SENTENZA N.447
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 323 cod. pen. nel testo introdotto dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234, promossi con ordinanze emesse il 7 agosto 1997 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano, iscritta al n. 683 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1997; il 5 gennaio 1998 dal Tribunale di Firenze, iscritta al n. 365 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visto l’atto di costituzione di Bracciali Renzo nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 27 ottobre 1998 il Giudice relatore Valerio Onida;
udito l’avvocato Giovanni Flora per Bracciali Renzo e l’Avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza emessa il 7 agosto 1997, pervenuta a questa Corte il 17 settembre 1997 (R.O. n. 683 del 1997), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 79 e 97, primo comma, della Costituzione, dell'art. 323 del codice penale (Abuso d'ufficio), come sostituito dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale).
Dopo avere accennato al caso concreto posto al suo esame, nel quale il pubblico ministero ha chiesto l'archiviazione per infondatezza della notizia di reato, e la parte offesa ha proposto opposizione, il giudice a quo, che ritiene emergano "ipotesi di prepotenza del potere di fronte all'inerme cittadino", si pone il problema di come i fatti dovessero configurarsi in forza dell'art. 323 cod. pen. quale vigente all'epoca dei medesimi, e come debbano essere configurati alla luce del nuovo testo dell'art. 323.
Il remittente ricorda l'evoluzione legislativa che ha portato dapprima alla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione realizzata con la legge 26 aprile 1990, n. 86, e in questo ambito alla riformulazione della norma sull'abuso d'ufficio. In proposito, ritenendo infondati i dubbi di legittimità costituzionale che erano stati sollevati sul testo dell'art. 323 cod. pen. come recato dalla legge n. 86 del 1990, sostiene che sarebbe stato vano cercare di precisare meglio le condotte criminose costituenti abuso, e che lo Stato ha il dovere di punire penalmente le condotte di abuso più gravi tra le quali il "favoritismo": del resto la figura del reato a condotta libera sarebbe ben nota al nostro codice penale.
Aggiunge il giudice a quo che dopo la riforma del 1990 il reato di abuso d'ufficio si era venuto configurando, ad opera della dottrina e della giurisprudenza, in modo chiaro ed organico: elemento chiave del reato sarebbe stata la strumentalizzazione dell'ufficio in vista di un risultato ingiusto, con una indistricabile connessione tra l'elemento soggettivo e quello oggettivo del reato. Per aversi abuso non occorreva che si fosse in presenza di un atto illegittimo, e nemmeno necessariamente di un atto amministrativo, mentre l'"ingiustizia" doveva connotare il risultato dell'atto. Si richiedeva il dolo specifico consistente nel fine di avvantaggiare o di danneggiare altri: ma, osserva il remittente, in genere vi é una tale commistione tra elemento soggettivo ed elemento oggettivo che si finiva inevitabilmente per ravvisare il dolo in ogni caso in cui i rapporti fra funzionario e soggetto favorito o danneggiato rendono evidente il comportamento abusivo.
Questo sistema, che il remittente qualifica "coerente e razionale", sarebbe stato profondamente alterato dal nuovo testo dell'art. 323 recato dall'art. 1 della legge n. 234 del 1997, secondo il quale si ha abuso solo se il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio agisce in violazione di norme di legge o di regolamento o omette di astenersi nei casi prescritti, e solo se l'azione procura intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale allo stesso agente o ad altri o arreca ad altri un danno ingiusto.
In tal modo, ad avviso del remittente, si consentirebbe il favoritismo realizzato senza violazione di specifiche norme imperative, si lascerebbe impunita l'omessa astensione in presenza di un interesse di persone con le quali l'agente abbia un rapporto diverso da quello del prossimo congiunto, e si escluderebbe il reato in assenza di un vantaggio patrimoniale o di un danno effettivamente procurati e non solo perseguiti. Onde la norma legittimerebbe, oltre al favoritismo, anche la prepotenza burocratica, il potere esercitato senza il rispetto delle leggi.
