SENTENZA N. 237
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE ”
- Ugo DE SIERVO ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 3, commi 2-bis,
2-ter e 2-quater, del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure
straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella
regione Campania), commi aggiunti dalla legge di conversione 27 gennaio 2006,
n. 21, promossi – con riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 24, 25, 111,
113 e 125 Cost., e all’art. 23 del regio decreto
legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione
dello statuto della Regione siciliana), convertito dalla legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 – con ordinanze del 6 marzo 2006 dal
Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, del 7 marzo 2006 dal
Tribunale amministrativo regionale per
Visti gli atti di costituzione della Palermo energia ambiente s.c.p.a., del Comune di Paternò, della Sicil
Power s.p.a., della
Provincia Regionale di Catania, della Associazione Legambiente Comitato
regionale siciliano (fuori termine), della Maggioli s.p.a.,
di Manente Liliana ed altri, della Regione Veneto nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 maggio 2007 e nella camera di
consiglio del 23 maggio 2007 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
uditi gli avvocati Giuseppe Mingiardi
per il Comune di Paternò, Francesco Mineo per
Ritenuto in fatto
1.¾ Con quattro ordinanze, il Tribunale amministrativo
regionale della Sicilia, sede centrale (r.o. n. 129
del 2006) e sezione staccata di Catania (r.o. 293 del
2006), il Consiglio di giustizia amministrativa per
1.1.¾ In particolare, il Tribunale amministrativo regionale
della Sicilia (r.o. n. 129 del 2006), premesso di
dover conoscere dell’impugnativa proposta avverso ordinanza emessa dal
Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e la tutela delle acque in
Sicilia, assume di essere stato investito, su eccezione dell’amministrazione
intimata e del soggetto controinteressato, della questione relativa alla
propria competenza territoriale.
Il rimettente,
pur riconoscendo di dover declinare – ai sensi dei citati commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art.
3 del decreto-legge n. 245 del 2005 – la competenza in favore del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, reputa, tuttavia, tali disposizioni
costituzionalmente illegittime, per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 111 e
125 Cost. e con l’art. 23 dello statuto regionale
siciliano.
Quanto, in
particolare, al primo degli evocati parametri, la sua violazione è ipotizzata,
innanzitutto, sotto il profilo della «disparità di trattamento che la deroga alle
ordinarie regole di riparto delle competenze comporta, per la tutela
giurisdizionale delle rispettive posizione giuridiche, tra soggetti in
situazioni eguali».
Difatti, le
censurate disposizioni, derogando al principio secondo cui l’impugnazione di
provvedimenti adottati nell’esercizio delle ordinarie attribuzioni rientra
nella competenza del Tribunale amministrativo regionale del luogo ove i
provvedimenti hanno incidenza (art. 3 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034,
recante «Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali»), stabiliscono che
è sufficiente l’avvenuta dichiarazione della situazione di emergenza, «ai sensi
dell’art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225» (Istituzione del Servizio nazionale della
protezione civile), per comportare la devoluzione al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio della «impugnazione dei provvedimenti volti
alla cura dei medesimi interessi, idonei a produrre le medesime conseguenze, ed
eventualmente a comprimere uguali posizioni soggettive». Di qui, pertanto, «la
disparità di trattamento che la deroga alle ordinarie regole di riparto delle
competenze comporta, per la tutela giurisdizionale delle rispettive posizioni
giuridiche, tra soggetti in situazioni eguali», riservando, difatti, dette
disposizioni un trattamento ingiustificatamente differenziato ai «destinatari
delle ordinanze adottate dagli organi governativi o dai commissari delegati,
nelle situazioni di dichiarata emergenza, aventi efficacia limitata al
territorio di una regione, rispetto ai destinatari dei provvedimenti, aventi lo
stesso ambito di efficacia, adottati, in via ordinaria – in genere dagli organi
esponenziali di enti territoriali regionali o sub regionali».
Né tale
diversità di regime appare giustificabile in considerazione della eventuale
maggiore rilevanza dell’interesse sotteso ai provvedimenti adottati in
situazione di emergenza, giacché «nel nostro sistema non esiste una
distribuzione di competenza» basata su di un simile criterio, che sarebbe,
inoltre, in contrasto con l’art. 125 Cost., il quale
pone i diversi tribunali amministrativi regionali «su un piano paritario».
Del resto, che
non sia possibile giustificare su tali basi la deroga all’art. 3 della legge n.
1034 del 1971 sarebbe confermato dallo stesso tenore letterale del censurato
comma 2-bis dell’art. 3 del
decreto-legge n. 245 del 2005, ai sensi del quale tale deroga «riguarda le
ordinanze e gli atti commissariali adottati nelle situazioni di emergenza»,
dichiarate ai sensi del citato art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992,
«ma non i provvedimenti che tali situazioni dichiarino» e che, ove si
riferiscano a situazione di limitata estensione territoriale, come sovente
accade, continuano a rientrare nella ordinaria competenza del Tribunale
amministrativo della Regione in cui il provvedimento è destinato ad avere
incidenza. Evenienza, questa da ultimo descritta, che testimonia la
«irragionevolezza del disegno complessivo» attuato dalle censurate
disposizioni.
Ciò premesso, il
giudice rimettente dichiara di non ignorare la sentenza della Corte
costituzionale n. 189 del 1992, che ha ritenuto non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74
(Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio
superiore della magistratura), disposizione che, rammenta il rimettente,
modificando l’art. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme
sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della
Magistratura), attribuisce al
Tribunale amministrativo regionale del Lazio «la competenza esclusiva
sull’impugnazione degli atti del C.S.M.». Invero, la deroga così introdotta
all’ordinario sistema di riparto della competenza tra i tribunali
amministrativi regionali troverebbe la sua giustificazione nella «particolare
posizione che il Consiglio Superiore della Magistratura occupa nell’ordinamento
costituzionale», oltre che nella «peculiare funzione svolta dai magistrati ordinari»
(ciò che rende questi ultimi «non assimilabili o comparabili ad altre categorie
di pubblici dipendenti»), non essendo neppure «secondario rilevare» – sempre a
giudizio del rimettente – che il foro previsto per i dipendenti pubblici dal
secondo comma dell’art. 3 della legge n. 1034 del 1971 «costituisce una deroga,
seppur di carattere generale, alla prioritaria regola» che fa dipendere la
competenza territoriale del giudice amministrativo dall’«ambito di efficacia
del provvedimento impugnato».
Nel caso in
esame, invece, la scelta del legislatore «non appare supportata da alcuna
plausibile ragione, dotata di copertura costituzionale, idonea a giustificare
la disparità di trattamento che indubbiamente si viene ad operare tra
situazioni eguali», donde l’ipotizzata violazione dell’art. 3 della Carta
fondamentale.
Il rimettente
ipotizza, poi, la violazione anche dell’art. 24 Cost.,
atteso che la translatio iudicii in
favore del Tribunale amministrativo regionale del Lazio «indiscutibilmente
comporta un ingiustificato aggravio organizzativo e di costi» a carico dei
soggetti «incisi dai provvedimenti adottati dagli organi governativi e dai
commissari nelle situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma
1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225».
Inoltre,
contravvenendo all’esigenza «del decentramento territoriale della giurisdizione
amministrativa», le norme censurate si porrebbero in contrasto anche con l’art.
125 Cost., che intende garantire una distribuzione
territoriale delle controversie tale da agevolare il ricorso alla giustizia
amministrativa, «in sostanziale coerenza e continuità logica con i principi
desumibili dall’art. 24 della Costituzione». Il suddetto parametro
costituzionale viene, difatti, svuotato di contenuto, «creando una sorta di gerarchia»
tra il Tribunale amministrativo regionale del Lazio e gli altri Tribunali,
recando un vulnus anche al principio
del "giusto processo”, «quale desumibile dal testo novellato dell’art. 111
della Costituzione».
Infine, il
rimettente deduce la violazione dell’art. 23 dello statuto della Regione
Siciliana.
Infatti,
l’impugnativa dei «provvedimenti adottati da organi dello Stato centrale, nelle
situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge
24 febbraio 1992, n. 225, con efficacia territoriale limitata alla Regione
Siciliana» rientra certamente tra quegli «affari concernenti
Un’autonoma
censura è, invece, quella che investe «il regime transitorio previsto dalle
disposizioni di legge in esame», atteso che, interessando lo spostamento della
competenza – ai sensi, in particolare, del comma 2-quater del censurato art. 3 – anche i procedimenti in corso al
momento dell’entrata in vigore delle norme censurate, risulterebbe violato
l’art. 25 Cost., essendo tali controversie sottratte
al «giudice naturale precostituito per legge».
1.1.1.¾ È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.
Assume, in
particolare, la difesa erariale l’infondatezza della censura formulata ai sensi
dell’art. 3 Cost., sul presupposto della (pretesa)
«irragionevole disparità di trattamento (nella individuazione del Tribunale
amministrativo regionale territorialmente competente) tra provvedimenti
adottati in via ordinaria e provvedimenti emanati in situazioni di emergenza»,
ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992, «attesa la evidente
disomogeneità tra le due situazioni poste a raffronto». La difesa dello Stato,
difatti, «giustifica la diversità della contestata disciplina», espressione di
una scelta «non arbitraria», giacché assunta in funzione della ragionevole
«esigenza di concentrare in un unico giudice di primo grado, anche nella fase
cautelare, la pronta e uniforme cognizione delle controversie» in esame,
relative a provvedimenti caratterizzati, per loro natura, dalla finalità di
realizzare «interventi miranti a fronteggiare situazioni emergenziali».
L’Avvocatura
generale dello Stato esclude, inoltre, l’esistenza del dedotto contrasto con
l’art. 24 Cost., atteso che il maggior aggravio ed i
più rilevanti costi destinati ad essere sopportati dai destinatari dei
provvedimenti in questione, oltre a costituire «conseguenze di mero fatto», non
integrano l’evenienza della impossibilità o dell’estrema difficoltà
dell’esercizio del diritto di difesa, idonea a concretare la violazione
dell’evocato parametro costituzionale.
Né, d’altra
parte, si potrebbe ipotizzare che le disposizioni censurate violino l’art. 125
della Carta fondamentale, in quanto esso «non preclude certamente al
legislatore statale di individuare non irragionevolmente, per determinate
"categorie” di controversie, particolari criteri di riparto della competenza
territoriale tra giudici di primo grado», derogando a quelli di cui agli artt.
2 e 3 della legge n. 1034 del 1971.
Analogamente, è
da escludere anche il contrasto con l’art. 23 dello statuto regionale, che
esprime «soltanto la necessità» che in Sicilia sia istituita «una particolare
articolazione del giudice amministrativo di secondo grado», e che non implica
anche il riconoscimento, in suo favore, di una generale «competenza a conoscere
ogni tipo di controversia», incluse quelle che – come nella specie – «non hanno
alcun rapporto con la materia regionale».
