SENTENZA N. 1
ANNO 1962
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale del decreto luogotenenziale 21 ottobre 1915, n.1558, e del decreto-legge 6 febbraio 1936, n.313, convertito nella legge 28 maggio 1936, n.1126, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 18 giugno 1960 dal Tribunale dell'Aquila nel procedimento civile vertente tra Longa Rosa ed altri e l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato, iscritta al n. 72 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 223 del 10 settembre 1960;
2) ordinanza emessa il 9 aprile 1960 dal Tribunale di Venezia nel procedimento civile vertente tra Tempestini Velia e l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato, iscritta al n.86 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 267 del 29 ottobre 1960;
3) ordinanza emessa il 21 dicembre 1960 dalla Corte di appello di Ancona nel procedimento civile vertente tra De Scalzi Ugo e il Ministero della difesa-Esercito, iscritta al n. 34 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 70 del 18 marzo 1961.
Udita nell'udienza pubblica del 25 ottobre 1961 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;
uditi l'avv. Giovanni Zironda, per Tempestini Velia, gli avvocati Achille Borghini e Silvio Paolucci, per De Scalzi Ugo, e il sostituto avvocato generale dello Stato Valente Simi, per il Ministero della difesa-Esercito e per l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato
Ritenuto in fatto
La questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 6 febbraio 1936, n. 313, convertito nella legge 28 maggio 1936, n. 1126, nonché del decreto luogotenenziale 21 ottobre 1915, n. 1558, abrogati con legge 6 marzo 1950, n. 114, concernenti il trattamento da fare ai dipendenti civili e militari delle Amministrazioni dello Stato in conseguenza di infermità, lesioni o morte per eventi di servizio, é stata sollevata nel corso di tre procedimenti civili.
1) La causa iscritta al n. 34 del Registro ordinanze 1961 proviene dal giudizio promosso nel 1955 dal signor Ugo De Scalzi contro il Ministero della difesa-Esercito davanti al Tribunale di Ancona per ottenere il risarcimento dei danni subiti in occasione di una esercitazione militare, durante la quale il De Scalzi, allora alle armi in servizio di leva, fu ferito da una pallottola attiva, partita dall'arma di un'altra recluta.
In quella sede l'Amministrazione convenuta eccepì l'improponibilità della domanda, in quanto all'epoca del sinistro (1948) era in vigore il decreto-legge 6 febbraio 1936, n. 313, che, riconducendo i diritti del dipendente statale nell'ambito del rapporto di impiego, limitava il diritto dell'impiegato infortunato o, in caso di morte, dei suoi aventi causa, nei confronti dello Stato, unicamente al trattamento previsto dalle norme che regolano il rapporto di servizio o il trattamento di quiescenza, con esclusione di ogni azione di danni. Tale eccezione fu accolta dal Tribunale, che dichiarò improponibile la domanda, respingendo la richiesta di rinvio degli atti alla Corte costituzionale.
In sede di appello il De Scalzi ripropose la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge del 1936 in riferimento agli artt. 3, 24 e 28 della Costituzione e la Corte di appello di Ancona, con ordinanza del 21 dicembre 1960, ritenuta la questione non manifestamente infondata e rilevante ai fini della definizione del giudizio, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale.
L'ordinanza é stata pubblicata nella Ufficiale della Repubblica del 18 marzo 1961, n.70, notificata alle parti il 24 e 25 febbraio 1961 e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 3 marzo successivo, e comunicata ai Presidenti delle Assemblee legislative il 22 febbraio dello stesso anno.
La Corte di appello, premesso che l'incompatibilità tra una legge ordinaria e una legge costituzionale non rientra tra i casi di abrogazione ma é compresa e si risolve in quella più ampia di legittimità costituzionale, afferma che il fondamento della questione sollevata dal De Scalzi starebbe in ciò che, mentre il decreto-legge del 1936, n. 313, nega ai dipendenti civili e militari dello Stato di proporre, nei confronti della pubblica Amministrazione, ogni azione per danni derivanti da inabilità di ogni grado contratta in servizio o per causa di servizio, e riconosce solo il diritto al trattamento previsto a loro favore dalle norme che regolano il rapporto di servizio o di quiescenza, l'art. 28 della Costituzione - da mettersi in relazione con gli artt. 3 e 24 della stessa - non ponendo eccezioni o limiti, attribuisce anche ai suddetti dipendenti statali il diritto di proporre, nei casi sopra menzionati, la comune azione di danni.
