Sentenza n. 48 del 1979
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SENTENZA N. 48

ANNO 1979

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Prof. Leonetto AMADEI, Presidente

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof Antonino DE STEFANO

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 31, paragrafi 1 e 3 della Convenzione di Vienna 18 aprile 1961, recepita nell'ordinamento interno con legge 9 agosto 1967, n. 804, promosso con ordinanza emessa il 27 maggio 1977 dal tribunale di Roma nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso nei confronti di Russel Ronald Denis, iscritta al n. 587 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 60 del 1 marzo 1978.

Visto l'atto di costituzione di Russel Ronald Denis, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 4 aprile 1979 il Giudice relatore Brunetto Bucciarelli Ducci;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

Nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso a carico dell'addetto militare presso l'Ambasciata canadese in Roma, per canoni di locazione dell'appartamento abitato dal Colonnello Russel, il tribunale di Roma, chiamato a decidere sulla sussistenza della giurisdizione del giudice italiano (e quindi sulla validità del decreto opposto), eccepita da una parte, nonché sulla richiesta di concessione di provvisoria esecuzione con cauzione, formulata ex adverso, ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 9 agosto 1967, n. 804, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 31, paragrafi 1 e 3 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, in riferimento agli articoli 2, 3, primo comma, 10, secondo comma, 11, 24, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione.

Osserva il tribunale di Roma - sul pacifico presupposto dell'assenza di giurisdizione civile della autorità giudiziaria italiana in ordine all'azione personale di adempimento di un contratto di locazione nei confronti dell'agente diplomatico canadese - che l'art. 31, par. 1 della citata Convenzione di Vienna, resa esecutiva in Italia mediante l'ordine di esecuzione di cui alla legge citata, prevedendo l'esenzione dalla giurisdizione civile dello Stato accreditatario (con alcune eccezioni che nella specie non rilevano) contrasterebbe innanzitutto con gli artt. 11 e 102 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo tale immunità non rientrerebbe tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute cui si adegua l'ordinamento interno in virtù dell'art. 10 della Costituzione, come emergerebbe dalla circostanza che é occorsa una apposita Convenzione internazionale per disciplinare la materia.

L'immunità denunciata non avrebbe quindi tale supporto costituzionale, essendosi l'ordinamento interno adeguato ad essa in virtù della citata legge ordinaria.

Nell'ordinanza di rimessione si afferma in particolare che l'immunità diplomatica, così come tradizionalmente giustificata, non é diretta ad assicurare benefici personali bensì non costituirebbe altro che una proiezione dell'immunità dello Stato cui appartiene il diplomatico, e non dovrebbe quindi concernere i rapporti giuridici privati dell'agente diplomatico. Pertanto la norma di adeguamento denunciata violerebbe il principio generale che attribuisce la funzione giurisdizionale alla magistratura (art. 102 Cost.), mentre la deroga disposta con la citata legge ordinaria n. 804 del 1967, non si potrebbe giustificare ex art. 11 Cost. Infatti l'ordine di esecuzione nel diritto interno di un trattato internazionale, attuato con legge ordinaria, potrebbe consentire la censurata limitazione di sovranità solo se il trattato rientrasse tra quelli stipulati al fine specifico e diretto di "assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni", il che é contestato dal giudice a quo, rappresentando altresì che altrimenti, attraverso la legge ordinaria di esecuzione di trattati internazionali, sarebbe assai facile modificare la portata delle norme costituzionali.

Un secondo vizio d'illegittimità costituzionale é prospettato dal tribunale di Roma sotto il profilo che la denunciata immunità dei diplomatici stranieri dalla giurisdizione civile, lede il diritto di ogni cittadino (o anche degli altri stranieri) ad agire in giudizio per la tutela dei loro diritti o interessi (art. 24, primo comma, Cost.), che rientra tra "i diritti inviolabili dell'uomo" garantiti dall'art. 2 della Carta. Né la violazione dell'art. 24 Cost. potrebbe essere esclusa dalla remota possibilità di agire innanzi ai tribunali dello Stato accreditante, per l'estrema difficoltà di esercizio del diritto di azione, che resterebbe sostanzialmente vanificato.

