SENTENZA N. 89
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 297, comma 3, del codice di procedura penale promosso con ordinanza emessa il 13 settembre 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, nel procedimento penale a carico di Sarlo Mario Pasquale ed altri, iscritta al n. 743 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1995.
Visti gli atti di costituzione di Sarlo Mario e di Schettini Antonio, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 20 febbraio 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;
udito l'Avvocato dello Stato Paolo Di Tarsia di Belmonte per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. -- Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, chiamato a provvedere su istanze di scarcerazione per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare - e più precisamente per inefficacia sopravvenuta della misura della custodia in carcere a seguito della entrata in vigore dell'art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 - ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nel testo sostituito ad opera del citato art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), "nella parte in cui, per l'ipotesi d'una pluralità di ordinanze restrittive per fatti diversi, è preveduta la decorrenza del termine massimo della custodia cautelare, per tutti i reati in rapporto di connessione qualificata, a far tempo dalla data di più remota contestazione, anche nei casi in cui la notizia dei fatti di successiva contestazione non risultasse dagli atti all'epoca del primo provvedimento". In subordine, l'ordinanza prospetta l'illegittimità costituzionale della medesima norma "almeno" nella parte in cui viene esclusa la rilevanza, ai fini di diversificazione dei termini di decorrenza, della "verifica positiva di tempestività" delle nuove contestazioni cautelari anche fuori dai casi in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il giudizio relativamente ai fatti di più remota contestazione.
Osserva il giudice a quo che la nuova disposizione, modificando radicalmente il consolidato e risalente orientamento giurisprudenziale che poneva a base del fenomeno dei provvedimenti custodiali "a catena" ipotesi di artificioso ritardo nella contestazione dei fatti, non richiede più, per la retrodatazione degli effetti della custodia cautelare, che la contestazione più recente sia tardiva. In base, infatti, alla legge che ha modificato l'art. 297 comma 3, cod. proc. pen., la retrodatazione sarà impedita dalla prova che la conoscenza dei fatti di nuova contestazione è stata tardiva, ma solo a condizione che per i fatti di più remota contestazione sia già intervenuto il rinvio a giudizio; sicché, rileva il giudice a quo, nel corso delle indagini preliminari la decorrenza del termine va fissata al giorno della prima cattura anche se per i nuovi reati la tardiva notitia criminis sia stata acquisita in epoca molto successiva. Se, dunque, la funzione della norma è quella di precludere le contestazioni a catena, il legislatore, osserva il rimettente, "è andato ben oltre, privando di ogni rilevanza il dato scriminante dello iato tra possibilità ed effettività della nuova contestazione". La nuova normativa, pertanto, parificherebbe in modo irragionevole situazioni assolutamente eterogenee: e ciò, anzitutto, per quanto concerne la posizione di quanti si sarebbero dovuti avvalere di una nuova contestazione più tempestiva e non intervenuta per inerzia della autorità giudiziaria, rispetto alla posizione di indagati per i quali la tardività della nuova contestazione dipenda, invece, esclusivamente dalla tardività della relativa acquisizione indiziaria. Al tempo stesso, soggiunge il giudice a quo, si diversifica la situazione di soggetti che, ugualmente attinti da contestazioni tempestive in rapporto a nuove emergenze, abbiano visto o meno disporre il giudizio in relazione al reato di più remota contestazione: una disparità, questa, che viene fatta dipendere da un evento (il rinvio a giudizio) eterogeneo rispetto alle esigenze cautelari e che è frutto della "iniziativa incontrollabile" del pubblico ministero e del giudice.
La novella dell'agosto 1995, dunque, da un lato dissolverebbe del tutto la relazione tra gravità del fatto e durata del trattamento cautelare, almeno nelle ipotesi in cui il primo provvedimento cautelare riguardi un fatto di gravità pari o minore rispetto a quello oggetto della successiva contestazione, e, dall'altro, scinderebbe anche "la relazione tra durata della custodia e qualità effettiva e concreta delle necessità cautelari", dando così vita, sotto entrambi i profili, ad una serie di conseguenze che il giudice a quo enumera come ipotesi esemplificative di "abnormità" e "paradosso".