Anche se l'art. 28 della Costituzione non ha innovato al principio della responsabilità diretta della pubblica Amministrazione, il contrasto sussiste sempre e si risolve in una disparità di trattamento tra i dipendenti statali, i quali, ancorché colposamente danneggiati da altri dipendenti statali, avrebbero diritto alla sola pensione, e qualsiasi altro cittadino che, in situazione identica, potrebbe far valere senza alcuna limitazione la pretesa risarcitoria.
Il decreto-legge del 1936 esclude la responsabilità della pubblica Amministrazione. Difatti, la somma che viene liquidata al dipendente statale infortunato é cosa diversa dal risarcimento del danno; e ciò perché il diritto a pensione del dipendente statale, rimasto inabile in servizio o in occasione del servizio, si basa sull'obbligo etico - giuridico dello Stato di assicurare al proprio dipendente inabile un certo assegno nei limiti stabiliti dalla legge, mentre il danno cagionato dal fatto illecito commesso dal terzo fuori di ogni rapporto obbligatorio consiste nel danno emergente, nel lucro cessante e persino nel cosiddetto danno non patrimoniale.
2) La causa iscritta al n. 72 del Registro ordinanze del 1960 proviene dal giudizio promosso nel 1959 innanzi al Tribunale dell'Aquila dalla signora Rosa Longa vedova Bassani, ed altri, contro l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte dei rispettivi mariti e padri, tutti agenti delle ferrovie, deceduti nel sinistro ferroviario verificatosi il 10 ottobre 1949 sulla linea S. Vito-Ortona, a seguito del crollo di un ponte sul torrente Moro.
Anche in quel giudizio l'Amministrazione convenuta eccepì l'improponibilità della domanda, in quanto all'epoca del sinistro era in vigore il decreto-legge 6 febbraio 1936, n. 313, e da parte attrice fu sollevata la questione di legittimità costituzionale del citato decreto, nonché del decreto luogotenenziale 21 ottobre 1915, n. 1558, perché in contrasto con gli artt. 3, 24 e 28 della Costituzione.
Il Tribunale dell'Aquila, con ordinanza del 18 giugno 1960, ritenuta la questione non manifestamente infondata e rilevante ai fini della definizione del giudizio, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale per l'esame della questione.
L'ordinanza é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 10 settembre 1960, n. 223, notificata alle parti l'8 e l'11 luglio 1960 e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 18 successivo e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento in data 9 luglio dello stesso anno.
Osserva il Tribunale che le disposizioni impugnate creano una ingiustificata disparità di trattamento dei dipendenti dello Stato rispetto a tutti gli altri cittadini, disparità che sembra non potersi giustificare neanche con la particolare disciplina dei rapporti fra lo Stato ed i suoi dipendenti.
Neppure il fine che avrebbe ispirato il decreto-legge del 1936, e cioè lo scopo di limitare il risarcimento alle sole utilità assicurate dallo Stato nell'ambito del rapporto d'impiego, sembra legittimo, giacché il diritto all'indennizzo per infortunio subito in servizio trova fondamento in un titolo diverso e distinto da quello che dà luogo al diritto a pensione: il primo attiene al concetto di danno; il secondo deriva dal servizio prestato dal dipendente per un determinato numero di anni.
Ciò tanto é vero che il legislatore del 1950, avvertendo tutta l'iniquità del provvedimento, ritenne di abrogarlo.
La rilevata disparità pone il provvedimento impugnato in contrasto soprattutto con l'art. 28 della Costituzione, che non fa alcuna discriminazione, quanto al risarcimento dei danni, in ordine al fatto che il danneggiato si trovi o meno in un particolare rapporto di servizio con lo Stato.
3) La causa iscritta al n. 86 del Registro ordinanze 1960 é stata promossa con ordinanza del Tribunale di Venezia, davanti al quale la signora Velia Tempestini aveva citato l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato per ottenere il risarcimento dei danni ad essa derivanti a seguito della morte del proprio padre, macchinista delle ferrovie, avvenuta a causa del deragliamento del treno all'ingresso della stazione di Quarto d'Altino.
Sollevata dall'attrice la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge n. 313 del 1936, in relazione agli artt. 28 e 113 della Costituzione, il Tribunale di Venezia, ritenendola non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione della causa, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale per la soluzione della questione.
