SENTENZA N. 20
ANNO 1966
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 1 del D.L. C.P.S. 28 novembre 1947, n. 1430, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 6 febbraio 1964 dal Tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra De Bettin Agostino, Manzan Angelo ed altri contro il Ministero della difesa, iscritta al n. 157 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 238 del 26 settembre 1964;
2) ordinanza emessa il 6 febbraio 1964 dal Tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra Rinaldi Lino e Recanelli Giovanni contro il Ministero della difesa ed il Governo degli Stati Uniti d'America, iscritta al n. 82 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 139 del 5 giugno 1965.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione del Ministro della difesa e di Manzan Angelo ed altri;
udita nell'udienza pubblica del 15 dicembre 1965 la relazione del Giudice Costantino Mortati;
uditi l'avv. Carlo Calvosa, per Manzan ed altri, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Nicola Graziano, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministro della difesa.
Ritenuto in fatto
1. - Con atto di citazione 10 febbraio 1962 i sigg. De Bettin Agostino e altri citavano innanzi al Tribunale di Venezia il Ministero della difesa-esercito per sentirlo condannare al pagamento delle somme dovute per soddisfare il diritto di essi istanti ad ottenere la differenza fra le retribuzioni effettivamente loro corrisposte dal Governo degli Stati Uniti per le prestazioni di lavoro colà effettuate quali prigionieri di guerra collaboratori, e quelle loro dovute in conformità all'art. 34 della Convenzione di Ginevra 27 luglio 1929; differenza da porre a carico dello Stato italiano in virtù dell'accordo intervenuto fra il Governo d'Italia e quello degli U.S.A. il 14 gennaio 1949, con il quale il primo ebbe ad accollare su di sé i debiti assunti dal secondo verso i cittadini italiani, ai quali si era in precedenza rinunciato in virtù dell'art. 76 del trattato di pace. Avendo la difesa dell'amministrazione convenuta eccepito, in via preliminare, l'improponibilità dell'azione per assoluto difetto di giurisdizione, nella considerazione che gli accordi internazionali invocati a fondamento delle pretese attrici esauriscono i loro effetti fra gli Stati contraenti, senza che ne possa derivare alcun diritto soggettivo in confronto a cittadini appartenenti agli Stati medesimi, il Tribunale, considerato che la natura di diritti soggettivi rivestita da crediti derivanti da prestazioni lavorative potrebbe nella specie essere venuta meno solo in virtù della rinuncia dei crediti stessi operata dallo Stato italiano con l'art. 76 del citato trattato, reso esecutivo in Italia con l'art. 1 del decreto legislativo del 28 novembre 1947, n. 1430, ha, d'ufficio, ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale che può essere sollevata pel contrasto fra la statuizione del decreto ora ricordato e gli artt. 42, 3 e 24 della Costituzione e, data la riconosciuta sua rilevanza per la definizione del giudizio, ha con ordinanza 6 febbraio 1964 ordinato la sospensione del medesimo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. L'ordinanza debitamente comunicata e notificata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 settembre 1964 n. 238.
Nel giudizio avanti alla Corte si sono costituiti per gli attori gli avvocati Carlo Calvosa e Carlo Prandi, e con deduzioni in data 1 luglio 1964 hanno fatto rilevare che la rinuncia, effettuata con l'art. 76 del trattato, a far valere ogni ragione dei cittadini italiani prigionieri in U.S.A., mentre presuppone l'esistenza di diritti, (e quindi l'infondatezza della eccezione di improcedibilità sollevata dalla difesa dell'amministrazione) viene a contrastare con gli artt. 3, 24 e 42 della Costituzione, i quali pongono limiti assoluti al legislatore, vietandogli di privare i cittadini del diritto soggettivo perfetto alla intangibilità delle situazioni di vantaggio attinenti al loro patrimonio, e nella specie del diritto ad un equo salario per le prestazioni di lavoro effettuate in rapporti da ritenere di natura privatistica, situazioni espropriabili solo previo equo indennizzo, ed altresì del diritto alla sua piena tutela giurisdizionale. Concludono chiedendo che, ove alla rinuncia predetta si dovesse attribuire effetto estintivo dei diritti in parola, (e sempre che si ritenga non influente sulla questione l'accordo fra i due Stati del 1949 che ebbe a derogare all'art. 76) venga dichiarata la incostituzionalità dell'art. 1 del decreto legislativo n. 1430 del 1947.