Il nuovo testo dell'art. 323 contrasterebbe però, in primo luogo, con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto situazioni di eguale gravità, altrettanto socialmente riprovevoli, riceverebbero diverso trattamento sulla base dell'irrazionale criterio della sussistenza o meno di una violazione di legge, assicurandosi impunità alle condotte subdole e agli atti illeciti posti in essere per interposta persona con scambi di favori.
Contrasterebbe, ancora, con lo stesso art. 3, primo comma, in quanto la norma, che lascerebbe impuniti favoritismi e prepotenze, diverrebbe strumento di disuguaglianza fra i cittadini.
In terzo luogo, sarebbe violato l'art. 3, secondo comma, della Costituzione, perchè il legislatore sarebbe "venuto meno al dovere di rimuovere gli ostacoli che si possono frapporre alla libertà ed eguaglianza dei cittadini".
In quarto luogo, la disposizione denunciata contrasterebbe con l'art. 79 della Costituzione, che prevede l'approvazione a maggioranza di due terzi delle leggi di amnistia e di indulto: di fronte alla difficoltà di ottenere una maggioranza qualificata, il Parlamento avrebbe fatto ricorso "all'escamotage dell'abolitio criminis", procedimento sulla cui legittimità sarebbe lecito sollevare qualche dubbio.
Infine sarebbe violato l'art. 97, primo comma, della Costituzione, in quanto il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione non potrebbero essere assicurati da una norma che consenta favoritismi e prepotenze dei funzionari e dei pubblici amministratori, e impedisca di indagare sugli ingiusti vantaggi che sarebbero il sintomo visibile più evidente della corruzione.
La questione sollevata sarebbe, ad avviso del remittente, rilevante in quanto, secondo la norma anteriore (di cui quindi il giudice a quo postula l'applicabilità in caso di accoglimento della questione), e secondo i principi affermatisi nel suo vigore, nella specie sussisterebbero sufficienti elementi di prova per disporre la fissazione dell'udienza di discussione per il rinvio degli atti al pubblico ministero e l'elevazione della imputazione a carico degli indagati; secondo la norma sopravvenuta, invece, il reato di abuso d'ufficio non sarebbe più configurabile, e dunque si dovrebbe accogliere la richiesta di archiviazione.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
L'interveniente osserva che il giudice a quo muove alla nuova formulazione dell'art. 323 critiche di ordine politico-criminale, ponendo in discussione scelte istituzionalmente rimesse alla discrezionalità del legislatore, salvo il caso di manifesta irragionevolezza. La limitazione dell'ambito della fattispecie dell'abuso ai casi di violazione di norme costituirebbe una tipica scelta discrezionale, per nulla irragionevole, e risponderebbe alla logica di una migliore definizione dei confini dell'illecito penale, escludendo le condotte meno significative sul piano oggettivo e, dall'altro lato, quelle la cui identificazione postulerebbe un sindacato del giudice sui "motivi" dell'azione amministrativa, e in particolare gli atti viziati da eccesso di potere.
Le censure fondate sugli articoli 79 e 97 della Costituzione sarebbero poi del tutto inconsistenti: la prima, perchè il profilo di illegittimità ipotizzato inficerebbe, se fosse realmente sussistente, ogni norma che rechi una parziale o totale abolitio criminis; la seconda, perchè i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità non comportano che qualunque condotta con essi contrastante debba essere colpita con sanzioni penali, ben potendo il legislatore ritenere sufficienti sanzioni di altra natura.
3.- Con ordinanza emessa il 5 gennaio 1998, pervenuta a questa Corte l’11 maggio 1998 (R.O. n. 365 del 1998), il Tribunale di Firenze ha a sua volta sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dell'art. 323 cod. pen. così come modificato dall'art. 1 della legge n. 234 del 1997.