L'ordinanza di rinvio é del 9 aprile 1960. Essa é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 29 ottobre 1960, n. 267, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti, rispettivamente, il 15 e il 7 settembre 1960 e comunicata ai Presidenti delle due Camere il giorno 5 dello stesso mese e anno.
L'art. 1 del decreto-legge del 1936, si osserva nell'ordinanza di rinvio, contiene due distinti precetti: l'uno limita i diritti conseguenti alla inabilità o morte in servizio dei dipendenti dello Stato, nei confronti dello Stato stesso, al trattamento previsto dalle norme che regolano il rapporto di servizio, escludendosi così la possibilità di risarcimento del maggior danno eventualmente subito da costoro; l'altro esclude l'azione di danni nei confronti dello Stato da parte di chiunque altro che, non contemplato come avente diritto dalle norme regolatrici del rapporto di servizio o di quiescenza, abbia subito, in conseguenza degli stessi eventi, tale danno. Nella loro formulazione letterale, il primo precetto si pone come esclusione implicita del diritto al risarcimento del danno ulteriore, il secondo come esclusione esplicita della tutela giurisdizionale di un tale diritto; entrambi si risolvono in una limitazione della responsabilità dello Stato per gli atti illeciti ad esso imputabili.
L'art. 28 della Costituzione prevede, invece, tale responsabilità dello Stato nella stessa misura di quella diretta dei dipendenti, autori materiali degli atti illeciti dannosi; e l'art. 113 della stessa contempla la piena tutela giurisdizionale dei diritti, nei confronti di tutti gli atti della pubblica Amministrazione senza esclusioni.
Dal raffronto derivano motivi di contrasto con la Costituzione, in quanto il decreto-legge 6 febbraio 1936, n. 313, e la sua legge di conversione non si riferiscono al rapporto d'impiego ed ai diritti da esso originati, ma regolano diritti, che sono fuori di tale rapporto e riguardano anche soggetti ad esso estranei, e che trovano in altre norme dell'ordinamento giuridico il loro pieno riconoscimento e la conseguente tutela.
Nei tre giudizi innanzi alla Corte costituzionale non é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Delle parti private si sono costituiti il signor Ugo De Scalzi e la signora Velia Tempestini.
La difesa del De Scalzi, nelle deduzioni depositate in cancelleria il 7 aprile 1961 e nella successiva memoria del 12 ottobre successivo, sostiene che il decreto-legge del 1936 é in aperto contrasto con l'art. 28 della Costituzione, il quale afferma il principio della estensione allo Stato e agli enti pubblici della responsabilità civile incombente sui suoi organi per gli atti compiuti in violazione di diritti.
Il che significa che il principio della responsabilità civile dello Stato, già vigente nel nostro ordinamento in applicazione della legge comune e dei principi generali, é stato eretto a principio costituzionale dal secondo comma dell'art. 28 della Costituzione: questo, riferendosi alla responsabilità civile dello Stato, ha un oggetto diverso dal primo comma, il quale concerne la responsabilità non soltanto civile, ma anche penale e amministrativa, dei propri dipendenti. Ne consegue che, per effetto dell'art.28 della Costituzione, se é dato al legislatore ordinario di regolamentare la responsabilità civile dei dipendenti dello Stato difformemente dalle norme vigenti per la responsabilità civile di qualsiasi cittadino, non gli é consentito escludere la responsabilità dei dipendenti e, a maggior ragione, quella dello Stato.
Né vale sostenere che il decreto-legge del 1936, lungi dal negare la responsabilità civile dello Stato, l'avrebbe solamente disciplinata, attribuendo alle pensioni e al trattamento di quiescenza carattere di risarcimento a quantum limitato, perché le pensioni e i trattamenti di quiescenza, prescindendo dal vero danno sopportato, trovano causa in un dovere etico - giuridico dello Stato, collegato alla prestazione del servizio, laddove il risarcimento da responsabilità civile ha per oggetto l'effettivo danno patrimoniale e, se del caso, anche il danno non patrimoniale.
Sotto il vigore del decreto-legge del 1936, al dipendente era dato unicamente di chiedere, in via amministrativa l'applicazione delle norme pubblicistiche sul trattamento di quiescenza e sulla pensione. Soltanto quando il trattamento di quiescenza fosse stato negato, per essersi il danno prodotto fuori del servizio, avrebbe potuto agire in via di responsabilità civile. Se, invece, il trattamento di quiescenza veniva negato per altro motivo, o se l'invalidità permanente non era tale da determinare la cessazione dal servizio, o in altri casi particolari, il dipendente non percepiva nulla.