La difesa
erariale, infine, nega che il comma 2-quater
dell’art. 3, nella parte in cui estende la nuova disciplina anche ai processi
in corso, violi il principio del giudice naturale, e ciò non solo perché la
norma censurata fa in ogni caso (temporaneamente) salva «l’efficacia dei
provvedimenti cautelari eventualmente adottati dal giudice già competente», ma
soprattutto perché la disposta translatio iudicii «non può intendersi come diretta alla
arbitraria successiva indicazione di un giudice diverso "appositamente
istituito per quella controversia e per quelle parti, con una scelta idonea ad
essere orientata in vista di un determinato giudizio”», evenienza che la
giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 460 del
1994) individuerebbe come la sola idonea ad integrare il contrasto con
l’art. 25, primo comma, Cost.
1.1.2.¾ Si è costituita in giudizio la società Palermo
energia Ambiente s.c.p.a., parte controinteressata
del giudizio principale.
Dopo aver
rammentato, nei suoi tratti essenziali, lo svolgimento del giudizio a quo (ed il contenuto delle
disposizioni censurate) la predetta società ha svolto una serie di rilievi
volti a confutare il ragionamento svolto, nella propria ordinanza di
rimessione, dal giudice a quo.
Evidenzia, infatti,
quanto all’ipotizzata disparità di trattamento cui darebbe luogo la contestata
disciplina, che le due ipotesi poste a raffronto dal giudice rimettente
«confrontabili non sono», e ciò «per un divario dovuto ad un fattore decisivo».
Ed invero, provvedimenti del tipo di quelli oggetto del giudizio principale non
risultano emanati da autorità locali (sicché, in tal caso, «la vicenda sarebbe
totalmente ricondotta» a tale livello, «quello locale, appunto»), atteso che le
stesse, invece, «sono sostituite da un Commissario delegato»; conseguentemente
i medesimi provvedimenti costituiscono «nient’altro che la fase conclusiva di
un procedimento che è iniziato e proseguito, nei momenti salienti, a livello
governativo e ministeriale».
Assume, poi, che
la contestata disciplina, lungi dal manifestare quel profilo di
irragionevolezza denunciato dal rimettente, appare del tutto giustificata in
ragione della «specificità» che connota le fattispecie devolute all’esame del
Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
Del resto, che
ciò possa essere sufficiente a consentire una deroga agli ordinari criteri di
ripartizione della competenza territoriale tra giudici amministrativi di primo
grado risulterebbe confermato dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 189 del 1992, laddove riconosce «al legislatore ampia
discrezionalità nell’operare il riparto di competenza tra organi
giurisdizionali», purché «nel rispetto del principio di eguaglianza, e, segnatamente,
del canone di ragionevolezza». Né, d’altra parte, la scelta compiuta dall’art.
3 del decreto-legge n. 245 del 2005 costituisce un unicum nel sistema della giustizia amministrativa, visto che
numerose disposizioni legislative hanno scelto di concentrare determinati
giudizi esclusivamente presso un unico Tribunale amministrativo regionale.
Ciò premesso in
ordine all’ipotizzata violazione dell’art. 3 Cost.,
quanto alle altre censure prospettate dal rimettente, la predetta parte privata
si riporta alle considerazioni espresse nella già più volte citata sentenza n. 189
del 1992 della Corte costituzionale. In particolare, tale pronuncia è
richiamata – quanto al dedotto contrasto con l’art. 125 Cost.
– laddove afferma che «l’attribuzione della competenza al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, anziché ai diversi tribunali amministrativi
regionali dislocati su tutto il territorio nazionale, non altera il sistema di
giustizia amministrativa», essendo il Tribunale laziale parte di un complessivo
sistema «che consta di numerosi gangli periferici e di uno centrale».
Analogamente,
sempre alla luce della decisione suddetta, viene esclusa la violazione
dell’art. 23 dello statuto regionale siciliano, trattandosi di norma che
«stabilisce soltanto che gli organi giurisdizionali centrali debbano avere in
Sicilia le sezioni per gli affari concernenti la regione», dettando così «una
previsione che non implica affatto – anzi esclude – la competenza a conoscere
di ogni tipo di controversie, specie con riguardo a questioni che non hanno
alcun rapporto con la materia regionale». Osservazione, quest’ultima, che si
riconosce essere non del tutto «pertinente al caso in esame», ma che, comunque,
non esclude la rilevanza che «l’interesse governativo» riveste rispetto alle
fattispecie contemplate dalla censurata disciplina, rendendole idonee – come
detto – ad essere devolute alla cognizione esclusiva del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio.
1.2.¾ Anche la sezione staccata di Catania del Tribunale
amministrativo regionale della Sicilia (r.o. 293 del
2006) censura – in riferimento agli artt. 24, 25, 111 e 125 Cost.
– l’art. 3, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge n. 245 del 2005.
Premette il
Tribunale rimettente di essere stato investito dell’impugnativa proposta
avverso ordinanza del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti e di aver
accolto l’istanza cautelare di sospensione, provvedendo – di seguito – a
fissare udienza pubblica per la trattazione del merito, ai sensi dell’art. 23-bis della legge n. 1034 del 1971.
Proposto appello avverso il provvedimento cautelare innanzi al Consiglio di
giustizia amministrativa per
Ai sensi,
difatti, delle sopravvenute disposizioni la competenza a decidere, anche quanto
alla misura cautelare, di controversie quali quella oggetto del giudizio
principale spetta in via esclusiva al Tribunale amministrativo regionale del
Lazio, con obbligo per i giudici originariamente aditi di rilevare (anche
d’ufficio) il proprio sopravvenuto difetto di competenza, pronunciando all’uopo
sentenza succintamente motivata ex
art. 26 della legge n. 1034 del 1971.
Il rimettente,
pertanto, investito del regolamento di competenza proposto (già prima della
sopravvenienza delle disposizioni censurate) da uno dei controinteressati
intervenuto in giudizio, reputa rilevante la questione di legittimità dei
suddetti commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, osservando che «soltanto a seguito della declaratoria di
illegittimità costituzionale» degli stessi esso potrebbe pronunciarsi sul
regolamento di competenza e sulle eccezioni (segnatamente di tardività del
mezzo) formulate dal ricorrente.
Richiama, sul
punto, il «concetto ampio di rilevanza» al quale si ispirerebbero «diverse
decisioni della Corte costituzionale», citando in particolare la sentenza n. 137
del 1983.
In ordine,
invece, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ipotizza, innanzitutto, che le disposizioni
censurate contrastino con l’art. 125 Cost., «e
segnatamente con il principio della articolazione su base regionale degli
organi statali di giustizia amministrativa di primo grado», principio che «non
ha ragione di subire deroghe nella materia di cui trattasi, in cui le singole
situazioni di emergenza», dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge
n. 225 del 1992, «hanno rilievo spiccatamente locale».
Deduce, altresì,
la violazione dell’art. 24 Cost., «per la evidente
maggiore difficoltà» di esercitare le relative azioni presso il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio «piuttosto che presso gli organi
giurisdizionali localmente istituiti».
Sul punto
richiama, pur riconoscendo che «la fattispecie in esame sia diversa da quella
oggetto della citata pronuncia», la sentenza della
Corte costituzionale n. 123 del 1987. Questa, difatti, sul presupposto
dell’accertata violazione del «valore costituzionale del diritto di agire, in
quanto implicante il diritto del cittadino ad ottenere una decisione nel merito
senza onerose reiterazioni», dichiarò l’illegittimità costituzionale di una
disposizione che imponeva l’estinzione ope legis di giudizi pendenti, in qualsiasi stato e grado
gli stessi si fossero trovati alla data di entrata in vigore della norma allora
denunciata. In modo non del tutto dissimile, anche le norme impugnate impongono
a chi abbia già incardinato il giudizio, «ed addirittura abbia ottenuto una
decisione cautelare», di «proseguire altrove la propria iniziativa
giudiziaria».
Assume, inoltre,
il rimettente «la violazione del principio del giudice naturale precostituito
per legge, di cui all’art. 25 della Costituzione», il quale esclude «che vi
possa essere una designazione tanto da parte del legislatore con norme
singolari, che deroghino a regole generali, quanto da altri soggetti, dopo che
la controversia sia insorta» (sentenza n. 393 del
2002), atteso che il rispetto del citato principio esige che «la regola di
competenza sia prefissata rispetto all’insorgere della controversia» (sentenza n. 193 del
2003).
La dedotta
illegittimità connoterebbe, in particolare, il censurato comma 2-quater, che non solo estende le
previsioni di cui ai precedenti commi 2-bis
e 2-ter del medesimo art. 3 (cioè le
norme che configurano la nuova ipotesi di competenza esclusiva del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio) ai processi pendenti, «ma addirittura
consente una riforma dei provvedimenti assunti, in sede cautelare, in tali
giudizi».
Infine, il
rimettente – sul presupposto che «il principio del doppio grado di giudizio
nella giustizia amministrativa, sia in sede cautelare sia in sede di merito»,
riceve garanzia costituzionale dall’art. 125 della Carta fondamentale (è
citata, sul punto, la sentenza della Corte costituzionale
n. 8 del 1982) – evidenzia l’esistenza di un’ulteriore profilo di
illegittimità costituzionale.
Le norme
censurate, difatti, contravvengono alla regola generale applicabile ad ogni
giudizio, compreso quello cautelare, secondo cui ad una sua prima fase deve
seguirne una d’appello, e non già «una doppia pronuncia sulla stessa materia da
parte di due diversi giudici di primo grado». Tale evenienza, per contro, è
proprio quella che si verifica nel caso di specie, con violazione del principio
del «giusto processo» ex art. 111 Cost., giacché la parte soccombente nel giudizio cautelare,
incardinato innanzi al giudice divenuto ex
post incompetente, risulta «fornita di uno strumento giurisdizionale
anomalo e atipico», quale è quello che le consente di rivolgere, al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, la richiesta di revoca o modifica del
provvedimento cautelare già adottato. In tal modo, difatti, si realizza «una
evidente violazione del principio del ne
bis in idem, che, se pure non espressamente contemplato dalla Carta
costituzionale, deve ritenersi corollario del medesimo generale principio del
"giusto processo” testé richiamato».
1.2.1.¾ Anche nel presente giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura
generale dello Stato, proponendo osservazioni e conclusioni analoghe a quelle
formulate nel giudizio che trae origine dall’ordinanza di rimessione r.o. n. 129 del 2006.
Avendo,
tuttavia, la sezione staccata di Catania del Tribunale amministrativo regionale
della Sicilia ipotizzato (sebbene solo nella motivazione della propria
ordinanza di rimessione, e non nel dispositivo) la violazione anche dell’art.
111 Cost., la difesa erariale ha ritenuto necessario
prendere posizione pure in relazione a tale censura. Ha, pertanto, osservato
che il principio del «giusto processo» non è certamente violato dal potere,
riconosciuto al Tribunale amministrativo regionale, «di revocare o modificare
(su istanza dell’interessato) il provvedimento cautelare già assunto dal giudice
in origine competente».
1.2.2.¾ Si è costituito in giudizio il Comune di Paternò,
ricorrente del giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione
sollevata dal Tribunale rimettente e ripercorrendo l’iter logico del ragionamento da questo svolto nel proprio
provvedimento.
