Sentenza n. 263 del 1994

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SENTENZA N. 263

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75; 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, recante disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie); 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n.287 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie); 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie); del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), promossi con ordinanze emesse il 4 agosto 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, il 13 maggio 1993 dalla Commissione tributaria di secondo grado di Venezia, il 23 novembre 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano, il 2 ottobre 1993 dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, il 10 novembre 1993 dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria (n. 2 ordinanze) e il 20 novembre 1993 dalla Commissione tributaria di secondo grado di Perugia, iscritte rispettivamente ai nn. 628, 656 e 798 del registro ordinanze 1993 e ai nn. 5, 31, 33 e 118 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, nn. 43 e 44 dell'anno 1993 e nn. 5, 6, 8 e 13 dell'anno 1994.

Visti gli atti di costituzione di Boselli Ernestina, dell'Associazione della proprietà edilizia di Perugia ed altro, del Comune di Perugia, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 1994 il Giudice relatore Massimo VARI;

uditi gli Avvocati Valerio Onida per Boselli Ernestina, Valerio Onida, Gaspare Falsitta e Mario Rampini per l'Associazione della proprietà edilizia di Perugia ed altro, Alarico Mariani Marini e Gaetano Ardizzone per il Comune di Perugia e l'Avvocato dello Stato Carlo Bafile per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un giudizio promosso da Boselli Ernestina nei confronti dell'U.T.E. di Piacenza per ottenere -previa disapplicazione, se del caso, degli atti generali relativi alla formazione della tariffa d'estimo (ovvero il decreto ministeriale 20 gennaio 1990)- che sia dichiarata "nulla e di nessun effetto" la rendita attribuita sulla base della tariffa medesima agli immobili di proprietà della ricorrente (o, in subordine, la riduzione della rendita stessa), la Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, con ordinanza 4 agosto 1993 (R.O. n. 628 del 1993), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione, dell'art. 2 del decreto- legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75.

Premesso che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con decisione n. 1184 del 6 maggio 1992, ha annullato i decreti del Ministro delle finanze del 20 gennaio 1990 e del 27 settembre 1991, con i quali era stato posto alla base della revisione delle tariffe d'estimo il valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile, il giudice a quo rileva che il Governo ha riprodotto il contenuto dei citati decreti ministeriali in una serie di decreti-legge, l'ultimo dei quali, e cioé il decreto-legge n. 16 del 1993, è stato convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75.

Tale decreto-legge, all'art. 2, ha stabilito che le nuove tariffe, che entreranno in vigore dal 1° gennaio 1995, dovranno essere basate sul parametro della redditività anzichè su quello del valore commerciale dell'immobile. Tuttavia, osserva il remittente, il decreto-legge, sia pure per un periodo di tempo limitato, ovvero fino al 31 dicembre 1994, ha resuscitato le disposizioni contenute nei decreti ministeriali dichiarati illegittimi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con sentenza "divenuta definitiva", ponendosi in tal modo in contrasto:

a) con gli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, della Costituzione, configurando una ipotesi di "straripamento" del potere legislativo nel campo riservato istituzionalmente al potere giudiziario: i contribuenti, sebbene per un periodo limitato, sarebbero obbligati a conformarsi ad atti amministrativi illegittimi, tale rilievo sarebbe superabile considerando che la norma stabilisce che, se le tariffe in vigore dal 1° gennaio 1995 risulteranno inferiori a quelle derivanti dall'applicazione dei decreti ministeriali, il contribuente potrà recuperare la somma versata in più sotto forma di credito d'imposta nella dichiarazione successiva all'entrata in vigore delle nuove tariffe, in quanto al momento i contribuenti sarebbero obbligati a pagare somme superiori a quelle effettivamente dovute. è previsto un termine per la restituzione delle somme versate, la corresponsione di interessi;

b) con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, non essendo conforme al principio della capacità contributiva, a quello di progressività, la tassazione, sia pure in via provvisoria, delle rendite immobiliari fondata su una ipotesi di fruttuosità del valore capitale dell'immobile determinato in base a criteri di tipo patrimoniale, che la stessa norma mostra di voler abbandonare per i periodi successivi al 1994, palesando, inoltre, la propria intrinseca irrazionalità;

c) con gli stessi artt. 3 e 53, nonchè con l'art. 24 della Costituzione, in quanto, differendo al periodo successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità, per i contribuenti, di recuperare quanto eventualmente pagato in più del dovuto ed il relativo contenzioso, sottoporrebbe, medio tempore, il contribuente ad una tassazione avulsa dalla sua capacità contributiva e ripristinatoria di una forma di "solve et repete".