Così stando le cose, é evidente che il decreto-legge del 1936 ha inteso escludere puramente e semplicemente dal campo dei rapporti tra lo Stato ed i propri dipendenti, l'istituto della responsabilità civile: ossia ha inteso esonerare lo Stato da responsabilità civile nei loro confronti.
Né si dica che il decreto del 1936 ha adottato una forma di limitazione o di esonero da responsabilità; analogamente a quanto avviene nel campo del diritto privato, perché, a parte il fatto che anche nei rapporti privati vi sono casi in cui limitazioni o esoneri da responsabilità non sono ammessi, é nullo qualsiasi patto che escluda o limiti la responsabilità quando questa derivi da reato. E nel caso di specie il danno deriva, appunto, dal reato di lesioni colpose.
Comunque, essendo inconcepibile nell'ambito dell'istituto della responsabilità civile, divenuta regola costituzionale per effetto dell'art. 28 della Costituzione, una deroga, sia consensuale, sia per comando di legge, alla responsabilità civile da reato, il decreto-legge del 1936 sarebbe incostituzionale quanto meno per aver sancito tale deroga.
Se poi nel decreto del 1936 si volesse ravvisare soltanto una forma di liquidazione "forfettaria" del danno subito dal dipendente, lo si dovrebbe considerare ugualmente incostituzionale perché l'art. 28 della Costituzione, dichiarando l'Amministrazione soggetta alla responsabilità civile e non ponendo eccezioni alla regola, ha sancito, per implicito, l'obbligo dell'Amministrazione stessa di risarcire l'effettivo, "intero" danno subito, obbligo che rappresenta la caratteristica della responsabilità civile. Una responsabilità parziale non sarebbe più una responsabilità civile nel senso previsto dalla legge.
Ma l'illegittimità costituzionale del decreto del 1936 deriva anche dal contrasto con l'art. 3 della Costituzione, non essendo consentito alla legge ordinaria di togliere ad una categoria di cittadini, i dipendenti pubblici, soltanto per la loro condizione di dipendenti dello Stato, e senza una ratio costituzionalmente ammissibile, un diritto riconosciuto erga omnes, né comunque collocare per il quantum su gradini diversi, e per la stessa responsabilità, i dipendenti dello Stato ed un qualsiasi cittadino.
Nella fattispecie non esiste una ratio costituzionale che possa giustificare il disposto del decreto del 1936: la ratio effettiva di quel decreto, che fu considerato iniquo dal legislatore del 1950, e perciò abrogato, era unicamente quella di apportare una economia nelle spese della pubblica Amministrazione. Finalità evidentemente inadeguata per sacrificare i diritti individuali.
Infine, se si volesse ravvisare nel decreto del 1936 una forma di improponibilità processuale dell'azione di risarcimento di danni, esso contrasterebbe con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, che garantiscono al cittadino la tutela giurisdizionale dei diritti anche nei confronti della pubblica Amministrazione.
La difesa del De Scalzi conclude perché il decreto del 1936 sia dichiarato costituzionalmente illegittimo.
La difesa della signora Velia Tempestini nelle deduzioni depositate il 27 settembre 1960 si riporta ai motivi dell'ordinanza di rinvio e nella memoria depositata in cancelleria il 3 ottobre 1961 insiste nel sostenere che il decreto in questione é in contrasto con gli artt. 28 e 113 della Costituzione.
Circa l'art. 28, la parte sottolinea che questo non contiene alcun rinvio ad altre disposizioni di legge, né alcuna limitazione della responsabilità civile ivi prevista. Esso costituisce, inoltre, norma precettiva di immediata applicazione e, pertanto, determina automaticamente l'incompatibilità della stessa con qualsiasi altra disposizione, che contenga limitazioni al diritto del cittadino di proporre azione di danni verso la pubblica Amministrazione.
In ordine all'art. 113 della Costituzione, la parte osserva che questo e l'art. 28 sono due norme complementari: l'art. 113 costituisce la proiezione, sul piano della tutela giurisdizionale, dell'art. 28. I1 decreto-legge del 1936, che pone una preclusione alla azione di danni verso la pubblica Amministrazione, é in contrasto con la norma costituzionale che tale limitazione ha inteso abolire.
