SENTENZA N.487
ANNO 1989
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Dott. Francesco SAJA, Presidente
Prof. Giovanni CONSO
Prof. Ettore GALLO
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Renato DELL'ANDRO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26 (Norme integrative della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, relativa a <Nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico - edilizia, riordino edilizio e sanatoria delle opere abusive>) promosso con ordinanza emessa il 3 giugno 1988 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Lanzafame Placido, iscritta al n. 808 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3/1a s.s. dell'anno 1989.
Visto l'atto d'intervento della Regione Sicilia;
udito nell'udienza pubblica dell' 11 aprile 1989 il Giudice relatore Renato Dell'Andro;
udito l'avv. Francesco Tinaglia per la Regione Sicilia.
Considerato in diritto
1. - Vanno preliminarmente formulate quattro osservazioni.
La prima: i problemi relativi al potere normativo penale delle Regioni sono di difficile soluzione in quanto fortemente condizionati dall'attuale inflazione della normazione penale.
Quest'ultima che, come s'evince dalla Costituzione e come si sottolineerà oltre, dovrebbe esser ridotta al minimo indispensabile al raggiungimento (attraverso l'incriminazione di gravi modalità di lesione di beni costituzionalmente significativi od almeno socialmente rilevanti) delle elementari condizioni del vivere democratico, e divenuta <ipertrofica>. Se gran parte della materia contravvenzionale fosse, attraverso razionali, ben programmati interventi legislativi, <trasposta> dal diritto penale al diritto amministrativo, i problemi in discussione verrebbero in nuce risolti od almeno notevolmente semplificati.
La seconda osservazione attiene al metodo qui adottato nell'esame della sollevata questione di legittimità costituzionale: si farà perno sull'interpretazione storico-politica, sistematica e funzionale dell'art. 25, secondo comma, Cost. E questo comma che costituzionalmente sancisce, in ordine alle fonti del diritto penale, la c.d. riserva di legge; ed in questa sede si tratta, appunto, in primo luogo, di stabilire l'ambito di comprensione di tal riserva: se, cioè, essa vada circoscritta alle sole leggi penali statali oppure sia riferibile (ed eventualmente in che limiti) anche alle leggi regionali. La tradizione metodologica, in campo penalistico, é decisamente orientata in tal senso: tutte le volte che si é trattato di precisare l'ambito della riserva di legge penale (in ispecie, se essa sia assoluta o relativa) si é fatto perno unicamente sull'interpretazione logica e sistematica dell'art. 25, secondo comma, Cost., sottolineandosi, in particolare, che l'attenzione alla ratio di garanzia dalla quale muove la predetta riserva consente d'assumere conclusioni appaganti in ordine alla comprensione del dettato costituzionale in esame.
La terza osservazione e così formulabile: poiché il problema attinente al potere normativo penale regionale é, ovviamente, problema relativo all'esercizio di tal potere nelle materie c.d. <esclusive> o <concorrenti>, il punto di partenza dell'indagine e comunemente costituito dal <silenzio)> della Costituzione (e degli statuti <speciali>) in ordine al modo di disciplina penale, all'atto dell'attribuzione alle Regioni della competenza per le predette materie. Tal <silenzio>, com'é noto, mentre é stato assunto da alcuni Autori come implicito riconoscimento alle Regioni anche del potere normativo penale, insieme a tutti i rimanenti modi di disciplina delle violazioni dei beni rientranti nelle materie di competenza regionale, da altra parte della dottrina é stato interpretato come <esclusione> del conferimento del potere normativo penale alle Regioni, ben avendo il Costituente consapevolezza dell'autonomia del ramo penale dell'ordinamento.
Sennonché, mentre é senza dubbio vero che non e dato configurare una preordinata materia penale, la disciplina di questa attenendo spesso (o sempre) alla violazione dei più disparati beni <propri> (tutelati in via primaria) da altri rami dell'ordinamento (e, da questo aspetto, come é stato giustamente rilevato, non esistendo una <preesistente> materia penale, la medesima non poteva, ovviamente, esser conferita, dal Costituente o dagli statuti <speciali>, alle Regioni) é altresì vero, come sarà precisato meglio oltre, che la c.d. <materia penale>, che, certamente, non <preesiste> alle norme penali, vien costituita proprio nel momento della nascita delle stesse norme. E', infatti, il legislatore che, scegliendo tra i beni (generalmente tutelati in via primaria da altri rami) quelli che interessa allo Stato penalmente garantire, costituisce la c.d. <materia penale> e cioè l'insieme dei beni e valori specificamente tutelati (anche o soltanto) penalmente. Se così non fosse, il diritto penale avrebbe natura esclusivamente sanzionatoria mentre é ben noto che tal natura é stata validamente criticata dall'assoluta maggioranza della dottrina sostenitrice dell'autonomia del diritto penale.