2. -- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Dopo una ampia disamina della ordinanza di rimessione e della evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha attinto il tema delle cosiddette contestazioni a catena, l'Avvocatura osserva che la scelta del legislatore è stata quella di unificare la decorrenza della custodia cautelare quando si sia in presenza di "operazioni criminose che, quantunque integrative di diverse fattispecie di reato, si presentano tuttavia nel loro complesso ontologicamente unitarie". Tutto ciò, osserva l'Avvocatura, per evitare una disparità di trattamento opposta a quella denunciata dal giudice a quo, nel senso che il regime risulterebbe differenziato "a seconda che le notizie di reato relative ai fatti avvinti da connessione qualificata emergano tutte contemporaneamente (donde la decorrenza di un solo termine) ovvero in momenti successivi ed eventualmente assai distanziati temporalmente tra loro (donde l'allungamento della durata complessiva della custodia pur a fronte della cennata unitarietà ontologica della manifestazione criminosa)".
3. -- Nel giudizio si è costituita, depositando "deduzioni", la parte privata Sarlo Mario. In tale atto si richiede pregiudizialmente declaratoria di inammissibilità in quanto, si osserva, l'eventuale dichiarazione di incostituzionalità non potrebbe determinare nel processo a quo l'applicazione della norma "sfavorevole", ostandovi la previsione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Inoltre l'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale sarebbe stata usata soltanto come strumento per non procedere alla scarcerazione dell'imputato, venendosi così a porre in essere una fictio litis, che priverebbe la questione del requisito della rilevanza. Nel merito si contesta la fondatezza delle censure sul presupposto che il legislatore avrebbe nella specie effettuato una comparazione tra i contrapposti valori che il tema coinvolge.
Considerato in diritto
1. -- Investito da talune richieste di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, nel testo sostituito ad opera dell'art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa). In via principale, il giudice a quo chiede dichiararsi l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede la decorrenza del termine massimo di custodia cautelare, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative della misura per fatti connessi, a far tempo dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza, anche nel caso in cui la notizia dei fatti oggetto del successivo provvedimento coercitivo non risultasse dagli atti all'epoca del primo intervento cautelare. In subordine, si richiede declaratoria di illegittimità costituzionale della stessa disposizione nella parte in cui esclude qualsiasi rilevanza della tempestività della nuova contestazione agli effetti della diversa decorrenza dei termini di custodia cautelare.
Osserva, infatti, il rimettente che il legislatore del 1995, superando l'elaborazione giurisprudenziale formatasi in materia di "contestazioni a catena" e dettata dal chiaro intento di impedire una indebita protrazione dei termini di custodia cautelare attraverso una artificiosa diluizione nel tempo dei provvedimenti custodiali, ha eliminato in radice qualsiasi rilievo alla distinzione "tra possibilità ed effettività della nuova contestazione". Così operando, rileva il giudice a quo, il legislatore ha assegnato identità di disciplina a situazioni fra loro assai divergenti, giacché si stabilisce l'identico regime di decorrenza della misura sia nell'ipotesi di artificioso ritardo della nuova contestazione cautelare, sia nel caso in cui il successivo provvedimento sia stato tempestivo in rapporto al momento in cui il fatto è stato accertato. Nel contempo, osserva ancora il rimettente, si distingue irragionevolmente la posizione dei soggetti investiti da nuovi provvedimenti cautelari tempestivamente disposti alla luce di elementi sopravvenuti, a seconda che, per i fatti di più remota contestazione, sia stato o meno disposto il rinvio a giudizio: una eventualità, questa, che a parere del giudice a quo si appalesa del tutto inidonea a giustificare il diverso regime, in quanto indifferente rispetto alle esigenze cautelari e frutto della "iniziativa incontrollabile del pubblico ministero e del giudice".