Si sono anche costituiti in giudizio il Ministro della difesa-esercito ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentati dall'Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni del 5 giugno 1964. Inesse si fa preliminarmente rilevare come la doglianza elevata nei confronti dell'atto di rinuncia ai diritti vantati da cittadini verso lo Stato nord americano si potrebbe ritenere svuotato di contenuto per effetto degli accordi sopravvenuti intercorsi fra i due governi nell'agosto 1947 e resi esecutivi in Italia col decreto legislativo 31 dicembre 1947, n. 1747, in virtù dei quali lo Stato italiano si é addossato l'onere derivante dagli impegni assunti dal Governo americano nei riguardi dei prigionieri di guerra, sicché la questione di costituzionalità sollevata con riferimento alla rinuncia stessa si palesa priva di rilevanza al fine della decisione del giudizio di merito. Si osserva poi che questioni di incostituzionalità non possono venire sollevate in confronto a norme consacrate in trattati, perché l'efficacia di questi si esaurisce nei rapporti fra Stati. Ciò anche in considerazione del fatto che le norme stesse sono parti costitutive di un tutto unitario, e pertanto non potrebbero venire meno singolarmente senza pregiudicare la soddisfazione degli interessi voluti soddisfare dal trattato nella sua unità. Si aggiunge, a riprova della non azionabilità della pretesa vantata dalle parti private, come ove, per avventura, fosse disposto l'annullamento dell'art. 1 del D.L. del 1947 gli istanti non potrebbero vederla soddisfatta, dovendo farla valere verso lo Stato americano. Nel merito, si assume come nessuna violazione può ritenersi verificata con riferimento sia all'art. 3 (dato che la rinuncia é stata effettuata nei confronti di intere categorie, con trattamento uguale per tutti gli appartenenti ad esse); sia all'art. 42 perché questo non trova applicazione ai diritti di credito (ed in ogni caso la situazione che ha dato luogo alla controversia era già operante prima dell'entrata in vigore della Costituzione); e sia infine all'art. 24, dato che la carenza di tutela giurisdizionale consegue all'inesistenza del diritto soggettivo, che é il presupposto di quella tutela. Conclude chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile, o comunque non fondata.
Con successiva memoria del 2 dicembre 1965, la stessa Avvocatura ha fatto osservare che il rapporto di prigionia bellica (comunque regolato da convenzioni internazionali, quale quella di Ginevra che viene invocata) non si instaura fra il prigioniero e lo Stato attore, ma invece fra questo e lo Stato di appartenenza del prigioniero, sicché mai possono sorgere a favore di costoro situazioni giuridiche soggettive di vantaggio.
Né a diverse conclusioni può giungersi quando si sia in presenza di atti interni che conferiscano esecutorietà alle convenzioni stesse, perché tali atti hanno la sola funzione di determinare il momento dell'esecutorietà sul piano internazionale, e sarebbe, d'altra parte, assurdo ritenere che gli atti stessi mutino la posizione giuridica dello Stato straniero, rendendolo obbligato verso i cittadini dell'altro Stato contraente. Si fa ancora osservare come in ogni caso l'art. 34 della Convenzione di Ginevra, invocata dagli attori, contiene norme non già imperative, ma solo dispositive, invocabili quando faccia difetto un diverso accordo. Soltanto la successiva Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 ha eliminato quel carattere dispositivo, ma essa non é applicabile ai rapporti svoltisi in tempo anteriore, come sono quelli in discussione. Conclude insistendo nelle conclusioni già prese.
2. - Con altra ordinanza in pari data emessa dallo stesso Tribunale di Venezia nel giudizio promosso avanti ad esso da Rinaldi Lino e Recanelli Giovanni contro il Ministero difesa e Governo U.S.A., avente ad oggetto la stessa pretesa al pagamento della differenza fra le retribuzioni percepite e quelle che si assume dovessero essere corrisposte, ha proposto le medesime questioni di cui all'ordinanza prima menzionata, aggiungendo nella motivazione il rilievo che le questioni stesse non possono ritenersi superate dall'Accordo fra lo Stato italiano e quello degli Stati Uniti del 14 gennaio 1949, poiché quest'ultimo ha per oggetto la liquidazione ed il pagamento delle retribuzioni che, fissate unilateralmente dagli U.S.A., erano rimaste insolute, mentre la pretesa attrice é rivolta ad ottenerle nella misura superiore che ritengono loro dovuta.
L'ordinanza debitamente comunicata e notificata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 139 del 5 giugno 1965.
Innanzi alla Corte non si sono costituite le parti private, ma solo il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della difesa-esercito, rappresentati dall'avvocato generale dello Stato, con deduzioni depositate il 13 agosto 1964, nelle quali vengono riprodotte considerazioni analoghe a quelle esposte nell'altra vertenza, concludendosi nel senso che sia dichiarata l'inammissibilità o comunque la non fondatezza della questione sollevata.
Considerato in diritto
1. - Le due cause hanno ad oggetto le medesime questioni, prospettate sotto gli stessi profili, sicché si deve disporre la loro riunione per definirle con unica sentenza.