Or se la Costituzione o gli statuti <speciali> avessero inteso conferire al legislatore regionale anche il modo di disciplina penale non avrebbero attribuito anche il potere di costituire la materia penale senza neppur fare esplicitamente almeno un sia pur generico riferimento al predetto modo di disciplina. Dalla Carta costituzionale non risulta, in proposito, alcunché; né durante i lavori della Costituente sono stati mai sollevati problemi attinenti alla competenza penale delle Regioni. Ingenera, pertanto, già all'inizio della ricerca, notevoli perplessità la considerazione che la Costituzione, venendo per la prima volta a configurare lo Stato regionale, attribuendo alle Regioni a statuto ordinario specifiche, svariate materie (art. 117 Cost.) e, soprattutto, prevedendo <forme e condizioni particolari d'autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali> per alcune Regioni (art. 116 Cost.) nulla, proprio nulla, dichiari in ordine all'incriminabili, da parte delle Regioni, delle lesioni di beni la cui tutela rientra nella competenza delle medesime; né, di regola, esplicitamente alcunché dichiarano gli Statuti delle Regioni a regime <differenziato>.
La quarta ed ultima osservazione preliminare attiene alla necessità di nettamente distinguere i temi, sollevati dall'ordinanza di rimessione, in due settori: il primo, relativo al generale potere normativo delle Regioni a prescindere dall'esercitato od esercitando potere normativo penale dello Stato ed il secondo, che raggruppa i temi che si pongono considerando le leggi regionali in relazione all'emanata (od emananda) legge penale (incriminatrice o scriminatrice) statale. La distinzione dei predetti settori e metodologicamente necessaria perché i problemi attinenti a ciascun settore sono nettamente diversi; e, sebbene quelli relativi al secondo settore siano spesso condizionati, nella loro soluzione, dalla conclusione in ordine al potere normativo penale delle Regioni, il secondo settore non riguarda, in senso proprio, l'ampiezza del principio della riserva di legge penale bensì le <possibilità> conferite alle leggi regionali (anche ove fosse escluso un potere normativo penale delle medesime) in relazione alle leggi statali incriminatrici o decriminalizzanti.
2. - Nell'esame dei temi relativi al primo dei predetti settori non può esser taciuto che dottrina e giurisprudenza che, in assoluta maggioranza, limitano la riserva di legge penale alla sola legge statale (in sede di vicende costitutive della punibilità) e che, pertanto, escludono ogni legittimità (nella stessa sede) di leggi penali regionali, appaiono a disagio allorché si tratta di scegliere la disposizione costituzionale sulla quale fondare la pur comune conclusione: spesso si fa, infatti, riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., a volte all'art. 3, primo comma od all'art . 5 Cost . (interpretati, peraltro, questi ultimi articoli come <ispiratori>> dell'intero sistema costituzionale); e non poche volte ci si richiama all'art. 13, secondo comma od all'art. 120, secondo e terzo comma, Cost. E, nell'occasione, si danno dei citati articoli interpretazioni che sono esplicitamente collegate (quasi a <conforto> o <sostegno>) ad altre, diverse disposizioni. Da tale incertezza e agevole desumere che soltanto il sistema e la sua intrinseca teleologia riescono a rendere sostenibili, a <giustificare>, le interpretazioni che, in ordine ai temi qui in esame, dei citati articoli vengono offerte.
Vero é che, come l'effettivo ambito di comprensione del <generale> principio di legalità in sede penale non é, almeno di regola, desunto, nella sua ampiezza, dalle sole, peraltro non univoche, formule costituzionali che pur lo enunciano bensì, come é ormai generalmente ammesso, dalla ratio profonda che le ispira, così la reale comprensione, in ispecie, del principio di riserva di legge penale va principalmente ricavata dal fondamento politico- ideologico, sistematico e teleologico dello stesso principio piuttosto che dalle dichiarazioni costituzionali, necessarie e solenni ma non sempre tecnicamente precise, che lo enunciano; dichiarazioni i cui contenuti e limiti vanno, appunto, ricavati, anche e soprattutto, dai precitati fondamenti e, in particolare, dall'oggettiva, determinante funzione che, nell'intero ramo penale dell'ordinamento statale, la riserva in questione esplica.
