Sentenza n. 131 del 2009

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SENTENZA N. 131

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-    Francesco                  AMIRANTE                          Presidente

-    Ugo                          DE SIERVO                            Giudice

-    Paolo                        MADDALENA                             “

-    Alfonso                     QUARANTA                               “

-    Franco                      GALLO                                       “

-    Luigi                         MAZZELLA                                “

-    Sabino                       CASSESE                                   “

-    Maria Rita                 SAULLE                                     “

-    Giuseppe                   TESAURO                                   “

-    Paolo Maria               NAPOLITANO                            “

-    Giuseppe                   FRIGO                                        “

-    Alessandro                 CRISCUOLO                              “

-    Paolo                        GROSSI                                      “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, del codice di procedura penale in combinato disposto con l’art. 1917, secondo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale di Biella, nel procedimento penale a carico di Pastormerlo Francesco, con ordinanza dell’8 luglio 2008, iscritta al n. 321 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2008.

         Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 1° aprile 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio penale promosso a carico del legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, imputato, tra l’altro, del delitto di cui all’art. 590, terzo comma, del codice penale, in relazione ad un infortunio sul lavoro subito da un dipendente della medesima società, il Tribunale di Biella ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo e secondo comma, 32, primo comma, 35, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui, intervenuto il fallimento del datore di lavoro, non consente l’autorizzazione alla citazione nel processo penale, come responsabile civile, dell’assicuratore della responsabilità  civile del datore di lavoro.

Il giudice a quo deduce che l’art. 83, comma 1, cod. proc. pen., è interpretato, per costante giurisprudenza della Corte costituzionale, nel senso che, affinché un soggetto possa essere chiamato, nell’ambito del processo penale, a rispondere civilisticamente del fatto dell’imputato, è necessaria l’esistenza di una norma di legge intesa a configurare un vero e proprio obbligo di detto soggetto verso il danneggiato.

Per tale ragione, ad avviso del rimettente, non potrebbe essere accolta la richiesta, formulata nel giudizio principale dal difensore del lavoratore infortunato, costituitosi parte civile, di autorizzazione alla citazione, quale responsabile civile, dell’assicuratore della società datrice di lavoro, nel frattempo dichiarata fallita. Infatti, trattandosi di contratto di assicurazione facoltativo, allo stato attuale della legislazione il lavoratore non vanta alcun diritto nei suoi confronti, essendo l’assicuratore obbligato esclusivamente nei confronti del datore di lavoro. Di qui la rilevanza della questione: solamente l’invocata dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, cod. proc. pen., in combinato disposto con l’art. 1917, secondo comma, cod. civ., consentirebbe la citazione dell’assicuratore in maniera tale che gli effetti civili del giudicato penale possano fare stato anche nei suoi confronti, con conseguente sua condanna, nell’ipotesi di riconosciuta colpevolezza dell’imputato, a corrispondere alla parte civile una somma integralmente ristoratrice del danno ed esente dal concorso dei creditori insinuati al passivo fallimentare.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo afferma che, stante il fallimento della società datrice di lavoro, il diritto del lavoratore all’immediato ed integrale ristoro del danno è conculcato. Il lavoratore, infatti, non può esperire un’azione di condanna contro il fallimento, ostandovi l’art. 52, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), ed è costretto ad insinuare il proprio credito al passivo ed a subire il concorso di tutti i creditori, pur godendo del privilegio di cui agli artt. 2751-bis e 2767 del codice civile.

Ad avviso del rimettente, la menomazione del diritto d’azione del danneggiato consiste non tanto nell’impossibilità di esperire un’azione di condanna, quale pacificamente deve considerarsi quella autorizzanda ex art. 83, comma 1, cod. proc. pen., contro il fallimento – posto che l’opzione dell’art. 52, secondo comma, r.d. n. 267 del 1942 di tutelare la par condicio creditorum in applicazione esclusiva delle regole, e prima ancora delle forme, del Capo V del medesimo regio decreto risponde a ragionevolezza –, quanto piuttosto nell’impossibilità, in primo luogo, di sollecitare la compagnia assicuratrice al pagamento diretto e, in secondo luogo, di porre il datore di lavoro nelle condizioni di chiedere egli stesso alla compagnia assicuratrice detto pagamento, facendo così insorgere un obbligo in tal senso in capo alla medesima.

