SENTENZA N. 22
ANNO 1967
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Antonino PAPALDO, Presidente
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, contenente disposizioni per l'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1965 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Pregnolato Sante e la società fratelli Righini, iscritta al n. 105 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 171 del 10 luglio 1965.
Visti gli atti di costituzione di Pregnolato Sante e della società Righini e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 23 novembre 1966 la relazione del Giudice Costantino Mortati;
uditi l'avv. Carlo Smuraglia, per il Pregnolato, gli avvocati Guido Gentile ed Enrico Biamonti, per la società Righini, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento civile promosso avanti al Tribunale di Milano con atto di citazione di Pregnolato Sante per ottenere dalla convenuta s.r.l. Fratelli Righini il risarcimento dei danni subiti dall'attore, durante il viaggio compiuto con automezzo di proprietà del convenuto per assolvere mansioni a lui assegnate, in conseguenza di un incidente dovuto al fatto colposo del conducente del veicolo, anch'esso dipendente dalla società stessa, il Tribunale in accoglimento della richiesta formulata dalla difesa del Pregnolato perché fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, ha, con ordinanza in data 25 marzo 1965, proposto tale questione avendola ritenuta rilevante ai fini della decisione della causa e non manifestamente infondata, dato che l'articolo stesso, nella parte in cui sottrae il datore di lavoro alle comuni norme in materia di responsabilità civile, con conseguente menomazione del diritto al risarcimento a danno del lavoratore infortunato, sembra contrastare tanto con il primo comma quanto con il secondo comma dell'art. 3, ed altresì con gli artt. 35 e 38, che impongono rispettivamente la tutela del lavoro in ogni sua forma, e l'assicurazione di mezzi adeguati alle esigenze di vita a favore dei lavoratori rimasti vittime di infortunio sul lavoro.
L'ordinanza debitamente notificata e comunicata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 10 luglio 1965.
Si sono costituiti nel giudizio avanti alla Corte il signor Pregnolato Sante, assistito dagli avvocati Carlo Smuraglia e Luigi Giorgetti, con deduzioni depositate il 17 maggio 1965; la resistente società Righini rappresentata e difesa dagli avvocati Guido Gentile ed Enrico Biamonti con deduzioni del 15 maggio stesso anno; il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato con deduzioni depositate il 28 giugno 1965.
2. - La difesa dell'attore ha fatto rilevare che i danni da infortuni non sono risarciti che in piccola parte dall'indennità assicurativa, e che l'azione di risarcimento contro il datore é subordinata dall'art. 4 della legge infortunistica ad una serie di restrizioni in deroga al diritto comune, come sono quelle che richiedono l'avvenuta condanna penale del datore per reati perseguibili per azione pubblica, oppure quella a carico di un dipendente solo se risulti incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, diversamente da quanto dispone l'art. 2049, o le altre secondo le quali occorre si sia verificata invalidità per più di 40 giorni, o consentono che, in caso di estinzione del processo penale l'azione civile possa proseguire solo quando l'estinzione stessa derivi dalla morte o dalla amnistia e non già per altre cause, come per esempio in seguito a prescrizione dell'azione penale. Sostiene che tali limitazioni contrastano, oltre che con i due commi dell'art. 3, e con gli artt. 35 e 38 denunciati dall'ordinanza del Tribunale, anche con l'art. 41. E dopo avere fatto presente che la legittimità dell'art. 4 era stata posta in dubbio, da una parte della dottrina, già in confronto dell'art. 2087 del nuovo Codice civile e che a maggior ragione deve apparire incompatibile con la Costituzione, conclude chiedendo che ne sia dichiarata l'illegittimità.
