SENTENZA
N. 263
ANNO 1994
REPUBBLICA
ITALIANA
In
nome del Popolo Italiano
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2
del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte
sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per
la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la
soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da
depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre
disposizioni tributarie), convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75; 2 della
legge 24 marzo 1993, n. 75 (Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, recante disposizioni in materia di
imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di
termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie,
per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti
derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè
altre disposizioni tributarie); 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n.287
(Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi
alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie); 1 del
decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 (Disposizioni urgenti in materia di
ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle
rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla
delimitazione delle zone censuarie); del Capo I (artt. 1-18) del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n.504 (Riordino della finanza degli enti
territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e
dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la
razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di
pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), promossi con
ordinanze emesse il 4 agosto 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado
di Piacenza, il 13 maggio 1993 dalla Commissione tributaria di secondo grado di
Venezia, il 23 novembre 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di
Rossano, il 2 ottobre 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di
Piacenza, il 10 novembre 1993 dal Tribunale amministrativo regionale
dell'Umbria (n. 2 ordinanze) e il 20 novembre 1993 dalla Commissione tributaria
di secondo grado di Perugia, iscritte rispettivamente ai nn.
628, 656 e 798 del registro ordinanze 1993 e ai nn.
5, 31, 33 e 118 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, nn.
43 e 44 dell'anno 1993 e nn. 5, 6, 8 e 13 dell'anno
1994.
Visti gli atti di costituzione di
Boselli Ernestina, dell'Associazione della proprietà edilizia di Perugia ed
altro, del Comune di Perugia, nonchè gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 1994 il Giudice
relatore Massimo VARI;
uditi gli Avvocati Valerio Onida
per Boselli Ernestina, Valerio Onida, Gaspare Falsitta e Mario Rampini per l'Associazione della proprietà
edilizia di Perugia ed altro, Alarico Mariani Marini
e Gaetano Ardizzone per il Comune di Perugia e
l'Avvocato dello Stato Carlo Bafile per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio promosso
da Boselli Ernestina nei confronti dell'U.T.E. di
Piacenza per ottenere -previa disapplicazione, se del caso, degli atti generali
relativi alla formazione della tariffa d'estimo (ovvero il decreto ministeriale
20 gennaio 1990)- che sia dichiarata "nulla e di nessun effetto" la
rendita attribuita sulla base della tariffa medesima agli immobili di proprietà
della ricorrente (o, in subordine, la riduzione della rendita stessa),
Premesso che il Tribunale amministrativo
regionale del Lazio, con decisione n. 1184 del 6 maggio 1992, ha annullato i
decreti del Ministro delle finanze del 20 gennaio 1990 e del 27 settembre 1991,
con i quali era stato posto alla base della revisione delle tariffe d'estimo il
valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile, il giudice a quo rileva
che il Governo ha riprodotto il contenuto dei citati decreti ministeriali in
una serie di decreti-legge, l'ultimo dei quali, e cioé il decreto-legge n. 16 del 1993, è stato convertito in
legge 24 marzo 1993, n. 75.
Tale decreto-legge, all'art. 2, ha
stabilito che le nuove tariffe, che entreranno in vigore dal 1° gennaio 1995,
dovranno essere basate sul parametro della redditività anzichè
su quello del valore commerciale dell'immobile. Tuttavia, osserva il
remittente, il decreto-legge, sia pure per un periodo di tempo limitato, ovvero
fino al 31 dicembre 1994, ha resuscitato le disposizioni contenute nei decreti
ministeriali dichiarati illegittimi dal Tribunale amministrativo regionale del
Lazio con sentenza "divenuta definitiva", ponendosi in tal modo in
contrasto:
a) con gli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, della Costituzione, configurando una
ipotesi di "straripamento" del potere legislativo nel campo riservato
istituzionalmente al potere giudiziario: i contribuenti, sebbene per un periodo
limitato, sarebbero obbligati a conformarsi ad atti amministrativi illegittimi,
nè tale rilievo sarebbe superabile considerando che
la norma stabilisce che, se le tariffe in vigore dal 1° gennaio 1995
risulteranno inferiori a quelle derivanti dall'applicazione dei decreti
ministeriali, il contribuente potrà recuperare la somma versata in più sotto
forma di credito d'imposta nella dichiarazione successiva all'entrata in vigore
delle nuove tariffe, in quanto al momento i contribuenti sarebbero obbligati a
pagare somme superiori a quelle effettivamente dovute. Nè
è previsto un termine per la restituzione delle somme versate, nè la corresponsione di interessi;
b) con gli artt. 3 e 53 della
Costituzione, non essendo conforme nè al principio
della capacità contributiva, nè a quello di
progressività, la tassazione, sia pure in via provvisoria, delle
rendite immobiliari fondata su una ipotesi di fruttuosità del valore
capitale dell'immobile determinato in base a criteri di tipo patrimoniale, che
la stessa norma mostra di voler abbandonare per i periodi successivi al 1994,
palesando, inoltre, la propria intrinseca irrazionalità;
c) con gli stessi artt. 3 e 53, nonchè con l'art. 24 della Costituzione, in quanto, differendo
al periodo successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità,
per i contribuenti, di recuperare quanto eventualmente pagato in più del dovuto
ed il relativo contenzioso, sottoporrebbe, medio tempore, il contribuente ad
una tassazione avulsa dalla sua capacità contributiva e ripristinatoria
di una forma di "solve et repete".
1.2.- Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
In una successiva memoria, l'Avvocatura,
precisato che la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio non
è "divenuta definitiva", deduce, rinviando alla memoria depositata
per il giudizio di cui al R.O. n. 656 del 1993, l'infondatezza
della questione, osservando, in particolare, che
1.3.- Si è costituito in giudizio anche
il contribuente, depositando una memoria nella quale si sostiene che la norma,
se interpretata nel senso (più attendibile) di "convalidare" gli atti
amministrativi annullati, appare caratterizzata da un fine fraudolento in
quanto, incidendo retroattivamente nei confronti di situazioni sub judice, lede, in violazione degli artt. 24, 101, 102, 103 e
113 della Costituzione, la funzione attribuita dalla Costituzione al potere
giudiziario e il diritto dei singoli alla tutela giurisdizionale. Inoltre la
stessa, restituendo efficacia ai contenuti di un atto amministrativo
illegittimo e già annullato, viene a sostituirsi all'attività amministrativa,
con l'effetto di togliere ogni rilievo al procedimento amministrativo, in
contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, specie in riferimento al
principio del giusto procedimento. Essa urta, altresì, contro l'art. 24 della
Costituzione, in quanto, attraverso la legificazione dell'atto amministrativo,
porta a vanificare la articolata tutela giudiziaria
prevista in tema di controversie catastali.
La norma contrasta, infine, con gli artt.3 e 53 della Costituzione, in particolare in quanto estimi
determinati col criterio del valore non potrebbero essere utilizzati ai fini della applicazione delle imposte sul reddito.
Da ultimo, con una memoria depositata in
prossimità dell'udienza, la difesa della parte privata, ricordato che,
recentemente, è intervenuta la decisione del Consiglio di Stato su una delle
sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio che hanno annullato i
decreti ministeriali, ribadisce le argomentazioni già svolte, osservando,
conclusivamente, come il legislatore, mirando proprio a togliere di mano al
giudice l'oggetto del giudizio, abbia disposto dei rapporti tributari e
patrimoniali facenti capo ai cittadini, trascurando
ogni esigenza di giusto procedimento e precludendo la strada al controllo
giudiziale dei provvedimenti adottati per via legislativa.
2.1.- Nel corso di un giudizio promosso
da
Il giudice a quo, premesso che i
prospetti di tariffa divenuti ormai obbligatori ex lege
determinano la lesione diretta ed immediata delle situazioni soggettive fatte
valere, ritiene che il Governo, attraverso la "legificazione" dei
decreti ministeriali annullati dal Tribunale amministrativo regionale del
Lazio, operata con la legge di conversione n. 75 del 1993, al termine di una
catena di decreti-legge non convertiti, avrebbe condizionato la libera scelta
del Parlamento "con la irreversibilità delle
situazioni nel frattempo intervenute, quindi influenzandone la libera
formazione del consenso circa l'opportunità di convertire o meno il decreto in
discorso". Secondo l'ordinanza, "le suesposte considerazioni sono
assorbenti della violazione del principio della divisione dei poteri dedotto
dai contribuenti, per l'evidente fine dell'art. 2 del decreto- legge n. 16 del
1993 e della relativa legge di conversione (come dei precedenti decreti-legge)
di superare l'annullamento della determinazione tariffaria discendente dalla
sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio".
