, non vi sarebbe stato luogo al trasferimento in Italia, e la condannata
non avrebbe certo fruito di condizioni di maggiore salvaguardia
della salute, giacché avrebbe ricevuto cure analoghe ma all’interno della
struttura carceraria dello Stato estero.
Quanto, infine, alla dedotta violazione del
principio di uguaglianza, a impedirne il richiamo è, per l’Avvocatura, la
singolarità del caso, che non consente di istituire utilmente un raffronto con
la generalità, per difetto di omogeneità dei due termini.
L’Avvocatura conclude
pertanto per una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della
questione.
4.
– La difesa della parte privata ha successivamente
depositato una memoria.
4.1. – Dopo aver ripercorso sia l’iter della procedura
svoltasi dinanzi al Tribunale di sorveglianza sia le argomentazioni da
quest’ultimo prospettate nel sollevare la questione di costituzionalità, la
difesa della persona condannata si sofferma sulle deduzioni dell’Avvocatura
dello Stato e in particolare sull’eccezione di inammissibilità della questione,
formulata in base all’argomento del carattere non normativo dell’accordo di cui
si tratta, dunque per l’inidoneità dell’atto a formare oggetto del sindacato di
costituzionalità.
Questa eccezione è condivisa dalla difesa
della parte costituita, che a essa si richiama per riproporre
quanto già sostenuto nell’ambito del giudizio dinanzi al Tribunale di
sorveglianza e cioè che dell’accordo intergovernativo sul trasferimento sarebbe
possibile fornire una interpretazione diversa e idonea a superare il dubbio di
costituzionalità.
Non deriverebbe infatti
dall’impugnato art. 2 della legge n. 334 del 1988, di ratifica ed esecuzione
della Convenzione di Strasburgo, la lamentata impossibilità di applicare l’art.
147, primo comma, numero 2), cod. pen., ma piuttosto
ciò sarebbe esclusiva conseguenza dell’accordo specifico con il quale è stata
posta la disciplina del regime detentivo della condannata; non si tratterebbe
dunque di valutare una disposizione generale ed astratta, che sia suscettibile
di sindacato di costituzionalità, ma semmai di considerare la vicenda
disciplinata da una «norma del caso singolo». Il rilievo sarebbe confermato sia
dal testo della Convenzione, che si limita a stabilire nel suo art. 3, paragrafo 1, lettera f),
la necessità di un accordo per poter disporre il trasferimento, sia dalla ratio della fonte
internazionale pattizia, che è certamente orientata
al rispetto del senso di umanità nell’esecuzione della pena; il che esclude che
si possa fornire della legge nazionale che immette nell’ordinamento le disposizioni
della Convenzione una interpretazione tale da autorizzare il Governo a
stipulare accordi contrari alla Costituzione, come invece ritiene il
rimettente.
Ma se il vizio attiene al – solo – accordo,
allora la valutazione di conformità di esso ai principi fondamentali
dell’ordinamento italiano è compito del giudice
ordinario, sia di quello chiamato a delibare il riconoscimento della sentenza
penale straniera, sia di ogni altro giudice che debba definire questioni
coinvolte dalla disciplina contenuta nell’accordo medesimo.
Ora, prosegue la difesa, la Corte d’appello ha
deciso nel senso della conformità tra l’accordo e i principi fondamentali,
oltre che con lo spirito della Convenzione di Strasburgo, nonostante la
creazione di una sorta di regime singolare «di rigore»; ma la restrizione dei
benefici accordabili all’interessata non potrebbe spingersi fino
all’eliminazione di ogni tutela dei diritti fondamentali, in primo luogo del diritto alla salute, poiché una simile conclusione
contraddirebbe proprio lo spirito della Convenzione.
La premessa per una diversa interpretazione è
individuata nel disposto del punto 6 dell’allegato A
all’accordo, che, ad avviso della difesa, è suscettibile di una lettura
contraria a quella da cui muove il Tribunale di sorveglianza; il citato punto 6
dispone che «nel caso di malattia», la persona «resti reclusa in uno
stabilimento ospedaliero penale e non in altro stabilimento e che ogni problema
medico venga trattato nella stessa maniera in cui lo sarebbe se la condannata continuasse
a scontare la pena negli Stati Uniti».