In data 27 ottobre 1966 la difesa stessa ha prodotto una memoria nella quale ribadisce le considerazioni già prima svolte per dimostrare il contrasto dell'art. 4 con le norme costituzionali denunciate, ed aggiunge che contrasto vi é pure con l'art. 24. Essa affronta poi il problema più generale se il criterio transattivo cui si ispira il sistema consacrato della legge infortunistica, fondata sulla accettazione del principio del rischio professionale, e la conseguente riduzione quantitativa del ristoro del danno nonché la notevole mitigazione a favore del datore della normale responsabilità civile possano ritenersi in armonia con la nuova Costituzione. La risposta negativa viene argomentata dal carattere assoluto ed inderogabile della prescrizione dell'art. 38, che non tollera riduzioni in ordine agli adeguati mezzi di vita da assicurare al lavoratore infortunato, nonché dal divieto che l'art. 3 oppone a trattamenti disuguali, quali sono quelli che la legge in esame fa derivare nei confronti di posizioni attinenti ad un unico gruppo sociale, e che determinano una situazione di privilegio a favore del datore di lavoro. A corroborare tale giudizio fa rilevare che il carattere transattivo che si attribuisce al sistema del rischio professionale é solo apparente poiché i contributi assicurativi appartengono sostanzialmente alla retribuzione rappresentando quote di salario, secondo é riconosciuto da un'autorevole dottrina e dalla stessa commissione ministeriale costituita nel 1947 per la riforma della previdenza sociale. Osserva poi che nella presente sede di giudizio di legittimità nessun rilievo può assumere la considerazione degli effetti sul sistema che potrebbero derivare dalla pronuncia di annullamento dell'art. 4, e insiste nel richiedere che si decida in tal senso.
3. - La difesa della ditta convenuta fa rilevare come il principio del rischio professionale, cui si informa il denunciato art. 4, crea una situazione di equilibrio, poiché, se pone a carico del datore una responsabilità oggettiva, garantisce altresì il lavoratore anche contro le conseguenze della propria colpa, ed é stato perciò adottato in tutti gli Stati europei. Sotto l'aspetto giuridico, il principio stesso si collega ad un altro più generale, secondo cui norme particolari sulla responsabilità sono giustificate allorché il danno colpisce coloro che hanno assunto ed accettato i rischi inerenti alla prestazione del lavoro svolto; mentre, sotto l'aspetto politico, esso trova Giustificazione nell'opportunità di evitare conflitti fra datori e lavoratori, come accadrebbe se si dovessero applicare le norme sulla presunzione di responsabilità. Fa rilevare come la legislazione in materia ha apportato continui perfezionamenti alla disciplina infortunistica, sia con il migliorare i trattamenti a favore dei lavoratori vittime di incidenti sul lavoro, e sia con l'imporre misure sempre più rigorose di prevenzione, in conformità al disposto dell'art. 2087 del Codice civile la cui violazione pone in essere una fattispecie giuridica di colpa penale a carico dell'imprenditore. Sulla base di tali premesse afferma che la disciplina dell'art. 4 non si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione perché il principio di eguaglianza non vieta trattamenti differenziati che corrispondano ad esigenze della vita sociale, importando solo l'esclusione di privilegi; secondo del resto risulta da disposizioni analogamente limitative della responsabilità (come dall'art. 2047 cpv. del Codice civile: dagli artt. 275 e 967 del Codice della navigazione, dall'art. 46 della legge di espropriazione per pubblica utilità). Aggiunge che non può ritenersi violata neppure la norma programmatica di cui all'art. 38 della Costituzione poiché le disposizioni che hanno migliorato il trattamento degli infortunati e provveduto ad assicurare la loro rieducazione soddisfano le esigenze poste dalla medesima.
Fa infine osservare che l'annullamento dell'art. 4 farebbe decadere anche la facoltà di regresso stabilita dall'art. 5 a favore dell'ente assicuratore verso il datore di lavoro, sconvolgendo così tutto il sistema. Conclude chiedendo che si dichiari l'infondatezza della questione sollevata. Con successiva memoria depositata il 27 ottobre 1966 la difesa della società Righini riafferma le argomentazioni prima svolte e le conclusioni prese.