1.2.3.¾ Anche la società Sicilpower
s.p.a., cointrointeressata
nel processo principale, si è costituita in giudizio, chiedendo la declaratoria
di non fondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Essa sottolinea,
in particolare, il «rilievo degli interessi nazionali e generali che ineriscono
i provvedimenti» contemplati dalle censurate disposizioni, ritenendo, pertanto,
che gli stessi, a prescindere dalla loro formale imputazione alle gestioni commissariali,
siano «adottati dalla amministrazione centrale», sebbene essa agisca «per il
tramite di propri organi delegati operanti a livello locale»; di conseguenza,
la questione «non afferisce alla sottrazione al Tribunale amministrativo
regionale locale (quello della Sicilia nel caso di specie) di una competenza
allo stesso attribuita ex lege», bensì attiene «alla corretta riconduzione ad un
unico, eguale e paritario organo giudiziario di questioni aventi rilievo
nazionale».
Questi rilievi
vengono invocati per escludere la fondatezza anche del dubbio di
costituzionalità prospettato ai sensi dell’art. 25, primo comma, Cost.
Tale questione
sarebbe, difatti, «erroneamente posta», in quanto già prima dell’introduzione
dei censurati commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, dell’art. 3 «doveva essere individuato quale giudice
naturale il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, in virtù della
provenienza ministeriale (ovvero dell’amministrazione governativa centrale)
della figura del Commissario delegato».
D’altra parte,
anche a ritenere il contrario, e dunque escludendo tale competenza "originaria”
del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, ciò non determinerebbe
l’illegittimità, per contrasto con il citato art. 25, primo comma, Cost., della disposta translatio iudicii, non esistendo nella
giurisprudenza costituzionale – si assume – «un chiaro ed univoco orientamento
o principio che escluda ex se la
possibilità di una modifica del giudice naturale, anche in corso di causa». In
particolare, è richiamata la sentenza n. 207 del
1987 (che a sua volta riprende la precedente sentenza n. 72 del
1976), secondo cui il principio del giudice naturale «viene rispettato
quando la legge, sia pure con effetto anche sui processi in corso, modifica in
generale i presupposti o i criteri diretti ad individuare il giudice
competente, poiché in tali casi lo spostamento di competenza non avviene in
conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in vista
di una determinata o di determinate controversie, ma per effetto di un nuovo
ordinamento – e, dunque, della designazione di un nuovo giudice naturale – che
il legislatore, nell’esercizio del suo insindacabile potere di merito,
sostituisce a quello vigente».
1.2.4.¾ Si è costituita in giudizio anche
1.2.5.¾ Si è costituita in giudizio, peraltro oltre il
termine di legge, l’Associazione Legambiente, Comitato Regionale Siciliano,
insistendo per l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale.
1.3.— Anche il
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (r.o. n. 336 del 2006) ipotizza che l’art. 3, commi 2-bis, 2-ter (ma limitatamente all’inciso secondo cui le «questioni di cui
al comma 2-bis sono rilevate
d’ufficio») e 2-quater, del
decreto-legge n. 245 del 2005, violi gli artt. 3, 24 e 125 Cost.
e l’art. 23 dello statuto regionale, prospettando, subordinatamente,
l’illegittimità costituzionale – alla stregua degli stessi parametri – del solo
comma 2-bis, limitatamente alle
parole «e dei consequenziali provvedimenti commissariali», ovvero – in via
ulteriormente gradata – unicamente del comma 2-quater, per contrasto con gli artt. 24 e 25 della Carta
fondamentale.
Il giudice
rimettente evidenzia di dover conoscere dell’appello proposto avverso il
provvedimento con cui il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha
disposto la sospensione di un’ordinanza e degli atti consequenziali adottati
dal Sindaco del Comune di Palermo nella veste di Commissario delegato per l’attuazione
degli interventi volti a fronteggiare l’emergenza ambientale determinatasi
nella città nel settore del traffico e della mobilità.
Richiesto dal
Comune di Palermo di dichiarare il proprio difetto di competenza, il rimettente
ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme suddette.
Il giudice a quo reputa, difatti, che le
disposizioni censurate violino, innanzitutto, l’art. 125 Cost.,
«che prevede una organizzazione su base regionale degli organi statali di
giustizia amministrativa di primo grado», finalizzata non solo «a ripartire in
modo razionale e equiordinato l’organizzazione dei
giudici amministrativi di primo grado», ma anche ad «agevolare il ricorso delle
parti alla giustizia amministrativa, in coerenza e continuità logica con i
principi desumibili dall’art. 24 della Costituzione».
A queste
esigenze risponde la disciplina, di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 1034
del 1971, che fissa i criteri di distribuzione territoriale della competenza
tra i diversi tribunali amministrativi regionali, disciplina certamente
derogabile, a condizione, però, che la deroga sia «sorretta da giustificazioni
logiche», giacché altrimenti essa sarebbe destinata a tradursi in un
ingiustificato «aggravio per l’attività di alcuni Tribunali e per l’attività
difensiva delle parti». Così, ad esempio, la giurisprudenza costituzionale –
sottolinea il rimettente – ha ritenuto (sentenza n. 189 del
1992) «compatibile con il dettato costituzionale l’art. 4 della legge 12
aprile 1990, n. 74» (che devolve in via esclusiva al Tribunale amministrativo
regionale del Lazio l’impugnativa di atti del Consiglio superiore della
Magistratura riguardanti i magistrati ordinari), giustificando, tuttavia, tale
norma derogatoria «avuto riguardo alla particolare posizione che il Consiglio
Superiore della Magistratura occupa nell’ordinamento costituzionale», oltre che
alla «peculiare funzione svolta dai magistrati ordinari».
Nessuna valida
ragione giustificativa ricorrerebbe, invece, nel caso in esame, come
confermerebbe anche la circostanza che il legislatore del
Il rimettente
ipotizza, inoltre, che i commi 2-bis,
2-ter e 2-quater del censurato art. 3 contrastino anche con l’art. 3 Cost., «sotto il profilo della disparità di trattamento in
situazioni eguali di fronte alla tutela giurisdizionale», e che, inoltre,
configurino per la parte privata «un aggravio all’esercizio del diritto di
difesa», in violazione anche dell’art. 24 della Carta fondamentale.
Ulteriore
profilo di illegittimità costituzionale è ravvisato nel contrasto con l’art. 23
dello statuto regionale siciliano.
Nel premettere
che, secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, il «decentramento
territoriale degli organi giurisdizionali centrali, sancito in via di principio
dal citato art. 23, corrisponde ad un’antica tradizione siciliana e si
ricollega alla singolarità dell’autonomia siciliana» (è citata la sentenza n. 316 del
2004), e nell’evidenziare come tale peculiare condizione, seppure non
implichi affatto una competenza generale, di esso Consiglio di giustizia
amministrativa per
Conclusione,
questa, vieppiù da ribadire, se si tiene conto che secondo la giurisprudenza
costituzionale – si richiama la sentenza n. 26 del
1961 – «le ordinanze di necessità non potrebbero mai menomare diritti
costituzionalmente garantiti e neppure operare in sostituzione della legge nei
campi riservati al legislatore».
Di qui, quindi,
la richiesta di caducazione dei predetti commi 2-bis, 2-ter (limitatamente
all’inciso secondo cui le «questioni di cui al comma 2-bis sono rilevate d’ufficio») e 2-quater dell’art. 3 del decreto-legge n. 245 del 2005, l’ablazione
dei quali dovrebbe, dunque, fare salvo solo il frammento di disposizione
secondo cui, allorché innanzi al giudice amministrativo si controverta di
situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge
n. 225 del 1992, «il giudizio è definito con sentenza succintamente motivata ai
sensi dell’articolo 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive
modificazioni, trovando applicazione i commi 2 e seguenti dell’articolo 23-bis della stessa legge».
I medesimi
rilievi varrebbero a maggior ragione, secondo il rimettente, ove si consideri
il peculiare caso (al quale corrisponde, si precisa, quello oggetto del
giudizio principale) in cui il giudice amministrativo risulti investito dei
«soli provvedimenti attuativi commissariali», allorché questi «abbiano
carattere (soggettivo e oggettivo) esclusivamente locale». Difatti, «non
venendo in rilievo atti di organi centrali», trattandosi invece di atti ad
efficacia territorialmente circoscritta alla Regione, risulta ulteriormente
rafforzata la tesi che esclude l’esistenza di un nesso logico tra le
controversie de quibus
e la competenza esclusiva del Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
Su tali basi,
quindi, il rimettente solleva questione subordinata di legittimità
costituzionale – sempre in riferimento agli artt. 3, 24 e 125 Cost. e all’art. 23 dello statuto regionale – del solo
comma 2-bis del predetto art. 3,
limitatamente alle parole «e dei consequenziali provvedimenti commissariali».
Infine, ed in
via ulteriormente gradata, il rimettente prospetta un’ulteriore questione di
costituzionalità – ai sensi degli artt. 24 e 25 Cost.
– che investe il solo regime transitorio previsto dalla censurata disciplina (e
dunque unicamente il comma 2-quater).
Esso, difatti,
sarebbe «in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per
legge (art. 25, primo comma, della Costituzione), in base al quale la regola di
competenza deve essere prefissata rispetto all’insorgere della controversia»
(sono richiamate le sentenze della Corte
costituzionale n. 124 del 2005 e n. 193 del 2003),
principio operante anche rispetto alla competenza territoriale (sentenza n. 41 del
2006).
Infine, sarebbe violato
anche «il principio della difesa (art. 24 Cost.)»,
giacché esso implica – secondo la giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 123 del
1987) – «il diritto del cittadino ad ottenere una decisione di merito senza
onerose reiterazioni»; nella specie, invece, si assiste ad una estinzione del
giudizio originariamente incardinato, con la necessità della riproposizione del
ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, «al quale
vanno altresì presentate eventuali istanze di revoca o modifica delle misure
cautelari in precedenza disposte».
1.3.1.¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto
anche in questo giudizio, ribadendo le stesse conclusioni e formulando gli
stessi rilievi già espressi nei giudizi che traggono origine dalle ordinanze r.o. n. 129 e n. 293 del 2006.
1.3.2.¾ Anche la società Maggioli s.p.a.
– ricorrente del giudizio principale – è intervenuta in giudizio per chiedere
la declaratoria di illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni
sulla base delle medesime considerazioni espresse nell’ordinanza di rimessione
pronunciata dal Consiglio di giustizia amministrativa per
1.4.— Il
Tribunale amministrativo regionale del Veneto (r.o.
n. 394 del 2006) dubita della legittimità costituzionale delle stesse
disposizioni, i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art. 3 del decreto-legge n. 245 del 2005, ipotizzando
la violazione degli artt. 3, 24, 25, 111, 113 e 125 della Costituzione.