L'ordinanza ripete quindi le censure
avanzate ai punti sub b) e c) dalla Commissione tributaria di primo grado di
Piacenza (R.O. n.628 del 1993).
2.2.- Nel giudizio di fronte alla Corte
è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o sia rigettata.
Nell'atto di intervento ed in una
successiva memoria l'Avvocatura sostiene che il giudizio di fronte alla
Commissione tributaria di primo grado era stato promosso prima e
indipendentemente dalla nascita di uno specifico rapporto di imposta,
consistendo nella impugnativa in via principale del
decreto ministeriale sulla determinazione delle tariffe, per cui correttamente
tale Commissione aveva dichiarato il suo difetto di giurisdizione. Questo
impedimento sarebbe ulteriormente accentuato dalla legificazione del decreto
ministeriale, alla quale consegue una impugnazione in
via principale dell'atto avente forza di legge, giacchè
manca del tutto la incidentalità della questione e non esiste un rapporto di
imposta controverso.
La questione sarebbe comunque infondata,
in quanto:
- non sussisterebbe la violazione degli
artt. 70 e 77 della Costituzione, poichè
"l'autonomia del Parlamento è al di sopra di ogni sospetto e comunque non
valutabile in questa sede";
- l'accenno al tentativo di superare la
sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio sarebbe
inconsistente, sia perchè questa non è passata in
giudicato, sia perchè la principale ragione di
annullamento posta a base di essa consisteva nella inadeguatezza
della fonte normativa in una materia che richiedeva la forma della legge;
peraltro, la giurisprudenza della Corte riconosce al
legislatore la possibilità di disciplinare retroattivamente il quadro normativo
precedente, senza con ciò violare nè il diritto di
difesa nè l'autonomia del potere giurisdizionale (da
ultimo, v. la sentenza
n. 6 del 1994);
inoltre, il decreto ministeriale 20 gennaio 1990 "era
già stato anteriormente legificato con norme di cui
non è contestata la legittimità";
- il fatto che le nuove tariffe siano
stabilite sulla base del valore unitario di mercato non contrasterebbe con il
principio della capacità contributiva nè con quello
della progressività dell'imposizione, fermo comunque che tale censura dovrebbe
essere considerata inammissibile, in quanto questo passaggio dell'ordinanza
sarebbe incomprensibile;
- ferma la ragionevolezza del criterio
seguito dalla norma denunciata, va considerato che, al valore di mercato degli
immobili, per ottenere il reddito è stato applicato un bassissimo saggio di
interesse (1% per le abitazioni, 2% per gli uffici, 3% per i negozi), in
conformità delle deliberazioni della commissione censuaria centrale (23 aprile
1990, n.3666 e 18 giugno 1990, n.3668);
- le nuove tariffe hanno lasciato
indenni situazioni meritevoli di considerazione, quali i fabbricati non di
lusso utilizzati dal proprietario come abitazione principale, oppure i
fabbricati dati in locazione per effetto di regimi legali ad un canone che,
ridotto di un quarto, risulti inferiore alla rendita catastale;
- il riferimento alla reintroduzione di
una forma di "solve e repete" sarebbe
irrilevante, consistendo in "una mera dissertazione accademica del tutto
avulsa da un interesse concreto dedotto in giudizio";
inoltre, l'eventualità che siano pagate somme di cui si
possa successivamente chiedere il rimborso, che è normale in molti tributi, non
avrebbe nulla in comune con il richiamato principio del "solve et repete".
3.1.- Con ordinanza emessa il 23
novembre 1993 (R.O. n. 798 del 1993) -sui ricorsi
riuniti promossi da Via Elena ed altri avverso l'U.T.E.
di Cosenza per chiedere che sia dichiarata "nulla e priva di effetti"
la rendita attribuita agli immobili di loro proprietà-
a) dell'art. 2 del decreto-legge n. 16
del 1993, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, in riferimento agli artt.
3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione;
b) dell'art. 1 del decreto-legge 9
agosto 1993, n. 287 e dell'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405,
convertito in legge 10 novembre 1993, n. 457, in riferimento agli artt. 3, 102
e 103 della Costituzione.
Sostiene il remittente che la soluzione
adottata dal potere legislativo nel ripristinare, sia pure per un periodo
limitato, le disposizioni contenute nei decreti ministeriali annullati dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, costituirebbe uno straripamento
del potere legislativo nel campo istituzionalmente riservato al potere
giudiziario, in violazione degli artt. 102, primo comma, e 103,
primo comma, della Costituzione. La disposizione menzionata violerebbe
inoltre gli artt. 3 e 53 della Costituzione, introducendo una tassazione delle
rendite immobiliari attraverso una determinazione operata non più su base reddituale, ma patrimoniale. Inoltre, si ripristinerebbe una
forma di "solve et repete",
in contrasto con gli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, per effetto
dell'applicazione in via provvisoria delle tariffe annullate, essendo previsto
il varo dal 1° gennaio 1995 di nuovi estimi che sostituiscano quelli il legittimi con il recupero delle somme eventualmente
versate in più.
L'art. 1 del decreto-legge n. 287 del
1993 (e l'art. 1 del decreto-legge n. 405 del 1993, che lo reitera), in quanto
dà esclusiva competenza alla commissione censuaria centrale in tema di
revisione degli estimi, esautorando le commissioni distrettuali e provinciali
ed escludendo l'interpello dei comuni interessati da parte degli uffici tecnici
erariali, violerebbe l'art. 3 della Costituzione, "sotto il profilo del
diverso trattamento normativo riservato a situazioni del tutto analoghe tra
loro". Tale norma, inoltre, rimettendo nei termini il Ministero delle
finanze per inoltrare i ricorsi presso la commissione censuaria centrale,
modificherebbe il valore sostanziale della "res iudicata" e porrebbe in essere uno straripamento del
potere legislativo in un campo riservato al potere giudiziario.
3.2.- Nel giudizio di fronte alla Corte
è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate
infondate.
Soffermandosi in particolare sulla
censura rivolta avverso il decreto-legge n. 287 del 1993 e il successivo n. 405
del 1993, l'Avvocatura rileva che tali atti hanno inteso colmare una lacuna
dell'art.2, comma 1-bis del decreto-legge n. 16 del 1993, che non ha previsto
l'ipotesi della inesistenza "per mancata
costituzione" della commissione censuaria provinciale, alla quale taluni
comuni hanno indirizzato i ricorsi previsti dal comma sesto. Pertanto, appare
erronea la congettura secondo cui il comma 1-bis avrebbe inteso rimettere nei
termini l'amministrazione finanziaria. Inoltre, non essendo le
commissioni censuarie organi giurisdizionali, non ha senso parlare di
"res iudicata" e
di "straripamento in un campo riservato al potere giudiziario".
4.1.- Con ordinanza emessa in data 2
ottobre 1993 (R.O. n. 5 del 1994),
Secondo il remittente, la disposizione
impugnata violerebbe l'art.77 della Costituzione, per difetto dei presupposti
di necessità e di urgenza ai quali è subordinata
l'emanazione dei decreti-legge. Inoltre, essa, in contrasto con gli artt. 24,
101, 102 e 104 della Costituzione, "finisce per incidere sui giudizi in
corso, proponendosi come interpretazione autentica di una norma di natura
interpretativa".
L'adozione, poi, sia pure in via
temporanea, di un criterio impositivo basato sul valore degli immobili, anzichè sulla loro redditività, si porrebbe in contrasto
con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, perchè
consentirebbe, tra l'altro, l'applicazione di tariffe d'estimo espressione di
un unico saggio di interesse determinato per tutto il territorio nazionale, con
perdita di ogni collegamento con il bene e con la sua produttività.
4.2.- Nel giudizio di fronte alla Corte
è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura dello Stato, deducendo l'inammissibilità della censura relativa
alla violazione dell'art. 77 della Costituzione, essendo rimessa al Parlamento
la verifica dei presupposti della necessità e dell'urgenza dei decreti-legge.
Si sostiene, inoltre, che, a seguire la prospettazione
dell'ordinanza, si attribuirebbe a qualsiasi privato il potere di bloccare
l'attività legislativa mediante la proposizione di ricorsi. In riferimento alla esistenza di tariffe espressione di un unico saggio di
interesse su tutto il territorio nazionale, si rileva che "il saggio di
interesse di riferimento è stato determinato in misura (per solito 1% annuo) di
gran lunga inferiore al praticato e che non sono individuabili saggi di
interesse differenziati per comune o per provincia".