Osserva il Tribunale di essere chiamato, a seguito di istanza dell'imputato, a valutare se il fatto a questi addebitato non sia più previsto dalla legge come reato a seguito della modifica del testo dell'art. 323 cod. pen., e cioé se l'imputazione ascritta contenga la descrizione di fatti che integrino gli elementi strutturali indicati nel vigente art. 323 o in altre norme penali.
Il remittente considera che con l'art. 1 della legge n. 234 del 1997 il reato di abuso d'ufficio é stato trasformato da reato di pura condotta in reato di evento, richiedendosi il conseguimento del vantaggio ingiusto; si é richiesto che il vantaggio sia di natura patrimoniale; si sono individuate le condotte costituenti l'abuso in quelle che violino norme legislative o regolamentari ovvero nella mancata astensione nei casi prescritti; si é qualificato il dolo con l'avverbio "intenzionalmente", che sembra escludere la rilevanza del dolo diretto, richiedendosi la sussistenza del solo dolo c.d. intenzionale.
Secondo il remittente, pertanto, la condotta consistente nel porre in essere un atto "formalmente legittimo", ma "accompagnato e determinato da accordi con terzi in contrasto con la normativa vigente in materia di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione", non sarebbe più sanzionata penalmente, benchè essa "violi in sostanza tutte le norme in materia di scelta del contraente, solo all'apparenza osservate": onde, applicando la norma vigente, l'imputato dovrebbe essere prosciolto.
Tuttavia il Tribunale ritiene che la suddetta "lettura interpretativa della norma", che escluderebbe "dall'area di rilevanza penale i comportamenti soltanto all'apparenza osservanti le norme amministrative, ma in realtà elusivi o in contrasto con le norme medesime", la esporrebbe al sospetto di illegittimità costituzionale, per contrasto, da un lato, con l'art. 3 Cost., in quanto, a differenza delle condotte di violazione palese di norme, condotte elusive o in frode alla legge, di natura ben più grave e maggiormente pericolose per gli interessi tutelati dalla norma penale, sarebbero esenti da pena, dandosi con ciò una diversa disciplina a situazioni analoghe, non solo ingiustificata, ma in contrasto con l'art. 97 della Costituzione; dall'altro lato vi sarebbe anche violazione diretta di detto art. 97, in quanto il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione non sarebbero assicurati da una norma che escluda dalla sanzione "comportamenti frodatori, attuati soltanto nell'apparente osservanza delle norme amministrative".
4.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata, e riportandosi alle argomentazioni dell'atto di intervento depositato nel giudizio instaurato con l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano, di cui sopra, al n. 2.
5.- Si é costituito nel giudizio l'imputato nel giudizio a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ovvero infondata.
Nella memoria depositata in vista dell'udienza, la parte privata sostiene che la questione sarebbe inammissibile, anzitutto, in quanto il remittente chiederebbe in sostanza alla Corte di formulare un giudizio di merito sulle scelte del legislatore penale, e una pronuncia il cui risultato finale dovrebbe essere quello di assoggettare a sanzione penale condotte diverse ed ulteriori rispetto a quelle che il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover incriminare: una sentenza, dunque, che, sostituendosi al legislatore, crei una nuova fattispecie penale in luogo di quella ritenuta incostituzionale.
Un secondo profilo di inammissibilità deriverebbe dal fatto che, anche volendo ritenere che l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale possa, nella sostanza, far rivivere la precedente norma, si perverrebbe in tal modo a rendere incriminabili condotte che il Parlamento non ha ritenuto tali, rendendo una pronuncia in malam partem con efficacia "reincriminatrice", in violazione dell'intima essenza del principio di riserva di legge in materia di reati e di pene di cui all'art. 25 della Costituzione. Invasioni della sfera di competenza legislativa potrebbero ammettersi, in base al controllo di ragionevolezza, solo quando si risolvano in pronunce in bonam partem, criterio questo cui la Corte costituzionale si sarebbe sempre attenuta, ribadendolo anche nella sentenza n. 329 del 1997.