Quindi, da un lato, il danneggiato non può chiedere l’autorizzazione alla citazione del datore di lavoro come responsabile civile nel processo penale perché fallito e, una volta attivate le idonee iniziative in sede fallimentare, non può sottrarsi alla regola del concorso; dall’altro lato, né l’assicuratore può determinarsi al risarcimento diretto (perché, così facendo, violerebbe la par condicio creditorum), né il fallimento può farsi promotore di un’iniziativa in tal senso (perché ogni credito del fallito deve, in difetto di espressa statuizione derogatrice, confluire nella cassa comune per il successivo riparto).

Ad avviso del Tribunale di Biella, una simile situazione rende non manifestamente infondato il dubbio di incostituzionalità espresso dall’ordinanza 13 maggio 2008, n. 11921, della sezione lavoro della Corte di cassazione che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1917, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede l’azione diretta del  lavoratore che subisca danno da infortunio, per disparità di trattamento rispetto a situazioni analoghe nelle quali, invece, è concessa al creditore azione diretta contro il debitore del proprio debitore, con conseguente violazione dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione.

In proposito il rimettente, fatto rinvio al ragionamento svolto nella predetta ordinanza di rimessione, ricorda che l’art. 1676 del codice civile prevede l’azione diretta dei dipendenti dell’appaltatore contro il committente nei limiti del debito che quest’ultimo ha verso l’appaltatore e che gli artt. 23, comma 3, e 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), stabiliscono, rispettivamente per il contratto di somministrazione di manodopera e per il contratto di appalto, la responsabilità solidale, con il datore di lavoro, dell’utilizzatore e del committente; inoltre, in materia di responsabilità aquilana, l’art. 18, primo comma, della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), prevede l’azione diretta del danneggiato.

Il giudice a quo aggiunge che la preminenza dell’esigenza di un’integrale protezione delle possibilità satisfattorie del credito del lavoratore deve valere a maggior ragione, in virtù di quanto disposto dall’art. 35, primo comma, Cost., nel caso di infortunio sul lavoro, nel quale la lesione subita dal lavoratore riguarda, non puramente e semplicemente il diritto alla percezione delle somme di denaro dovute per l’esecuzione della prestazione lavorativa, ma il diritto al ristoro del danno all’integrità personale, bene prioritario rispetto allo stesso diritto al lavoro e comunque autonomamente protetto dall’art. 32, primo comma, della Costituzione.

Il rimettente ricorda, poi, che, con l’ordinanza prima richiamata, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale anche in riferimento agli artt. 24, primo e secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., e ritiene pienamente condivisibili le considerazioni sul principio di concentrazione delle tutele e su quello di ragionevole durata del processo svolte nella stessa ordinanza.

In particolare, in relazione al primo, il Tribunale di Biella afferma che il riconoscimento dell’azione diretta contro il responsabile civile nel processo penale consentirebbe al danneggiato di non dover moltiplicare le proprie iniziative (costituzione di parte civile nel processo penale contro l’imputato per l’ipotesi che egli ritorni in bonis e insinuazione al passivo nella procedura fallimentare), ottenendo il beneficio di una risposta giudiziaria contestuale e coordinata alla sua domanda di giustizia.

In relazione al secondo, la sopravvenienza, come nella fattispecie, del fallimento del datore di lavoro non si ritorcerebbe in danno del danneggiato, con inevitabile allungamento dei tempi della risposta giurisdizionale, potendo questi valutare l’opportunità di coltivare azione autonoma nella sede processuale più celere.