4. - Anche l'Avvocatura generale dello Stato, nelle sue deduzioni e nella successiva memoria depositata il 26 ottobre, sostiene l'infondatezza delle questioni sollevate, nella considerazione che il sistema del rischio conferisce al lavoratore una garanzia maggiore di quella che gli deriverebbe dall'applicazione pura e semplice dei principi generali della responsabilità civile, in quanto prescinde dall'accertamento della colpa e consente il risarcimento anche nel caso che il danno si sia verificato per forza maggiore o per colpa dello stesso infortunato, mentre addossa al datore di lavoro, con l'obbligo del pagamento dei premi, l'onore di far fronte ad eventi che normalmente non sarebbero a lui imputabili. Si giustifica così l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità ex artt. 2043 e segg. del Codice civile, la quale presuppone invece il dolo e la colpa di lui, o di uno dei soggetti indicati nell'art. 2049 del Codice civile. Passando quindi ad esaminare la particolare ipotesi in cui il fatto lesivo sia tale da determinare una responsabilità penale, l'Avvocatura stessa rileva che per i casi più lievi gli obblighi di risarcimento sono assorbiti dalla particolare funzione del rapporto assicurativo, mentre per quelli più gravi il datore é chiamato a rispondere non solo pel fatto proprio ma anche per quello dei suoi dipendenti. La limitazione in quest'ultima ipotesi della responsabilità, solo per fatti delittuosi addebitabili ai dipendenti che siano incaricati della direzione e sorveglianza del lavoro, apporta una deviazione dagli ordinari principi della responsabilità civile, che però é tale da scalfire solo in minima parte il trattamento di cui i lavoratori fruiscono in caso di infortunio, trattamento che risulta complessivamente più favorevole di quello derivabile dalle norme comuni. Non sussiste perciò la denunciata violazione del principio di eguaglianza, poiché "quando al regime della responsabilità aquiliana si sostituisce quello della responsabilità per rischio di impresa, ed al concetto di giudizio sulla colpa individuale quello dell'indennizzo automatico di tipo assicurativo (facendosi gravare i relativi obblighi sull'imprenditore), ricercare una parità di funzionamento e di effetti tra i due sistemi é impresa manifestamente impossibile". Da tali considerazioni consegue, a giudizio dell'Avvocatura, anche l'infondatezza delle altre violazioni costituzionali denunciate. In particolare, per quanto riguarda l'art. 38 della Costituzione fa rilevare che esso ha per oggetto aspetti sostanziali dell'assistenza sociale e nulla stabilisce circa la tutela giurisdizionale dei vari diritti e interessi. Conclude pertanto chiedendo altra pronuncia di rigetto.
Considerato in diritto
1. - Per potere apprezzare la fondatezza della censura di violazione del principio consacrato nell'art. 3, primo comma, che l'ordinanza rivolge contro l'art. 4 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, occorre richiamarsi alle pronunce con le quali la Corte ha costantemente ritenuto che il contrasto con il principio di eguaglianza é rilevabile dal giudice della legittimità costituzionale, cui é precluso ogni apprezzamento di merito, solo quando la disparità di trattamento risultante dal confronto fra le discipline adottate dal legislatore in ordine a più fattispecie relativamente omogenee sia tale da non trovare alcun ragionevole fondamento nella diversità delle situazioni alle quali ognuna di esse ha inteso provvedere. Si rende pertanto necessario accertare se nella specie un siffatto fondamento, a giustificazione del contrasto che si allega fra il citato art. 4 del R.D. n. 1765 e gli art. 2043, 2049 e 2054, terzo comma, del Codice civile, non possa rinvenirsi nei principi che ispirano il sistema previdenziale - assicurativo in materia di infortuni sul lavoro, del quale l'art. 4 é parte integrante.
Risulta che, in tale sistema, alla riduzione della misura del risarcimento a danno dell'infortunato, rispetto a quello che spetterebbe nella generalità dei casi in cui il danno sia stato cagionato dal fatto doloso o colposo altrui, sulla quale si appunta la censura del Tribunale, fa riscontro una serie di altre norme, anch'esse derogatorie del Codice civile, le quali si risolvono in un sensibile beneficio per il lavoratore, sia sotto l'aspetto sostanziale, in quanto garantiscono a lui il risarcimento in ogni caso, pur quando l'infortunio sia occorso per caso fortuito o addirittura per colpa, sia sotto quello procedimentale, per l'automaticità della liquidazione dell'indennizzo, che giova a sottrarlo all'esigenza del promuovimento di apposita azione giudiziaria e della conseguente osservanza delle regole sull'onere della prova; mentre poi nessuna eccezione più si oppone all'impero del diritto comune allorché l'infortunio risulti dovuto a colpa grave del datore, penalmente sanzionata. Pertanto la posizione del lavoratore infortunato, quale deriva dal complesso sistematico delle norme speciali relative al trattamento assicurativo, assume caratteri così peculiari da renderla non assimilabile a quella cui hanno riguardo le altre norme di diritto privato in materia di responsabilità civile; e di conseguenza, non può, sotto questo aspetto, ritenersi che faccia difetto quel ragionevole motivo del trattamento differente da quello spettante agli altri cittadini, sufficiente a far considerare infondata la censura di violazione dell'art. 3, primo comma.