Premette, non
diversamente dagli altri giudici rimettenti, di essere chiamato a conoscere
dell’impugnativa proposta avverso un provvedimento (e i suoi atti
consequenziali) adottato dal Commissario delegato per l’emergenza
socio-economico ambientale della viabilità di Mestre, impugnativa che dovrebbe
essere definita, proprio ai sensi delle censurate disposizione, mediante una
decisione che dichiari «tout court
improcedibile il ricorso», ai sensi dell’art. 26 della legge n. 1034 del 1971.
Secondo il giudice a quo, difatti, la
sopravvenuta disciplina, dal medesimo sospettata di illegittimità
costituzionale (ed applicabile «anche ai processi in corso», come prescritto,
in particolare, dal censurato comma 2-quater),
comporta lo spostamento di competenza, in favore del Tribunale amministrativo
regionale del Lazio, di tutte le controversie, come quella oggetto del giudizio
principale, in cui si discuta della legittimità delle ordinanze e dei
consequenziali provvedimenti commissariali adottati in «tutte» le «situazioni
di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio
1992, n. 225».
Tanto osservato
in via preliminare, circa la rilevanza della sollevata questione di legittimità
costituzionale, quanto invece alla sua non manifesta infondatezza, assume il
rimettente che le disposizioni censurate siano «in contrasto con l’art. 125
della Costituzione, e segnatamente con il principio del decentramento e
dell’articolazione su base regionale degli organi statali di giustizia
amministrativa di primo grado», oltre che «col principio di ragionevolezza
desumibile dall’art. 3 Cost.».
Ai sensi,
infatti, del primo dei richiamati parametri costituzionali, del quale costituirebbe
attuazione il sistema di riparto delle controversie tra i diversi tribunali
amministrativi regionali delineato dalla legge n. 1034 del 1971, si dovrebbe
ritenere che la sfera di competenza di questi ultimi sia oggetto di garanzia
costituzionale, non suscettibile, dunque, di deroga allorquando (come nella
specie) «le singole situazioni di emergenza abbiano rilievo esclusivamente
locale». Né, d’altra parte, tale deroga potrebbe essere giustificata «facendo
ricorso all’argomento che il tribunale locale sarebbe troppo sensibile ed
esposto alle tensioni che possono sorgere presso la popolazione locale,
derivanti dagli eventi emergenziali». A prescindere, infatti, dal rilievo che
la soluzione legislativa della translatio iudicii si presenta non idonea a soddisfare tale
esigenza nell’ipotesi di «situazioni di emergenza riguardanti
Appare,
pertanto, evidente che il sistema delineato dalle norme in contestazione
realizza «un’asimmetria» tra il tribunale amministrativo «centrale» e quelli
«periferici», dando vita ad un sistema di distribuzione delle controversie «che
va ben oltre l’attuale criterio di riparto delle competenze basato
sull’efficacia (regionale o ultraregionale) dei provvedimenti delle autorità
centrali dello Stato», presentandosi, così, «irrazionale ed incompatibile con
il dettato costituzionale dell’art. 125 Cost.».
Ulteriori
profili di irragionevolezza consisterebbero, poi, nel fatto che «lo spostamento
della competenza su questa materia è irrazionalmente solo parziale», giacché
«riguarda le ordinanze ed i consequenziali provvedimenti commissariali, ma non
i decreti governativi che dichiarano lo stato di emergenza», e dalla
circostanza che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio (ai sensi del
censurato comma 2-quater) «non assume
soltanto una nuova competenza funzionale esclusiva di primo grado, ma sembra
configurarsi anche come vero e proprio giudice di appello sulle decisioni
cautelari di un tribunale periferico, potendo "modificare” o "revocare” le
misure cautelari da questo concesse». Dubbi, infine, sono avanzati anche in
relazione alla scelta di imporre la pronuncia declinatoria di competenza con
sentenza succintamente motivata ai sensi dell’art. 26 della legge n. 1034 del
1971 (rientrando la sua adozione, invece, nella discrezionalità del
giudicante), ovvero in ordine alla permanenza dell’efficacia delle misure
cautelari adottate da un tribunale amministrativo regionale dichiaratosi
incompetente, allorché il relativo ricorso non venga riproposto innanzi al
Tribunale del Lazio.
Viene, altresì,
ipotizzata la violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.,
in relazione sia alla scelta di applicare «lo spostamento di competenza ai
processi pendenti» (derogando alla regola secondo cui la competenza deve,
invece, essere «prefissata rispetto all’insorgere della controversia»), sia di
consentire «una riforma dei provvedimenti assunti in sede cautelare» dal
giudice ab origine adito.
Inoltre, il
«grave disagio ai ricorrenti», determinato da entrambe tali evenienze,
competerebbe anche «una violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione», e
ciò «per la maggiore difficoltà e i maggiori costi» da sopportare da parte del
ricorrente, del quale, quindi, si riducono «le possibilità di tutela dei
diritti soggettivi e degli interessi legittimi».
Infine, si
ipotizza che la «concentrazione» di tutte le controversie de quibus presso lo stesso giudice
«potrebbe influire negativamente sui tempi dei processi», in contrasto con il
principio della "durata ragionevole” (art. 111, primo comma Cost.).
1.4.1.¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto
anche in questo giudizio, reiterando quanto affermato nei giudizi instaurati
per effetto delle ordinanze r.o. n. 129, n. 293 e n.
336 del 2006.
1.4.2.¾ Anche i ricorrenti del giudizio principale si sono
costituiti nel presente giudizio, concludendo affinché
1.4.3.¾ Si è costituita in giudizio anche
2.—
Nell’imminenza dell’udienza pubblica di discussione, l’Avvocatura generale
dello Stato ha deposito una ulteriore memoria, ribadendo le ragioni a sostegno
della richiesta declaratoria di non fondatezza delle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
2.1.¾ Anche le società Palermo energia Ambiente s.c.p.a. e Sicilpower, oltre al
Comune di Paternò ed ai ricorrenti nel giudizio pendente innanzi al Tribunale
amministrativo regionale del Veneto, hanno depositato un’ulteriore memoria,
ribadendo le ragioni già svolte – secondo i casi – a sostegno o a confutazione
della prospettata illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni.
3.¾ Infine, anche i Tribunali amministrativi regionali
della Campania, sede di Napoli (r.o. n. 43 del 2007),
e della Calabria, sede di Catanzaro (r.o. n. 178 del
2007), hanno sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione,
nel complesso, agli artt. 3, 24, 25, 111, 113 e 125 Cost.,
il primo unicamente del comma 2-bis,
il secondo anche del comma 2-ter
dell’art. 3 del decreto-legge n. 245 del 2005.
3.1.¾ In particolare, il rimettente campano (r.o. n. 43 del 2007) premette, in fatto, di essere
investito dell’impugnativa degli atti di avvio di una procedura espropriativa e
di occupazione di urgenza adottati sulla base di un accordo di programma
stipulato il 28 ottobre 2005 tra la Regione Campania, la Provincia di Benevento,
il Comune di Montesarchio e il Commissario di governo per l’emergenza rifiuti
in Campania, accordo relativo alla realizzazione di una discarica e alla
riqualificazione ambientale dell’area "Tre Ponti” del predetto Comune di
Montesarchio.
Ciò premesso, e non senza
evidenziare la ricorrenza dei presupposti per l’accoglimento della proposta
domanda cautelare, ove la cognizione della controversia devoluta al suo esame
non gli fosse preclusa (come eccepito dalla resistente Provincia di Benevento,
che assume il difetto di competenza dell’adito Tribunale amministrativo
regionale della Campania) proprio in forza di quanto disposto dal predetto art.
3, comma 2-bis, del decreto-legge n.
245 del 2005, il giudice a quo reputa
di dover sollevare, d’ufficio, questione di legittimità costituzionale di tale
disposizione per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 113 e 125 Cost.
Ipotizza, innanzitutto, che
la norma censurata deroghi ingiustificatamente «al normale criterio di riparto
della competenza per territorio dinanzi al giudice amministrativo di primo
grado stabilito dagli artt. 2 e 3 della legge n. 1034 del 1971», in quanto le
situazioni di emergenza, dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge
n. 225 del 1992, «si caratterizzano nella quasi totalità dei casi» (ed in
particolare, «pacificamente», in quello oggetto del giudizio a quo) «per essere spazialmente
delimitate», di talché anche i provvedimenti emanati nell’esercizio dei poteri extra ordinem,
conferiti per fronteggiare tali situazioni, presentano «un ambito di efficacia
spaziale territorialmente delimitato a dimensione infraregionale».
Assume, poi, il rimettente
che tale deroga alla ordinaria disciplina sulla competenza «si traduce in un
aggravio significativo nella tutela del cittadino» (atteso che lo stesso, per
effetto della translatio iudicii, «si
vede gravato di oneri economici e logistici sicuramente maggiori» di quelli che
deve normalmente affrontare), ponendosi anche «come una differenziazione
limitativa del regime ordinario di impugnabilità degli atti» che «ridonda in
disparità di trattamento», donde l’ipotizzata violazione anche degli artt. 113
e 3 della Costituzione.
Inoltre, la censurata
disposizione violerebbe anche l’art. 25, primo comma, Cost.,
sebbene essa «sembri obbedire formalmente al criterio della precostituzione
per legge del giudice competente».
Difatti, la
«generalizzazione a priori» di una
sorta di «legittima suspicione derogatoria della competenza ordinaria»
finirebbe per alterare «la regola fondamentale del diritto processuale per cui
il sospetto di condizionamento del giudice va verificato nel singolo caso
concreto come eccezione che conferma la regola di competenza territoriale»,
senza poi trascurare che la formula «giudice naturale precostituito per legge»
non costituirebbe «un’endiadi», rendendo, dunque, necessario «che la precostituzione del giudice ad opera del legislatore
avvenga nel rispetto di un principio di naturalità, nel senso di razionale
maggiore idoneità del giudice rispetto alla risoluzione di determinate controversie».
L’evenienza da ultimo
descritta non ricorrerebbe, invece, nel caso di specie, atteso che la
disciplina introdotta dal censurato comma 2-bis
dell’art. 3 «non è sorretta da alcuna plausibile giustificazione logica, né
tanto meno appare diretta alla salvaguardia di valori costituzionalmente
protetti tali da giustificare la compressione di quelli, sopra enunciati, che
ne risultano pregiudicati». Per contro, il ricorso al «metodo
dell’allontanamento dal territorio delle controversie che in esso si sono
generate» – seguito dalla censurata disposizione – si pone in contrasto, oltre
che con il principio del «giudice naturale», anche con l’art. 125 della Carta
fondamentale, «che esprime un profilo attuativo degli art. 24 e 113 della
Costituzione nel senso dell’apprestamento di organi di giustizia amministrativa
distribuiti sul territorio secondo un criterio di vicinanza e di accessibilità
per il cittadino».
3.1.1.¾ Anche nel presente giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura
generale dello Stato, proponendo osservazioni e conclusioni analoghe a quelle
formulate nei giudizi che traggono origine dalle ordinanze di rimessione r.o. n. 129, n. 293, n. 336 e n. 394 del 2006.