Quanto poi alla considerazione che anche in altri campi del diritto, come nel diritto privato e nella legislazione infortunistica, esistono clausole limitative della responsabilità, si osserva che ciò a nulla rileva, perché vi sono clausole che sono comunque inapponibili, ed anzi addirittura inconcepibili, come quando il danno derivi da reato. E nella specie trattasi, appunto, di danno derivante dal reato di omicidio colposo.
La difesa della Tempestini conclude per la illegittimità costituzionale del decreto-legge denunziato.
Si sono costituiti il Ministero della difesa-Esercito e l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni depositate il 27 marzo 1961 nella causa n. 34, il 10 agosto 1960 nella causa n. 72 e il 27 settembre dello stesso anno nella causa n. 86.
La linea difensiva dell'Avvocatura é sostanzialmente identica per le tre cause, come risulta dall'unica memoria depositata il 12 ottobre 1961. Si può così riassumere:
Il decreto del 1936 escludeva la possibilità di ogni azione di risarcimento nei confronti dello Stato da parte dell'impiegato o dei suoi eredi, in caso di inabilità o di morte per causa di servizio, limitando i loro diritti alla liquidazione del trattamento previsto, per tali eventi, dallo statuto dei pubblici dipendenti. Questo decreto é stato abrogato con la legge n. 114 del 1950. Tale abrogazione risulta fondata su di una valutazione di opportunità, che non può formare oggetto di censura costituzionale, neppure sotto il profilo dell'eccesso di potere legislativo.
L'Avvocatura contesta che il decreto del 1936 contrasti con l'art. 28 della Costituzione. Il decreto, poggiando sul rapporto interno di organizzazione dello Stato e sulle relazioni fra lo Stato ed i propri dipendenti, regolate dall'apposito statuto, ammette come liquidazione del danno quella prevista, appunto, da tale statuto, con esclusione di ogni altra. La norma costituzionale, invece, disciplina i rapporti fra lo Stato, che agisce a mezzo dei propri dipendenti, ed i terzi, i cui diritti vengono violati da tale azione. La prima ipotesi é conseguenza di una disciplina particolare derivante dagli artt. 97 e 98 della Costituzione; la seconda é conseguenza di una disciplina generale dell'azione dello Stato. Esse si muovono, quindi, su piani diversi, senza determinare alcun punto di attrito.
Né possono avere rilievo le critiche su cui poggia la legge di abrogazione, perché si tratta di valutazioni di opportunità e non di censura di incostituzionalità.
Con la disciplina dettata dal decreto-legge del 1936, lo Stato non si sottraeva alla responsabilità civile nei confronti dei propri dipendenti, ma solo attuava una forma di liquidazione, per così dire, forfettaria del danno, nell'ambito di un rapporto particolare attinente alla sua organizzazione.
In linea generale, le clausole di limitazione o di esonero da responsabilità non sono in alcun modo in contrasto con la Costituzione, e tanto meno con l'art. 28 della stessa. Esse trovano applicazione anche nel nostro Codice civile e sono da considerare come libera espressione del giudizio del legislatore ordinario, che non viola alcun precetto costituzionale, in quanto nel nostro ordinamento non v'é alcun principio generale di ordine costituzionale che ponga un divieto alle varie forme di limitazione del danno o di liquidazione forfettaria preventiva di esso.
Né ha rilievo il fatto che, nella specie, la limitazione, anziché derivare da un atto bilaterale, deriva da una disposizione di legge, sia perché la caratteristica del pubblico impiego sta proprio nel fatto di essere disciplinato da atti unilaterali di supremazia, e per gli impiegati dello Stato, attraverso la legge; sia perché non sembra che possano imporsi per la disciplina legale restrizioni e limiti superiori a quelli previsti per la disciplina convenzionale.
Ai fini della responsabilità di cui all'art. 28 della Costituzione, l'impiegato dello Stato non può considerarsi come "terzo" e, quindi, anch'egli soggetto alla garanzia costituzionale: egli é un elemento integrante dell'organizzazione statale e solo quando non venga considerato come partecipe di tale organizzazione, e cioè per gli eventi occorsi fuori del servizio, la sua figura si presenta come autonoma rispetto allo Stato ed egli può avvalersi delle garanzie e delle tutele comuni a tutti i cittadini.
Quando, però, l'impiegato abbia subito il danno nella sua veste di partecipe dell'organizzazione statale e come vittima di eventi occorsi in servizio, anche se ad opera di altri soggetti partecipi anch'essi della stessa organizzazione, il problema del risarcimento ha carattere "interno", da risolversi non secondo i comuni criteri del diritto civile, bensì secondo il particolare statuto della organizzazione statale.