3. -Il profilo storico-ideologico, dal quale va, anzitutto, esaminata la riserva di legge penale, deve iniziare dal sottolineare che tal riserva fu il portato d'una ben determinata concezione che, partendo dall'illuminismo, tese a ribaltare il precedente sistema: quest'ultimo trovava il fondamento dell'intervento penale, a tutela dei beni più importanti per l'ordinato svolgimento della vita sociale, nei contenuti religiosi, metafisici, <naturali>, idonei ad offrire la <verità> del principio costitutivo dell'esperienza giuridica in genere e penale in particolare. La riconduzione ad unita delle sparse, frammentarie disposizioni giuridiche, la certezza che soltanto attraverso il superamento delle varie, numerose fonti, sostanziali e formali, dell'Antico Regime, si potesse raggiungere, insieme, la massima garanzia della riacquistata libertà individuale ed il massimo ordinato vivere sociale condussero a ravvisare nella legge, nella legge dello Stato, quale unita organica dell'intero popolo sovrano, il nuovo principio costitutivo, il nuovo fondamento del diritto penale.
La predetta concezione ideologica della legge, concezione nata anche dalla concentrazione d'ogni valore rappresentativo nelle istituzioni facenti capo allo Stato e dall'eliminazione dei vari corpi d'autonomia sociale a vantaggio dell'unico corpo politico sovrano, non poteva, in sede penale, consentire altre fonti.
D'altra parte, il sistema penale delineato dalla Costituzione tende ancor oggi, come meglio si chiarirà in seguito, a ridurre la quantità delle norme penali, e, così, a concentrare queste ultime nella sola tutela, necessaria (ultima ratio) di pochi beni, significativi od almeno <importanti>, per l'ordinato vivere sociale.
Già in base alle precedenti considerazioni e fondato sostenere che l'estensione alle leggi regionali del potere normativo penale contrasti con il fondamento politico della riserva di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., con la <sostanza> storico-ideologica di tal fondamento, per la quale, inizialmente, fu scelta la legge quale <forma istituzionale> del diritto penale. La letteratura illuministica, infatti, più che affidare il monopolio della competenza penale alla legge in quanto atto-fonte, lo attribuì all'organo-Parlamento, anche se il medesimo venne considerato quale produttore, attraverso determinate forme, dell'atto stesso.
Se é vero che é da quest'ultimo che derivano, attraverso la norma penale, le vicende costitutive della punibilità, é anche vero che la legge e il risultato d'un processo posto in essere dal soggetto-Parlamento; ed é soprattutto a quest'ultimo che fu rivolta l'attenzione delle teorie penal - illuministiche. Come la dottrina penalistica successiva all'avvento della Costituzione, nel ricercare la ratio della riserva di legge penale, ha tenuto a sottolineare, in modo particolare, il procedimento di formazione della legge, aperto al confronto tra maggioranza e minoranza, adeguato a tutelare i diritti dell'opposizione nel sindacare le scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza, la dottrina penal - illuministica individuo il fondamento del principio di riserva di legge penale nel fatto che il soggetto- Parlamento, l'organo produttore della legge, vede riunito, attraverso i suoi rappresentanti, tutto il popolo sovrano: e questo non può legiferare <contro se stesso>.
Va sottolineato che, anche a parte le vicende storiche che inizialmente motivarono la scelta della riserva di legge penale, ancor oggi la dottrina ricorda che il monopolio penale del legislatore statale é fondato sul suo essere rappresentativo della società tutta, <unita per contratto sociale>; ed é la società tutta che attende che l'esercizio del potere legislativo penale, direttamente od attraverso i suoi rappresentanti, non avvenga arbitrariamente bensì <per il suo bene e nel suo interesse>.
4.-Nell'iniziare l'esame del secondo profilo dal quale va considerata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost. é necessario sottolineare l'assetto che il diritto penale ha assunto a seguito delle disposizioni costituzionali relative alla sua disciplina. Allo scopo di precisare contenuto e limiti della costituzionale riserva di legge penale occorre, infatti, volgere l'attenzione alla natura degli interessi e valori garantiti dal ramo penale dell'ordinamento.
Va subito chiarito che la statualità, a doppio titolo, del diritto penale postula necessariamente il nascere statuale delle incriminazioni penali. Si è precisato: <a doppio titolo>. Ed infatti, statali sono i particolari interessi e valori tutelati dal ramo penale e statale e il fine perseguito attraverso le incriminazioni: la tutela di tutto l'ordinamento giuridico statale e, così, della vita sociale in libertà, uguaglianza e reciproco rispetto dei soggetti.
Dall'accettazione, da parte della Costituzione, di autonome, particolari sanzioni, che si collocano in un determinato ramo dell'ordinamento, si deduce l'esistenza di autonomi interessi, fatti valere nello stesso ramo.