3.2.¾ Infine, anche il Tribunale amministrativo regionale
della Calabria, sede di Catanzaro (r.o. n. 178 del
2007), censura – con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 125 Cost. – i commi 2-bis
e 2-ter del predetto art. 3 del
decreto-legge n. 245 del 2005, ipotizzandone l’illegittimità nella parte in cui
prevedono la competenza in primo grado, esclusiva ed inderogabile, estesa anche
ai giudizi in corso, del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di
Roma, sui ricorsi giurisdizionali proposti avverso le ordinanze ed i provvedimenti
adottati nell’ambito delle situazioni di emergenza dichiarate ai sensi
dell’art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225.
Il Tribunale calabrese
premette di essere chiamato a giudicare di un ricorso proposto dal Comune di
Longobardi avverso l’ordinanza – ed alcuni atti presupposti – con cui il
Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione
Calabria ha autorizzato il medesimo ricorrente «al conferimento dei rifiuti
solidi urbani presso l’impianto tecnologico trattamento rifiuti sito in
località Bucita del Comune di Rossano».
Costituitosi in giudizio il
predetto Commissario, ed eccepito dallo stesso (ai sensi delle censurate
disposizioni) il difetto di competenza territoriale dell’adito Tribunale, il
rimettente – chiamato a pronunciarsi sull’istanza cautelare avanzata dal
ricorrente – reputa di «dover esprimere dubbi di conformità alle norme
costituzionali delle norme di cui all’art. 3, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater» del decreto-legge n. 245 del
Quanto, poi, alla non
manifesta infondatezza, il rimettente ipotizza, innanzitutto, la violazione
dell’art. 3 Cost., «per la disparità di trattamento
che la deroga alle ordinarie regole di riparto delle competenze comporta, per
la tutela giurisdizionale delle rispettive situazioni giuridiche, tra soggetti
in situazioni eguali»; difatti, risultano assoggettati ad un trattamento
differenziato i «destinatari delle ordinanze adottate dagli organi governativi
o dai commissari delegati, nelle situazioni di dichiarata emergenza, eventi
efficacia limitata al territorio di una Regione», rispetto ai «destinatari dei
provvedimenti, aventi lo stesso ambito di efficacia, adottati, in via
ordinaria», e posti in essere, in genere, «dagli organi esponenziali di enti
territoriali regionali o sub regionali». In definitiva, osserva il giudice a quo, mentre l’impugnazione dei
provvedimenti adottati nell’esercizio delle ordinarie attribuzioni rientra
nella competenza del Tribunale amministrativo regionale del luogo ove i
provvedimenti hanno incidenza, in caso di dichiarazione della situazione di
emergenza ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992, la
cognizione a conoscere di quegli stessi provvedimenti, sebbene «volti alla cura
dei medesimi interessi» e quindi «idonei a produrre le medesime conseguenze, ed
eventualmente a comprimere uguali posizioni soggettive», spetta al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio.
Né, d’altra parte, tale
diversità potrebbe essere giustificata «dalla maggiore o minore rilevanza
dell’interesse sotteso ai provvedimenti» in questione, in quanto il nostro
sistema di giustizia amministrativa non contempla una distribuzione di
competenza tra gli organi giurisdizionali di primo grado fondata su un simile
criterio, che sarebbe, oltretutto, «in contrasto con le disposizioni costituzionali»
(segnatamente con l’art. 125 Cost.) che li «pongono
su un piano paritario». Inoltre, decisivo – nella stessa prospettiva – appare
il rilievo che le situazioni di emergenza di cui all’art. 5 della legge n. 225
del 1992 «non si caratterizzano per il particolare rilievo dell’interesse
considerato», bensì soltanto «per l’urgenza di provvedere». Del resto, conclude
sul punto il rimettente, che le disposizioni censurate non possano, neppure in
ipotesi, trovare fondamento nella pretesa maggiore rilevanza dell’interesse
curato è conclusione confermata dal fatto che il peculiare regime processuale
da esse previsto riguarda unicamente le ordinanze e gli atti commissariali
adottati in situazioni emergenziali, «ma non i provvedimenti che tali
situazioni di emergenza dichiarino»; ciò che, pertanto, rivela anche
l’irragionevolezza del «disegno complessivo» realizzato dal legislatore.
A giustificazione dello
stesso – e quindi della deroga introdotta all’ordinario criterio di riparto
della competenza territoriale tra tribunali amministrativi regionali previsto
dagli artt. 2 e 3 della legge n. 1034 del 1971 – neppure potrebbero invocarsi
ragioni analoghe a quelle valorizzate dalla sentenza della Corte
costituzionale n. 189 del 1992.
La disciplina censurata,
inoltre, violerebbe sia l’art. 24 Cost., in ragione
dell’«ingiustificato aggravio organizzativo e di costi a cui debbono andare
incontro i soggetti incisi dai provvedimenti impugnati» a causa della prevista translatio iudicii, sia
l’art. 125 della Carta fondamentale, che, «in sostanziale coerenza e continuità
logica» con il precedente art. 24, enuncia il principio «del decentramento
territoriale della giurisdizione amministrativa» con riferimento a tutte le
controversie scaturenti dalla contestazione di atti amministrativi «destinati
ad esaurire i propri effetti "in loco”».
Senza trascurare che le censurate disposizioni creano «una sorta di gerarchia
tra i Tribunali territoriali», realizzando anche un non irrilevante "vulnus” del principio generale del
"giusto processo”, quale desumibile dal testo novellato dall’art. 111 della
Costituzione.
Infine, «e per inciso, in
quanto la questione non ha rilevanza nel presente giudizio», il rimettente
evidenzia che anche la disposizione di cui al comma 2-quater del censurato art. 3, nella parte in cui estende la nuova
disciplina anche ai processi in corso, violerebbe l’art. 25, primo comma, Cost., «determinando la sottrazione del giudizio al
"giudice naturale precostituito per legge”».
3.2.1.¾ Anche nel presente giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura
generale dello Stato, proponendo osservazioni e conclusioni analoghe a quelle
formulate nei giudizi che traggono origine dalle ordinanze di rimessione r.o. n. 129, n. 293, n. 336 e n. 394 del 2006 e n. 43 del
2007.
Considerato in diritto
1.¾ Vengono all’esame della Corte sei ordinanze di rimessione,
le prime quattro trattate nell’udienza pubblica del 22 maggio 2007, le altre
due nella camera di consiglio del 23 maggio 2007, rispettivamente emesse dal
Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo (r.o. n. 129 del 2006) e sezione staccata di Catania (r.o. 293 del 2006), dal Consiglio di giustizia
amministrativa per
Tutti i rimettenti dubitano,
innanzitutto, della legittimità costituzionale del comma 2-bis, secondo cui, nelle situazioni di emergenza dichiarate ai sensi
dell’art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del
Servizio nazionale della protezione civile), «la competenza di primo grado a
conoscere della legittimità delle ordinanze adottate e dei consequenziali
provvedimenti commissariali spetta in via esclusiva, anche per l’emanazione di
misure cautelari, al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in
Roma».
Inoltre, quattro dei sei
giudici a quibus
– giacché il Tribunale amministrativo regionale della Campania (r.o. n. 43 del 2007) e quello della Calabria (r.o. n. 178 del 2007) limitano la propria iniziativa alla
censura, l’uno, del solo comma 2-bis,
l’altro, anche del successivo comma 2-ter
– reputano costituzionalmente illegittima la restante disciplina processuale introdotta
dalla legge n. 21 del
Di tali disposizioni i
giudici rimettenti – ciascuno nei limiti anzidetti – ipotizzano il contrasto,
nel complesso, con gli artt. 3, 24, 25, 111, 113 e 125 della Costituzione e con
l’art. 23 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione
dello statuto della Regione siciliana), convertito dalla legge costituzionale
26 febbraio 1948, n. 2, parametro, quest’ultimo, evocato soltanto dal Tribunale
amministrativo regionale della Sicilia, sede di Palermo, e dal Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione Siciliana.
Il rimettente da ultimo
menzionato, subordinatamente, solleva anche questione di legittimità
costituzionale del solo comma 2-bis,
limitatamente alle parole «e dei consequenziali provvedimenti commissariali»,
mirando a conseguire – attraverso una parziale declaratoria d’illegittimità
costituzionale del testo normativo censurato – un intervento della Corte che
sottragga almeno l’impugnativa di tali atti al peculiare regime processuale
sopra delineato. In via ulteriormente gradata, lo stesso rimettente censura, infine, solo il comma 2-quater, che regola – estendendoli «anche
ai processi in corso» – gli effetti transitori della sopravvenienza della nuova
disciplina.
2.¾ Ciò premesso, in via preliminare deve essere disposta
la riunione dei giudizi, atteso che la loro comunanza di oggetto ne giustifica
l’unitaria trattazione; deve, inoltre, essere dichiarata la tardività
dell’intervento effettuato dall’Associazione Legambiente, Comitato Regionale
Siciliano, parte di uno dei giudizi a quibus (r.o. n. 293 del
2006).
3.¾ La disamina delle varie questioni sollevate dai
rimettenti deve essere compiuta, in primo luogo, con riferimento alle censure
che investono la nuova disciplina a regime prevista per l’impugnativa delle
ordinanze e dei provvedimenti commissariali (distinguendo, peraltro, le censure
formulate in base a parametri tratti direttamente dalla Costituzione da quelle
fondate sull’art. 23 dello statuto della Regione Siciliana), e, in secondo
luogo, con riferimento al regime transitorio.
Infine, oggetto di esame
devono essere le questioni sollevate, in via subordinata, dal Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (r.o.
n. 336 del 2006), che investono – parimenti – sia la disciplina a regime che
quella transitoria.
3.1.¾ Ai fini di tale complessiva disamina, occorre
necessariamente fare riferimento all’ordinario sistema di riparto della
competenza territoriale tra gli organi di primo grado del sistema della
giustizia amministrativa, come delineato dagli artt. 2 e 3 della legge n. 1034
del 1971.
È noto che la citata legge
n. 1034 del 1971, nell’istituire i Tribunali amministrativi regionali, ha
attribuito a ciascuno di essi la competenza a decidere «sui ricorsi per
incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge» contro «atti e
provvedimenti» emessi sia «dagli enti pubblici non territoriali aventi sede
nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale e che
esclusivamente nei limiti della medesima esercitano la loro attività», sia
«dagli enti pubblici territoriali compresi nella circoscrizione del tribunale
amministrativo regionale» (così, rispettivamente, i numeri 2 e 3 della lettera b dell’art. 2).
Il successivo art.
3.2.¾ Su questo sistema, tuttavia, si sono innestate
numerose disposizioni legislative, in forza delle quali la competenza a
decidere i relativi ricorsi per determinati tipi di controversie è stata
attribuita al Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
Viene in rilievo,
innanzitutto, l’art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme
sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della
magistratura), che, novellando il testo dell’art. 17, secondo comma, della
legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del
Consiglio superiore della Magistratura), ha attribuito allo stesso tribunale
«la competenza esclusiva sull’impugnazione degli atti del C.S.M.». Scelte
analoghe sono state, poi, compiute dall’art. 33 della legge 10 ottobre 1990, n.