Né vi é la possibilità di configurare uno "sdoppiamento" dell'attività dello Stato, da un lato come parte del rapporto d'impiego e dall'altro come soggetto responsabile del danno, per cui ogni avvicinamento della fattispecie all'ipotesi prevista dall'art. 28 della Costituzione é impossibile.
Per le stesse considerazioni si nega che nella specie possa parlarsi di un contrasto tra il decreto-legge del 1936 e l'art. 24 della Costituzione. Il decreto del 1936 non vuol togliere al cittadino l'azione a tutela dei suoi diritti, ma solo ritiene liberatoria una forma di liquidazione forfettaria disposta dalla disciplina interna del rapporto. Se si escludesse l'azione, si violerebbe l'art. 24 della Costituzione. Ma qui non si esclude affatto l'azione: solo la ragione di essa viene meno perché non sussiste il diritto che potrebbe legittimarla.
L'Avvocatura, poi, esclude il denunziato contrasto tra il decreto-legge del 1936 e l'art. 113 della Costituzione.
L'art. 113 mira ad assicurare, in ogni caso, ai titolari di pretese giuridiche verso la pubblica Amministrazione la possibilità della tutela giurisdizionale, ma non intende creare nuove categorie di pretese giuridiche o dilatare i confini delle stesse, quali sono posti dalla legge. Posto che ogni diritto od interesse legittimo é rimasto nella sua configurazione originaria e nei limiti segnati dal legislatore nel suo apprezzamento discrezionale, la portata dell'art. 113 della Costituzione va intesa nel senso che la realizzazione di tali diritti ed interessi non può essere affidata ad altri che al giudice.
Intesa in tale senso la disposizione costituzionale, il decreto del 1936 non contrasta con essa, nulla avendo innovato rispetto alla tutela giurisdizionale dei pubblici dipendenti per gli eventi dannosi loro occorsi in servizio, che é e rimane quella della Corte dei conti.
L'Avvocatura dello Stato conclude, pertanto, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale del decreto-legge n 313 del 1936 sia dichiarata infondata.
Considerato in diritto
1. - Le tre cause, congiuntamente discusse, possono essere definite con unica sentenza, unica essendo la questione da decidere.
2. - In relazione ai precedenti giurisprudenziali della Corte basterà ricordare che l'avvenuta abrogazione delle leggi qui denunziate (decreto luogotenenziale 21 ottobre 1915, n. 1558, avente forza di legge in virtù della legge 22 maggio 1915, n. 671, e regio decreto-legge 6 febbraio 1936, n. 313, convertito nella legge 28 maggio 1936, n. 1126) non può formare ostacolo all'esercizio del sindacato di legittimità costituzionale delle leggi stesse.
3. - Secondo l'Avvocatura dello Stato, le norme denunziate poggerebbero sul rapporto interno di organizzazione dello Stato e sulle relazioni fra lo Stato ed i propri dipendenti, regolate dallo statuto dei pubblici dipendenti, mentre l'art. 28 della Costituzione disciplinerebbe i rapporti fra lo Stato, che agisce a mezzo dei propri dipendenti, ed i terzi. Le parti attrici, invece, sostengono che l'art. 28 non ammetterebbe, nei confronti dello Stato, alcuna disciplina particolare della materia, in quanto quella norma avrebbe sancito l'obbligo dell'intero risarcimento del danno in proporzione all'entità del danno stesso.
Di fronte a queste opposte tesi é sufficiente rilevare che nell'attuale controversia non si tratta di vedere se le leggi denunziate abbiano, legittimamente o non, regolato, agli effetti della responsabilità dello Stato, un aspetto del rapporto di impiego fra lo Stato ed i suoi dipendenti, ma si tratta di giudicare se le leggi stesse abbiano adottato un sistema che si risolva nella esclusione di ogni responsabilità.