Non può, invero, accogliersi l'opinione che l'ordinamento giuridico appresti sanzioni diverse, e cioè diverse tutele, per identici interessi: infatti, o le sanzioni hanno i medesimi fini ed il moltiplicarsi dei mezzi di difesa appare ingiustificato oppure esse son riferite ad interessi apparentemente eguali ma presi in considerazione sotto diversi profili giuridici: ed in quest'ultima ipotesi l'identità e soltanto apparente mentre in realtà gli interessi che vengono tutelati sono diversi. La Costituzione é, inoltre, ben consapevole della titolarità dei predetti interessi: la dimostrazione é data dal confronto tra gli artt. 24, primo comma e 112 Cost. Ed invero, mentre negli altri rami il disporre della tutela giudiziaria attraverso l'azione appartiene, di regola, al singolo soggetto, privato o pubblico, nel settore penale il processo d'attuazione della sanzione e operato solo attraverso l'intervento dello Stato. L'art. 24, primo comma, Cost. accomuna, infatti, tutti i diritti e gli interessi legittimi, a qualunque materia si riferiscano, consentendo ai singoli soggetti, privati o pubblici, di poter agire in giudizio per la tutela dei medesimi.
Non così per le situazioni giuridiche subiettive penalmente tutelate per le quali non solo non e data alcuna facoltà d'agire in giudizio ma, attraverso l'art. 112 Cost., vien individuato un particolare organo dello Stato che deve, obbligatoriamente, esercitare l'azione penale. Dagli stessi artt. 24, primo comma e 112 Cost. s'evince, pertanto, che, anche per la Costituzione, viene tutelato, in sede penale, il concreto interesse dello Stato all'integrità di talune situazioni di vita, ad es. libertà, onore ecc., dei singoli soggetti.
Il secondo titolo di <statualità> del ramo penale attiene ai fini dello stesso ramo.
Va notato che la Costituzione disciplina essa stessa parte del settore penale. Tale disciplina, mentre limita la discrezionalità del legislatore, puntualmente chiarisce quali debbano essere i fini del diritto penale.
La disposizione di cui all'art. 27, terzo comma, Cost. svela apertamente, indicando la teleologia delle pene, l'identità e le finalità del diritto penale dalle quali la Carta fondamentale parte nel dettare la normativa attinente alla sede penale. L'art. 27, terzo comma, Cost., riguarda, infatti, le sanzioni propriamente penali: e queste, nell'essere particolarmente caratterizzate, sono implicitamente distinte da tutte le altre sanzioni. Le sanzioni penali, a differenza di quelle extrapenali, sono dalla Costituzione caratterizzate dalla tendenza ad incidere sull'animo, sulla vita del condannato, tutelando, mediante un singolare tipo di prevenzione speciale (la rieducazione) non soltanto questo o quel bene specificamente offeso dal reato ma anche tutti i beni garantiti dall'ordinamento e, cioè, l'intero ordinamento statale in quanto tendente a realizzare una vita in comune democraticamente orientata.
Or se le pene, a loro volta, com'é di comune cognizione, caratterizzano il ramo penale dell'ordinamento, nel senso che del medesimo svelano l'identità, deve concludersi che non solo la Costituzione ben <conosce> il ramo penale ma che nettamente lo <distingue> dagli altri rami, sottolineando del medesimo esigenze e fini, che attengono alla comunità tutta, alla tutela dell'intero ordinamento statale.
Ricordato che alla <rigida> statualità del diritto penale va, oggi, da alcuni Autori contrapponendosi, in ordinamenti diversi dal nostro, l'idea d'una sanzione punitiva privata, soprattutto attraverso lo strumento risarcitorio, deve, tuttavia, osservarsi che, pur prescindendo dai notevoli problemi sociali che un ritorno all'avvicinamento tra diritto penale e rami extrapenali dell'ordinamento porrebbe e dall'eventuale ribaltamento dell'intero ordinamento giuridico, che considera attualmente il ramo penale come l'ultimo, conclusivo momento dell'esperienza statuale e, così, dell'intera esperienza giuridica, l'idea d'una (almeno relativa) privatizzazione del diritto penale non trova significativi consensi neppure negli ordinamenti in cui i problemi relativi a tale idea son posti e discussi.
Se, dunque, l'attuale lettura della Costituzione induce a confermare la statualità del ramo penale dell'ordinamento, é da ritenersi costituzionalmente inestensibile alle Regioni la potestà normativa penale.
5. - Il terzo profilo, forse il più rilevante, dal quale va esaminata la riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost. e quello della sua funzionalità.