287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), dall’art. 104, comma
2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi
in materia bancaria e creditizia), dall’art. 2, comma 25, della legge 14
novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di
pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di
pubblica utilità), disposizione, questa, che devolve la competenza a giudicare
l’impugnativa dei provvedimenti adottati dalle Autorità di regolazione dei
servizi di pubblica utilità, al «Tribunale amministrativo regionale ove ha sede
l’Autorità», dall’art. 1, comma 26, della legge 31 luglio 1997, n. 249
(Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui
sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo), dall’art. 13, comma 11, del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), nonché, da ultimo, dall’art. 3 del decreto-legge 19 agosto 2003, n.
220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con
modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2003, n. 80 e dall’art. 9 del decreto
legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice
delle comunicazioni elettroniche).
4.¾ In questo solco si inserisce la disciplina a regime
recata dalle censurate disposizioni e segnatamente dai commi 2-bis e 2-ter dell’art. 3 del decreto-legge n. 245 del 2005 della cui
legittimità costituzionale dubitano i giudici rimettenti, deducendone il
contrasto, innanzitutto, con gli artt. 3 (parametro non evocato nella sola
ordinanza r.o. n. 293 del 2006) e 125 della
Costituzione.
È, comunque, opportuno precisare
che i citati commi 2-bis e 2-ter, al pari del successivo comma 2-quater, seppure inseriti formalmente in
un articolo del decreto-legge n. 245 del 2005, sull’emergenza rifiuti della
regione Campania, debbono ritenersi dettati per tutte le situazioni di
emergenza in qualunque Regione esse si manifestino, come risulta anche dai
lavori preparatori della legge di conversione n. 21 del 2006 (in particolare,
dal parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera dei
deputati).
4.1.¾ Proprio dalle riportate censure – sostanzialmente
comuni a tutte le ordinanze di rimessione – è necessario prendere le mosse ai
fini del sollecitato scrutinio di costituzionalità.
4.1.1.¾ La violazione dell’art. 3 Cost.
viene prospettata, innanzitutto, sotto il profilo della «disparità di
trattamento» che deriverebbe dal contestato regime processuale.
Al riguardo, viene
denunciata – in primo luogo – la «disparità di trattamento che la deroga alle
ordinarie regole di riparto delle competenze comporta, per la tutela giurisdizionale
delle rispettive posizioni giuridiche, tra soggetti in situazioni eguali»,
giacché le disposizioni censurate riserverebbero un trattamento
ingiustificatamente differenziato ai «destinatari delle ordinanze adottate
dagli organi governativi o dai commissari delegati, nelle situazioni di
dichiarata emergenza, aventi efficacia limitata al territorio di una Regione,
rispetto ai destinatari dei provvedimenti aventi lo stesso ambito di efficacia,
adottati, in via ordinaria – in genere dagli organi esponenziali di enti
territoriali regionali o sub regionali» (così, in particolare, r.o. n. 129 del 2006, nonché r.o.
n. 178 del 2007). In sostanza, si pone in luce che, se di regola quei
provvedimenti sono impugnati innanzi al Tribunale amministrativo regionale con
sede nel luogo in cui essi esplicano la propria efficacia, ove, invece, la loro
adozione avvenga (sulla base di una situazione di emergenza ex art. 5, comma 1, della legge n. 225
del 1992) ad opera degli organi governativi o dei commissari all’uopo nominati,
la loro impugnazione – sebbene questi provvedimenti siano comunque «volti alla
cura dei medesimi interessi, idonei a produrre le medesime conseguenze, ed
eventualmente a comprimere eguali posizioni soggettive» (così, nuovamente, r.o. n. 129 del 2006) – risulta devoluta alla competenza
esclusiva del Tribunale amministrativo del Lazio, sede di Roma.
In secondo luogo, si
stigmatizza che «lo spostamento della competenza», operato dalle norme
censurate, sarebbe «irrazionalmente solo parziale», giacché riguarderebbe «le
ordinanze ed i consequenziali provvedimenti commissariali, ma non i decreti
governativi che dichiarano lo stato di emergenza» (r.o.
n. 394 del 2006; in senso sostanzialmente conforme anche r.o.
n. 129 del 2006).
Infine, si denuncia l’irragionevolezza
della scelta compiuta dal legislatore anche sotto ulteriori profili.
Si osserva, infatti, che –
ove si ritenesse di individuare la ratio legis «facendo ricorso all’argomento che il tribunale
locale sarebbe troppo sensibile ed esposto alle tensioni che possono sorgere
presso la popolazione locale, derivanti dagli eventi emergenziali» – si
dovrebbe riconoscere la necessità di soddisfare tale esigenza attraverso la
previsione di «rimedi di carattere non generale ed assoluto», bensì con
soluzioni «da applicarsi caso per caso ed in relazione a situazioni
contingenti», come, ad esempio, accadrebbe se lo spostamento di competenza
«fosse concepito e disciplinato similmente alla fattispecie di rimessione del
processo» penale (r.o. n. 394 del 2006).
Si sottolinea, poi, che la
scelta di derogare al normale criterio di riparto della competenza per
territorio innanzi al giudice amministrativo di primo grado stabilito dagli
artt. 2 e 3 della legge n. 1034 del 1971, sarebbe del tutto ingiustificata, in
quanto le situazioni di emergenza, dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1,
della legge n. 225 del 1992, si caratterizzano nella quasi totalità dei casi
per essere territorialmente delimitate.
Infine, il Tribunale
amministrativo regionale del Veneto (r.o. n. 394 del
2006) individua ulteriori profili di irragionevolezza intrinseca della
censurata disciplina, ponendo in rilevo la circostanza che il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio (ai sensi del censurato comma 2-quater) «non assume soltanto una nuova competenza
funzionale esclusiva di primo grado, ma sembra configurarsi anche come vero e
proprio giudice di appello sulle decisioni cautelari di un tribunale
periferico, potendo "modificare” o "revocare” le misure cautelari da questo
concesse».
A tale censura, il Tribunale
del Veneto aggiunge un’ulteriore questione di legittimità costituzionale ai
sensi dell’art. 3 Cost., contestando la scelta
legislativa di imporre, alla pronuncia declinatoria della competenza, la forma
della sentenza succintamente motivata ex
art. 26 della legge n. 1034 del 1971 (giacchè la sua
adozione rientra, invece, nella discrezionalità del giudice), disponendo,
inoltre, la contemporanea applicazione dei commi secondo e seguenti dell’art.
23-bis della stessa legge, «che
riguardano un diverso e più complesso modo di procedere in giudizio».
4.1.2.¾ Ai suddetti rilievi si affianca la censura di
violazione dell’art. 125 della Costituzione, articolata sulla base di ulteriori
argomenti.
Si deduce, infatti, che le norme
censurate contravverrebbero alla «articolazione su base regionale degli organi
statali di giustizia amministrativa di primo grado», regola che – enunciata per
«agevolare il ricorso delle parti alla giustizia amministrativa, in coerenza e
continuità logica con i principi desumibili dall’art. 24 della Costituzione» (r.o. n. 336 del 2006), nonché dallo stesso art. 113 della
Carta fondamentale, che esige una distribuzione, sul territorio, degli organi
di giustizia amministrativa «secondo un criterio di vicinanza e di
accessibilità per il cittadino» (r.o. n. 178 del
2007) – «non ha ragione di subire deroghe nella materia di cui trattasi, in cui
le singole situazioni di emergenza» presentano «rilievo spiccatamente locale» (r.o. n. 293 del 2006), venendo, difatti, in evidenza
l’impugnativa di atti amministrativi «destinati ad esaurire i propri effetti "in loco”» (r.o.
n. 43 del 2007). La disciplina contestata, dunque, darebbe vita ad un sistema
di distribuzione delle controversie «che va ben oltre l’attuale criterio di
riparto delle competenze basato sull’efficacia (regionale o ultraregionale) dei
provvedimenti delle autorità centrali dello Stato» (r.o.
n. 394 del 2006), in forza di un sistema che non potrebbe essere neppure
giustificato in considerazione «della eventuale maggiore rilevanza
dell’interesse sotteso ai provvedimenti adottati», poiché esso violerebbe il
principio secondo il quale i diversi Tribunali amministrativi regionali sono
posti «su un piano paritario» (r.o. n. 129 del 2006).
5.¾ Così precisato l’insieme delle censure formulate ai
sensi degli artt. 3 e 125 della Costituzione, le relative questioni di
costituzionalità non sono fondate.
5.1.¾ Deve premettersi che si presenta priva di fondamento
la censura di violazione dell’art. 3 Cost., formulata
ipotizzando, innanzitutto, la disparità di trattamento tra i «destinatari delle
ordinanze adottate dagli organi governativi o dai commissari delegati, nelle
situazioni di dichiarata emergenza, aventi efficacia limitata al territorio di
una Regione, rispetto ai destinatari dei provvedimenti aventi lo stesso ambito
di efficacia, adottati – in genere – dagli organi esponenziali di enti
territoriali regionali o sub
regionali».
Difatti, proprio l’avvenuta
dichiarazione della situazione di emergenza, ex art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992, costituisce
l’elemento caratterizzante la fattispecie oggetto della censurata disciplina,
impedendo, così, di ravvisare quel profilo di omogeneità tra tale ipotesi e
quella – con cui essa viene posta a confronto – dell’ordinario esercizio dei
poteri amministrativi; profilo che rappresenta, invece, il presupposto
indispensabile ai fini della loro valutazione comparativa.
E deve anche osservarsi – ad
ulteriore conferma dell’eterogeneità delle fattispecie che si pretenderebbe,
viceversa, di porre a confronto – che, indipendentemente dal loro (più o meno
delimitato) ambito territoriale di efficacia, i provvedimenti posti in essere
dai commissari delegati sono atti dell’amministrazione centrale dello Stato (in
quanto emessi da organi che operano come longa
manus del Governo) finalizzati a soddisfare
interessi che trascendono quelli delle comunità locali coinvolte dalle singole
situazioni di emergenza, e ciò in ragione tanto della rilevanza delle stesse,
quanto della straordinarietà dei poteri necessari per farvi fronte.
Difatti, la dichiarazione
della situazione di emergenza – ai sensi del citato art. 5, comma 1, della
legge n. 225 del 1992 – ha quale suo presupposto il verificarsi di taluno degli
eventi «di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c)», della medesima
legge, e cioè, non quelli «naturali o connessi con l’attività dell’uomo»
suscettibili di «essere fronteggiati mediante interventi attuabili dai singoli
enti e amministrazioni competenti in via ordinaria» (o attraverso un
coordinamento degli stessi), bensì solo «calamità naturali, catastrofi o altri
eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi
e poteri straordinari». Circostanza, questa, che – come si vedrà più avanti – assume
rilievo decisivo anche nella valutazione, della quale questa Corte pure risulta
essere investita dai giudici rimettenti, in ordine alla intrinseca
ragionevolezza della complessiva disciplina processuale introdotta dalle
censurate disposizioni.