Un ulteriore profilo di contrasto con l’art. 24, primo e secondo comma, Cost., è ravvisato dal rimettente nel fatto che al danneggiato è precluso, non solo di citare nel processo penale il datore di lavoro e, per esso, il fallimento, ma anche di provocare, in seno al processo penale o alla procedura fallimentare, un’iniziativa del fallimento intesa a favorire il risarcimento diretto da parte della compagnia assicuratrice ai sensi dell’art. 1917, secondo comma, del codice civile. Ciò determina, ad avviso del giudice a quo, il disconoscimento del diritto d’azione del danneggiato, risultando costui esposto alla volontà dell’assicurato e dell’assicuratore, i quali, in ragione del tempo in cui decidono di esercitare le facoltà previste dal citato art. 1917, possono, o meno, determinare la sottrazione dell’indennizzo assicurativo al concorso dei creditori.

2. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito preliminarmente la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza o, quantomeno, di adeguata motivazione sulla rilevanza, per due ordini di ragioni.

In primo luogo, ad avviso dell’interventore, il Tribunale di Biella non ha valutato che l’assicuratore di responsabilità civile verso terzi non può comunque essere considerato un responsabile civile suscettibile di chiamata nel processo penale ai sensi dell’art. 83 cod. proc. pen., perché, a questo fine, occorre che il terzo sia obbligato per legge a rispondere del fatto dannoso dell’imputato, mentre l’obbligazione dell’assicuratore trova causa in un contratto liberamente stipulato dal datore di lavoro e dalla compagnia assicuratrice. Conseguentemente, secondo la difesa erariale, anche se venisse dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1917 cod. civ. nei sensi auspicati dall’ordinanza di rimessione, non sarebbe possibile qualificare l’assicuratore contro la responsabilità civile da infortuni sul lavoro come responsabile civile agli effetti dell’art. 83 cod. proc. pen., con conseguente irrilevanza della questione.

L’interventore sostiene, poi, che un secondo motivo di inammissibilità della questione (sempre per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza) deriva dal fatto che il giudice a quo prende le mosse dal presupposto secondo cui la sopravvenienza del fallimento impedirebbe all’assicuratore di pagare l’indennizzo direttamente al danneggiato e all’amministrazione fallimentare di ordinare all’assicuratore il pagamento diretto (come invece sarebbe previsto dall’art. 1917, secondo comma, cod. civ., qualora l’assicurato fosse in bonis), senza esplorare la possibilità di un’interpretazione alternativa, alla stregua della quale le facoltà di pagamento diretto previste dall’art. 1917, secondo comma, cod. civ., possano sopravvivere al fallimento dell’assicurato.

Nel merito, il Presidente del Consiglio dei ministri conclude per la manifesta infondatezza della questione, affermando che essa è viziata da un salto logico, poiché il rimettente, sostenendo che il problema nascerebbe dal venir meno, a seguito del fallimento del datore di lavoro, delle facoltà di pagamento diretto di cui all’art. 1917, secondo comma, cod. civ., avrebbe dovuto denunciare la predetta norma codicistica, non per il fatto che essa non preveda l’azione diretta in caso di sopravvenuto fallimento, bensì per il fatto che essa esclude, in tal caso, la sopravvivenza delle facoltà di pagamento diretto.

L’interventore nega, poi, la sussistenza della denunziata violazione dell’art. 3 Cost. in relazione alla possibilità di azione diretta concessa al danneggiato da sinistro occorso nella circolazione stradale. Infatti, tale facoltà è propria del sistema dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione stradale e costituisce la sola tutela specifica prevista dalla legge al danneggiato da tale tipo di sinistri. Invece, in materia di infortuni sul lavoro, l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori presso gli istituti pubblici a ciò preposti è retta da princìpi di per se stessi idonei ad assicurare un’adeguata tutela.