Il principio per il quale unica fonte del diritto penale é la legge va chiarito non tanto nella sua generale ratio di garanzia quanto, e particolarmente, nell'oggetto della medesima.
Per vero, é stato già adeguatamente posto in luce che ratio della riserva di legge penale e la tutela della libertà e dei beni fondamentali dei singoli soggetti, anche se e stato sottolineato soprattutto l'aspetto negativo della riserva stessa, e cioè l'esclusione di possibili arbitri da parte di altri poteri dello Stato.
Sennonché, le sottolineature della dottrina, relative ai temi attinenti alla natura (assoluta o relativa) della riserva, ossia attinenti alle relazioni tra legge dello Stato ed atti statali subordinati, nella gerarchia delle fonti, alla stessa legge, non sono sufficienti a risolvere il diverso tema delle relazioni, in sede di riserva di legge penale, tra legge dello Stato e legge regionale, tenuto soprattutto conto che l'art. 25, secondo comma, Cost., fa riferimento, genericamente, alla <legge> e che dottrina e giurisprudenza hanno posto in luce che la legge regionale non può esser ritenuto atto subordinato a quella statale.
Soltanto l'ulteriore chiarimento in ordine, soprattutto, all'aspetto sostanziale, positivo della riserva di legge penale può offrire sufficienti spunti per convenientemente risolvere il tema che in questa sede occupa la Corte. Precisando, infatti, che la Costituzione, nel riservare al legislatore le scelte criminalizzatrici, impone criteri sostanziali di scelta e fissa precise direttive di politica criminale, e agevole ritenere la sede dei consigli regionali non idonea a valersi di tali criteri ed a realizzare le predette direttive.
Il punto di partenza é, pertanto, costituito dal significato positivo del principio di riserva di legge penale: se, infatti, quest'ultimo, nella Costituzione, non fosse mezzo per adeguate, ben definite e, pertanto, limitate scelte criminalizzatrici, non sarebbe in grado di costituire strumento d'effettiva ed efficiente garanzia. A ben riflettere, anche la capacita ad excludendum della riserva di legge penale, il suo significato <negativo> (evitare gli abusi da parte di <altri> organi dello Stato) suppone ed implica giusti, limitati usi, soltanto rispetto ai quali e dato ipotizzare abusi.
Né va dimenticato che l'ideologia illuministica in tanto esalto la legge statale in quanto quest'ultima, attraverso l'intervento dell'organo rappresentativo di tutta la società <unita per contratto sociale>, era in grado di positivizzare i principi razionali ed immutabili di <giustizia>: sin dal periodo illuministico, dunque, si pose, anche se fu inizialmente risolto in maniera utopistica, il problema della <giustizia> della legge.
La Costituzione ha, certamente, <superato> l'eccessiva, illuministica fiducia nella legge; tal superamento e testimoniato, fra l'altro, in previsione di eventuali abusi del legislatore, dai controlli costituzionali sulle leggi. Ma é proprio la Costituzione a <credere> ancora nella legge statale: e ciò perché ritiene che soltanto attraverso quest'ultima possano avverarsi <giuste>, opportune, limitate scelte criminalizzatrici.
La Carta fondamentale accoglie e sottolinea il principio illuministico per il quale il <di più> di libertà soppressa costituisce abuso. Tutto sta, oggi, a precisare questo <di più> in relazione alle misure limitative della libertà strettamente necessarie ad assicurare libertà, uguaglianza e reciproco rispetto tra i soggetti. Si tratta, cioè, nelle scelte criminalizzatrici, di limitare la libertà solo per quel tanto strettamente necessario a garantirla.
Il diritto penale e sistema che, nell'atto in cui autorizza la difesa sociale attraverso le sanzioni più gravi per la libertà e dignità umana, limita la difesa stessa attraverso precise, puntuali determinazioni di scopi, modalità e contenuti di fattispecie. Il diritto penale e, particolarmente (e la Costituzione lo svela all'evidenza) sistema di limiti sostanziali al legislatore; ed e mirato, soprattutto, al rispetto di questi ultimi il monopolio statale nella produzione della legge penale, la riserva di legge penale.
La criminalizzazione comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell'intera società: e tale scelta non può esser realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto) per la mancanza d'una visione generale dei bisogni ed esigenze dell'intera società.
L'altro, ancor più importante, limite sostanziale garantito dal principio di riserva di legge penale e il fine della scelta innanzi indicata. Tale scelta va, appunto, operata in funzione d'un fine da raggiungere ed e strettamente limitata dallo stesso fine.