5.2.¾ La violazione del medesimo art. 3 della Costituzione
non può essere ravvisata nemmeno per il carattere (asseritamente)
solo parziale della competenza del Tribunale amministrativo regionale del
Lazio, e cioè per il fatto che essa riguarderebbe le ordinanze ed i
consequenziali provvedimenti commissariali, ma non anche i decreti governativi
che dichiarano lo stato di emergenza.
Al riguardo, va innanzitutto
rilevato che i giudici rimettenti, i quali suggeriscono tale lettura delle
norme censurate, non si sono posti alla ricerca di una differente
interpretazione che – sulla base, peraltro, della semplice lettera della norma
– consenta di ritenere sottoposta alla competenza di quel Tribunale anche
l’impugnativa dei provvedimenti dichiarativi dello stato di emergenza,
qualunque sia il loro ambito territoriale di efficacia, attesa, tra l’altro, la
loro natura di atti presupposti.
5.3.¾ Quanto, invece, alle censure, pure proposte con
riferimento all’art. 3 Cost., ma sotto il profilo del
difetto di ragionevolezza, preliminarmente ad ogni altro rilievo questa Corte
deve ribadire quanto già in passato ripetutamente affermato, e cioè che spetta
«al legislatore un’ampia potestà discrezionale nella conformazione degli
istituti processuali, col solo limite della non irrazionale predisposizione di
strumenti di tutela, pur se tra loro differenziati» (così, da ultimo, la sentenza n. 341 del
2006); discrezionalità di cui il legislatore fruisce anche «nella disciplina
della competenza» (così, nuovamente, la citata sentenza n. 341 del
2006 e, nello stesso senso, tra le tante, anche la sentenza n. 206 del
2004).
5.3.1.¾ Ciò premesso, è innegabile che la contestata
disciplina – tanto in ragione del suo carattere derogatorio dell’ordinario
sistema (delineato dagli artt. 2 e 3 della già citata legge n. 1034 del 1971)
di ripartizione della competenza tra i diversi organi di primo grado della
giurisdizione amministrativa, quanto per il fatto di costituire solo l’ultimo
esempio, in ordine di tempo, di una serie di ripetuti interventi legislativi
che hanno concentrato presso il Tribunale amministrativo romano interi settori
del contenzioso nei confronti della pubblica amministrazione – fa sorgere un
delicato problema di rapporto con l’articolazione su base regionale, ex art. 125 Cost.,
del sistema di giustizia amministrativa. Di qui, la necessità di un criterio
rigoroso in ordine alla verifica della non manifesta irragionevolezza della
disciplina processuale in esame.
Sotto questo profilo, più
che nell’«esigenza largamente avvertita circa l’uniformità della giurisprudenza
fin dalle pronunce di primo grado» (che questa Corte, con la sentenza n. 189 del
1992, reputò di individuare – unitamente alla peculiare posizione
costituzionale del Consiglio superiore della magistratura – quale motivo idoneo
a giustificare la prima, in ordine di tempo, delle deroghe introdotte dal
legislatore all’ordinario sistema di ripartizione della competenza tra i
diversi tribunali amministrativi regionali), la disciplina processuale a regime
cui ha dato vita, in particolare, il comma 2-bis del contestato art. 3, trova la sua ragion d’essere proprio
nella straordinarietà delle situazioni di emergenza (e nella eccezionalità dei
poteri occorrenti per farvi fronte) che costituiscono il presupposto dei provvedimenti
amministrativi, l’impugnativa dei quali forma l’oggetto dei giudizi devoluti
alla competenza esclusiva del Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
In questa prospettiva,
pertanto, deve essere ribadito quanto già affermato dalla giurisprudenza
costituzionale, cioè che le situazioni di emergenza, prese in considerazione
dall’art. 5 della legge n. 225 del 1992, consentono l’esercizio di poteri
derogatori della normativa primaria solo a condizione che si tratti «di deroghe
temporalmente delimitate, non anche di abrogazione o modifica di norme vigenti»
(ex multis,
sentenza n. 127
del 1995), e sempre che tali poteri «siano ben definiti nel contenuto, nei
tempi, nelle modalità di esercizio» (sentenza n. 418 del
1992), non potendo, in particolare, il loro impiego realizzarsi «senza che
sia specificato il nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le norme
di cui si consente la temporanea sospensione» (così, nuovamente, la sentenza n. 127 del
1995).
È, dunque, nel peculiare
regime che connota le situazioni di emergenza – e particolarmente quelle di cui
alla lettera c) del comma 1 dell’art.
2 della legge n. 225 del 1992 – che deve essere, in definitiva, ricercata la ratio che ispira la disciplina
processuale in esame.
Se è vero, infatti, che
costituisce una precipua competenza del Governo – come ribadito da questa Corte
nella sentenza
n. 284 del 2006 – quella di «disciplinare gli eventi di natura
straordinaria di cui al citato art. 2, comma 1, lettera c)» (tale
competenza sostanziandosi, propriamente, nel potere del Governo di deliberare e
revocare lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione
territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi),
decisiva appare la constatazione «che tali funzioni
hanno rilievo nazionale, data la sussistenza di esigenze di unitarietà,
coordinamento e direzione».
Analogo rilievo, pertanto,
contraddistingue anche i provvedimenti attraverso i quali le gestioni
commissariali – data la già rilevata loro natura di longa manus del Governo – pongono in
essere le misure idonee a fronteggiare le situazioni di emergenza, sicché è
proprio il carattere ultraregionale delle stesse – indipendentemente dal
rispettivo ambito geografico d’incidenza – a giustificare la concentrazione del
relativo contenzioso presso il Tribunale amministrativo regionale del Lazio.
Alla luce delle
considerazioni che precedono deve, quindi, ritenersi che ci si trovi, nella
specie, di fronte ad un esercizio non manifestamente irragionevole della discrezionalità
legislativa, ciò che esclude la possibilità di ravvisare la paventata
violazione dell’art. 3 della Costituzione.
5.3.2.¾ Questa conclusione deve essere vieppiù confermata
anche in relazione alla censura specificamente sollevata dal Tribunale
amministrativo regionale del Veneto, in riferimento alla scelta del legislatore
di richiamare il peculiare regime processuale di cui agli artt. 23-bis e 26 della legge n. 1034 del 1971.
A prescindere, difatti,
dalla circostanza – che potrebbe rilevare sotto il profilo del difetto di
ammissibilità, in parte qua, della
sollevata questione – che è dubbio se entrambe le norme sopra indicate trovino
effettivamente applicazione sia nel processo radicatosi innanzi al giudice
territorialmente incompetente, sia in quello destinato ad incardinarsi innanzi
al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, deve ribadirsi come la
previsione di forme celeri per la definizione delle controversie amministrative
non possa considerarsi, di per sé, costituzionalmente illegittima, alla luce
delle peculiarità che connotano le fattispecie in esame.
Questa Corte, difatti, in
passato ha affermato – con riferimento a norme relative alla riduzione dei
termini – che «l’ordinamento già conosce numerose leggi che, avvertendo
l’esigenza di una rapida definizione del giudizio, in particolari e delicate
materie, e di tempestiva salvaguardia dei relativi interessi (individuali e
collettivi) coinvolti, […] prevedono la riduzione a metà di tutti i termini
processuali», ed ha, pertanto, ritenuto che una scelta legislativa siffatta –
come, più in generale, tutte quelle a favore di modalità celeri di definizione
del giudizio amministrativo – non siano incompatibili con il dettato
costituzionale quando, come nella specie, venga assicurato il «rispetto di
alcuni valori processuali, tra cui, in primo luogo, l’integrità del
contraddittorio e la completezza e sufficienza del quadro probatorio ai fini
della sentenza da adottare» (sentenza n. 427 del
1999).
5.4.¾ Del pari non fondata è la censura di violazione
dell’art. 125 Cost.
Giova, in proposito,
ribadire che «l’attribuzione della competenza al Tribunale amministrativo
regionale del Lazio, anziché ai diversi Tribunali amministrativi regionali
dislocati su tutto il territorio nazionale, non altera il sistema di giustizia
amministrativa», e dunque non viola l’art. 125 Cost.
(sentenza n. 189
del 1992); ciò in special modo quando esistono ragioni idonee a
giustificare la deroga agli ordinari criteri di ripartizione della competenza
tra gli organi di primo grado della giustizia amministrativa.
6.¾ Non fondate sono anche le questioni di costituzionalità – relative ancora alla disciplina a regime, introdotta dai predetti commi 2-bis e 2-ter del censurato art. 3 – sollevate con riferimento agli artt. 24, 111 e 113 Cost.
Le censure a tal riguardo prospettate dai rimettenti tendono a sottolineare, rispettivamente, l’aggravio organizzativo e di costi, a carico dei soggetti ricorrenti, che deriverebbe dalla necessità per essi di adire unicamente il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, ovvero l’influenza negativa (o addirittura il vulnus al principio del giusto processo, conseguente alla creazione di una sorta di gerarchia tra quello del Lazio e gli altri tribunali amministrativi regionali) che la scelta compiuta dal legislatore, di disporre la concentrazione di tutte le controversie de quibus presso lo stesso giudice, eserciterebbe sui tempi dei processi, ed infine la introduzione di una (peraltro non meglio precisata) «differenziazione limitativa del regime ordinario di impugnabilità degli atti» della pubblica amministrazione.
A parte, infatti, il rilievo – che vale segnatamente per le doglianze formulate con riferimento all’art. 111 Cost. (in particolare laddove si lamenta, nella sostanza, la violazione di un preteso principio di pari dignità dei tribunali amministrativi regionali) – che tali censure non sono dotate di una propria autonomia rispetto all’ipotizzata violazione dell’art. 125 della Carta fondamentale, decisiva è la constatazione che nessuno dei lamentati inconvenienti costituisce un «grave ostacolo» (sentenza n. 50 del 2006) al conseguimento della tutela giurisdizionale.
Ciò in quanto, nella specie, non ricorre quella condizione di
«sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito
dall’art. 24 della Costituzione» (così, da ultimo, la sentenza n. 266 del
2006), che è suscettibile di integrare la violazione del citato parametro
costituzionale. Né, d’altra parte, in senso contrario può richiamarsi – come fanno,
invece, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sezione staccata
di Catania (r.o. n. 293 del 2006), ed il Consiglio di
giustizia amministrativa per
La
concentrazione presso il Tribunale amministrativo regionale del Lazio del
contenzioso de quo neppure ha
l’effetto di rendere «oltremodo
difficoltosa» la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica
amministrazione, evenienza che potrebbe dar luogo al contrasto con l’art. 113 Cost.
(ordinanza n.
382 e n. 213
del 2005), in quanto si tratta di una norma il cui disposto, oltretutto,
«interpretato nel suo complesso», non implica affatto che esso «intenda assicurare in ogni caso contro
l’atto amministrativo una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile,
essendo invece rimesso al legislatore ordinario, per l’esplicito disposto del
terzo comma, di regolare i modi e l’efficacia di detta tutela» (sentenza n. 100 del
1987). Affermazione, quest’ultima, che può valere anche per i giudizi a quibus, se
si considera che allora essa è stata posta a fondamento, non già di un semplice
mutamento nella disciplina della competenza a giudicare provvedimenti adottati
in situazioni di emergenza (ciò di cui si discute ora), ma addirittura della
previsione di limitazioni allo stesso sindacato giurisdizionale.