Una terza censura é formulata assumendosi che, essendo concessa al diplomatico straniero l'immunità dalla giurisdizione civile come convenuto, ma la titolarità del diritto di agire in giudizio come attore, é violato il principio di eguaglianza laddove esige che allo straniero non possa essere riconosciuta una posizione preminente rispetto al cittadino o ad altri stranieri privati individui (artt. 3 e 10, secondo comma, della Costituzione).

Il giudice a quo ha sollevato la questione sopra enunciata nel convincimento che l'immunità dalla giurisdizione civile sarebbe concessa, in siffatti casi, all'agente diplomatico non come titolare di una particolare potestà, bensì quale privato individuo, confortandosi in questa opinione sulla base delle argomentazioni contenute in una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, che affronta il diverso problema della distinzione dei casi in cui lo Stato straniero é soggetto, o meno, alla giurisdizione italiana, a seconda dei rapporti giuridici che costituiscono oggetto della controversia.

Infine il tribunale di Roma solleva le medesime censure nei confronti della norma interna di adeguamento all'art. 31, par. 3, della citata Convenzione, nel punto in cui vieta di porre in essere "una misura di esecuzione" nei confronti del diplomatico straniero, con conseguente impossibilità di disporre l'esecutività di un provvedimento processuale civile. Viene invocata la lesione dei medesimi principi costituzionali, già illustrata.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto di deduzioni depositato il 18 marzo 1978, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.

Osserva la difesa dello Stato che le disposizioni impugnate, esecutive delle immunità previste dall'art. 31, par. 1 e 3 della Convenzione di Vienna, vanno considerate come introdotte nell'ordinamento interno ex art. 10 della Costituzione, perché espressione di un principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto. Sotto altro profilo la particolare immunità considerata in tale Convenzione non contraddice l'invocato principio di eguaglianza, perché questo va valutato contemperandolo con altre esigenze parimenti tutelate, quali l'opportunità di agevolare le relazioni diplomatiche tra gli Stati, mentre il diritto di difesa non potrebbe esser violato una volta che viene espressamente salvaguardata la possibilità di adire i tribunali dello Stato accreditante.

L'Avvocatura dello Stato rileva, tuttavia, che il problema va esaminato inquadrandolo in una più generale visione, che tenga conto e della ampia portata della Convenzione di Vienna e della condotta costantemente tenuta dallo Stato italiano nei confronti degli altri Stati con cui intrattiene relazioni diplomatiche, particolarmente in questo settore dell'immunità (parziale) dalla giurisdizione civile. É evidente, infatti, che l'eventuale pronuncia di illegittimità della norma denunciata creerebbe gravi problemi nelle relazioni con gli altri Stati anche per effetto del principio di reciprocità, con eventuali responsabilità di diritto internazionale.

Inoltre l'Avvocatura contesta che il diplomatico goda dell'immunità come privato individuo e che dalla giurisprudenza della Cassazione citata nell'ordinanza di rimessione possano trarsi conseguenze pertinenti il caso di specie, con argomentazioni a fortiori. In primo luogo si richiama al complesso di norme concernenti le immunità diplomatiche da cui risulta che esse sono state concesse ne impediatur legatio: trattasi, com'é noto, di istituti volti ad impedire comportamenti che possano interferire nel libero svolgimento delle funzioni proprie dell'agente diplomatico. In secondo luogo si rileva che la invocata sentenza della Cassazione ha fatto applicazione dei principi concernenti la immunità giurisdizionale degli Stati in quanto soggetti di diritto nella sfera territoriale di altro Stato, riferendosi ad una tradizionale discriminazione tra atti posti in essere iure gestionis o iure imperii. Di qui l'estraneità della materia decisa da quella sentenza rispetto al tema delle immunità che gli Stati reciprocamente si riconoscono a favore degli agenti diplomatici, persone fisiche la cui opera é considerata essenziale per lo svolgimento di determinate funzioni statali di potere estero. Ed é notorio che a fondamento di tali immunità vi é il principio consuetudinario secolare di inviolabilità dell'agente diplomatico.

Argomenti, questi, che si oppongono, a maggior ragione, alla denunciata immunità "dalle misure di esecuzione".

Si é costituito in giudizio il Colonnello Ronald Russel, addetto militare canadese, rappresentato e difeso dall'avvocato Dante Guerrieri, con atto di deduzioni depositato il 21 marzo 1978, chiedendo dichiararsi l'infondatezza delle questioni sollevate.