Una tale violazione non può riscontrarsi neanche se si prenda in considerazione la diversità che viene a determinarsi nell'ambito della stessa categoria dei lavoratori, secondo le allegazioni della difesa del Pregnolato, dato che tale diversità la legge fa discendere dalla differente gravità delle lesioni prodotte dall'infortunio, e non é irragionevole assumere tale gravità come criterio di differenziazione del trattamento praticato, tanto più quando si tenga presente che alla minore entità del danno subito corrisponde anche una diminuzione dello scarto fra l'indennità assicurativa e quella che si sarebbe potuta conseguire alla stregua delle norme comuni.
2. - L'ordinanza prospetta il dubbio di incostituzionalità anche sotto l'aspetto della violazione del secondo comma dell'articolo ora citato: dubbio che sembra voglia mettere in rilievo la particolare qualificazione che la riduzione del diritto al risarcimento assume allorché sia disposto a carico di lavoratori, in quanto conduce ad aggravare la situazione di inferiorità nella quale costoro si trovano, ponendosi così in contrasto con l'obbligo imposto dal comma predetto di rimuovere gli ostacoli che la determinano. É chiaro che l'apprezzamento del motivo di incostituzionalità, così prospettato, deve effettuarsi non più - come prima si é fatto - in base al confronto con quanto é disposto in generale per gli altri cittadini, ma invece con riguardo alle parti dello stesso rapporto di lavoro, trattandosi di accertare se, tenuto conto delle particolari condizioni in cui si svolge il lavoro di fabbrica o quello ad esso equiparato, il trattamento infortunistico, quale risulta dal sistema assicurativo vigente, non sia tale da determinare una sperequazione a danno del lavoratore, contraddicendo così all'esigenza, fatta valere dal citato secondo comma, della speciale tutela spettante alla parte più debole del rapporto lavorativo. Ora é incontestabile che i danni da infortunio sul lavoro assumano caratteri peculiari, ed é appunto in relazione ad essi che appaiono privi di rilievo i richiami fatti dalla difesa dei resistenti alle varie disposizioni di legge le quali dispongono eccezioni alla normale determinazione e misura del contenuto del danno, come nel caso degli albergatori e simili (artt. 1784, 1786 del Codice civile), o dei vettori, o esercenti di trasporti marittimi o aerei (artt. 412, 423, 943 del Codice della navigazione) poiché dette norme si riferiscono a danni alle cose o anche alle persone, ma sempre occorsi in occasione di un rapporto precario di alloggio o di trasporto.
Invece, il lavoro di fabbrica, mentre assoggetta l'intera attività del lavoratore al potere organizzativo e di direzione dell'imprenditore, importa in larga misura l'impiego di macchine, al quale é fatalmente connesso il rischio di danno alla persona del lavoratore, anche senza che ricorra alcun comportamento colposo, per effetto di eventi del tutto fortuiti. E non può esser dubbio che (in virtù del principio secondo cui i particolari oneri inerenti all'esercizio di determinate attività sono da addossare al soggetto che dall'esercizio di tali attività ricava particolari vantaggi) debba gravare sul datore di lavoro la responsabilità del risarcimento dei danni subiti dal lavoratore in occasione del lavoro prestato alle dipendenze di lui nel caso che i danni stessi provengano (oltre che, com'é ovvio, dall'imperfetto adempimento dell'obbligo di predisporre ogni specie di misura idonea a prevenire gli infortuni) dal caso fortuito o dalla forza maggiore. E poiché gli eventi ora menzionati sembrano costituire i fattori determinanti gli infortuni sul lavoro più rilevanti, sia sotto l'aspetto numerico che sotto quello qualitativo, potrebbe sorgere un qualche dubbio sul punto se l'esonero dalla responsabilità civile del datore, qual é sancito in via generale dal primo comma dell'art. 4 in esame, non determini nei suoi riguardi una posizione di maggior favore rispetto a quella in cui viene a trovarsi il lavoratore costretto a subire in ogni caso una decurtazione dell'ammontare del risarcimento che gli sarebbe dovuto. Tuttavia un'indagine su questo punto, allo scopo di accertare un'eventuale violazione dell'art. 3, richiederebbe una particolareggiata analisi delle varie componenti causali del rischio assicurato e della loro diversa incidenza media sugli infortuni, indagine che esula del tutto dai poteri della Corte.