La novella oggetto di impugnativa determinerebbe, dunque, a parere del rimettente, da un lato la dissoluzione del rapporto che deve sussistere tra la durata della custodia cautelare e la gravità del fatto contestato e, sotto altro profilo, "il completo abbandono di necessità cautelari attualissime", il tutto in virtù di una censurata "presunzione assoluta" di indebito prolungamento della custodia dalla quale scaturiscono conseguenze pratiche che il giudice a quo definisce abnormi.
2. -- Deve preliminarmente essere disattesa l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa della parte privata costituitasi in giudizio. Anche a voler prescindere, infatti, dalla inconferenza, nel caso di specie, del parametro dedotto a sostegno della eccezione, è assorbente il rilievo che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo ritenuto ammissibile lo scrutinio di costituzionalità delle norme penali di favore (v., da ultimo, sentenza n. 25 del 1994), sicché la questione, lungi dall'integrare una ipotesi di fictio litis, si appalesa senz'altro rilevante agli effetti della decisione che il rimettente è chiamato ad adottare alla luce della articolata prospettazione in fatto che compare nel testo della ordinanza.
3. -- Nel merito la questione è infondata.
Non può negarsi, innanzi tutto, che la innovazione introdotta dall'art. 12 della legge n. 332 del 1995, in tema di computo dei termini di durata delle misure, si sia effettivamente spinta ben oltre i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità che aveva preso in esame il patologico fenomeno delle cosiddette contestazioni a catena. Così come è evidente che le scelte operate dal legislatore possano offrire spazio alle perplessità ed ai dubbi di coerenza che il giudice a quo ha diffusamente enunciato, sia sul piano della congruità del censurato meccanismo di retrodatazione delle misure di successiva contestazione agli effetti della salvaguardia delle esigenze cautelari ad esse riferibili, sia per ciò che concerne il diverso regime che è stato invece stabilito nell'ipotesi in cui i fatti oggetto della nuova ordinanza cautelare siano stati accertati dopo il rinvio a giudizio disposto per il fatto "connesso" posto a fondamento della prima ordinanza. Ma al di là delle critiche che possono essere mosse ad una siffatta disciplina, l'unico punto che rileva in questa sede è verificare se, alla luce delle prospettate censure, la norma impugnata si presenti o meno in contrasto con il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione, sicché è proprio sulla portata di tale precetto che dovrà incentrarsi la preliminare disamina, dal momento che il giudice a quo mostra di aver annesso a quel principio una configurazione che non può essere condivisa.
Il parametro della eguaglianza, infatti, non esprime la concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l'ordinamento non può prescindere, ma definisce l'essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico. L'eguaglianza davanti alla legge, quindi, non determina affatto l'obbligo di rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti o rapporti che, sul piano fenomenico, ammettono una gamma di variabili tanto estesa quante sono le imprevedibili situazioni che in concreto possono storicamente ricorrere, ma individua il rapporto che deve funzionalmente correlare la positiva disciplina di quei fatti o rapporti al paradigma dell'armonico trattamento che ai destinatari di tale disciplina deve essere riservato, così da scongiurare l'intrusione di elementi normativi arbitrariamente discriminatorî. D'altra parte, essendo qualsiasi disciplina destinata per sua stessa natura ad introdurre regole e, dunque, a operare distinzioni, qualunque normativa positiva finisce per risultare necessariamente destinata ad introdurre nel sistema fattori di differenziazione, sicché, ove a quel parametro fosse annesso il valore di paradigma cristallizzato su base meramente "naturalistica" e dunque statica, ogni norma vi si porrebbe in evidente contrasto proprio perché chiamata a discriminare ciò che è attratto nell'alveo della relativa previsione da ciò che non lo è. Se, dunque, il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l'identica disciplina e, all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul "perché" una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo.
Il giudizio di eguaglianza, pertanto, in casi come quello sottoposto alla Corte costituzionale con l'ordinanza del giudice rimettente, è in sé un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la "causa" normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa "ragione" della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza. Ogni tessuto normativo presenta, quindi, e deve anzi presentare, una "motivazione" obiettivata nel sistema, che si manifesta come entità tipizzante del tutto avulsa dai "motivi", storicamente contingenti, che possono avere indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturirà la verifica di una carenza di "causa" o "ragione" della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potrà dirsi realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché fondato sulla "irragionevole" e per ciò stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe.