La difesa della parte civile premette che le immunità diplomatiche costituiscono un istituto consuetudinario plurisecolare dell'ordinamento internazionale, in relazione al quale la Convenzione di Vienna appare dettata dall'esigenza di una maggiore chiarezza di delimitazione, per evitare malintesi.

La Commissione per il diritto internazionale dell'O.N.U. formulò un progetto che costituì il documento di lavoro per la conferenza dei plenipotenziari, convocata a Vienna nel 1961, conclusasi con la firma della relativa Convenzione. Ad avviso dell'avvocato Guerrieri é pacifico che l'adeguamento del diritto italiano alle clausole della Convenzione di Vienna non ha avuto luogo in virtù del principio di adeguamento automatico previsto dall'art. 10 Cost., non operante nei confronti di norme pattizie, bensì in virtù dell'ordine di esecuzione contenuto nella citata legge 9 agosto 1967, n. 804. Tuttavia, onde valutare il valore delle norme così immesse, nell'ambito della gerarchia delle fonti, soccorrerebbe l'art. 11 della Cost., particolarmente per quelle, delle clausole pattizie, che avessero carattere di "novità" rispetto alle precedenti consuetudini generali in materia. Viene osservato, infatti, che la Commissione Affari Esteri della Camera, nella sua relazione, ha rilevato che "la codificazione non vuole essere una semplice ricognizione dichiarativa delle norme esistenti, ma vuole disciplinare... sul piano giuridico le nuove realtà manifestatesi nella vita diplomatica", risolvendo anche antiche questioni sulla portata delle singole immunità.

A sostegno dell'applicabilità dell'art. 11 Cost. alla Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 si afferma che non si tratta di un qualsiasi trattato internazionale, atteso che, come risulta dal relativo preambolo, vi era la persuasione che una convenzione internazionale sulle relazioni, prerogative ed immunità diplomatiche avrebbe contribuito a favorire le relazioni di amicizia tra i Paesi, quale che fosse la diversità dei loro regimi costituzionali o sociali. Lo scopo preminente della Convenzione - così individuato - di favorire la pace e la giustizia tra i popoli, consentirebbe il riferimento all'art. 11 Cost., con le possibili conseguenti limitazioni di sovranità, legittime anche se introdotte nell'ordinamento interno con una legge ordinaria.

Il principio del ne impediatur legatio, che é a fondamento delle denunciate immunità, costituenti norme speciali, giustificherebbe la deroga agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nonché l'esenzione dalle misure di esecuzione. Neppure si avrebbe violazione dell'art. 102 della Costituzione, in quanto, ferma restando la regola secondo cui la funzione giurisdizionale va esercitata da magistrati ordinari, nei casi di immunità diplomatiche si verificherebbe una mera causa di improcedibilità dell'azione.

Considerato in diritto

1. - Alla Corte é stata prospettata questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 9 agosto 1967, n. 804, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 31, paragrafi 1 e 3, della Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 - secondo cui l'agente diplomatico gode dell'immunità dalla giurisdizione civile dello Stato accreditatario - per asserito contrasto con gli articoli 2, 3, primo comma, 10, secondo comma, 11, 24, primo comma e 102, primo comma della Costituzione.

Gli invocati principi costituzionali sarebbero violati, ad avviso del giudice a quo, per i seguenti motivi: a) la carenza di giurisdizione civile contrasterebbe con l'art. 102 della Costituzione che attribuisce tale funzione ai giudici, né sarebbe invocabile l'art. 11 Cost., perché la ravvisata limitazione di sovranità potrebbe essere giustificata solo da un trattato internazionale diretto in modo specifico ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni e non dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, avente altre finalità; b) l'immunità dalla giurisdizione civile escluderebbe la garanzia di diritti inviolabili dell'uomo, tra cui v'é quello di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi, risultando eccessivamente onerosa l'azione di fronte ai giudici dello Stato accreditante (artt. 2 e 24 Cost.); c) la stessa immunità creerebbe una disparità di trattamento tra cittadini e stranieri o anche tra stranieri. Infatti, i diplomatici, pur restando titolari del diritto di azione, avrebbero il privilegio di non poter esser convenuti in giudizio, con conseguente violazione degli articoli 3, primo comma, e 10, secondo comma, Cost.