Questa "omologazione” del trattamento italiano
a quello americano sarebbe, secondo la memoria, sempre da riferire alle
condizioni sanitarie tenute presenti al tempo della conclusione dell’accordo e
comunque a eventuali infermità dell’interessata tali da non richiedere
determinate cure specialistiche; il Governo italiano e l’interessata, secondo
la difesa, avrebbero cioè aderito e acconsentito alle condizioni poste dal
Governo statunitense confidando nelle buone condizioni di salute della
detenuta.
A tale proposito, nella memoria si richiama
quanto stabilisce la Convenzione di Strasburgo, relativamente
agli obblighi reciproci di fornire informazioni e alla documentazione da
produrre (artt. 4 e 6), nel quadro della formazione genuina del consenso e del
leale svolgimento delle trattative in vista dell’accordo; l’art.
Su tali premesse, la difesa afferma che le
condizioni fisiche e in particolare il rischio di malattie tumorali cui andava
incontro la detenuta non hanno fatto parte del contenuto delle trattative tra
Stati Uniti e Italia; ora pertanto si dovrebbe prescindere dall’accordo, poiché
si sarebbe in presenza di una condizione totalmente
nuova rispetto all’accordo medesimo, condizione da valutare come tale in modo
autonomo e in aderenza ai principi dell’ordinamento.
Del resto, l’impossibilità di disciplinare in toto il regime giuridico della
detenuta sulla base dell’accordo sarebbe già emersa nei fatti. Lo stesso
Tribunale di sorveglianza ha sottolineato
l’improrogabilità del ricovero in luogo esterno di cura, ex art. 11 ordinamento penitenziario, per gli accertamenti e per
l’intervento: neanche tale misura temporanea, a rigore, sarebbe stata
concedibile, sulla base dell’accordo, ma in definitiva ha prevalso l’esigenza
di tutela dell’integrità fisica dell’individuo, indipendentemente dalla volontà
che questi abbia manifestato nell’ambito della pregressa procedura di
trasferimento. Questo punto di vista, si rileva ancora, non è stato contrastato
dagli Stati Uniti, che, informati di tali sviluppi, non hanno eccepito nulla né
hanno chiesto l’annullamento dell’accordo, avallando l’interpretazione
garantista degli organi giudiziari italiani. Ciò in linea – si sostiene ancora
nella memoria – con l’atteggiamento da ultimo manifestato dal Governo
statunitense, che, attraverso la concessione della «commutazione» della pena a
due persone già coimputate della cittadina italiana, avrebbe dimostrato
l’intento di definire una volta per tutte quella
parentesi politico-giudiziaria.
4.2. – Qualora le argomentazioni sopra svolte
non dovessero sfociare in una dichiarazione di inammissibilità
della questione, la difesa della parte privata chiede comunque, nel merito, una
pronuncia che sia tale da riaffermare la centralità del diritto del singolo
alla propria vita e da confermare che la tutela della salute è posizione
giuridica essenziale e imprescindibile, in linea con l’orientamento sempre
manifestato dalla giurisprudenza costituzionale, ad alcuni passaggi della quale
la difesa fa testuale richiamo.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale
di sorveglianza di Roma, con riferimento agli artt. 2,
3, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 32, primo comma, della
Costituzione, solleva un dubbio di legittimità costituzionale sull’art. 2 della
legge 25 luglio 1988, n. 334, che dà «piena ed intera esecuzione» alla
Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo
il 21 marzo 1983.