A parere del Presidente del Consiglio dei ministri, non v’è disuguaglianza costituzionalmente apprezzabile neppure in relazione all’azione diretta per le retribuzioni non pagate concessa ai dipendenti dell’appaltatore di lavori o di manodopera poi fallito verso il committente di questo. Infatti, pur tralasciando di considerare la differenza ontologica tra credito di lavoro e credito per risarcimento dei danni da infortunio sul lavoro (di per sé idonea, attesa la diversità sostanziale di situazioni, a giustificare una disciplina differenziata), si deve riconoscere che il lavoratore non dispone di garanzie sostanziali per il pagamento delle retribuzioni a fronte dell’insolvenza del datore di lavoro – se si eccettua la limitata copertura a carico dell’Istituto nazionale della previdenza sociale accordata dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 (Attuazione della direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro) – e pertanto è logico che il legislatore valorizzi le possibilità di surrogazione del terzo, ogni volta che questi si trovi in un rapporto sostanzialmente diretto con il lavoratore.

Per quel che concerne la violazione degli artt. 32 e 35 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato deduce che i sistemi di garanzia pubblica delle retribuzioni e dei risarcimenti in caso di infortuni apprestano tutta la tutela che l’ordinamento può conferire ai diritti dei lavoratori nel necessario equilibrio con altre posizioni creditorie che potrebbero essere altrettanto meritevoli di tutela e dunque rientra nella discrezionalità del legislatore decidere se introdurre, a favore dei soli lavoratori subordinati, per il danno da infortunio sul lavoro, la deroga al principio della par condicio creditorum (che costituisce un’attuazione del principio di uguaglianza) patrocinata dall’ordinanza di rimessione.

Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che non sussiste violazione degli artt. 24 e 111 Cost. in relazione alla maggiore complessità e durata processuale del fallimento rispetto all’azione ordinaria diretta. Infatti, il credito risarcitorio del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro è assistito, nell’ambito del concorso fallimentare, da privilegio generale (il che già lo differenzia da molti altri crediti). Inoltre la complessità e durata delle procedure fallimentari è un’evenienza di fatto, cui va posto rimedio su altri piani dell’ordinamento. Infine, l’irragionevole durata e complessità dei fallimenti non costituisce un fatto notorio, bensì una circostanza che può o meno sussistere nei singoli casi.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Biella dubita, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo e secondo comma, 32, primo comma, 35, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 1917, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui, intervenuto il fallimento del datore di lavoro, non consente, al lavoratore costituitosi parte civile, l’autorizzazione alla citazione nel processo penale, come responsabile civile, dell’assicuratore della responsabilità civile del datore medesimo.

Ad avviso del rimettente, l’art. 3, secondo comma, Cost., sarebbe violato perché il combinato disposto delle due norme censurate sarebbe fonte di disparità di trattamento rispetto a situazioni analoghe nelle quali è invece concessa al creditore azione diretta contro il debitore del proprio debitore (art. 1676 cod. civ., che prevede l’azione diretta in favore dei dipendenti dell’appaltatore contro il committente nei limiti del debito di quest’ultimo verso l’appaltatore; artt. 23, comma 3, e 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che prevedono, rispettivamente per il contratto di somministrazione di manodopera e per il contratto di appalto, la responsabilità solidale, con il datore di lavoro, dell’utilizzatore e del committente; art. 18, primo comma, della legge 24 dicembre 1969, n. 990, che prevede l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore).

Sussisterebbe, poi, contrasto con gli artt. 32, primo comma, e 35, primo comma, Cost., perché la preminenza dell’esigenza di un’integrale protezione delle possibilità satisfattorie del credito del lavoratore deve valere a maggior ragione nel caso di infortunio sul lavoro, nel quale la lesione subita dal lavoratore riguarda addirittura il diritto al ristoro del danno all’integrità personale, bene prioritario rispetto allo stesso diritto al lavoro e comunque autonomamente protetto dalla Costituzione.

Inoltre sarebbero lesi gli artt. 24, primo e secondo comma, e 111, primo e secondo comma, Cost., perché il mancato riconoscimento dell’azione diretta del danneggiato contro il responsabile civile nel processo penale lede il principio di concentrazione delle tutele, obbligando il danneggiato a moltiplicare le proprie iniziative giudiziali, e quello di ragionevole durata del processo, poiché la sopravvenienza, come nella fattispecie, del fallimento del datore di lavoro all’avvio del processo penale determina l’allungamento dei tempi della risposta giurisdizionale.