Tale conclusione sarebbe rafforzata dalla considerazione che la Costituzione, a parte la prescrizione del penultimo comma dell'art. 13 che impone di punire ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà, non contiene alcuna norma da cui possa desumersi l'obbligo del legislatore di tutelare un bene giuridico mediante la minaccia di sanzione penale. Anzi, dalla Costituzione emergerebbero indicazioni nel senso della scelta della sanzione penale come extrema ratio. Il principio di tassatività, desumibile dagli artt. 25 e 13 della Costituzione, esigerebbe che la tutela penale riguardi tipi di condotte ben delimitati, non estensibili per analogia: tipi, nella specie, scelti dal legislatore.
La questione, ad avviso della parte, é comunque infondata. La scelta legislativa del 1997, lungi dall'essere irragionevole o arbitraria, avrebbe perseguito apprezzabili scopi di tutela: in primo luogo, il legislatore avrebbe cercato di rendere la figura dell'abuso d'ufficio più conforme al principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, procedendo ad una delimitazione della condotta penalmente rilevante. In secondo luogo, sarebbe stata individuata come punibile la sola violazione di norme di legge o di regolamento al fine di eliminare qualsiasi interferenza del potere giudiziario nell'attività di esclusiva competenza della pubblica amministrazione. La riprova che si é trattato di una scelta meditata e ragionevole sarebbe data dal dibattito parlamentare che condusse ad escludere dal contesto della nuova previsione l'eccesso di potere: lo scopo perseguito sarebbe stato quello di delimitare il confine tra l'indagine sul comportamento criminoso e il sindacato sul merito amministrativo e politico delle scelte, proprio per tutelare il valore costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione.
Un ulteriore profilo di ragionevolezza della scelta emergerebbe dallo scopo perseguito di riservare la sanzione penale, come extrema ratio, ai fatti più gravi, quali gli abusi connotati da violazioni legislative e regolamentari, nell'ambito di una giustificata graduazione degli interventi repressivi.
Considerato in diritto
1.– I giudizi, aventi il medesimo oggetto, vanno riuniti per essere decisi con unica pronunzia.
2.- La questione sollevata riguarda il nuovo testo dell'art. 323 del codice penale (Abuso d'ufficio), quale risulta dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale). Tale nuovo testo, limitando la punibilità alle condotte di abuso commesse in violazione di norme di legge o di regolamento o in violazione di obblighi di astensione, che procurino intenzionalmente ingiusti vantaggi patrimoniali all'agente o a terzi, ovvero rechino intenzionalmente ingiusto danno ad altri, lascerebbe sguarnite di sanzione penale condotte altrettanto o più gravemente riprovevoli dal punto di vista sociale, e lesive dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. In tal modo si realizzerebbero una disparità di trattamento di situazioni analoghe, sulla base di elementi distintivi irrazionali, ed una disuguaglianza fra i cittadini, con violazione dell'art. 3, primo comma, nonchè - secondo il Giudice di Bolzano – dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione; e sarebbe violato altresì l'art. 97 della Costituzione.
Ad avviso del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano, inoltre, sarebbe violato l'art. 79 della Costituzione, in quanto il legislatore avrebbe, in sostanza, realizzato un'amnistia mascherata, senza i presupposti di ordine procedimentale richiesti dalla norma costituzionale.
3.- La questione, sotto i profili dell'art. 3 e dell'art. 97 della Costituzione, é inammissibile.