Dovendosi
pronunciare, a norma dell’art. 147, primo comma, numero 2),
del codice penale, sul differimento dell’esecuzione della pena di persona
detenuta della quale si allega la grave infermità fisica, il giudice rimettente
osserva:
a) che la persona interessata al provvedimento è stata condannata a pena detentiva negli Stati Uniti d’America, con due sentenze riconosciute in Italia;
b) che, in applicazione della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, essa si trova attualmente in stato di detenzione in Italia;
c) che l’accordo tra i Governi degli Stati Uniti d’America e dell’Italia che ha consentito il trasferimento è accompagnato da un protocollo contenente una serie di clausole che prevedono e l'impossibilità di concedere alla persona detenuta benefici comportanti l’allontanamento, sia pure per brevi periodi, dallo stabilimento carcerario – secondo quanto esposto in dettaglio nella narrazione dei fatti; e l'applicabilità di tali limitazioni anche in caso di malattia, dovendo allora le cure avvenire in uno stabilimento ospedaliero penale e non in altro stabilimento e ogni altro problema medico dovendo essere trattato alla stessa maniera in cui lo sarebbe se la persona interessata continuasse a scontare la pena negli Stati Uniti d’America;
d) che tali condizioni sono da applicare anche se altre persone, in circostanze analoghe, siano ammesse a godere di trattamenti e benefici esclusi nel caso in questione;
e) che l’accordo tra i Governi degli Stati Uniti d’America e dell’Italia prevede che lo Stato italiano, e non solo il Governo, sia vincolato al suo rispetto e che, nel caso di violazione di una qualunque delle condizioni previste, l’accordo sul trasferimento sia nullo; che l’Italia e la persona detenuta acconsentano, senza appello, alla richiesta degli Stati Uniti d’America di ricondurre questa persona in uno stabilimento penitenziario statunitense per scontare la parte restante di pena; che non vi sia rilascio dalla reclusione per il tempo necessario a prendere decisioni o risoluzioni in proposito;
f)
che le clausole anzidette sono state approvate sulla base dell’art. 3, paragrafo 1, lettera f),
della Convenzione il quale stabilisce che il trasferimento del condannato ha
luogo, tra l’altro, a condizione che lo «Stato di condanna» e lo «Stato di
esecuzione» si siano «mis d’accord
sur ce transfèrement»;
g)
che, alla stregua di tali limitazioni, la possibilità di differimento della
pena in caso di grave infermità previsto dall’art. 147
del codice penale non potrebbe trovare applicazione, ciò che determinerebbe
tuttavia una violazione dei principi costituzionali sopra indicati.
Poiché,
secondo il giudice rimettente, l’effetto ostativo all’applicazione dell’art.
147 del codice penale deriva dalle clausole dell’accordo tra i Governi degli
Stati Uniti d’America e dell’Italia; poiché tali clausole – sempre secondo il
giudice rimettente - si basano sull’applicazione
dell’art. 3, paragrafo 1, lettera f),
della Convenzione di Strasburgo e poiché alla Convenzione è stata data
esecuzione nel nostro ordinamento tramite l’art. 2 della legge n. 334 del 1988,
si solleva la questione di costituzionalità su questa disposizione nella parte
in cui, dando esecuzione all’art. 3, paragrafo 1, lettera f), della Convenzione, legittima la stipula – o non esclude la
legittimità della stipula - dell’accordo che impedisce di dare applicazione
all’art. 147 del codice penale.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri interveniente e la parte privata costituitasi in giudizio prospettano alcune eccezioni di inammissibilità della predetta questione.
2.1. – Il Presidente del Consiglio ritiene
innanzitutto che l’accordo intergovernativo, con le garanzie alle quali il
Governo degli Stati Uniti ha subordinato il suo consenso, sia già stato
definitivamente valutato dalla competente Corte d’appello con sentenza 9 luglio
1999, pronunciata in sede di riconoscimento delle sentenze statunitensi di
condanna, a norma dell’art. 1 della legge 3 luglio
1989, n. 257 (Disposizioni per l’attuazione di convenzioni internazionali
aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali). Poiché, a norma
dell’art. 2 di questa legge, alle sentenze penali
straniere è dato riconoscimento a condizione (tra l’altro) che esse non
contengano disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento
giuridico italiano, e poiché nessun rilievo è stato mosso alla legittimità
dell’accordo, in generale, o, in particolare, di specifiche sue clausole, se ne
dovrebbe trarre, ad avviso del Presidente del Consiglio, che la pronuncia della
Corte d’appello copre con la forza della res iudicata ogni questione che,
successivamente, possa venire a porsi in proposito. Conseguentemente, al
Tribunale di sorveglianza sarebbe preclusa ogni valutazione al riguardo e la
questione di legittimità costituzionale sollevata sarebbe priva di rilevanza.