Né a differente avviso potrebbe condurre la considerazione, fatta valere dalla difesa del Pregnolato, secondo cui l'onere dei contributi assicurativi solo apparentemente grava sul datore, poiché in realtà viene trasferito sul lavoratore, che quindi dall'attuale assetto del congegno assicurativo verrebbe a sopportare, in definitiva, una riduzione di salario. Infatti, a parte il rilievo circa l'ostacolo opposto all'allegata traslazione dalla regolamentazione salariale risultante dai contratti collettivi di lavoro, é da osservare che l'eventuale suo verificarsi corrisponderebbe ad una situazione di fatto, non apprezzabile in questa sede.
La difesa stessa ha anche invocato, a sostegno della censura di violazione dell'art. 3, la sentenza n. 1 del 1962 di questa Corte; ma deve escludersi che la questione allora decisa possa comunque assimilarsi alla presente, poiché la pronuncia di illegittimità costituzionale allora emessa riguardava una legge che, in alcuni casi, escludeva nei confronti di una categoria di cittadini ogni indennizzo per danni alla persona, derivanti da causa di servizio prestato a favore dello Stato, ed in altri casi, concedeva loro un indennizzo solo apparente.
3. - Infondata deve ritenersi la questione di illegittimità costituzionale prospettata anche se la si esamini con riguardo all'altro motivo, che l'ordinanza deduce dall'art. 35 della Costituzione. Infatti il principio da questo enunciato nel suo primo comma nulla aggiunge alle dichiarazioni risultanti dall'art. 1 della Costituzione, nonché dal secondo comma dell'art. 3 e dall'art. 4, primo comma, venendo piuttosto ad assumere, collocato com'é all'inizio del titolo III, solo una funzione introduttiva alle disposizioni che entrano a far parte di questo: cioè vuole, non già determinare i modi e le forme della tutela del lavoro, ma solo enunciare il criterio ispiratore comune alle disposizioni stesse, nelle quali ultime esclusivamente sono poi da ritrovare le specificazioni degli oggetti della tutela voluta accordare.
4. - Più consistente potrebbe sembrare l'altra denuncia di incostituzionalità che l'ordinanza ricava dall'art. 38, nella parte in cui questo garantisce ai lavoratori infortunati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita. Ma tale non si rivela ad un più approfondito esame. É anzitutto da notare che il citato articolo pone un principio generale, riguardante tutte le situazioni bisognevoli di prestazioni previdenziali, e pertanto non esclude che la legge disciplini variamente gli ordinamenti che meglio si adeguino in concreto alle particolarità delle singole situazioni, predisponendo i mezzi finanziari all'uopo necessari. In particolare, per quanto riguarda le prestazioni dovute in conseguenza di infortuni sul lavoro, non si rende possibile la loro commisurazione alle esigenze di vita se non si proceda preventivamente alla determinazione dei criteri che debbano presiedervi. Una volta che si fossero ritenute inapplicabili le norme vigenti, per il loro asserito contrasto con l'art. 38, il criterio che si ricerca non potrebbe rintracciarsi nelle disposizioni di diritto comune, alle quali l'ordinanza ha fatto richiamo, poiché, a tenore delle medesime, il risarcimento per danno da fatto illecito non é da commisurare sulla base delle esigenze di vita, bensì solo sul grado di riduzione dell'integrità fisica. D'altra parte, l'affermazione che la riduzione dell'indennizzo, qual é disposto dalla legge denunziata, sia tale da compromettere la soddisfazione delle esigenze di vita (che sono da determinare sulla base di valutazioni differenti dalle altre che riguardano il salario sufficiente, a termini dell'art. 36, secondo ha messo in rilievo la sentenza n. 67 del 1964 della Corte) non trova riscontro nella legislazione vigente, poiché questa contempla una serie di provvidenze (come quelle che tengono conto del fattore familiare nella determinazione di alcune prestazioni previdenziali, ai sensi degli artt. 77 e 85 del T.U. n. 1124 del 1965, o le altre che dispongono la rivalutazione periodica delle rendite, così da farle variare in dipendenza dei mutamenti dei livelli salariali) le quali tendono appunto ad adeguare, almeno in una certa misura, l'entità dell'indennizzo alle esigenze di vita del lavoratore.
In conclusione, deve ritenersi che la norma denunciata non contrasta con l'art. 38, mentre l'integrale applicazione del precetto in esso contenuto esige la strutturazione su nuove basi dell'intero congegno previdenziale e del relativo sistema di finanziamento.