Un primo esame, per dir così, esterno delle disposizioni del decreto-legge del 1936 mostra chiaramente come almeno in due casi quelle disposizioni esimano totalmente da ogni responsabilità. Quando l'impiegato abbia riportato una invalidità tale da consentire la continuazione del servizio, il trattamento di attività di servizio esclude qualsiasi indennizzo. Così pure quando l'impiegato avesse titolo, in base al servizio prestato o per effetto di altri benefici, ad una pensione che, nel suo ammontare, non si discostasse da quella privilegiata, con la concessione di una pensione di privilegio, disposta per effetto dell'evento lesivo, non si realizzerebbe neppure una forma di risarcimento. Altra esenzione assoluta da responsabilità é quella che deriva dalla norma dello stesso decreto che esclude ogni azione di danni "da parte di chiunque altro", togliendo così qualsiasi possibilità di indennizzo a favore di chi, pur avendo risentito un danno risarcibile a causa della inabilità o della morte del dipendente statale, non abbia diritto alla pensione privilegiata.
Ma la situazione non presenta sostanziali diversità anche quando la pensione privilegiata sia concessa solo in vista dell'invalidità o della morte del dipendente, anche quando, cioè, non sussistendo altri titoli per la concessione, la pensione privilegiata possa apparire una forma di risarcimento del danno. Anche in tali casi il diritto alla pensione privilegiata non nasce per effetto della responsabilità dell'Amministrazione, dalla quale, anzi, prescinde, ma scaturisce dal fatto stesso che l'impiegato sia stato vittima di un evento lesivo in circostanze e per cause previste dalla legge. E la concessione si basa sopra elementi che, rigidamente ancorati alla posizione dell'impiegato, possono non coincidere con quelli che dovrebbero valere rispetto alla responsabilità.
In conclusione, il sistema adottato da quelle leggi esclude, in alcuni casi, ogni risarcimento ed in altri offre un trattamento che può rappresentare una mera apparenza di indennizzo.
Stando così le cose, é chiaro che non é necessario, ai fini del presente giudizio, risolvere tutte le numerose e delicate questioni circa l'interpretazione dell'art. 28 della Costituzione, essendo sufficiente mettere in rilievo come, per quanto ampia possa essere, in ipotesi, la sfera nella quale il legislatore può regolare i rapporti tra lo Stato ed i suoi dipendenti anche agli effetti della responsabilità verso di essi, non é lecito disconoscere che sarebbe in contrasto con il precetto fondamentale contenuto nell'art. 28 della Costituzione una legge che, come quelle ora in esame, adottasse una disciplina tale da escludere in tutto, più o meno manifestamente, la responsabilità stessa.
4. - Le osservazioni che precedono sarebbero bastevoli a far ritenere illegittime le leggi denunziate, rendendo superfluo l'esame di esse in riferimento alle altre norme costituzionali indicate nelle ordinanze di rinvio: artt. 3, 24 e 113. La Corte, tuttavia, ritiene che non sia inutile un raffronto con l'art. 3.
Che una disparità di trattamento sussista é cosa certa e manifesta: quelle leggi creano una grave sperequazione tra il privato, vittima di un fatto colposo, e il dipendente statale, vittima dello stesso fatto. Né ricorre l'applicazione del principio, costante nella giurisprudenza della Corte, secondo cui la disparità di trattamento é giustificata tutte le volte che il legislatore accerti, nella sua discrezionalità, una situazione diversa richiedente una particolare disciplina: dalle disposizioni in esame si evince chiaramente che il legislatore non volle attuare una particolare disciplina in vista di una particolare situazione, ma volle togliere ad una categoria di cittadini quei diritti che, quando lo Stato incorra in responsabilità, spettano a tutti gli altri; e volle toglierli, fondamentalmente, per ragioni di economia e di protezione degli interessi dello Stato, come risulta anche dai lavori preparatori della conversione in legge del decreto del 1936.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale del decreto legge del 1936 e della relativa legge di conversione comprende anche l'altro testo legislativo denunziato con una delle tre ordinanze in esame e cioè il decreto luogotenenziale del 1915, che del decreto del 1936 costituisce la base ed il presupposto.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
pronunciando con unica sentenza nei procedimenti indicati in epigrafe:
dichiara l'illegittimità costituzionale del decreto luogotenenziale 21 ottobre 1915, n. 1558: "Interpretazione autentica della portata delle disposizioni vigenti in materia di pensioni privilegiate", e del regio decreto-legge 6 febbraio 1936, n. 313, convertito nella legge 28 maggio 1936, n. 1126: "Applicazione ai dipendenti civili e militari delle Amministrazioni dello Stato delle disposizioni concernenti il loro trattamento in conseguenza di infermità, lesioni o morte per eventi di servizio", in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 1962.
Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI
Depositata in cancelleria il 30 gennaio 1962.