5.1.- Con due identiche ordinanze,
emesse il 10 novembre 1993 (R.O. n. 31 del 1994 e R.O.n. 33 del 1994) -sui ricorsi proposti, l'uno,
dall'Associazione della proprietà edilizia di Perugia e da Mantellini
Gino e, l'altro, da Amati Carlo, per l'annullamento delle deliberazioni con cui
è stata determinata la misura della aliquota
dell'imposta comunale sugli immobili, per l'anno 1993 e successivi, nel Comune
di Perugia e, per l'anno 1993, nel Comune di Terni- il Tribunale amministrativo
regionale dell'Umbria ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 e, in via derivata,
dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 504;dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 e del Capo I
(artt.1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, in riferimento
agli artt. 3, 24, 53, 55, 70, 77, 92, 97, 101, 102, 104, 108 e 113 della
Costituzione, "nei termini precisati in motivazione".
Nella parte motiva, il giudice a quo,
ritenuto il carattere pregiudiziale delle questioni di legittimità
costituzionale, rispetto a quella della legittimità o meno della delibera
comunale determinativa dell'aliquota dell'ICI, sostiene che non sia
manifestamente infondata -in riferimento agli artt. 24, 55 e segg., 92 e segg.,
97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione- la
questione di legittimità costituzionale dell'art.2, primo comma, seconda parte,
della legge n. 75 del 1993 e, in via derivata, dell'art. 5, primo, secondo e
quarto comma, del decreto legislativo n. 504 del 1992,
che avrebbero prevaricato il diritto di difesa dei cittadini, nonchè le prerogative del potere giurisdizionale,
attraverso il ripristino di decreti ministeriali annullati.
Del pari, non manifestamente infondata
sarebbe la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni stesse,
in riferimento agli artt. 3, 55 e segg., 70 e segg. e 97 della Costituzione per
aver prevaricato le prerogative di autotutela della pubblica amministrazione,
alla quale esclusivamente spetta il potere-dovere di riesaminare i propri atti,
allo scopo di renderli conformi a legge.
Ancor più pregnante e significativa, in
riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della
Costituzione, sarebbe, ad avviso del remittente, la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e dell'intero Capo I
(artt. 1-18) del decreto legislativo n. 504 del 1992, per l'istituzione di
un'imposta comunale sugli immobili basata su valori di redditività astratti e
rivalutabili sulla base di parametri non pertinenti e non attendibili calcolati
non sul solo effettivo andamento del mercato locativo, ma, altresì,
sull'andamento del mercato immobiliare (ai sensi dell'art. 2 del decreto-legge
n. 16 del 1993), sicchè l'imposta viene a gravare sul
patrimonio immobiliare lordo del contribuente, anzichè
sul reddito effettivamente ritraibile dal medesimo. L'imposta, in violazione
dell'art. 3 della Costituzione, discriminerebbe illegittimamente i contribuenti,
a seconda che siano o meno proprietari di immobili,
senza tener conto di altre possibili espressioni di ricchezza. Inoltre, non
attribuendo rilievo significativo agli oneri e alle passività che gravano sul
patrimonio immobiliare, essa illegittimamente si attesterebbe, con riferimento
all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sullo stesso piano degli istituti
ablatori;
infine, essa contrasterebbe con il principio della
capacità contributiva, "squilibrando la stessa capacità di contribuzione a
tutto danno del contribuente proprietario di immobili, senza considerazione
alcuna in ordine alla pressione tributaria specifica che già opprime tali
cespiti". É prevista, infatti, una aliquota a
misura unica, applicabile sulla medesima base imponibile già gravata
dall'aliquota progressiva dell'IRPEF, ovvero dall'aliquota proporzionale
dell'IRPEG, senza alcun beneficio di detrazione dall'IRPEF (o dall'IRPEG)
medesima, così come già previsto per l'ILOR. Tutto ciò, secondo il Tribunale
amministrativo regionale remittente, non è sminuito dall'intervento del
decreto-legge n.16 del 1993, giacchè -come è stato
evidenziato nell'ordinanza 4 agosto 1993 della Commissione tributaria di primo
grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993) e
nell'ordinanza 13 maggio 1993 della Commissione tributaria di secondo grado di
Venezia (R.O. n.656 del 1993)- tale disciplina (con
forzature di scelta anche nei confronti del libero dibattito parlamentare) dà
corso all'imposizione secondo criteri che incidono sul patrimonio e che sanano
l'attività di prelievo fiscale già operata, ma, ponendosi in contrasto con gli
artt. 70, 77, 101, 102, 104 e segg. della Costituzione, viola il principio
della divisione dei poteri.
5.2.- In entrambi i giudizi di fronte
alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che le questioni
siano dichiarate inammissibili o infondate.
Con due identiche memorie, l'Avvocatura
dello Stato sostiene in primo luogo l'irrilevanza della questione di legittimità
costituzionale, in quanto al Tribunale amministrativo regionale compete, quanto
all'ICI, "la giurisdizione solo sull'altezza dell'aliquota in misura
superiore a quella minima di legge", restando, invece, estranea "ogni
questione concernente la base imponibile e, in genere, l'obbligazione
tributaria".
Nel merito, l'Avvocatura deduce
l'infondatezza della censura relativa alla violazione del principio della
separazione dei poteri, con argomentazioni analoghe a quelle di cui alle
memorie relative alle ordinanze delle Commissioni tributarie di cui si è già
fatto menzione.
In ordine alla prevaricazione delle
prerogative di autotutela dell'amministrazione, si sostiene che non vi è alcun
ostacolo alla traduzione in norma di legge di un atto amministrativo, essendo
la stessa amministrazione soggetta alla legge. Inoltre, il sistema di
determinazione del reddito dei fabbricati basato sul valore di mercato degli
immobili non si porrebbe in contrasto con l'art. 53 della Costituzione, in
quanto al valore di mercato è stato applicato un bassissimo saggio di
interesse. La memoria, così come quella depositata per il giudizio di cui al R.O. n.656 del 1993, ricorda, inoltre, che le nuove tariffe
hanno lasciato indenni molte situazioni meritevoli di considerazione.
Riguardo all'imposta comunale sugli
immobili, l'Avvocatura sostiene che l'art. 53 della Costituzione non vieta la istituzione di imposte di tipo patrimoniale, mentre
rientra nelle scelte del legislatore, non impedite da principi costituzionali,
l'esclusione delle somme corrisposte per l'ICI dalla deduzione dell'imponibile
IRPEF o IRPEG.
5.3.- Nel giudizio iscritto al n. 31 del
1993 del registro ordinanze si sono costituiti l'Associazione della proprietà
edilizia di Perugia e il Sig. Mantellini, la cui
difesa ha presentato una memoria, simile, nella prima parte, a quella
presentata dalla parte privata nel giudizio introdotto con l'ordinanza della
Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O.
n. 628 del 1993).
Si sostiene, al riguardo:
- che l'art. 2 del decreto-legge n. 16
del 1993 tende ad incidere retroattivamente su situazioni sub judice;
- che la stessa norma intende ridare
efficacia ad un atto amministrativo illegittimo e già annullato;
- che in base al principio del giusto
procedimento "è da escludere che la legge possa disporre nei casi singoli
del contenuto e degli effetti degli atti amministrativi".
Soffermandosi sulla dedotta
incostituzionalità della normativa sull'ICI, la memoria osserva, poi, che
l'art. 5 del decreto legislativo n. 504 del 1992 prevede coefficienti di
capitalizzazione elevatissimi e vincolanti, comportando l'introduzione di una
presunzione assoluta, in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, giacchè in un elevato numero di casi il prelievo sarebbe
destinato a gravare su un imponibile assai superiore al valore effettivo del
bene, senza che all'interessato sia offerta la possibilità di dimostrare che
tali valori superano il valore venale dell'unità immobiliare.
Inoltre, le norme sull'ICI -in specie
l'art. 5, terzo comma, del decreto legislativo n. 504 del 1992- appaiono
irrazionali ed arbitrarie, contrastando perciò con gli artt.3
e 53 della Costituzione, sia perchè
sottopongono all'imposta anche gli impianti ed i macchinari posseduti da
imprese, cioè beni soggetti ad un intenso logorio, senza che sia introdotto
alcun correttivo, sia per le modalità previste per la rivalutazione del costo
storico degli immobili industriali.
La mancata previsione della rilevanza
delle passività che gravano l'immobile, ai fini della determinazione della base
imponibile, costituirebbe ulteriore violazione dell'art. 53 della Costituzione.
Il mancato esonero della
prima casa si configurerebbe altresì come mancato esonero del minimo vitale,
con effetto ablatorio, a fronte del quale sarebbe
insufficiente la detrazione prevista dall'art. 15 della legge n.537 del 1993.