Si vuol ripetere che il diritto penale tutela interessi, beni e valori giuridici; tale tutela, frutto, conseguenza della preindicata scelta tra beni e valori emergenti, meritevoli di garanzia penale, e affidata alla discrezionalità vincolata del legislatore. La predetta <scelta> va fatta in funzione d'un unico scopo: l'assicurazione delle condizioni <minime> del vivere democratico e cioè delle condizioni di libertà, uguaglianza e rispetto reciproco tra i soggetti. Anche i beni giuridici, anche i valori costituzionalmente significativi, divengono, pertanto, mezzi di volta in volta scelti (o <sacrificati> rispetto ad altri valori) per l'assicurazione, in una data concretezza storica, delle predette condizioni democratiche del vivere civile. Sono queste a costituire il vincolo finalistico della c.d. discrezionalità del legislatore, a garanzia di tutti i cittadini.
Vanno, inoltre, particolarmente ricordati, a proposito di limiti sostanziali del legislatore nelle scelte criminalizzatrici, i principi di sussidiarietà, proporzionalità e frammentarietà dell'intervento penale, costituenti, quanto meno, direttive di politica criminale. Anche tali principi implicano il possesso d'una visione generale dei beni e valori presenti nell'intera Comunità statale e limitano ulteriormente, nell'atto in cui le fondano, le scelte criminalizzatrici: la realizzazione di tali principi, che costituiscono garanzia dell'intera comunità, rende impossibile affidare alla legge regionale la più importante e difficile tra le funzioni statali.
Il principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell'ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire, implica, fra l'altro, programmi di politica generale, e criminale in ispecie, nonché giudizi prognostici che soltanto lo Stato può formulare.
Il principio di proporzionalità, inteso non soltanto quale proporzione tra gravità del fatto e sanzione penale bensì, anche e soprattutto, quale <criterio generale> di congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalità da perseguire, conferma che soltanto lo Stato e in grado, avendo piena consapevolezza di tutti gli strumenti idonei a compiutamente realizzare la direttiva in esame, d'effettivamente garantire, sotto questo aspetto, la comunità.
Ed infine, anche il principio di frammentarietà, inteso come intervento penale <puntiforme>, che attua la garanzia <liberale> determinata dai necessari <vuoti di tutela>, e adeguatamente rispettabile dall'organo statale di produzione legislativa: quest'ultimo, che appunto possiede la più generale visione di beni e valori presenti nella società, é particolarmente idoneo a confermare, con la determinatezza della legge penale, la concezione della libertà quale regola e dell'illecito penale quale eccezione.
Nè va dimenticato che ulteriori limiti sostanziali vengono costituzionalmente imposti al legislatore, quale, fra i tanti, quello, fondamentale, della finalità rieducativa della pena (ex art. 27, terzo comma, Cost.): anch'esso fonda e nello stesso tempo limita l'intervento penale.
Obiettivi come quelli sopra individuati non sono razionalmente realizzabili dalle Regioni: queste sarebbero in grado di proporre programmi di politica legislativa criminale ma in funzione di scopi particolari alle diverse Regioni e, comunque, ciascuna per proprio conto. E, basterebbe ciò a far ritenere non realizzabili dagli organi locali in discussione quei fini generali ed i relativi limiti costituzionalmente precisati che costituiscono l'oggetto della riserva di legge penale ex art. 25, secondo comma, Cost.
Né le Regioni possono ritenersi costituzionalmente legittimate a raggiungere accordi su <programmi> di politica criminale validi per tutta la Comunità statale: ove tali accordi fossero raggiunti, sarebbero violate le ragioni per le quali il Costituente ha riconosciuto l'ente regionale come realtà politica, oltre che giuridica, distinta ed autonoma rispetto allo Stato.
6. -Da quanto innanzi osservato discende che, ove l'art. 3, primo comma, della legge siciliana n. 26 del 1986, senza riferimento ad alcuna <altra> legge statale, avesse sottratto all'incriminazione determinate ipotesi di edifici che, alla data del 1° ottobre 1983, non avessero raggiunto i requisiti di cui al secondo comma dell'art. 31 della legge n. 47 del 1985, non sorgerebbe alcun dubbio sull'illegittimità costituzionale dell'impugnata disposizione dell'ora citata legge siciliana. Ed infatti: avendo il legislatore statale il monopolio delle vicende costitutive della punibilità ed avendo già, in concreto, esercitato la sua potestà incriminatrice, non e legittimo che una legge regionale abroghi norme statali incriminatrici.