Le censure mosse dai remittenti sono volte a lamentare che il legislatore, nel ridefinire la fattispecie dell'abuso d'ufficio, lo abbia fatto in senso restrittivo, escludendo dalla medesima condotte che, a loro giudizio, avrebbero invece richiesto di essere, parimenti, sanzionate penalmente. Gli stessi remittenti non indicano l'esistenza di una norma costituzionale suscettibile di costituire essa stessa la base legale dell’incriminazione di tali condotte, e che possa dunque ritenersi direttamente violata dalla scelta del legislatore. Si limitano, da un lato, a lamentare una mera differenza di trattamento, che sarebbe di per sè ingiustificata, fra le condotte rese non più punibili e quelle per le quali permane invece la punibilità (senza prospettare una ipotetica discriminazione fra i cittadini operata sulla base di fattori vietati dall'art. 3, primo comma, della Costituzione); dall'altro lato, a sostenere che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione non sarebbero adeguatamente tutelati a causa della esclusione di taluni tipi di condotte dalla fattispecie di reato.
Ma nessuna di queste prospettazioni può valere a fondare una questione di legittimità costituzionale relativamente ad una norma incriminatrice, che si assuma troppo restrittiva nella individuazione delle condotte punite, in vista di una pronuncia di questa Corte che ne estenda la portata.
E' principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale per la persona, che non si possa addebitare a titolo di reato alcuna condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso esplicitamente qualificate da una legge in vigore al momento della commissione del fatto (art. 25, secondo comma, della Costituzione). Solo il legislatore, dunque, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonchè stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali. E' il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, a cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in materia penale, sia il principio di determinatezza delle fattispecie penali (non potendosi lasciare che la individuazione della condotta incriminata dipenda da valutazioni discrezionali del giudice, e quindi non sia prevedibile da parte del destinatario della legge penale: cfr. sentenza n. 364 del 1988), sia il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici. Al di fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge, riprende vigore il generale divieto di incriminazione, anche là dove siano configurabili altre ipotesi di illecito e di responsabilità non sanzionate penalmente.
Discende da ciò - secondo quanto costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, sentenze n. 226 del 1983, n. 49 del 1985, n. 411 del 1995; ordinanze n. 288 del 1996, n. 355 del 1997) - che l'eventuale addebito al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero di avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non può, in linea di principio, tradursi in una censura di legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in una richiesta di "addizione" alla medesima mediante una pronuncia di questa Corte.
Nè vale invocare, in contrario, l'ipotetico pregiudizio che potrebbe discendere a beni costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (peraltro evocati dall’art. 97 della Costituzione in relazione alla organizzazione dei pubblici uffici). Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono infatti nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996); chè anzi l'incriminazione costituisce una extrema ratio (cfr. sentenze n. 487 del 1989, n. 282 del 1990, n. 317 del 1996), cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l'assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di altri mezzi di tutela.
Per gli stessi motivi, non può, in linea di principio, tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di armonia dell'ordinamento. La mancanza della base legale - costituzionalmente necessaria - dell'incriminazione, cioé della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale.
4.- La questione é invece manifestamente infondata sotto il profilo - prospettato dal solo Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano - della asserita violazione dell'art. 79 della Costituzione, perchè il legislatore avrebbe mascherato sotto le spoglie di una parziale abolitio criminis una sostanziale amnistia, non deliberata secondo le regole costituzionali.
L'art. 1 della legge n. 234 del 1997 ha ridefinito in senso più restrittivo la fattispecie dell'abuso d'ufficio, tenendo anche conto dei dubbi di insufficiente determinatezza che venivano sollevati sulla fattispecie descritta nel testo previgente: e lo ha fatto in via stabile, non già in vista di una eccezionale cancellazione di reati già commessi in un determinato periodo di tempo. Siffatta scelta non ha nulla a che fare con una amnistia, mascherata o meno: onde non vi é luogo per lamentare una violazione dell'art. 79 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 323 del codice penale (Abuso d'ufficio), come sostituito dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano e dal Tribunale di Firenze con le ordinanze in epigrafe;
b) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 323 del codice penale (Abuso d'ufficio), come sostituito dall'art. 1 della predetta legge n. 234 del 1997, sollevata, in riferimento all'art. 79 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bolzano con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 dicembre 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Valerio ONIDA
Depositata in cancelleria il 28 dicembre 1998.