L'effetto ablatorio
dell'imposta deriverebbe anche dall'aliquota assai elevata, nonchè
dalla indetraibilità dall'imponibile IRPEF o IRPEG. Le
imposte patrimoniali, infatti, sono conformi al dettato costituzionale solo se
possono essere pagate con il reddito, in quanto, diversamente, impongono
l'alienazione del bene e assumono carattere espropriativo, intaccando le fonti
produttive a disposizione del privato, in violazione dell'art. 53, inteso alla
luce dell'art.42, della Costituzione.
Rilevato, inoltre, che la struttura
complessiva dell'imposta personale e dell'ICI, combinandosi con il divieto di
detrazione, sfocia nell'espropriazione dell'intero reddito, si lamenta, infine,
l'incostituzionalità dell'art. 12 del decreto legislativo n. 504, relativo alla
riscossione coattiva dell'imposta.
5.4.- Anche il Comune di Perugia si è
costituito nel giudizio iscritto al n. 31 del 1994 del registro ordinanze,
sostenendo che la questione relativa all'art. 2, primo comma, seconda parte,
della legge 24 marzo 1993, n.75, sarebbe inammissibile, in quanto dal suo
accoglimento non discenderebbe la dichiarazione di illegittimità "in via
derivata" dell'art.5 del decreto legislativo sull'ICI. La stessa sarebbe
comunque infondata, nel merito, non potendosi opporre al legislatore una
riserva di amministrazione, e conseguentemente di giurisdizione, nè risultando pregiudicato il diritto di difesa.
Quanto alla disciplina dell'ICI, secondo
la memoria, l'introduzione del parametro del valore del fabbricato
razionalizzerebbe il sistema di determinazione del reddito medio ordinario, ove
si consideri che lo stesso esprime l'attitudine del
bene a produrre reddito. Circa il rilievo relativo alla tassazione del
patrimonio immobiliare lordo, da questo non potrebbe discendere la illegittimità dell'intero Capo I (artt. 1-18) del decreto
legislativo n. 504 del 1992.
Premesso che la questione andrebbe
rimessa al Tribunale amministrativo regionale per una migliore specificazione o
che, in alternativa, dovrebbe essere dichiarata inammissibile, si osserva
comunque che il valore dell'immobile è determinato sulla base del reddito lordo
diminuito delle spese di riparazione e manutenzione e di ogni altra spesa
necessaria a produrlo.
Rilevato che il patrimonio ben può
essere considerato sintomo di capacità contributiva, la memoria ritiene di
escludere anche il contrasto con l'art. 3 della Costituzione, rientrando nella
discrezionalità del legislatore la scelta di alcune situazioni, anzichè di altre, come indicative di capacità contributiva,
ed apparendo l'imposta ragionevole, anche in virtù del carattere di generalità.
Il tributo non avrebbe poi carattere ablatorio, ove
si tenga conto della mitezza delle aliquote e del reddito catastale preso in
considerazione, mentre l'art. 15 della legge n. 537 del 1993 delineerebbe in
modo ancora più netto l'intento del legislatore (di cui agli artt. 8 e 17 del
decreto legislativo n. 504 del 1992) di attenuare l'imposizione, in particolare
quando il bene sia adibito all'uso del contribuente.
5.5.- Nell'imminenza dell'udienza, la
difesa della Associazione della proprietà edilizia e
di Mantellini Gino ha depositato due ulteriori
memorie.
La prima, in replica alle memorie
dell'Avvocatura dello Stato e del Comune di Perugia, ricorda, in particolare,
che nel frattempo è intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato sugli atti
amministrativi annullati dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, onde
è ormai inoppugnabile che la disposizione di legge qui contestata abbia come
scopo ed effetto di ridare efficacia a detti atti, con illegittima interferenza
sull'esercizio della funzione giurisdizionale ed indebita commistione fra
attività legislativa ed attività amministrati va.
La seconda memoria, soffermandosi
specificamente sulla disciplina dell'ICI, deduce che appare irrazionale e
contrastante con i principi di uguaglianza e di capacità contributiva la scelta
del legislatore di istituire una imposta patrimoniale
ordinaria, avente ad oggetto i soli immobili, per di più senza considerare i
debiti che ineriscono ai cespiti cui si riferisce.
La memoria si sofferma criticamente su
vari aspetti della disciplina dell'ICI relativi ai
coefficienti di capitalizzazione "elevatissimi e vincolanti";
all'impossibilità per il contribuente di dimostrare che il valore scaturente
dalla capitalizzazione delle nuove rendite catastali è di gran lunga superiore
al valore venale; alla mancanza di correttivi riguardanti l'esistenza di regimi
vincolistici di determinazione del canone; ai criteri di valutazione dei
fabbricati classificati nel gruppo D; agli indici fissati per la rivalutazione
del costo storico degli immobili industriali; all'inadeguatezza dell'esonero
accordato al c.d. minimo vitale e all'omessa considerazione della composizione
del nucleo familiare del soggetto; ai criteri di tassazione degli immobili
inagibili; alla previsione di un'aliquota elevata (tra 4 e 7%) e al divieto di
detrazione dell'ICI dall'imposta personale; al mancato esonero degli opifici
utilizzati direttamente dai piccoli imprenditori commerciali; alla disciplina
della riscossione delle somme liquidate dal comune per imposte, sanzioni e
interessi.
5.6.- Anche il Comune di Perugia ha
depositato un'ulteriore memoria, nella quale, ribadite le considerazioni già
svolte sulla irrilevanza e sulla infondatezza delle
questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, si
osserva che con la legge n. 75 del 1993 il legislatore ha utilizzato una
tecnica normativa particolare per dettare la disciplina relativa alla
determinazione degli estimi catastali.
Quanto alla norma istitutiva dell'ICI, poichè la commissione censuaria centrale ha adottato saggi
di interesse bassissimi per la determinazione della rendita, il valore degli
immobili non può che essere determinato adottando i moltiplicatori previsti per
legge, precisando che i valori hanno carattere vincolante non perchè derivino da una presunzione assoluta, ma perchè individuati sulla base di criteri di calcolo fissati
dal legislatore.
Dedotta l'infondatezza di quanto assunto
dalle parti private a proposito dei beni di impresa, si osserva, quanto alla
mancata deduzione delle passività, che ogni acquisto a titolo oneroso esige una
spesa che viene compensata dall'entrata del valore dell'immobile acquistato.
Rilevato, poi, che ai fini del minimo
vitale occorre valutare l'insieme dell'importo che il soggetto è chiamato a
pagare, si osserva, quanto all'effetto ablatorio
dell'ICI, che esso non deriva da quest'ultima, bensì dal cumulo di più imposte.
6.1.- Con ordinanza emessa in data 20
novembre 1993 (R.O. n. 118 del 1994),
Il remittente sostiene che la
disposizione in esame viola:
- gli artt. 102, primo comma, 103, primo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, in
quanto, facendo rivivere, sia pure per un periodo di tempo limitato, le
disposizioni annullate con la sentenza del Tribunale amministrativo regionale
del Lazio n. 1184 del 1992, darebbe luogo ad uno straripamento del potere
legislativo nel campo riservato al potere giudiziario;
- gli artt. 3 e 53 della Costituzione,
"non essendo conforme nè al principio della
capacità contributiva, nè a quello della
progressività, la tassazione delle rendite immobiliari, su una
ipotesi di fruttuosità del capitale dell'immobile determinato in base a
criteri di tipo patrimoniale";
- gli artt. 3, 24 e 53 della
Costituzione, ripristinando una forma di "solve et
repete".
6.2.- Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o
infondata.
Si rileva nella memoria che il Consiglio
di Stato, pronunziandosi su uno degli appelli avverso
le decisioni rese dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, ha
affermato che, essendo stato il contenuto dei decreti ministeriali annullati
trasfuso in disposizioni legislative, sarebbe venuto meno l'interesse a
ricorrere.
Ciò testimonierebbe la
inesistenza di un giudicato su cui avrebbe inciso la norma impugnata,
mentre "appare indubbio che il legislatore può recepire il contenuto di un
atto amministrativo, conferendo, così, ad esso il valore di legge".
Si osserva, poi, che la retroattività al
1o gennaio 1992 non è prevista per le tariffe e le rendite determinate a
seguito della revisione generale che avrà effetto dal 1° gennaio 1995, ma è
circoscritta alle tariffe e alle rendite modificate con l'intervento del
decreto legislativo n. 568 del 1993.