Né é valido il ricorso, nell'ipotesi in discussione, ad una (ipotetica) funzione <scriminante> (in senso stretto) che la legge regionale siciliana avrebbe avuto. Va, invero, ricordato che, anche ammettendo che le leggi regionali possano assurgere a fonte di <diritti scriminanti>, non si ravvisano, attraverso il primo comma dell'art. 3 della legge siciliana n. 26 del 1986, ragionevoli motivazioni per concedere, da parte della Regione Sicilia, un qualsiasi diritto scriminante. In ogni caso, l'impugnata disposizione della più volte citata legge siciliana non ha funzione scriminante in senso stretto, applicando essa alle ipotesi di cui al primo comma dell'art. 3 della stessa legge una causa d'estinzione del reato, quella, appunto, concessa dalla legge n. 47 del 1985.
Sennonché, la Regione Sicilia assume, a proposito della disposizione impugnata, che non di abrogazione di legge statale incriminatrice si tratti sebbene d'interpretazione estensiva del secondo comma dell'art. 31 della legge n. 47 del 1985: il primo comma dell'art. 3 della legge siciliana in discorso si limiterebbe, cioè, ad integrare e precisare il concetto di <ultimazione dei lavori> dall'ora citata legge statale determinato.
La difesa della Regione Sicilia solleva, così, il problema degli spazi interpretativi (nei confronti d'una già emanata legge statale incriminatrice) costituzionalmente concessi alle leggi regionali.
A parte ogni altra considerazione, qui e sufficiente ricordare che alle leggi regionali non e precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d'applicazione di norme penali statali (cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 210 del 1972 e n. 142 del 1969) ne concorrere ad attuare le stesse norme e cioè non e precluso realizzare funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali. Tutte le volte in cui non sia in gioco la riserva di legge penale statale (nelle ipotesi, cioè, in cui ad es. la legge statale abbia già autonomamente operato le scelte fondamentali sopra ricordate) disposizioni attuative di leggi statali ben possono esser emanate da altre fonti ed in particolare dalle leggi regionali.
Va, poi, ricordato che dottrina e giurisprudenza ritengono che ampio spazio in materia penale sia consentito alle Regioni allorché dalle leggi statali si subordinino effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali: in tal caso, nel determinare i presupposti dai quali sono condizionati gli effetti penali (e, conseguentemente, nel modificare i presupposti stessi) le leggi regionali indirettamente, e per determinazione delle stesse leggi statali, incidono su fattispecie penali previste da leggi statali.
E va aggiunto che la tutela penale dei beni rientranti nelle materie regionali, <esclusive> o <concorrenti>, può ben esser autonomamente fornita, attraverso l'incriminazione di violazioni agli stessi beni, dalla legge penale statale. La dottrina, fra l'altro, comunemente ammette che si diano casi di colpa per inosservanza di leggi regionali cautelari (sempre che si ritenga rispettato l'art. 25, secondo comma, Cost.) e che, in alcune ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione, le leggi regionali possano concorrere a definire elementi costitutivi (es. <dovere>, <atto d'ufficio> ecc.) delle fattispecie tipiche incriminate.
Non essendo con sentito, in questa sede, soffermarsi analiticamente sugli spunti offerti, in proposito, dalla dottrina, deve la Corte limitarsi a ricordare che il legislatore ha già iniziato a prevedere alcune, particolari ipotesi di concorso di norme penali statali ed amministrative regionali (cfr., a parte ogni valutazione, l'art. 9, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689).
7. - Vero é che l'art. 3, primo comma, della legge siciliana n. 26 del 1986 non si é valso di alcuno dei procedimenti legittimamente attuativi dell'art. 31, secondo comma, della legge n. 47 del 1985.
Non é, infatti, condivisibile l'assunto della difesa della Regione Sicilia secondo il quale il primo comma dell'articolo impugnato interpreti estensivamente l'art. 31, secondo comma, della legge statale da ultimo citata. L'esecuzione del rustico dei nuovi edifici ed il completamento funzionale delle opere interne di edifici già esistenti o non destinati a residenza concretano situazioni tassativamente precisate dall'art. 31 della legge stata le che nettamente divergono dall'ipotesi (esecuzione della sola struttura portante degli edifici) di cui all'art. 3, primo comma, della legge regionale in esame. E non é, certo, fondatamente sostenibile che quest'ultima ipotesi rientri in uno dei significati traibili dalla lettera del secondo comma dell'art. 31 della citata legge statale.
Né può ritenersi che l'art. 3 della legge siciliana <specifichi> l'art. 31 della legge statale: non basta, infatti, la copertura degli edifici ad unificare le situazioni previste dalle due leggi.