Da tutto ciò consegue che il controllo di costituzionalità, dovendosi per un verso saldare al generale principio di conservazione dei valori giuridici e restando comunque circoscritto all'interno dei confini proprî dello scrutinio di legittimità, non può travalicare in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle opzioni legislative, e ciò specie nelle ipotesi in cui la questione dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi complessi, all'interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi non può certo ritenersi frutto di soluzioni univoche. Non può quindi venire in discorso, agli effetti di un ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà che una determinata previsione normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar trasparire, giacché, ove così fosse, al controllo di legittimità costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di opportunità, per di più condotta sulla base di un etereo parametro di giustizia ed equità, al cui fondamento sta una composita selezione di valori che non spetta a questa Corte operare. Norma inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si sovrappongono, dovendosi il sindacato arrestare in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina, l'espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore è abilitato a compiere.
Così inquadrato l'ambito all'interno del quale deve svolgersi il controllo di costituzionalità della disposizione oggetto di impugnativa, risulterà allora evidente come la stessa non possa affatto ritenersi priva di "ragione" nel senso dianzi delineato. Se, infatti, nel nucleo della disciplina in questione può essere agevolmente rinvenuto l'intendimento di comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari, in perfetta aderenza con quanto previsto dall'art. 13, ultimo comma, della Carta fondamentale, e se, dunque, la "causa" della norma è quella di impedire la diluizione dei termini in ragione dell'episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari, non può certo ritenersi incoerente allo scopo e, dunque, priva di ragione, la scelta di individuare alcune ipotesi che, più di altre, presentano elementi di correlazione contenutistica di spessore tale da consentirne una valutazione unitaria agli effetti del trattamento cautelare. Allo stesso modo, una volta individuata la regola, non può neppure dirsi eterodossa rispetto ai fini perseguiti la "causa" che sostiene la deroga introdotta nel secondo periodo del comma 3 dell'art. 297 cod. proc. pen., la quale esclude l'applicabilità del principio della retrodatazione dei termini in relazione alle ordinanze per fatti "nuovi" che, malgrado connessi a quelli oggetto della primitiva contestazione, emergano soltanto dopo il rinvio a giudizio disposto per il fatto cui si riferisce l'originaria ordinanza cautelare. La individuazione del rinvio a giudizio come momento processuale che traccia la linea di displuvio agli effetti della operatività della deroga, appare, infatti, da un lato perfettamente simmetrica rispetto al regime che scandisce, nell'art. 303 cod. proc. pen., i termini massimi di durata delle misure in funzione delle diverse fasi processuali e, dall'altro, aderente all'intendimento del legislatore di impedire che, nel corso delle indagini, le contestazioni cautelari plurime per fatti connessi ammettano un diverso trattamento sul piano della durata delle misure a seconda che l'indagato riesca o meno a provare l'artificiosa diluizione nel tempo delle singole ordinanze. L'introduzione di parametri certi e predeterminati, quindi, lungi dall'assumere connotazioni di arbitrarietà, si appalesa nella specie come opzione del tutto coerente rispetto alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale e ciò con particolare riguardo alla fase delle indagini preliminari, la quale, per essere affidata alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile terreno della tempestività delle relative acquisizioni.
Posto, dunque, che è la stessa Costituzione ad imporre la previsione di termini di durata delle misure cautelari e a presupporre, quindi, l'inconferenza delle esigenze che dovessero residuare al di là di un limite temporale certo e invalicabile, ne deriva che la disciplina impugnata sfugge a qualsiasi censura di irragionevolezza, proprio perché il valore che la stessa ha inteso preservare non lascia spazio a diseguaglianze arbitrarie, avendo anzi il legislatore ricondotto il sistema all'interno di un alveo contrassegnato da garanzie di obiettività e, dunque, di effettivo rispetto del principio di eguaglianza.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 297, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 marzo 1996.