In ordine alla violazione degli artt. 3
e 53 della Costituzione, si nega la lesione del principio di uguaglianza,
attesa la generale applicazione delle tariffe in questione. Circa la capacità
contributiva, si afferma che rientra nella discrezionalità del legislatore
assumere determinate situazioni, e non altre, come indicative
della capacità contributiva, nè ha rilevanza,
ai fini della progressività del sistema impositivo, la determinazione della
base imponibile dei fabbricati effettuata sulla base delle tariffe d'estimo e
delle rendite in questione.
Sarebbe, infine, del tutto inconferente il riferimento alla introduzione
del principio del "solve et repete",
in quanto la norma impugnata non pone alcun limite al diritto di agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti.
7.- Per tutti i giudizi, l'Avvocatura
dello Stato ha presentato, in prossimità dell'udienza, una ulteriore
memoria, nella quale, nel ribadire le argomentazioni già svolte, si osserva:
- quanto al decreto-legge n. 16 del
1993, che è "del tutto normale che l'atto annullato, perchè
la materia in esso contenuta richiedeva la forma di norme
aventi rango legislativo, sia stato legificato
non in contrasto, ma in conformità al giudicato";
- la questione di incostituzionalità
dell'ICI nel suo complesso e nei singoli aspetti è inammissibile, perchè "riguarda esclusivamente il rapporto di imposta
di diritto soggettivo ed esula totalmente da quanto è oggetto del giudizio
principale innanzi al Tribunale amministrativo regionale";
- così come è sollevata dalle ordinanze
del Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, la questione si pone in
termini astratti ed accademici, senza nessun nesso con controversie concrete,
ma, soprattutto, assume il contenuto di una discussione de futuro, dal momento
che l'ICI ha cominciato a manifestare i suoi effetti nel 1993, mentre i ricorsi
al Tribunale amministrativo regionale sono anteriori;
- la non deducibilità dell'ICI dall'IRPEF
non viola alcun precetto costituzionale;
comunque, l'eccezione non riguarderebbe la disciplina
dell'ICI, bensì quella dell'IRPEF o dell'IRPEG;
- una serie di censure si rinvengono
nella memoria di parte, ma non nelle ordinanze del Tribunale amministrativo
regionale, quali quelle relative alla misura elevata dei coefficienti di
capitalizzazione del reddito; alla necessità che il contribuente abbia il
diritto di offrire la prova di un valore venale inferiore; all'imposta su
fabbricati posseduti da imprese; al mancato rilievo delle passività; alla
tassazione della casa destinata ad abitazione principale; al fatto che
l'imposta patrimoniale debba essere concepita in modo da consentire il
pagamento con il reddito derivante dal patrimonio stesso; al procedimento
previsto dall'art. 12 del decreto legislativo n.504 per la riscossione
dell'imposta.
Infine, si sostiene che l'imposta non
può essere sospettata di incostituzionalità solo perchè
patrimoniale, mentre infondata, come è dato evincere anche dalla sentenza della
Corte costituzionale 23 maggio 1985, n. 159 (relativa alla SOCOF), è anche la
censura relativa alla non universalità dell'imposta che non colpisce i
patrimoni mobiliari.
Considerato in diritto
1.- I giudizi di cui in epigrafe,
ponendo questioni identiche o quantomeno connesse, vanno riuniti in rito per
essere decisi con un'unica sentenza.
2.1.- Le ordinanze delle varie
commissioni tributarie di cui si è riferito in narrativa - e cioè Commissione
tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del
1993), Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O.
n. 656 del 1993), Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993), Commissione tributaria di primo grado
di Piacenza (R.O.n. 5 del 1994), Commissione
tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n. 118
del 1994)- chiamano
Le medesime ordinanze di cui sopra, con
esclusione di quella della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n.5 del 1994), denunciano le stesse norme per
violazione degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, in quanto ripristinatorie di una forma di "solve et repete", differendo al
periodo di imposta successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità
da parte dei contribuenti di recuperare quanto eventualmente pagato in più e il
relativo contenzioso.
2.2.- Le ordinanze predette sollevano le
seguenti ulteriori questioni relative al già citato art. 2 del decreto-legge n.
16 del 1993, e cioé se esso:
a) configuri una ipotesi
di "straripamento" del potere legislativo nel campo riservato
istituzionalmente al potere giudiziario, con violazione degli artt. 102 e 103
della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di
primo grado di Piacenza, nella prima ordinanza di rimessione (R.O. n. 628 del 1993), e dalla Commissione tributaria di
primo grado di Rossano (R.O. n. 798 del 1993); con
violazione degli artt. 102, 103 e 104 della Costituzione, secondo quanto
prospettato dalla Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n.118 del 1994); con violazione degli artt. 24, 101,
102 e 104 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione
tributaria di primo grado di Piacenza nella seconda ordinanza di rimessione (R.O. n.5 del 1994);
b) violi l'art. 77, secondo comma, della
Costituzione, in quanto la reiterazione dei decreti-legge si sarebbe tradotta
in una coartazione della volontà delle Camere, secondo quanto prospettato dalla
Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O.
n.656 del 1993), che ritiene questo profilo assorbente della violazione del
principio della divisione dei poteri per l'evidente fine dell'art. 2 del
decreto-legge n. 16 del 1993 e della relativa legge di conversione di superare
l'annullamento della determinazione tariffaria discendente dalla sentenza del
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, non senza invocare, sia pure nel
solo dispositivo dell'ordinanza, la violazione anche degli artt.70, 101, 102 e
104; ovvero violi lo stesso art. 77, per mancanza dei presupposti di necessità
e urgenza del decreto-legge, secondo quanto prospettato dalla Commissione
tributaria di primo grado di Piacenza (R.O.n. 5 del
1994).
3.1.- Le due ordinanze del Tribunale
amministrativo regionale dell'Umbria (R.O. n.31 e R.O. n. 33 del 1994) pongono questioni che investono,
anzitutto, l'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte
in cui prevede che "fino al 31 dicembre 1993 resta fermo
per i comuni e i contribuenti l'effetto di cui al primo comma, terzo periodo,
dell'art. 2 del citato decreto-legge n. 16 del 1993". Investono, altresì,
l'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 504.
Secondo il Tribunale amministrativo
regionale dell'Umbria, le dette disposizioni contrastano, la prima in via
diretta e la seconda in via derivata, con:
a) gli artt. 24, 55 e segg., 92 e segg.,
97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg., e 113 della Costituzione, ledendo
il diritto di difesa dei cittadini e le prerogative del potere giurisdizionale,
in quanto legittimano, fino alla data del 31 dicembre 1993, un decreto
ministeriale annullato e producono una "sanatoria con efficacia
retroattiva di una procedura amministrativa illegittima"; censura che, ad
avviso del Tribunale amministrativo regionale, "non è sminuita"
dall'intervento del decreto-legge n. 16 del 1993, il cui contrasto con gli
artt. 70, 77, 101, 102 e 104 e segg. della Costituzione è stato già evidenziato
nelle ordinanze di rimessione alla Corte di cui al R.O.
n. 628 del 1993 e R.O. n.656 del 1993, per avere il
Governo, da una parte, inciso sul patrimonio dei proprietari e, dall'altra,
operato precludendo le scelte che potevano scaturire da un libero dibattito
parlamentare;
b) gli artt. 3, 55 e segg., 70 e segg. e
97 della Costituzione, per avere il legislatore, con la sanatoria di cui sopra,
sia pure in via transitoria, leso le prerogative di autotutela della pubblica
amministrazione.
3.2.- Le medesime ordinanze del
Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria chiedono, altresì, alla Corte di
stabilire se l'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e il Capo I (artt.1-18) del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nell'istituire l'imposta comunale
sugli immobili, violino gli artt. 3, 42, terzo comma,
e 53 della Costituzione, per avere il legislatore concepito un'imposta sugli
immobili basata su valori di redditività assolutamente astratti e rivalutabili
sulla base di parametri non pertinenti e comunque non attendibili, venendo a
colpire il patrimonio immobiliare lordo del contribuente, anzichè
il reddito effettivamente ritraibile dal medesimo;nonchè
contrastino con:
a) l'art. 3 della Costituzione,
discriminando illegittimamente i contribuenti, a seconda che siano o meno proprietari di immobili, senza tener conto di altre
possibili espressioni di ricchezza;
b) l'art. 42, terzo comma, della
Costituzione, in quanto non attribuiscono rilievo significativo agli oneri e
alle passività che gravano sul patrimonio immobiliare, sicchè
l'imposta illegittimamente si attesterebbe sullo stesso piano degli istituti
ablatori, "con l'ulteriore aggravante che la relativa disciplina non
concede ristoro alcuno, in termini di componenti negativi del reddito
tassabile";
c) l'art. 53 della Costituzione,
collidendo con il principio della capacità contributiva, in quanto "viene
squilibrata la stessa capacità di contribuzione a tutto danno del contribuente
proprietario di immobili, senza considerazione alcuna in ordine alla pressione
tributaria specifica che già opprime tali cespiti"; ciò atteso che l'ICI
prevede una aliquota a misura unica, applicabile sulla
medesima base imponibile già gravata dall'aliquota progressiva dell'IRPEF,
ovvero dall'aliquota proporzionale dell'IRPEG, senza alcun beneficio di
detrazione dall'IRPEF (o dall'IRPEG) medesima, così come previsto, a suo tempo,
per l'ILOR.