L’eccezione non può essere accolta.
La sentenza della Corte d’appello da cui deriverebbe la preclusione afferma in generale non potersi «negare la legittimità di un trasferimento che comporti la prosecuzione dell’esecuzione per il tempo e secondo le condizioni stabilite dallo Stato di condanna» e potersi ritenere legittime tali condizioni «se non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico dei due Stati» e «dichiara il riconoscimento» delle sentenze statunitensi «alle condizioni stabilite dagli USA ed accettate» dalla persona interessata. Tuttavia - salvo che per quanto concerne la ri-determinazione della durata della pena, alla stregua degli artt. 10, paragrafo 2, della Convenzione e 3, commi 1 e 2, della legge n. 257 del 1989 – essa non ha svolto alcuna valutazione circa la legittimità delle specifiche clausole che accompagnano, condizionandolo, l’accordo tra Governi, in particolare circa quelle relative ai trattamenti sanitari. Del resto, lo stesso Ministro della giustizia, nella lettera del 28 luglio 1999 con la quale comunica al suo corrispondente dell’amministrazione statunitense l’avvenuto riconoscimento delle sentenze da eseguire in Italia, non riferisce di un riconoscimento giudiziario ma esclusivamente dell’accoglimento governativo delle condizioni, accoglimento di cui la sentenza della Corte d’appello si limita a dare atto.
Inoltre, mancando una specifica disciplina convenzionale o legislativa delle condizioni apposte all’accordo di trasferimento e della loro efficacia, allo stato della legislazione vigente, non risulta quale possa essere il significato giuridico del riconoscimento che ha operato l’autorità giudiziaria in tale caso.
Da ultimo - quali che siano la portata e il fondamento normativo di tale riconoscimento, accompagnato da condizioni, della sentenza straniera – l’eccezione in esame implica una concezione per la quale esso, piuttosto che a riconoscimento di una sentenza secondo le nostre leggi processuali, si atteggerebbe a una sorta di ordine di esecuzione di una disciplina individuale dell’esecuzione della pena concordata tra Governi, idoneo a farla valere nell’ordinamento e a dotarla di forza tale da precludere ogni possibile, futura azione a difesa dei diritti del detenuto. Il che, tanto più in quanto si tratta di norme in materia di diritti indisponibili, il cui rispetto non è perciò reso facoltativo nemmeno dal consenso del soggetto interessato, dimostra, con l’assurdità della conseguenza, l’insostenibilità della premessa.
2.2. – In secondo luogo, per il Presidente del Consiglio, l’eventuale accoglimento della questione di costituzionalità potrebbe determinare l’applicazione di una disposizione della legge italiana in contrasto con le condizioni nell’accordo stabilite. In tal caso varrebbe però la clausola di nullità dell’accordo stesso e opererebbe il consenso preventivamente prestato dal Governo italiano e dalla persona interessata alla richiesta del Governo degli Stati Uniti di ripristinare la detenzione nello Stato di condanna per l'esecuzione della parte restante di pena. La questione di costituzionalità sarebbe allora irrilevante, non potendosi comunque pervenire, in tale contesto di impegni italiani, all’applicazione dell’art. 147 del codice penale.