5. - A soluzione diversa da quella prima adottata si deve giungere quando si esamini la conformità con l'art. 3, primo comma, del terzo comma dell'art. 4, che esonera dalla piena responsabilità il datore di lavoro allorché il danno alla persona del lavoratore sia stato cagionato da colpa grave, sanzionata con condanna penale, di uno dei suoi dipendenti, che non rivesta la qualifica di incaricato della direzione o di sorvegliante dei lavori, anche se del fatto di lui egli dovrebbe rispondere secondo il Codice civile. Tale limitazione all'esercizio dell'azione di risarcimento (limitazione che appare tanto più grave quando si tenga presente l'interpretazione restrittiva che la giurisprudenza ha dato della natura delle mansioni atte a qualificare l'incaricato o il sorvegliante, e dell'esigenza fatta valere dalla giurisprudenza stessa di una specifica investitura nell'incarico da parte dell'imprenditore) sembra sfornita di ogni anche minimo fondamento razionale, che valga a spiegare il contrasto in cui la medesima si pone, sia con la regola generale vigente in materia, sia con quelle risultanti dalla legislazione speciale. Secondo la prima, quale risulta consacrata nell'art. 2049 del Codice civile, risale ai padroni ed ai committenti la responsabilità per fatto illecito dei domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono addetti, indipendentemente dalla prova di qualsiasi loro colpa, anche solo in eligendo, o senza alcuna discriminazione derivabile dalla natura delle mansioni esplicate dai medesimi.
Ma anche le leggi speciali equiparano sempre il fatto di tutti i dipendenti o preposti a quello del vettore o dell'esercente (così per es., quelle dettate per l'esercizio della navigazione, artt. 414, 942, 943, 944 cpv., 952, 965, 971 del Codice della navigazione) ed anche nei casi in cui deve aversi riguardo al grado della colpa o all'intensità del dolo, tale requisito é esteso, senza discriminazioni, alla colpa o al dolo dei dipendenti o preposti (artt. 943, 944 cpv., 952, 971). Non varrebbe obbiettare che le disposizioni per ultimo richiamate si riferiscono a danni recati a terzi e che quindi non sono invocabili per coloro che beneficiano del regime assicurativo, poiché ciò può valere fin dove vale tale regime, mentre nei casi in cui questo faccia difetto, o quando si superino i limiti entro cui il regime stesso opera, il dipendente colpito dal fatto illecito di altro dipendente (quando l'uno o l'altro agiscano nell'esercizio del lavoro loro commesso) viene ad assumere la posizione di terzo, ed a beneficiare delle norme di diritto comune.
L'affermazione secondo cui la disposizione denunciata troverebbe fondamento nella considerazione che l'infortunio occorso ad un lavoratore pel fatto di altro dipendente dalla stessa impresa, allorché questi non eserciti funzioni di direzione o di sorveglianza, rientra nel rischio specifico che l'industria comporta, non fornisce in realtà alcuna giustificazione, risolvendosi piuttosto in una pura e semplice constatazione di quanto disposto dal legislatore. Quello che sarebbe necessario accertare é se, una volta esclusi dal rischio professionale coperto dall'assicurazione gli infortuni provocati da colpa grave, configurabili come reati, e come tali accertati in una sentenza di condanna, risponda ad una qualche esigenza di ragione far dipendere la soddisfazione della pretesa all'integrale risarcimento dalla natura delle mansioni espletate dal dipendente che abbia provocato il danno.
Si é affermato che siffatta giustificazione possa ritrovarsi nel diverso grado di utilità che proviene all'imprenditore dall'attività esplicata dai propri dipendenti, secondo la diversità delle posizioni rivestite da questi. Ma, una volta ammesso che la responsabilità pel fatto dei dipendenti si fonda sul principio cuius commoda eius incommoda, non si rende possibile operare discriminazioni sulla base della entità dei vantaggi conseguiti, dato che tutti i dipendenti rivestono la stessa posizione di elementi dell'impresa o dell'azienda, e per tutti l'unica circostanza che, nella fattispecie considerata, può venire in considerazione, é la gravità del reato commesso a danno dell'infortunato. Informato a questo principio é l'art. 19 della legge 31 dicembre 1963, n. 1860, sull'impiego pacifico dell'energia nucleare che, stabilisce l'obbligo dell'esercente di risarcire il danno, senza alcuna limitazione, nel caso che questo sia derivato da reato commesso da lui o da coloro del cui operato esso risponde a norma del Codice civile.