7.¾ Quanto, poi, alla censura formulata con riferimento
all’art. 23 dello statuto della Regione Siciliana, basata sull’assunto che
anche l’impugnativa dei «provvedimenti adottati da organi dello Stato centrale,
nelle situazioni di emergenza» rientra tra quegli «affari concernenti la
Regione» che, ai sensi della predetta disposizione statutaria, sono devoluti,
in sede di appello, alla competenza del Consiglio di giustizia amministrativa
per la Regione Siciliana, anch’essa si presenta non fondata.
Questa Corte ha già
affermato in passato che «l’attribuzione della competenza al Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, anziché ai diversi Tribunali amministrativi
regionali dislocati su tutto il territorio nazionale», non viola l’art. 23
dello statuto siciliano, giacché esso «stabilisce soltanto che gli organi
giurisdizionali centrali debbano avere in Sicilia le sezioni per gli affari
concernenti la regione: norma in esecuzione della quale è stato a suo tempo
istituito il Consiglio di Giustizia Amministrativa» (sentenza n. 189 del
1992).
Sebbene, dunque, tale norma
statutaria rifletta «un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella
storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli
organi giurisdizionali centrali» (sentenza n. 316 del
2004), essa – anche in ragione del suo riferimento ad una nozione in
definitiva elastica («affari
concernenti
8.¾ Neppure fondata è la questione sollevata con
riferimento all’applicazione in via transitoria (comma 2-quater) della disciplina recata dai predetti commi 2-bis e 2-ter dell’art.
Se è vero, infatti, che alla
nozione di giudice naturale – la quale, contrariamente a quanto assume il
Tribunale amministrativo regionale della Campania (r.o.
n. 43 del 2007), «corrisponde a quella di "giudice precostituito per legge”» (sentenza n. 460 del
1994; nello stesso senso, sentenze n. 72 del
1976 e n. 29
del 1958) – non è affatto estranea «la ripartizione della competenza
territoriale tra giudici, dettata da normativa nel tempo anteriore alla
istituzione del giudizio» (da ultimo, sentenza n. 41 del
2006), deve notarsi che la giurisprudenza costituzionale – diversamente da
quanto ipotizzano i rimettenti – non reputa necessariamente in contrasto con
l’art. 25, primo comma, Cost. gli interventi
legislativi modificativi della competenza aventi incidenza anche sui processi
in corso.
Ha affermato, difatti,
questa Corte che il principio costituzionale del giudice naturale «viene
rispettato» allorché «la legge, sia pure con effetto anche sui processi in
corso, modifica in generale i presupposti o i criteri in base ai quali deve
essere individuato il giudice competente: in questo caso, infatti, lo
spostamento della competenza dall’uno all’altro ufficio giudiziario non avviene
in conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in
vista di una determinata o di determinate controversie, ma per effetto di un
nuovo ordinamento – e, dunque, della designazione di un nuovo giudice
"naturale” – che il legislatore, nell’esercizio del suo insindacabile potere di
merito, sostituisce a quello vigente» (sentenza n. 56 del
1967; nello stesso senso, sentenze n. 207 del
1987 e n. 72
del 1976).
9.¾ Restano da esaminare le questioni di costituzionalità
sollevate, in via gradata, dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione
Siciliana (r.o. n. 266 del 2006) prima con
riferimento a parte del comma 2-bis e
poi al solo comma 2-quater del
censurato art. 3.
9.1.¾ In particolare, il rimettente, subordinatamente a
quanto dedotto in via principale in ordine alla denunciata illegittimità
costituzionale del comma 2-bis nel
suo complesso, assume che lo stesso sarebbe comunque costituzionalmente
illegittimo limitatamente alla parte in cui sottrae alla competenza dei
Tribunali amministrativi regionali locali l’impugnativa dei «consequenziali
provvedimenti commissariali».
La violazione degli artt. 3,
24 e 125 Cost., nonché dell’art. 23 dello statuto di
autonomia è dedotta sotto il profilo secondo cui, ipotizzandosi il caso – quale
è quello, in effetti, oggetto del giudizio a
quo – in cui il giudice amministrativo risulti investito dell’impugnativa
dei «soli provvedimenti attuativi commissariali», allorché gli stessi
presentino «carattere (soggettivo e oggettivo) esclusivamente locale», e dunque
un’efficacia territorialmente circoscritta alla sola Regione, non ricorrerebbe
alcun nesso logico tra la controversia e la competenza esclusiva del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio.
9.2.¾ A ciò è da aggiungere che, in via ulteriormente
subordinata, è dedotta l’illegittimità costituzionale – per contrasto con gli
artt. 24 e 25 Cost. – del solo comma 2-quater, sul presupposto che l’estensione
della nuova disciplina anche ai «processi in corso» si ponga in contrasto sia
con il principio del giudice naturale precostituito per legge, sia con «il
principio della difesa», che implica «il diritto del cittadino ad ottenere una
decisione di merito senza onerose reiterazioni». Nella specie, invece, si
assiste – secondo la prospettazione del rimettente – ad una estinzione del
giudizio originariamente incardinato, con la necessità della riproposizione del
ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, «al quale
vanno altresì presentate eventuali istanze di revoca o modifica delle misure
cautelari in precedenza disposte».
La suddetta censura si
riallaccia a quelle sollevate anche da altri giudici rimettenti, ora evocando
il medesimo parametro di cui all’art. 25, primo comma, Cost.
(è il caso del Tribunale amministrativo regionale palermitano), ora facendo
riferimento, invece, al principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. (secondo la
prospettazione seguita dalla sezione catanese di quello stesso Tribunale),
ovvero denunciando – come fa il rimettente veneziano – il presunto difetto
di ragionevolezza del predetto comma 2-quater, giacché grazie ad esso il
Tribunale amministrativo regionale del Lazio «non assume soltanto una nuova
competenza funzionale esclusiva di primo grado, ma sembra configurarsi anche
come vero e proprio giudice di appello sulle decisioni cautelari di un tribunale
periferico, potendo "modificare” o "revocare” le misure cautelari da questo
concesse».
10.¾ Nessuna di tali ulteriori questioni è fondata.
10.1.¾ Quanto, infatti, alla pretesa – cui mira la richiesta
declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua del predetto comma 2-bis – di sottrarre alla competenza del Tribunale amministrativo
regionale del Lazio l’impugnativa dei provvedimenti consequenziali adottati dal
commissario, risulta evidente come la scelta compiuta dal legislatore di accomunare
tali atti alle ordinanze che ne costituiscono il presupposto risponda alla (già
segnalata) non irragionevole esigenza di assicurare – per i motivi in
precedenza esposti – la concentrazione presso lo stesso giudice di tutte le
controversie che investano le modalità di esercizio dei poteri emergenziali, e
ciò indipendentemente dall’ambito territoriale di efficacia, più o meno
delimitato, dei provvedimenti che ne sono estrinsecazione.
10.2.¾ In relazione, infine, alla censura che investe la
sola disciplina transitoria, prevista dal comma 2-quater, debbono innanzitutto richiamarsi le considerazioni, già
innanzi svolte, tese ad evidenziare come il previsto meccanismo di translatio iudicii non
rappresenti, né comporti, un «grave ostacolo» all’esercizio del diritto di
difesa, né determini la designazione del giudice compiuta a posteriori «in relazione ad una determinata controversia»; deve,
quindi, escludersi la violazione degli artt. 24 e 25, primo comma, Cost.
Neanche, d’altra parte, può
ipotizzarsi il contrasto con tali parametri costituzionali – ovvero con gli
artt. 3 e 111 Cost., come assumono, rispettivamente,
i Tribunali veneziano e catanese – in ragione del fatto che il Tribunale
amministrativo regionale del Lazio sarebbe necessariamente chiamato a decidere
– donde la prospettata duplicazione di attività processuali – in ordine alla
«revoca o modifica delle misure cautelari in precedenza disposte».
Tale interpretazione,
difatti, non trova conforto nello stesso tenore letterale della norma.
Difatti, giova sottolineare
che, ai sensi del censurato comma 2-quater,
l’efficacia delle misure cautelari adottate da un tribunale amministrativo
diverso da quello di cui al comma 2-bis permane fino alla loro modifica
o revoca da parte del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in
Roma, cui la parte interessata può riproporre il ricorso.
Il giudice rimettente
avrebbe dovuto valutare la possibilità di interpretare la norma in conformità
con quanto previsto dall’art. 21, tredicesimo comma, della legge n. 1034 del
1971; nel senso cioè che l’efficacia del provvedimento cautelare adottato dal
Tribunale locale sia destinata a venire meno, in tutto o in parte, non in forza
di una revisione da compiersi necessariamente da parte del Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, il quale in tal modo assumerebbe una
anomala funzione di giudice di secondo grado rispetto a provvedimenti emessi da
un organo giurisdizionale equiordinato, bensì in
forza di una decisione da prendere sulla base degli ordinari presupposti previsti
dall’ordinamento del processo amministrativo per la modificazione o revoca di
precedenti misure cautelari già concesse.
Sotto questo profilo,
pertanto, la norma – che, in definitiva, ribadisce una regola già presente nel
sistema – si giustifica in ragione dell’esigenza di chiarire che se,
ordinariamente, il giudice abilitato a revocare o modificare il provvedimento
cautelare è quello che lo ha adottato, nei casi oggetto dei giudizi a quibus –
attesa la sopravvenuta declaratoria di incompetenza da parte dei Tribunali
inizialmente aditi – tale potestà decisoria non può che essere esercitata dal
giudice divenuto successivamente competente.
per questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 3, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure
straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella
regione Campania), aggiunti dalla legge di conversione 27 gennaio 2006, n. 21,
sollevate – in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 24, 25, 111, 113 e 125
Cost., e all’art. 23 del regio decreto legislativo 15
maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello
statuto della Regione siciliana), convertito dalla legge costituzionale
26 febbraio 1948, n. 2 – dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia,
sede centrale e sezione staccata di Catania, dal Consiglio di giustizia
amministrativa per
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 2-bis, del
decreto-legge n. 245 del 2005, aggiunto dalla legge di conversione n. 21 del
2006, questione sollevata limitatamente alle parole «e dei consequenziali
provvedimenti commissariali» – con riferimento agli artt. 3, 24 e 125 della
Costituzione e all’art. 23 dello statuto della Regione Siciliana – dal
Consiglio di giustizia amministrativa per
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 2-quater, del
decreto-legge n. 245 del 2005, aggiunto dalla legge di conversione n. 21 del
2006, sollevata – con riferimento agli artt. 24 e 25, primo comma, della
Costituzione – dal Consiglio di giustizia amministrativa per
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2007.
F.to:
Maria
Depositata in