Infine, l’art. 24, primo e secondo comma, Cost., sarebbe violato perché al danneggiato è precluso, non solo di citare nel processo penale il datore di lavoro e, per esso, il fallimento, ma anche di provocare, in seno allo stesso processo penale o alla procedura fallimentare, un’iniziativa del fallimento intesa a favorire il risarcimento diretto da parte della compagnia assicuratrice ai sensi dell’art. 1917, secondo comma, del codice civile.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato due eccezioni di inammissibilità.

2.1. – In primo luogo, la difesa erariale sostiene che il Tribunale di Biella non avrebbe valutato che l’assicuratore della responsabilità civile verso terzi non può comunque essere considerato un responsabile civile suscettibile di chiamata nel processo penale ai sensi dell’art. 83 cod. proc. pen., perché, a questo fine, occorre che il terzo sia obbligato per legge a rispondere del fatto dannoso dell’imputato, mentre l’obbligazione dell’assicuratore trova causa in un contratto liberamente stipulato dal datore di lavoro e dalla compagnia assicuratrice.

Tale eccezione non è fondata.

Il rimettente censura proprio il fatto che, secondo l’ordinamento vigente (e, precisamente, in base al combinato disposto dell’art. 83, comma 1, cod. proc. pen. e dell’art. 1917, secondo comma, cod. civ.) non sia possibile citare come responsabile civile l’assicuratore del datore di lavoro e invoca l’intervento della Corte affinché, per mezzo di una modifica del suddetto art. 1917, una simile citazione sia resa possibile. Non sussiste, pertanto, il motivo di inammissibilità dedotto dal Presidente del Consiglio dei ministri.

2.2. – L’Avvocatura generale dello Stato, inoltre, eccepisce l’inammissibilità della questione perché il rimettente non avrebbe esplorato la possibilità di un’interpretazione alternativa dell’art. 1917, secondo comma, cod. civ., alla stregua della quale le facoltà di pagamento diretto previste da quest’ultima norma possano sopravvivere al fallimento dell’assicurato.

Neppure tale eccezione è fondata, perché il rimettente censura l’art. 1917 cod. civ. in quanto esso non prevede, una volta intervenuto il fallimento del datore di lavoro, l’azione diretta del lavoratore danneggiato contro l’assicuratore del datore di lavoro e non perché non consente che, anche dopo la dichiarazione di fallimento dell’assicurato, quest’ultimo possa chiedere all’assicuratore di pagare l’indennizzo direttamente al danneggiato ovvero l’assicuratore possa di propria iniziativa procedere a tale pagamento.

Pertanto è inutile verificare se l’art. 1917, secondo comma, cod. civ., possa essere interpretato nel senso di ritenere consentite, anche successivamente al fallimento del datore di lavoro, le possibilità di pagamento diretto già previste dalla norma medesima, perché ciò che il rimettente chiede alla Corte è la valutazione della legittimità costituzionale della mancata previsione di un’ulteriore e diversa modalità di pagamento diretto (e cioè la possibilità per il danneggiato di richiedere all’assicuratore di pagargli l’indennizzo assicurativo).

3. – Nel merito, la questione non è fondata.

3.1. – In riferimento al preteso contrasto con l’art. 3 Cost., il giudice a quo lamenta la violazione del principio di parità di trattamento assumendo, quali termini normativi di riferimento, alcune isolate disposizioni che, in difformità dalla regola generale secondo la quale solamente le parti contraenti hanno titolo per azionare i diritti scaturenti dal contratto, prevedono la possibilità per terzi di esercitare diritti derivanti da un contratto stipulato da altri soggetti.

Tuttavia questa Corte ha costantemente affermato che le norme derogatorie di princìpi generali sono inidonee a fungere da tertia comparationis (v., ad esempio, la sentenza n. 295 del 1995 e l’ordinanza n. 109 del 2006) e che la scelta di introdurre norme eccezionali è espressione di discrezionalità legislativa, non censurabile in riferimento all’art. 3 Cost., se non esercitata in modo palesemente irragionevole.