Neppure varrebbe invocare il personale rapporto fiduciario, che lega il datore di lavoro ad alcuni e non ad altri dipendenti, perché ciò condurrebbe ad introdurre nella figura della responsabilità oggettiva, qual é quella gravante sull'imprenditore, un elemento di culpa in eligendo che deve rimanere irrilevante.
La deroga ai principi ed alle norme che si sono richiamate, qual é apportata dal terzo comma dell'art. 4 in esame, viene a porsi in contrasto con l'art. 3, per l'ingiustificata differenza di trattamento che importa a carico dei lavoratori colpiti dall'altrui fatto delittuoso, non solo in confronto con i comuni cittadini, ma anche con gli altri lavoratori che risultino danneggiati per effetto di un reato, secondo che questo sia addebitabile ad un incaricato o un sorvegliante o ad altro dipendente. Mentre nel caso prima considerato la diversità del risarcimento spettante ai lavoratori danneggiati da un infortunio che consegua da un fatto delittuoso perseguibile d'ufficio rispetto a quello spettante agli altri lavoratori infortunati, poteva (sotto quest'ultimo aspetto della diversità di disciplina dei lavoratori fra di loro) trovare giustificazione nella differente entità delle lesioni subite, analogo carattere di ragionevolezza non può riscontrarsi quando la diversità si colleghi alla natura delle attribuzioni esercitate dal dipendente al quale risale l'evento dannoso perseguibile penalmente.
6. - La difesa dell'attore ha, nella memoria, fatto altresì rilevare la incostituzionalità del quinto comma dell'art. 4, in quanto questo, nello stabilire che spetta al giudice civile decidere circa la sussistenza della responsabilità, a norma dei precedenti commi, per il fatto che avrebbe costituito reato, allorché l'azione penale si sia estinta per morte dell'imputato o per amnistia, ha omesso di considerare il caso analogo dell'estinzione per effetto di intervenuta prescrizione.
Tale questione non risulta formalmente proposta dall'ordinanza, ma può tuttavia ritenersi compresa nella generica denuncia di violazione dell'art. 3, in quanto fondata sull'asserito trattamento differenziale di fattispecie legali fra loro equivalenti.
La censura così formulata sembra fondata, in quanto la prescrizione dell'azione penale, per i casi presi in considerazione dall'art. 4, che sono procedibili solamente per azione pubblica, viene ad operare con la stessa efficacia degli altri eventi considerati nello stesso comma quinto. L'anomalia potrebbe venire superata anche in via di interpretazione sistematica, dato che questa conduce a far ritenere estensibile alla prescrizione la norma stabilita per la morte o per l'amnistia. Tuttavia, per meglio assicurare la certezza del diritto, si deve procedere ad un'espressa statuizione in questo senso.
7. - In applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 si deve dichiarare anche l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che, in esecuzione della legge di delegazione 19 gennaio 1963, n. 15, ha emanato il T.U. delle leggi sugli infortuni, nella parte che riproduce testualmente le statuizioni dell'art. 4 ritenute affette da tale illegittimità
Analoga applicazione non si rende necessaria in confronto all'art. 186 T.U. n. 1124, che estende la disposizione dell'art. 10 anche ai casi di infortunio nell'agricoltura, dato che esso rinvia alla norma che si dichiara illegittima.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, terzo comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, contenente "disposizioni per l'assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali" nella parte in cui limita la responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro derivante da reato, all'ipotesi in cui questo sia stato commesso dagli incaricati della direzione o sorveglianza del lavoro e non anche dagli altri dipendenti, del cui fatto debba rispondere secondo il Codice civile;
b) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, in quanto consente che il giudice civile possa accertare che il fatto che ha provocato l'infortunio costituisca reato soltanto nelle ipotesi di estinzione dell'azione penale per morte dell'imputato o per amnistia, senza menzionare l'ipotesi di prescrizione del reato;
c) in applicazione dell'art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87:
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che approva il T.U. delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, limitatamente al comma terzo ed al comma quinto, nella parte in cui essi riproducono le norme dichiarate incostituzionali nei limiti di cui sub a) e b);
d) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo e secondo comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765 predetto, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 35 e 38 della Costituzione, sollevata con ordinanza 25 marzo 1965 del Tribunale di Milano.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1967.
Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO Luigi OGGIONI
Depositata in cancelleria il 9 marzo 1967.