2. - L'Avvocatura dello Stato ha preliminarmente osservato che non sussiste la rilevanza della questione sollevata, nella considerazione che la rinuncia, consentita dallo Stato italiano con l'art. 76, n. 5, del trattato di pace, a far valere contro le Potenze alleate, e nella specie contro gli U.S.A., "ogni domanda o debito risultante dalle Convenzioni sui prigionieri di guerra" é rimasta svuotata di contenuto, e pertanto é divenuta del tutto irrilevante ai fini della decisione del merito, in virtù dei successivi accordi bilaterali, resi esecutivi in Italia con il D.L.C.P.S. del 31 dicembre 1947, n. 1747, secondo i quali il Governo degli U.S.A. ha assunto su di sé l'obbligo "di far fronte a tutte le valide documentazioni di impegno da esso emesse nei riguardi dei prigionieri di guerra italiani".
L'eccezione é infondata.
Infatti la seconda delle ordinanze in esame ha espressamente affermata la nessuna incidenza sulla questione proposta degli Accordi predetti, dato che questi riguardano il pagamento delle retribuzioni dovute ai prigionieri nella misura che era stata fissata unilateralmente dal Governo americano, al di sotto dei minimi che si sarebbero invece dovuti corrispondere a termini della Convenzione di Ginevra. E, poiché oggetto della pretesa attrice é appunto tale maggiore corresponsione, e ad essa deve farsi riferimento per giudicare della rilevanza della questione di costituzionalità, é da ritenere sempre operante la rinuncia consentita con l'art. 76 del trattato.
3. - Neppure fondata appare l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla stessa Avvocatura in base alla considerazione che censure di incostituzionalità non sarebbero prospettabili in confronto a clausole di trattati internazionali, anche se questi siano stati resi esecutivi in Italia, e che tanto meno esse si rendono possibili quando oggetto delle clausole medesime sia il trattamento da praticare a prigionieri di guerra, dato che destinatari degli impegni assunti al riguardo sono solo gli Stati contraenti, senza che situazioni soggettive di vantaggio possano derivarne a favore dei singoli caduti in stato di prigionia. Deve, al contrario, ritenersi che i trattati internazionali, se pure a termini del vigente ordinamento italiano non sono di per sé e direttamente produttivi di effetti all'interno dello Stato, tale efficacia vengono ad acquistare attraverso l'uso dei mezzi all'uopo idonei, fra cui quello di più frequente impiego costituito dall'ordine di esecuzione disposto con legge. Pertanto trattati i quali impegnino gli Stati contraenti a disporre un certo trattamento giuridico nei confronti di soggetti sottoposti alla loro potestà di impero, una volta resi operativi nell'ordinamento nazionale degli Stati medesimi, possono dar vita a veri e propri diritti soggettivi a favore di coloro nei cui riguardi si verifichi la fattispecie prevista. Né vi sono ragioni che possano indurre a far ritenere inapplicabili tali principi allorché i singoli individui cui si riferiscano gli obblighi assunti dagli Stati contraenti rivestano la qualità di prigionieri di guerra, poiché la funzione delle convenzioni internazionali aventi ad oggetto il trattamento da praticare ai medesimi é rivolta proprio al fine di conferire loro un vero status, giuridicamente tutelato in varia misura e con diversi strumenti, ed anche con la comminazione di sanzioni a carico delle autorità della Potenza detentrice che ne abbiano violato le disposizioni. Per quanto riguarda in particolare la pretesa fatta valere nel giudizio a quo, l'art. 34 della Convenzione di Ginevra del 1929, debitamente resa esecutiva dalle Potenze stipulanti, attribuisce in modo espresso carattere di diritto alla pretesa del prigioniero di conseguire un salario per il lavoro da lui prestato nelle condizioni ivi previste, determinando anche la parte che di esso sia da assegnare durante la prigionia, l'altra da versare alla fine, nonché il diritto degli eredi di conseguire le somme accreditate al prigioniero defunto.
Può aggiungersi che lo stesso n. 5 dell'art. 76 del trattato fa riferimento al "debito" dello Stato detentore risultante dalle convenzioni in vigore sui prigionieri; debito che senza l'assunzione da parte dell'Italia, in virtù della rinuncia da questa consentita, avrebbe dovuto essere assolto dallo Stato predetto.
Da quanto precede si deve dedurre che allorché determinati trattati, resi esecutivi nelle debite forme, risultino in tutto o in parte lesivi di situazioni giuridiche tutelate dalla Costituzione, e sottratte quindi alla disciplina da parte del legislatore ordinario, spetta alla Corte costituzionale la competenza a conoscere della legittimità costituzionale delle norme immesse. Se altrimenti si pensasse, si costituirebbe nei riguardi delle leggi esecutive di trattati una situazione di privilegio rispetto alle altre leggi, perché esse verrebbero sottratte alla sanzione dell'annullamento, o rimarrebbero soggette alla disapplicazione da parte del giudice di merito; ad un trattamento cioè che il costituente ha voluto escludere per gli atti con forza di legge delle quali si contesti la costituzionalità.