Sennonché,
la citata clausola dell’accordo, riguardante i Governi sul piano dei rapporti
internazionali - a parte l'incertezza circa il vincolo che
ne possa derivare nei confronti dell'autorità giudiziaria sotto la cui
giurisdizione si svolge l'esecuzione della pena in Italia e della quale
occorrerebbe comunque un provvedimento di autorizzazione al ri-trasferimento
negli Stati Uniti -, non esclude affatto di per sé l'adozione di provvedimenti
da parte dell'autorità giudiziaria stessa, incompatibili con le condizioni
stabilite nell'accordo. Essa prevede invece gli effetti conseguenti
all'eventuale adozione di tali provvedimenti, effetti, oltretutto, rimessi a
una possibilità - la richiesta del Governo degli Stati Uniti - e non dipendenti
dalla necessità, ciò che conferisce all'eccezione di irrilevanza
un carattere soltanto ipotetico.
2.3.
– In terzo luogo, il Presidente del Consiglio osserva che l’inapplicabilità
dell’art. 147 del codice penale, prima ancora che dal contenuto delle clausole
che accompagnano l’accordo tra i Governi, deriva dalla stessa Convenzione o, meglio, dal meccanismo, regolato dalla Convenzione e
prescelto dall’Italia in sede di adesione e ratifica: il meccanismo della continuazione dell’esecuzione della pena
inflitta dallo Stato estero (previsto in alternativa a quello della conversione della condanna). La continuazione di per sé,
indipendentemente da specifici accordi, comporterebbe, per l’evidente
incompatibilità concettuale, l’impossibilità di concepire un differimento dell’esecuzione. E ciò,
ancora, confermerebbe l’irrilevanza della questione.
L’eccezione non può essere accolta per il suo carattere nominalistico. La continuazione, infatti, sta solo a significare, alla stregua dell’art. 10, paragrafo 1, della Convenzione, che l’esecuzione prosegue, dopo il trasferimento, così come è stabilita nella sentenza di condanna (salva l’eventualità dell’adattamento, previsto nel paragrafo 2 del medesimo articolo 10), a differenza di quanto accade con il sistema della conversione della condanna, il quale comporta la sostituzione di una condanna all’altra, nel rispetto degli accertamenti contenuti nella prima sentenza e della natura della pena con essa disposta, secondo l’art. 11 della Convenzione. E lo stesso art. 10, paragrafo 1, postula il mantenimento della natura e della durata della pena, ma né l'una né l'altra, evidentemente, sono intaccate dal mero differimento della sua esecuzione.
2.4.
– Infine, il Presidente del Consiglio – subordinatamente al mancato
accoglimento delle precedenti eccezioni di inammissibilità
- concorda con la parte privata nel ritenere che non spetti alla Corte
costituzionale, ma spetti se mai al giudice ordinario, la valutazione circa la
conformità all’ordinamento italiano dell’accordo tra i Governi degli Stati
Uniti e dell’Italia, un accordo che sarebbe privo di natura normativa e,
comunque, di forza di legge.
E’ sufficiente peraltro osservare in contrario che la questione di costituzionalità, per quanto dalla sua soluzione possano derivare conseguenze circa la valutazione della legittimità dell’accordo, non riguarda direttamente l'accordo stesso ma la legge che ha dato esecuzione alla Convenzione, contenente una norma in base alla quale, secondo la prospettazione del rimettente, l'accordo sarebbe stato stipulato dalle autorità di governo dei due Paesi.
3.
– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2
della legge 25 luglio 1988, n. 334 – ammissibile per le ragioni sopra indicate
– è peraltro infondata, alla stregua delle considerazioni che seguono.
3.1.
– L’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti sia delle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i limiti necessari a
garantirne l’identità e quindi, innanzitutto, i limiti derivanti dalla
Costituzione.
Ciò
vale perfino nei casi in cui la Costituzione stessa offre all’adattamento al
diritto internazionale uno specifico fondamento, idoneo a conferire alle norme
introdotte nell’ordinamento italiano un particolare valore giuridico. I
«principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale» e i «diritti inalienabili
della persona» costituiscono infatti limite
all’ingresso tanto delle norme internazionali generalmente riconosciute alle
quali l’ordinamento giuridico italiano «si conforma» secondo l’art. 10, primo
comma, della Costituzione (sentenza n. 48 del
1979); quanto delle norme contenute in trattati istitutivi di
organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 della
Costituzione o derivanti da tali organizzazioni (sentenze nn. 183 del 1973; 176 del 1981; 170 del 1984; 232 del 1989 e 168 del 1991).