4.- Infine, l'ordinanza della
Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O.
n.798 del 1993) solleva le seguenti ulteriori questioni:
- se l'art. 1 del decreto-legge 9 agosto
1993, n. 287 e l'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 -nel dare
competenza esclusiva alla commissione censuaria centrale in tema di revisione
degli estimi, con esautoramento delle commissioni distrettuali e provinciali ed
esclusione dell'interpello dei comuni interessati- violino l'art. 3 della
Costituzione, "sotto il profilo del diverso trattamento normativo
riservato a situazioni del tutto analoghe tra loro";
- se le stesse norme di cui sopra
violino gli artt. 102 e 103 della Costituzione, in quanto rimettono nei termini
il Ministero delle finanze per inoltrare i ricorsi presso la commissione
censuaria centrale, modificando così il valore sostanziale della "res iudicata" e ponendo in
essere uno straripamento del potere legislativo in un campo riservato al potere
giudiziario.
5.- Nei giudizi di cui sopra,
l'Avvocatura dello Stato, oltre a contestare nel merito il fondamento delle
questioni sottoposte all'esame della Corte, ha dedotto l'inammissibilità delle
questioni sollevate da tre delle ordinanze menzionate, sotto il profilo
dell'inesistenza dei presupposti atti a dare ingresso al giudizio di
costituzionalità.
Più in particolare, viene negata
l'ammissibilità:
a) delle questioni sollevate con
l'ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), per mancanza del carattere di
incidentalità, non essendo controverso un rapporto di imposta e trattandosi, in
ipotesi, di una impugnazione in via principale di un
atto avente forza di legge, cioè dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993,
n. 16;
b) della questione di costituzionalità
dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75, e dell'art. 5,
primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.
504, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, in quanto la
stessa esulerebbe dall'ambito di cognizione del giudice amministrativo e
sarebbe comunque irrilevante nel processo a quo, in quanto al Tribunale
amministrativo regionale spetterebbe, in tema di imposta comunale sugli immobili,
"la giurisdizione solo sull'altezza dell'aliquota, in misura superiore a
quella minima di legge".
Quanto alla prima delle eccezioni, il
giudice remittente, come risulta dall'ordinanza, si è dato carico di esaminare
il profilo della rituale introduzione innanzi a sè
del giudizio, individuandone l'oggetto nella lesione diretta ed immediata delle
situazioni soggettive dei ricorrenti, "in quanto gli interessati non
possono in alcun modo sottrarsi alla tariffazione del loro immobile come
operata dall'amministrazione".
Tanto è sufficiente perchè
il giudizio di costituzionalità possa ritenersi ritualmente introdotto, in
quanto il controllo della Corte costituzionale, ai fini dell'ammissibilità
della questione di legittimità ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va
limitato all'adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai
quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato,
con un proprio oggetto, vale a dire un petitum,
separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere.
Quanto all'altra eccezione, con la quale
si deduce l'inammissibilità della questione per il fatto che essa esulerebbe
dal thema decidendum
affidato al giudice amministrativo nella materia di cui trattasi, giova
ricordare, in linea generale, che, secondo il costante indirizzo della Corte,
il difetto di giurisdizione del giudice a quo, per comportare l'irrilevanza
della questione, deve risultare chiaramente dalla legge o corrispondere ad un
univoco orientamento giurisprudenziale, sì da rivestire il carattere
dell'evidenza. Nel giudizio pendente innanzi al
Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, nel quale è in discussione la
legittimità di un provvedimento amministrativo, vale a dire la delibera
comunale determinativa dell'aliquota dell'ICI, il controllo della Corte -una
volta accertata l'esistenza di un giudizio sulla legittimità di un atto della
pubblica amministrazione, e cioè dell'oggetto tipico del giudizio amministrativo-
non può implicare un sindacato circa l'iter logico seguito dal giudice
remittente per affermare la propria competenza a fronte della specifica
questione, ma deve limitarsi alla verifica di una ragionevole possibilità,
valutata a priori in limine litis, che la
disposizione denunziata sia applicabile ai fini della pronunzia da emettere nel
giudizio stesso.
6.- Definite come sopra le eccezioni
pregiudiziali poste dalla difesa erariale,
L'esigenza dell'aggiornamento del
catasto edilizio urbano, resa manifesta dapprima con il d.P.R.
29 settembre 1973, n. 604, e ribadita, da ultimo, dalla legge 30 dicembre 1989,
n.427, ebbe avvio con il decreto ministeriale 20 gennaio 1990, che, nel dettare
i criteri per la revisione del catasto, fece riferimento, per la determinazione
delle tariffe di estimo, nonchè per le rendite
catastali delle unità immobiliari a destinazione speciale o particolare, al
"valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile", determinato
"come media dei valori riscontrati nel biennio 1988- 1989".
All'esito delle operazioni di revisione
seguì il decreto ministeriale 27 settembre 1991 che stabilì le tariffe di
estimo per l'intero territorio nazionale, con effetto dal 1° gennaio 1992, in
conformità ai criteri di cui al precedente decreto ministeriale 20 gennaio 1990.
I predetti provvedimenti formarono
oggetto di diverse sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio,
che li dichiararono illegittimi per aver trasformato, in contrasto con il d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142, da eccezionale a generale
il criterio della determinazione delle tariffe di estimo sulla base
dell'interesse del capitale fondiario, anzichè sulla
base del reddito virtualmente ritraibile, trasformazione che non era consentito
effettuare in via amministrativa.
Dopo l'annullamento dei predetti
decreti, il Governo è intervenuto con una serie di decreti-legge, l'ultimo dei quali è stato finalmente convertito in legge, e cioé quello in data 23 gennaio 1993, n. 16, il cui art. 2
ha disposto -con effetto dal 1° gennaio 1995- una nuova revisione generale
delle zone censuarie, delle tariffe di estimo, delle rendite delle unità
immobiliari urbane e dei criteri di classamento, ad
opera di un decreto ministeriale che, al fine di determinare la redditività
media ordinariamente ritraibile, faccia riferimento al valore del mercato degli
immobili e delle locazioni. Lo stesso art. 2 del decreto-legge ha peraltro
previsto, fino al 31 dicembre 1993, la permanenza in vigore e quindi
l'applicazione delle tariffe di estimo e delle rendite già determinate in esecuzione
del decreto 20 gennaio 1990 (art. 2, primo comma, terzo periodo). A sua volta
la legge 24 marzo 1993, n. 75, nel convertire il decreto menzionato, ha
aggiunto al predetto art. 2 i commi 1 bis, 1-ter e 1-quater, con i quali si è
data facoltà ai comuni di ricorrere alle commissioni censuarie provinciali e,
in sede di appello, alla commissione censuaria centrale "con riferimento
alle tariffe di estimo e alle rendite vigenti ai sensi del primo comma"
del medesimo art. 2.
Le tariffe d'estimo e le rendite
modificate in conseguenza di tali ricorsi, nonchè
quelle derivanti da ulteriori modificazioni al fine di mantenere l'invarianza
del gettito, recepite in un apposito decreto legislativo, secondo quanto
stabilito dall'art. 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75, si sarebbero applicate
per l'anno 1994.
Peraltro, ai fini delle imposte dirette
(salve alcune esclusioni), l'applicazione sarebbe stata anticipata al 1o
gennaio 1992 ove fossero risultate inferiori a quelle stabilite col decreto
ministeriale 27 settembre 1991.
Di ciò i contribuenti avrebbero tenuto
conto nella dichiarazione dei redditi da presentare per il 1993, secondo
criteri indicati sempre dal predetto art. 2 del decreto- legge 23 gennaio 1993,
n. 16, peraltro modificati con decreto-legge 31 maggio 1994, n.330.