2. - Occorre innanzitutto individuare la fonte della norma impugnata, deducibile, secondo l'ordinanza di rimessione, dall'ordine di esecuzione di cui alla legge 804 del 1967, che avrebbe adeguato l'ordinamento italiano alle clausole della Convenzione internazionale configuranti l'immunità dell'agente diplomatico dalla giurisdizione civile dello Stato ospitante, con talune limitazioni che, nella specie, non interessano.

La Corte ritiene che l'ordinamento italiano si é adeguato, ancor prima dell'entrata in vigore della Costituzione, alla norma di diritto internazionale, generalmente riconosciuta, che ha sancito l'obbligo degli Stati di riconoscere reciprocamente ai propri rappresentanti diplomatici l'immunità dalla giurisdizione civile, anche per gli atti posti in essere quali privati individui.

In proposito la concorde dottrina internazionalistica, numerosi atti di legislazione dei singoli ordinamenti statali, la giurisprudenza consolidata dei giudici interni e soprattutto la consuetudine più che secolare degli Stati nelle loro reciproche relazioni, dimostrano, senza possibilità di dubbio, la nascita di una norma generale avente per oggetto tale immunità, che é riconosciuta all'agente diplomatico per la sua attività privata e non in quanto agisca quale organo dello Stato straniero: in tale ipotesi, infatti, la sua attività sarebbe imputabile allo Stato stesso. La consuetudine é sorta non per attribuire un privilegio personale, ma al fine di assicurare in ogni caso che il diplomatico possa compiere il suo ufficio. Invero l'immunità dalla giurisdizione civile, sia pure con talune eccezioni, é apparsa necessaria proprio per garantire la piena indipendenza nell'espletamento della missione: ne impediatur legatio.

3. - La prospettazione della questione, così come formulata dal giudice a quo, riferita all'ordine di esecuzione di cui alla legge n. 804 del 1967, in relazione all'art. 31, paragrafi 1 e 3 della Convenzione di Vienna, appare solo formalmente esatta perché, sul punto che interessa, la disposizione pattizia é meramente ricognitiva della norma di diritto internazionale generale sopra descritta.

Il fondamento della questione va considerato, pertanto, con riferimento a quest'ultima norma, ed il vero oggetto del giudizio, cui va rivolto l'esame della Corte, concerne la compatibilità, con gli invocati principi costituzionali, della norma interna di adeguamento alla consuetudine internazionale generale. Infatti, già da lungo tempo, ad essa si é conformato, come é pacifico secondo dottrina e giurisprudenza, l'ordinamento italiano, per effetto del principio di adeguamento automatico alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, ora espressamente previsto dall'art. 10, primo comma, della Costituzione.

Rimane allora da considerare come possa armonizzarsi l'immunità in questione con le disposizioni costituzionali di raffronto. Ritiene la Corte che il denunciato contrasto sia soltanto apparente e risolubile applicando il principio di specialità. Invero le deroghe alla giurisdizione derivanti dall'immunità diplomatica non sono incompatibili con le norme costituzionali invocate, in quanto necessarie a garantire l'espletamento della missione diplomatica, istituto imprescindibile del diritto internazionale, dotato anche di garanzia costituzionale, come risulta dall'art. 87 della Costituzione, secondo cui il Presidente della Repubblica "accredita e riceve i rappresentanti diplomatici".

Occorre comunque affermare, più in generale, per quanto attiene alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che venissero ad esistenza dopo l'entrata in vigore della Costituzione, che il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall'art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando in un sistema costituzionale che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e nella rigidità della Costituzione (art. 1, secondo comma e Titolo VI della Costituzione).

A questo punto é ultronea ogni considerazione in ordine all'ambito di applicazione dell'art. 11 della Costituzione ed alla immunità del diplomatico dagli atti del processo esecutivo civile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale concernente l'immunità diplomatica dalla giurisdizione civile dello Stato accreditatario (art. 2 della legge 9 agosto 1967, n. 804, nella parte in cui dà esecuzione all'art. 31, paragrafi 1 e 3 della Convenzione di Vienna 18 aprile 1961), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 10, secondo comma, 11, 24, primo comma, 102, primo comma, della Costituzione, con l'ordinanza del tribunale di Roma in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 giugno 1979.

Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO - Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 18 giugno 1979.