E anche le norme bilaterali con le quali lo Stato e la Chiesa cattolica
regolano i loro rapporti, secondo l’art. 7, secondo
comma, della Costituzione, incontrano, quali ostacoli al loro ingresso
nell’ordinamento italiano, i «principi supremi dell’ordinamento costituzionale
dello Stato» (sentenze
nn. 30 e 31 del 1971; 12 e 195 del 1972; 175 del 1973; 16 del 1978; 16 e 18 del 1982).
Le norme di diritto internazionale pattizio
prive di un particolare fondamento costituzionale assumono invece nell'ordinamento
nazionale il valore conferito loro dalla forza dell'atto che ne dà esecuzione
(sentenze nn. 32 del 1999; 288 del 1997; 323 del 1989). Quando tale esecuzione è
disposta con legge, il limite costituzionale vale nella sua interezza, alla
stessa stregua di quanto accade con riguardo a ogni altra legge. Sottoponendo a
controllo di costituzionalità la legge di esecuzione del trattato, è possibile
valutare la conformità alla Costituzione di quest'ultimo (ad esempio, sentenze nn. 183
del 1994; 446
del 1990; 20
del 1966) e addivenire eventualmente alla dichiarazione
d’incostituzionalità della legge di esecuzione, qualora essa immetta, e nella
parte in cui immette, nell’ordinamento norme incompatibili con la Costituzione
(sentenze nn. 128 del 1987; 210 del 1986).
Non è però
questo l’esito del controllo cui si deve pervenire nel caso in esame.
3.2. – Il
Tribunale rimettente, nel sollevare la questione di costituzionalità, ritiene
che la norma legislativa impugnata, dando «piena ed
intera esecuzione» alla Convenzione, ammetta o non escluda che il Governo
italiano – in applicazione dell’art. 3, paragrafo 1, lettera f), della Convenzione - possa pattuire
con il Governo di altro Stato, firmatario della Convenzione, condizioni
personali speciali di esecuzione della pena detentiva, da applicarsi a opera
dell’autorità giudiziaria nei confronti della persona detenuta trasferita, con
preferenza non solo rispetto alle norme legislative ma anche rispetto a quelle
costituzionali, in materia di diritti dei detenuti.
Queste
proposizioni, tuttavia, prima ancora che alla stregua della Costituzione non si
giustificano alla stregua delle norme della Convenzione e della legge che a
essa ha dato esecuzione.
Le
conseguenze del trasferimento sull’esecuzione della condanna trovano la loro
disciplina negli artt. da
Al
contrario, l’art.
L’art.
10, inoltre, in riferimento al caso della continuazione dell’esecuzione, dopo aver
stabilito, al paragrafo 1, che lo Stato di esecuzione «est lié
par la nature juridique et
la durée de la sanction telles qu’elles
résultent de la condamnation»,
regola poi, al paragrafo 2, il caso dell'adattamento quando vi sia
incompatibilità di natura giuridica o durata della sanzione rispetto alla
legislazione dello Stato di esecuzione o quando tale legislazione l'esiga. In questa
ipotesi, lo Stato di esecuzione è abilitato ad adattare, tramite una decisione
giudiziaria o amministrativa, la sanzione (il cui concetto evidentemente
abbraccia la condizione giuridica globale del condannato, costituita dalle
situazioni soggettive che determinano il suo status di persona assoggettata all'esecuzione della pena) alla pena
o misura previste dalla propria legge per reati della stessa natura . La pena e la misura adattate devono corrispondere «autant que possible»
a quella inflitta con la condanna da eseguirsi.