La specificazione non può attenere a caratteristiche (esecuzione della sola struttura portante) che, per sé, esclude il (preteso) <genere> (esecuzione del rustico o completo funzionamento delle opere interne per gli edifici già esistenti o non destinati a residenza): la realizzazione della sola struttura portante dell'edificio esclude che sia stato realizzato anche il rustico.
L'art. 3, primo comma, della legge siciliana n. 26 del 1986 effettivamente applica la causa d'estinzione del reato prevista dalla legge statale n. 47 del 1985 ad ipotesi non considerate da quest'ultima legge.
Sennonché, le situazioni per le quali e dalla legge statale prevista una causa d'estinzione del reato non possono essere, neppure dalle leggi regionali, analogicamente <estese>. Si oppone, infatti, all'interpretazione analogica delle cause d'estinzione del reato la seconda parte dell'art. 14 delle disposizioni preliminari sulla legge in generale. Anzitutto, le cause d'estinzione, almeno di regola, non sono riconducibili a principi generali, tali da consentire l'applicazione dell'analogia iuris.
Ma anche la ratio delle stesse cause é, generalmente, di mera opportunità: non attiene, infatti, di regola, all'interesse specifico (c.d. <interno>) leso dal fatto costituente reato. A tale ratio (che tutela il c.d. interesse <esterno> al reato) non sono, pertanto, riconducibili ipotesi non previste dalle leggi concessive del beneficio.
E valga il vero: le situazioni di cui all'art. 3 della legge regionale siciliana n. 26 del 1986 risultano incriminate da leggi statali; la legge n. 47 del 1985, nel prevedere l'<estinzione del reato> per le ipotesi ivi previste, realizza un'eccezione ad altre leggi, quelle, appunto, incriminatrici: ma, ai sensi della seconda parte dell'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, le leggi <...che fanno eccezione... ad altre leggi non si applicano oltre i casi ed i tempi in esse considerati>.
La Regione Sicilia non é, dunque, legittimata a ritenere applicabile l'estinzione del reato di cui alla legge statale n. 47 del 1985 anche ad ipotesi non previste dall'art. 31 della stessa legge.
La legge regionale impugnata ha, in conseguenza, anche violato l'art. 3, primo comma, Cost.
Che, d'altra parte, le situazioni di cui all'art. 3 della legge siciliana n. 26 del 1986 non solo non siano riconducibili alle motivazioni d'opportunità che ispirano la previsione della causa d'estinzione da parte della legge statale n. 47 del 1985 ma risultino nettamente contrastanti con dette motivazioni, e dimostrato (anche) dalla lettera dell'art. 3, primo comma, della legge siciliana in discussione e dai lavori preparatori relativi a quest'ultimo articolo.
Dalla lettera dell'impugnato art. 3 risulta, infatti, che <Il secondo comma dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e ...sostituito>... dall'art. 3 della legge regionale n. 26 del 1986: la norma regionale impugnata ha in tal modo, sostituendosi, appunto, al legislatore statale, arbitrariamente resa applicabile l'estinzione del reato prevista dalla stessa legge statale ad ipotesi che, essendo escluse dal secondo comma dell'art. 31 della stessa legge, non potevano legittimamente esser <decriminalizzate> con legge regionale.
Dai lavori preparatori relativi al contestato primo comma dell'art. 3 della citata legge regionale non emergono, peraltro, elementi atti a trarre diverse conclusioni.
Poiché la previsione di cause d'estinzione del reato e riservata alla legge statale, in quanto a quest'ultima spetta la potestà incriminatrice; poiché alla stessa legge compete, conseguentemente, individuare le situazioni alle quali si applicano le citate cause; e poiché, pertanto, l'ambito delle predette situazioni, individuato in una legge statale, non può esser illegittimamente esteso o ristretto ad opera di leggi regionali (neppure di quelle che dispongono in materie c.d. <esclusive>) deve dichiararsi costituzionalmente illegittimo il primo comma dell'art. 3 della legge regionale siciliana n. 26 del 1986.
Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 deve dichiararsi illegittimo anche il secondo comma dell'art. 3 della legge regionale n. 26 del 1986.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26 (Norme integrative della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, relative a <Nuove norme in materia di controllo dell'attività urbanistico- edilizia, riordino edilizio e sanatoria delle opere abusive>);
dichiara d'ufficio, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, della stessa legge regionale siciliana 15 maggio 1986, n. 26.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23/10/89.
Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL'ANDRO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI- Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI.
Depositata in cancelleria il 25/10/89.
Francesco SAJA, PRESIDENTE
Renato DELL'ANDRO, REDATTORE