É venuta così a determinarsi una articolata e complessa disciplina non priva di
farraginosità, in spregio alla chiarezza dei rapporti fra fisco e contribuenti,
per effetto della quale:
a) dal 1995 dovrebbero entrare in vigore
i nuovi estimi, in attuazione della prevista revisione generale, che dovrebbe
tener conto, ai fini della "redditività media ordinariamente
ritraibile", dei "valori del mercato degli immobili e delle
locazioni";
b) per il 1992-1993 è stata riconfermata
l'applicabilità delle tariffe stabilite con il decreto ministeriale 27
settembre 1991;
c) per il 1994, ma con eventuale
retroattività, in caso di maggior favore, si applicano le tariffe eventualmente
modificate - all'esito dei ricorsi previsti dai commi 1-bis, 1-ter e 1-quater
dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993- dall'apposito provvedimento che
la legge di conversione aveva previsto e che, nel frattempo, risulta emanato,
vale a dire il decreto legislativo 28 dicembre 1993, n. 568.
7.1.- Passando all'esame del merito delle
varie questioni di legittimità, non fondata è, anzitutto, quella sollevata
dalle varie Commissioni tributarie menzionate, le quali lamentano la
violazione, da parte dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16,
degli artt. 3 e 53 della Costituzione, deducendo, in particolare, che la
tassazione delle rendite immobiliari fondata su un'ipotesi di fruttuosità di un
immobile, determinata con criteri di tipo patrimoniale, colliderebbe con il
principio della capacità contributiva e del la progressività,
evidenziando, altresì, profili di irrazionalità.
Al riguardo va, in primo luogo, rilevato
che il riferimento al principio di progressività appare inconferente,
giacchè tale principio si riferisce, come la
giurisprudenza costituzionale ha avuto occasione di precisare, al sistema
tributario nel suo complesso e non ai singoli tributi, dal momento che il
principio stesso, se inteso come crescita dell'aliquota correlata con
l'ammontare del reddito, non può che aver riguardo al rapporto diretto fra
imposizione e reddito personale complessivo del contribuente (sentenza n. 159 del
1985).
Quanto agli altri profili dedotti,
Il criterio, presumibilmente ispirato
dalla constatazione di una scarsa attuale rappresentatività del mercato delle
locazioni in ordine alla potenziale capacità di produrre reddito da parte del
bene, in presenza di una contingente situazione
legislativa quale quella connessa al regime vincolistico degli alloggi, si
discosta indubbiamente da quello codificato nell'art. 15 del d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142; questo pone, infatti, a
base del calcolo "il canone annuo di fitto, ordinariamente
ritraibile", salvo i casi, pure previsti per legge, in cui un siffatto
calcolo non sia possibile, vale a dire quando la locazione non esista o abbia
carattere d'eccezione (così l'art.27 del medesimo d.P.R.
n. 1142 del 1949).
Ma tutto ciò non è sufficiente per
dedurre la illegittimità costituzionale del criterio
seguito, per contrarietà al principio della capacità contributiva, tanto più
che ciò che viene qui in discussione non è la disciplina di una specifica
imposta, quanto un sistema come quello catastale, volto a definire valori, i
quali hanno la limitata funzione di fornire una base di riferimento generale
per l'applicazione delle singole imposte, secondo la disciplina apprestata per
ciascuna di esse dal legislatore, sicchè sarà
piuttosto nell'ambito della regolamentazione delle singole imposte che si potrà
verificare il rispetto del predetto canone costituzionale.
É pur vero che i criteri di
determinazione delle tariffe di estimo e delle rendite catastali, ove non
ispirati a principi di ragionevolezza, potrebbero, benchè
le tariffe e le rendite non siano di per sè atti di
imposizione tributaria, porre le premesse per l'incostituzionalità delle
singole imposte che su di essi si fondino.
Peraltro, nel momento in cui, per determinare
tariffe di estimo e rendite catastali, si abbandona il tradizionale ancoraggio
al reddito ritraibile e si privilegia il valore di mercato del bene, si opera
una scelta procedimentale alla quale non è logicamente estraneo il rischio di
determinazione di rendite catastali tali da superare per la loro misura il
reddito effettivo, sicchè imposte ordinarie, che a
tali rendite si rifacessero, porterebbero ad una sostanziale progressiva
erosione del bene.
Ma, a parte il fatto che, al di là di
generiche doglianze di non razionalità, le ordinanze non prospettano profili
idonei a concretamente evidenziare una incongruità dei
criteri di determinazione dei valori adottati nella norma denunciata rispetto
al fine che con essi si è inteso perseguire, è importante rilevare la
transitorietà della disciplina denunciata, peraltro ripetutamente sottolineata
anche dalle ordinanze di rimessione e superata, a partire dal 1995, dai nuovi
criteri indicati dal legislatore, e cioé il valore di
mercato insieme al valore locativo, nei quali si è evidentemente tenuto conto
della più recente evoluzione legislativa che tende, come è noto, a superare il
regime vincolistico delle locazioni.
7.2.- Del pari infondata è la doglianza
relativa alla pretesa reintroduzione della regola del "solve et repete", in violazione
degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione. In realtà le ordinanze muovono da una erronea premessa interpretativa dell'ultima parte
dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, assumendo che detta norma preveda
che, ove gli estimi catastali, determinati con decreto ministeriale, secondo i
criteri previsti a decorrere dal 1995, risultino inferiori a quelli già vigenti
per gli anni precedenti, il contribuente possa tenerne conto ai fini della
imposta personale che dovrà essere pagata a partire dal 1992.
Come già rilevato, nell'illustrare,
nelle sue linee generali, il quadro normativo discendente dall'art. 2 del
decreto-legge n.16 del 1993 e dalla relativa legge di conversione n. 75 del
1993, il raffronto va fatto non fra le tariffe di estimo di cui al decreto del
Ministro delle finanze 27 settembre 1991 e quelle che entreranno in vigore dal
1995, bensì fra quelle di cui al predetto decreto e quelle risultanti all'esito
dei ricorsi alle commissioni censuarie, proposti dai comuni ai sensi dei commi
1-bis, 1-ter e 1- quater dello stesso art. 2. In ogni
caso, a parte l'erroneità della premessa interpretativa, la censura è
infondata, non essendo la situazione ipotizzata dalla disposizione impugnata in
alcun modo assimilabile a quelle che si ispirano al principio del "solve et repete", dichiarato a suo
tempo incostituzionale (sentenza n. 21 del 1961),
riguardante, come è noto, l'imposizione dell'onere di pagamento di un tributo
quale presupposto indefettibile dell'esperibilità del- l'azione giudiziaria diretta a ottenere la tutela del
diritto del contribuente, mediante l'accertamento giudiziale dell'illegittimità
del tributo stesso.
7.3.- Neppure fondata è la doglianza
concernente la violazione degli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione,
per il lamentato straripa mento del potere legislativo nel campo riservato al
potere giudiziario.
Il tema delle leggi, per lo più
interpretative o innovative con effetto retroattivo, che interagiscono con
controversie in corso, ha formato, come è noto, oggetto di ricorrente esame da
parte della giurisprudenza costituzionale, la quale ritiene che tali leggi non
urtino, in linea di principio, contro
D'altro canto, non può negarsi al
legislatore nemmeno la facoltà di disciplinare settori per i quali vi sia una insufficiente copertura legislativa, come talora
7.4.- Inammissibile è poi la questione
che l'ordinanza della già menzionata Commissione tributaria di primo grado di
Piacenza (R.O. n. 5 del 1994) solleva in ordine al
medesimo art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, deducendo che sarebbero
mancati i presupposti della necessità e dell'urgenza, per l'emanazione dello
stesso. Come più volte affermato da questa Corte, intervenuta la conversione,
perdono rilievo e non possono trovare ingresso nel giudizio di costituzionalità
le censure di illegittimità dedotte con riguardo ai limiti dei poteri del
Governo nell'adozione dei decreti- legge.
Quanto, poi, al rilievo che la ripetuta
reiterazione del decreto-legge avrebbe coartato, in violazione dell'art. 77,
secondo comma, della Costituzione la libera espressione della volontà delle
Camere, secondo quanto sostenuto dalla Commissione tributaria di secondo grado
di Venezia, trattasi di notazione espressiva di null'altro che di un mero punto
di vista, come tale inidonea ad attivare lo scrutinio di costituzionalità e che
quindi non può che mettere capo ad una pronuncia di inammissibilità.
Come ad una pronuncia di inammissibilità
non possono che mettere capo i profili sollevati nella stessa ordinanza,
richiamando, nel solo dispositivo, gli artt. 70, 101, 102 e 104 della
Costituzione, senza addurre alcun cenno di motivazione.