La
Convenzione è dunque univoca nel riferire l’esecuzione della pena al regime
giuridico vigente nello Stato di esecuzione e ad assoggettarla alle misure
concrete che questo prevede come appropriate. Essa inoltre vincola lo Stato di
esecuzione (nel caso della continuazione)
alla natura e alla durata della sanzione, come stabilite dallo Stato di
condanna, ma – in caso di disomogeneità tra gli ordinamenti - promuove la
corrispondenza, per quanto possibile, tra le sanzioni, quali pronunciate e
quali da eseguire, dando la preminenza a quanto è richiesto dall'ordinamento
dello Stato di esecuzione.
Nello spirito della Convenzione, lo Stato di condanna,
dunque, può potestativamente prestare o negare il suo
consenso al trasferimento del condannato, quando ritenga che il regime legale
dell’esecuzione penale nel potenziale Paese di esecuzione, rispettivamente, sia
o non sia sostanzialmente equivalente a quello previsto dal proprio ordinamento
e, perché possa prendere le proprie determinazioni con cognizione di causa,
sarà informato circa i caratteri di tale regime nello Stato di esecuzione
(nella specie, tale conoscenza, oltre che attraverso informazioni offerte dal
Ministero della giustizia, è stata garantita dal Comitato
per i problemi criminali del Consiglio d’Europa, con analitiche prospettazioni nelle già menzionate Osservazioni). Lo Stato di esecuzione, a sua volta, è vincolato
alla natura giuridica e alla durata della sanzione quale
è prevista nell'ordinamento dello Stato di condanna, ma non al di là del limite
superato il quale si determinerebbe una rottura del proprio ordinamento,
essendo possibile, per evitare tale conseguenza, operare l'adattamento che la
salvaguardia di quest'ultimo rende strettamente necessario. Ciò che chiaramente
è escluso dalla Convenzione - e la ragione di tale
esclusione, alla luce dei principi dello Stato di diritto, non necessita di
spiegazioni - è l’eventualità che il soggetto trasferito sia sottoposto a un
vero e proprio regime di esecuzione speciale e personale, concernente i
diritti, oltre che i doveri, che lo riguardano come detenuto.
3.3.
– In questo contesto si colloca l’art. 3, paragrafo 1,
lettera f), della Convenzione il
quale prevede, affinché il detenuto possa essere trasferito nel suo Stato di
cittadinanza, che «l’Etat de condamnation
et l’Etat d’exécution doivent s’être mis d’accord
sur ce transfèrement»; una
disposizione che, anche secondo l’interpretazione che ne dà il Rapport explicatif relatif à la Convention sur le transfèrement des personnes condamnées (Conseil de l’Europe, Strasbourg, 1983, § 25), non fa che confermare il
principio-base della Convenzione, vale a dire che il trasferimento non è
obbligatorio ma necessita dell’accordo degli Stati interessati.
Il
Tribunale rimettente, tuttavia – così come la Corte d’appello nel provvedimento
di riconoscimento delle sentenze statunitensi di condanna -, ha ritenuto che
tale disposizione autorizzi i Governi degli Stati a convenire fra loro
particolari condizioni relativamente al trasferimento:
come possono mettersi d’accordo o possono non mettersi d’accordo, infatti,
potrebbero altresì mettersi d’accordo a certe condizioni. In ogni caso però,
ammessa questa interpretazione, il potere governativo di concordare particolari
modalità di esecuzione della pena deve essere
accordato al sistema generale della Convenzione in cui viene a inserirsi,
sistema risultante, in particolare, dai già esaminati artt. 9 e 10 i quali, per
quanto detto, fanno salvo l'ordinamento giuridico dello Stato di esecuzione e,
in primo luogo, evidentemente, i suoi principi e le sue regole costituzionali.
Pertanto,
l’art. 3, paragrafo 1, lettera f), non può essere interpretato nel senso ipotizzato dal rimettente
nel sollevare la questione di legittimità costituzionale.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 25 luglio
1988, n. 334 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione sul trasferimento delle
persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 25,
secondo comma, 27, terzo comma, e 32, primo comma, della Costituzione, dal
Tribunale di sorveglianza di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2001.
Cesare
RUPERTO, Presidente
Gustavo
ZAGREBELSKY, Redattore
Depositata
in Cancelleria il 22 marzo 2001.