Inoltre, ognuna delle disposizioni indicate come tertium comparationis dal rimettente, oltre a regolare fattispecie eccezionali, si fonda su una specifica ratio che ne impedisce la comparabilità con la fattispecie del danno da infortunio sul lavoro.

In particolare, l’art. 1676 cod. civ., secondo il quale i dipendenti dell’appaltatore che hanno prestato la loro attività per l’esecuzione dell’appalto possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore, trova la sua spiegazione nel fatto che sia il corrispettivo del contratto, sia l’opera o i servizi oggetto dell’appalto stesso, sono anche il frutto dell’attività di chi ha lavorato per la realizzazione dell’appalto.

Analogo collegamento non esiste, invece, tra il credito risarcitorio del lavoratore vittima di infortunio sul lavoro e l’indennizzo dovuto dall’assicuratore del datore di lavoro. Quest’ultimo non è obbligato a stipulare un’assicurazione privata contro il rischio costituito dai danni da infortunio subiti dai suoi dipendenti. Se lo fa, ciò è l’effetto di una sua libera iniziativa, diretta a soddisfare un suo interesse (e non già un interesse dei dipendenti). Quindi, né il credito che il datore di lavoro vanta nei confronti dell’assicuratore, né il vantaggio che il terzo (l’assicuratore) ricava dal contratto di assicurazione (il premio) sono il frutto del lavoro dei dipendenti dell’assicurato. Una simile diversità tra le due fattispecie costituisce una ragionevole giustificazione della diversità di trattamento dei due casi (possibilità di azione diretta contro il committente, negazione di tale azione nei confronti dell’assicuratore).

Quanto al credito retributivo dei dipendenti dell’impresa appaltatrice nel contratto di appalto di opere o servizi, l’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, dispone che «il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti». Tale disposizione fa parte di un più complesso sistema normativo informato ad una ratio del tutto diversa da quella propria del contratto di assicurazione. In particolare, attraverso la previsione della responsabilità solidale (illimitata sul piano quantitativo) del committente rispetto ai debiti dell’appaltatore, il legislatore mira a stimolare l’appaltante ad affidare le proprie commesse solamente a terzi provvisti di idonea capacità economica e serietà organizzativa, realizzando così una tutela per i dipendenti dell’appaltatore. Non è quindi possibile estrapolare da un simile, complesso, quadro normativo, un segmento di disciplina per assumerlo a tertium comparationis rispetto ad una norma che disciplina tutt’altra fattispecie (il contratto di assicurazione contro la responsabilità civile) e risponde ad una logica completamente diversa.

Il rimettente indica, quale ulteriore tertium comparationis, l’art. 23, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, a norma del quale, in caso di stipulazione di un contratto di somministrazione di manodopera, «L’utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali». Con tale disposizione invece il legislatore ha inteso predisporre, anche nel contratto di somministrazione, una normativa che, attraverso una responsabilizzazione dell’utilizzatore nei confronti dei dipendenti del somministratore, costituisca una indiretta forma di tutela di lavoratori, incentivando le imprese a rivolgersi a soggetti somministratori di lavoro che offrano adeguate garanzie di solidità economica.

Inoltre, va considerato che l’attività lavorativa è prestata nell’interesse del soggetto utilizzatore che provvede anche ad organizzarla e a dirigerla (art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003) e ciò giustifica che esso sia responsabile del pagamento della retribuzione, valendo anche qui, con ancora maggiore evidenza, le argomentazioni svolte a proposito dell’art. 1676 del codice civile.

Infine, l’ordinanza di rimessione richiama la fattispecie disciplinata dall’art. 18 della legge n. 990 del 1969, attuale art. 144 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), secondo cui il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante, per i quali vi è obbligo di assicurazione, ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile.

Tale norma è propria di un particolare sistema assicurativo, caratterizzato dall’obbligatorietà dell’assicurazione contro la responsabilità e diretto alla creazione di un contesto di generale sicurezza nel settore della motorizzazione civile.

In questo quadro generale si colloca anche la disposizione che concede al danneggiato da sinistro stradale azione diretta nei confronti dell’assicuratore e la sua estensione ad altri ambiti dell’assicurazione contro la responsabilità civile rientra nella discrezionalità del legislatore.