4. - Nel merito la questione si palesa infondata. Risulta dalla precedente esposizione che la violazione degli artt. 3 e 42 della Costituzione é fatta consistere nella mancata corresponsione a favore degli attori della retribuzione in misura maggiore di quella stabilita dal Governo americano (ed effettivamente corrisposta dal Governo italiano, che si é giovato all'uopo del finanziamento di 25 milioni di dollari, effettuato in seguito al Memorandum d'intesa, reso esecutivo con il citato decreto legislativo 31 dicembre 1947, n. 1747, ed ai successivi accordi del 14 gennaio 1949), che si assume dovuta secondo l'art. 34 della Convenzione di Ginevra del 1929. Ora non é esatto che tale disposizione abbia conferito il diritto ad un salario minimo per lavori prestati in prigionia poiché esso si limita a stabilire, nel secondo comma, che il salario debba essere fissato d'accordo fra i belligeranti, ed, in mancanza di esso, in misura diversa secondo che i lavori siano prestati per conto dello Stato, o per conto di altre amministrazioni pubbliche o di privati, nel quale ultimo caso (che é quello ricorrente nella specie) la misura é da determinare d'accordo fra tali soggetti e le autorità militari dello Stato detentore. Secondo risulta da una nota in atti del competente Dipartimento di Stato, il Dipartimento della guerra, nel 1942, ebbe a disporre la corresponsione ai prigionieri addetti ai lavori della specie ora detta una retribuzione di 80 centesimi di dollaro (cui successivamente venne aggiunta per un certo periodo altra piccola indennità, a titolo di volontaria elargizione), interamente soddisfatta nei modi su ricordati. Non potrebbe quindi ritenersi che la rinuncia di cui all'art. 76 del trattato abbia fatto venir meno il diritto alla maggiore retribuzione, dato che questo non discende dalla Convenzione, la quale, come si é visto, non prevede, per le situazioni verificatesi nel caso in esame, alcun minimo retributivo. Né può farsi carico allo Stato italiano di avere omesso la stipulazione degli accordi con gli Stati Uniti previsti dall'art. 34 predetto, in quanto si dovessero ritenere rivolti ad ottenere retribuzioni più favorevoli, poiché risulta, nella specie, che i tentativi effettuati a tal fine non hanno ottenuto l'assenso dell'altra parte.
Tanto meno poi potrebbe farsi valere la pretesa ad ottenere che il nostro Stato assuma su di sé un onere maggiore o diverso da quello che gravava sullo Stato detentore, poiché le norme della Convenzione che vengono invocate non possono avere altro destinatario all'infuori della Potenza detentrice dei prigionieri e che si é giovata della loro opera. L'accollo da parte dell'Italia della posizione debitoria che sarebbe stata a carico degli Stati Uniti si può ammettere solo nella misura in cui la medesima era stata riconosciuta originariamente, in virtù degli obblighi che la detta Potenza aveva assunto in conseguenza dei ricordati accordi internazionali.
5. - Si argomenta dalle precedenti considerazioni l'insussistenza della violazione dell'art. 42, ultimo comma, denunciata dall'ordinanza. Infatti (anche a volere ammettere che l'articolo stesso trovi applicazione pure in confronto a diritti di obbligazione, e pur quando questi, come nel caso presente, abbiano ad oggetto pretese al conseguimento di determinate retribuzioni a causa di prestazioni di lavoro) nessun atto espropriativo ha avuto luogo, essendo stati gli istanti soddisfatti di quanto loro spettante in virtù delle norme regolative delle prestazioni medesime.
Egualmente evidente é l'infondatezza dell'altra censura di violazione dell'art. 3 della Costituzione perché la diversità del trattamento disposto dal trattato di pace fra i crediti dipendenti da lavoro prestato nel periodo di prigionia e quelli riconosciuti a favore di altri soggetti trova piena giustificazione nella diversità delle situazioni e dei titoli da cui discendono.
Nessun contrasto poi con l'art. 24 é rilevabile visto che la pretesa alla tutela giurisdizionale dei diritti vantati si é validamente potuta soddisfare con l'esperimento dell'azione in corso da ritenere ammissibile, anche se infondata nel merito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
previa riunione dei due giudizi,
respinte le eccezioni di inammissibilità;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del D.L.C.P.S. 28 novembre 1947, n. 1430, di esecuzione del trattato di pace fra l'Italia e le Potenze alleate ed associate, in riferimento agli artt. 3, 24, 42 della Costituzione, promossa con le ordinanze del Tribunale di Venezia del 6 febbraio 1964.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 marzo 1966.
Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO
Depositata in cancelleria il 10 marzo 1966.