8.- Quanto alle questioni prospettate
dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, vanno anzitutto esaminate
quelle che investono l'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 e,
in via derivata l'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, per violazione degli artt. 3, 24, 55 e
segg., 70 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e
113 della Costituzione. Poichè, l'art.2 della legge
n. 75 del 1993, nella parte in cui forma oggetto di censura, dispone che
"fino al 31 dicembre 1993, resta fermo per i comuni
e i contribuenti l'effetto di cui al primo comma, terzo periodo," del
decreto-legge n. 16 del 1993, ne consegue che, sia pure nella diversità delle
disposizioni investite, la sostanza delle questioni portate all'esame della
Corte corrisponde a quella di cui alle ordinanze delle già ricordate
Commissioni tributarie, segnatamente nella parte in cui si lamenta la lesione
del diritto di difesa dei cittadini e delle prerogative del potere
giurisdizionale. A ciò si aggiunge l'ulteriore profilo attinente alla
denunciata lesione delle prerogative di autotutela della pubblica
amministrazione.
Ad ogni modo, valgono le considerazioni
già svolte, nel senso che, nella specie, il legislatore ha provveduto a dare
fondamento legislativo a criteri che il giudice amministrativo aveva
considerato illegittimi, proprio perchè enunciati in
un decreto ministeriale che contrastava con la disciplina del catasto contenuta
nel d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142.
Tutto ciò, se da una parte vale ad
escludere, come già precisato, una illegittima
interferenza nell'esercizio della funzione del giudice, non consente nemmeno di
scorgere una lesione dei poteri di autotutela della pubblica amministrazione,
in quanto nel caso di specie il legislatore è intervenuto a sanare situazioni
derivanti proprio dall'accertata inidoneità dello strumento amministrativo a
realizzare una determinata disciplina. Fermo quanto detto, non è comunque
configurabile un profilo di illegittimità derivata nell'art. 5 del decreto
legislativo n. 504 del 1992, rispetto all'art. 2 della legge n. 75 del 1993,
posto che la prima norma, anche per essere cronologicamente anteriore, non fa, nè in alcun modo potrebbe fare, rinvio ai criteri enunciati
nella seconda, ma si limita, nel de finire la base imponibile per l'imposta
comunale sugli immobili, a richiamare le rendite risultanti in catasto, da
rivalutare "periodicamente in base a parametri che tengono conto
dell'effettivo andamento del mercato immobiliare", ma senza qualificare la
relativa fonte.
9.- Il Tribunale amministrativo
regionale dell'Umbria dubita, poi, della legittimità costituzionale dell'art. 4
della legge n. 421 del 1992 e del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo
30 dicembre 1992, n. 504, per violazione degli artt. 3, 42,
terzo comma, e 53 della Costituzione.
La lesione di tali parametri viene
prospettata sotto molteplici profili, attinenti all'incidenza dell'imposta sul
patrimonio immobiliare lordo anzichè sul reddito,
alla discriminazione fra contribuenti, a seconda che siano o
meno proprietari di immobili, alla mancata considerazione degli oneri e
passività nonchè della pressione tributaria specifica
che già grava sugli immobili stessi.
A proposito del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 504, occorre osservare che la denuncia proposta, la quale
investe il Capo I (artt.1-18) nella sua totalità, si risolve sostanzialmente
nella censura dell'intero complesso normativo riguardante l'istituzione e la
disciplina, nei suoi aspetti sostanziali e procedimentali, dell'imposta
comunale sugli immobili. Nei termini in cui viene proposta, la questione è da
dichiarare inammissibile, in quanto le disposizioni del testo impugnato hanno
oggetti eterogenei, fra i quali non è dato ravvisare quella reciproca, intima
connessione che consente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, di
introdurre validamente un giudizio di legittimità costituzionale quando questo
ha ad oggetto un intero testo legislativo. Nè possono
valere a superare un siffatto rilievo le puntuali censure prospettate dalla
difesa delle parti private, in quanto, secondo costante giurisprudenza,
Per la stessa ragione è da considerare
inammissibile la questione di costituzionalità in quanto riferita all'art. 4
della legge 23 ottobre 1992, n. 421 -disposizione dalla quale trae fondamento
la delega a suo tempo conferita al Governo per la istituzione
dell'ICI- e che si compone di molteplici proposizioni normative, in riferimento
a ben diciannove principi e criteri direttivi.
Quanto, infine, ai rilievi che le due
ordinanze svolgono in ordine all' art. 2 del
decreto-legge n. 16 del 1993, per violazione degli artt. 70, 77, 101, 102, 104
e segg. della Costituzione -senza sollevare, almeno a quanto risulta
dall'articolazione espositiva delle ordinanze medesime, specifica questione di
costituzionalità- possono valere le argomentazioni svolte a proposito delle
questioni sollevate con le ordinanze della Commissione tributaria di primo
grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993) e della
Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O.
n. 656 del 1993), alle cui prospettazioni il giudice
amministrativo remittente fa del resto rinvio.
10.- Inammissibile è, infine, la
questione sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano nei
confronti dell'art. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 e dell'art. 1 del
decreto- legge 9 ottobre 1993, n. 405, in riferimento agli artt. 3, 102 e 103
della Costituzione.
Anzitutto, il primo di essi non è stato
convertito in legge, anche se i suoi effetti sono stati fatti salvi dalla legge
10 novembre 1993, n. 457, di conversione del successivo decreto-legge n. 405
del 1993. In ogni caso, i due decreti-legge riguardano le procedure di ricorso
previste dai commi 1-bis e 1-ter del decreto-legge n. 16 del 1993, per la
contestazione degli estimi fra comuni e amministrazione finanziaria, destinate
a concludersi con le pronunzie poi recepite con il decreto legislativo n. 568
del 28 dicembre 1993. Le norme denunziate dispongono, in particolare, che i
ricorsi non decisi per mancata costituzione delle commissioni censuarie alla
data di entrata in vigore del decreto stesso si intendono accolti, fissando, a
decorrere da questa medesima data, un termine di trenta giorni per i ricorsi,
da parte dell'amministrazione, alla commissione censuaria centrale. Poichè nel giudizio pendente innanzi alla Commissione
tributaria di primo grado di Rossano si discute delle rendite catastali, quali
derivanti dagli estimi di cui al decreto ministeriale 27 settembre 1991,
assunti a contenuto dell'art. 2 del decreto- legge n. 16 del 1993, risulta
estranea al thema decidendum
ogni questione attinente alle procedure di ricorso di cui sopra, peraltro non
ancora definite all'epoca dell'ordinanza di rimessione.
PER QUESTI MOTIVI
riuniti i giudizi,
1) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16
(Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili
di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni
e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi,
premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito in legge
24 marzo 1993, n. 75, sollevata con le ordinanze della Commissione tributaria
di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993), in
riferimento agli artt.3, 24, 53, 102 e 103 della
Costituzione; della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), in riferimento agli artt. 24, 3 e 53
della Costituzione; della Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993), in riferimento agli artt. 3, 24, 53,
102 e 103 della Costituzione; della Commissione tributaria di primo grado di
Piacenza (R.O. n. 5 del 1994), in riferimento agli
artt. 3, 24, 53, 101, 102 e 104 della Costituzione; della Commissione
tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n. 118
del 1994), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102, 103 e 104 della
Costituzione;
2) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale del medesimo art. 2 del decreto-legge 23 gennaio
1993, n. 16, sollevata con la ordinanza della
Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O.
n.656 del 1993), in riferimento all'art. 77, secondo comma, della Costituzione,
e con la ordinanza della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994), in riferimento all'art. 77 della
Costituzione;
3) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale del medesimo art. 2 del decreto-legge 23 gennaio
1993, n. 16, sollevata con la ordinanza della
Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O.
n. 656 del 1993), in riferimento agli artt. 70, 101, 102 e 104 della
Costituzione;
4) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993,
n. 75 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 gennaio
1993, n. 16, recante disposizioni in materia di
imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di
termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie,
per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti
derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè
altre disposizioni tributarie) e dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma,
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli
enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 55 e segg., 70 e segg., 92 e segg.,
97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione, dal
Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, con due ordinanze in data 10
novembre 1993 (R.O. n. 31 del 1994 e R.O. n. 33 del 1994);
5) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421
(Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in
materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza
territoriale) e del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art.
4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3,
42, terzo comma, e 53 della Costituzione, con le
menzionate ordinanze del predetto Tribunale amministrativo regionale
dell'Umbria;
6) dichiara inammissibile la questione
di legittimità costituzionale degli artt. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n.
287 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie
relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie) e 1 del
decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 (Disposizioni urgenti in materia di
ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle
rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla
delimitazione delle zone censuarie), sollevata, in riferimento agli artt. 3,
102 e 103 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di
Rossano, con la menzionata ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/06/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Massimo VARI, Redattore
Depositata in cancelleria il 24/06/94.