Si aggiunga che, rispetto agli infortuni sul lavoro, le esigenze di solidarietà e di particolare protezione del danneggiato sono già realizzate dal complesso apparato di tutela rappresentato dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, caratterizzato per molti versi da disposizioni più favorevoli per il danneggiato rispetto al regime generale del contratto di assicurazione.

3.2. – Ad avviso del giudice a quo gli artt. 32, primo comma, e 35, primo comma, Cost., sarebbero lesi perché l’integrale protezione delle possibilità satisfattive del credito del lavoratore deve essere assicurata a maggior ragione nel caso di infortunio sul lavoro, nel quale la lesione subita dal lavoratore riguarda il diritto al ristoro del danno all’integrità personale, bene prioritario rispetto allo stesso diritto al lavoro ed autonomamente protetto dalla Costituzione.

Orbene, quanto all’art. 35, primo comma, Cost., la Corte ha già affermato che il principio enunciato da tale precetto costituzionale nulla aggiunge alle dichiarazioni risultanti dall’art. 1 Cost., nonché dall’art. 3, secondo comma, e dall’art. 4, primo comma, Cost., assumendo piuttosto, collocato com’è all’inizio del Titolo III della Parte I della Costituzione, solo una funzione introduttiva alle disposizioni che entrano a far parte di questo. L’art. 35, primo comma, dunque, non determina i modi e le forme della tutela del lavoro, ma enuncia il criterio ispiratore comune alle disposizioni stesse, nelle quali ultime esclusivamente sono da individuare le specificazioni degli oggetti della tutela voluta accordare (sentenze n. 2 del 1986 e n. 22 del 1967).

Per quanto riguarda, invece, l’art. 32, primo comma, Cost., si deve ripetere che siamo in presenza di un contratto (quello di assicurazione contro la responsabilità civile per infortuni sul lavoro) che, nel nostro ordinamento, è del tutto facoltativo per il datore di lavoro ed è diretto a soddisfare esclusivamente un interesse di quest’ultimo. Ne consegue che il credito che il datore di lavoro vanta nei confronti dell’assicuratore non ha nulla a che vedere con la tutela del diritto all’integrità fisica del lavoratore.

3.3. – Secondo il rimettente l’art. 1917, secondo comma, cod. civ., violerebbe gli artt. 24 e 111 Cost., perché l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore consentirebbe tempi processuali più rapidi.

Anche tale censura è infondata, perché l’affermazione della maggior rapidità dell’azione giudiziaria nei confronti dell’assicuratore costituisce una petizione di principio, non essendo supportata da alcun argomento o circostanza di fatto ed essendo anzi contrastata dalla constatazione che l’azione diretta contro l’assicuratore sarebbe soggetta all’ordinario rito civile, senza l’applicazione di alcuna speciale disposizione acceleratoria del processo.

3.4. – Il rimettente sostiene, poi, che il diritto di azione del lavoratore infortunato tutelato dall’art. 24, primo e secondo comma, Cost., sarebbe leso perché al danneggiato è precluso, non solo di citare nel processo penale il datore di lavoro e, per esso, il fallimento, ma anche di provocare, in seno allo stesso processo penale o alla procedura fallimentare, un’iniziativa del fallimento intesa a favorire il risarcimento diretto da parte della compagnia assicuratrice ai sensi dell’art. 1917, secondo comma, del codice civile.

La censura è palesemente infondata. Il fatto che il lavoratore non possa provocare un’iniziativa del fallimento diretta a favorire il risarcimento diretto da parte dell’assicuratore non dipende dal suddetto art. 1917, ma dalle norme che regolano la procedura fallimentare ed impediscono che, dopo la dichiarazione di fallimento, il debitore possa procedere al pagamento di singoli debiti al di fuori della procedura concorsuale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, del codice di procedura penale, in combinato disposto con l’art. 1917, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo e secondo comma, 32, primo comma, 35, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Biella con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 maggio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2009.