1.2.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

In una successiva memoria, l'Avvocatura, precisato che la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio non è "divenuta definitiva", deduce, rinviando alla memoria depositata per il giudizio di cui al R.O. n. 656 del 1993, l'infondatezza della questione, osservando, in particolare, che la Costituzione rende possibile utilizzare anche gli indici di capacità contributiva che derivano dal possesso di cespiti patrimoniali;indici che risultano automaticamente informati al principio di progressività. Peraltro, le imposte sui redditi e l'imposta comunale sugli immobili (ICI) non sono divenute imposte patrimoniali solo perchè si è adottato uno dei possibili metodi di estimo degli immobili urbani. Infine, il terzo dei profili prospettati sarebbe inammissibile, in quanto le questioni attinenti alla riscossione dei tributi sarebbero irrilevanti in una controversia sulla attribuzione delle rendite.

1.3.- Si è costituito in giudizio anche il contribuente, depositando una memoria nella quale si sostiene che la norma, se interpretata nel senso (più attendibile) di "convalidare" gli atti amministrativi annullati, appare caratterizzata da un fine fraudolento in quanto, incidendo retroattivamente nei confronti di situazioni sub judice, lede, in violazione degli artt. 24, 101, 102, 103 e 113 della Costituzione, la funzione attribuita dalla Costituzione al potere giudiziario e il diritto dei singoli alla tutela giurisdizionale. Inoltre la stessa, restituendo efficacia ai contenuti di un atto amministrativo illegittimo e già annullato, viene a sostituirsi all'attività amministrativa, con l'effetto di togliere ogni rilievo al procedimento amministrativo, in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, specie in riferimento al principio del giusto procedimento. Essa urta, altresì, contro l'art. 24 della Costituzione, in quanto, attraverso la legificazione dell'atto amministrativo, porta a vanificare la articolata tutela giudiziaria prevista in tema di controversie catastali.

La norma contrasta, infine, con gli artt.3 e 53 della Costituzione, in particolare in quanto estimi determinati col criterio del valore non potrebbero essere utilizzati ai fini della applicazione delle imposte sul reddito.

Da ultimo, con una memoria depositata in prossimità dell'udienza, la difesa della parte privata, ricordato che, recentemente, è intervenuta la decisione del Consiglio di Stato su una delle sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio che hanno annullato i decreti ministeriali, ribadisce le argomentazioni già svolte, osservando, conclusivamente, come il legislatore, mirando proprio a togliere di mano al giudice l'oggetto del giudizio, abbia disposto dei rapporti tributari e patrimoniali facenti capo ai cittadini, trascurando ogni esigenza di giusto procedimento e precludendo la strada al controllo giudiziale dei provvedimenti adottati per via legislativa.

2.1.- Nel corso di un giudizio promosso da La Guardia Giuseppe e altra contro l'U.T.E. di Venezia, per l'annullamento della decisione con cui la Commissione tributaria di primo grado di Venezia ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso l'attribuzione della nuova rendita catastale all'immobile dei contribuenti, la Commissione tributaria di secondo grado di Venezia, con ordinanza 13 maggio 1993 (R.O. n. 656 del 1993), ha sollevato -in riferimento agli artt.70, 77, secondo comma, 24, 101, 102, 104, 3 e 53 della Costituzione- questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui dispone che "fino alla data del 31 dicembre 1993 restano in vigore e continuano ad applicarsi le tariffe d'estimo e le rendite già determinate in esecuzione del decreto ministeriale 20 gennaio 1990".

Il giudice a quo, premesso che i prospetti di tariffa divenuti ormai obbligatori ex lege determinano la lesione diretta ed immediata delle situazioni soggettive fatte valere, ritiene che il Governo, attraverso la "legificazione" dei decreti ministeriali annullati dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, operata con la legge di conversione n. 75 del 1993, al termine di una catena di decreti-legge non convertiti, avrebbe condizionato la libera scelta del Parlamento "con la irreversibilità delle situazioni nel frattempo intervenute, quindi influenzandone la libera formazione del consenso circa l'opportunità di convertire o meno il decreto in discorso". Secondo l'ordinanza, "le suesposte considerazioni sono assorbenti della violazione del principio della divisione dei poteri dedotto dai contribuenti, per l'evidente fine dell'art. 2 del decreto- legge n. 16 del 1993 e della relativa legge di conversione (come dei precedenti decreti-legge) di superare l'annullamento della determinazione tariffaria discendente dalla sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio".

L'ordinanza ripete quindi le censure avanzate ai punti sub b) e c) dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n.628 del 1993).

2.2.- Nel giudizio di fronte alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o sia rigettata.

Nell'atto di intervento ed in una successiva memoria l'Avvocatura sostiene che il giudizio di fronte alla Commissione tributaria di primo grado era stato promosso prima e indipendentemente dalla nascita di uno specifico rapporto di imposta, consistendo nella impugnativa in via principale del decreto ministeriale sulla determinazione delle tariffe, per cui correttamente tale Commissione aveva dichiarato il suo difetto di giurisdizione. Questo impedimento sarebbe ulteriormente accentuato dalla legificazione del decreto ministeriale, alla quale consegue una impugnazione in via principale dell'atto avente forza di legge, giacchè manca del tutto la incidentalità della questione e non esiste un rapporto di imposta controverso.

La questione sarebbe comunque infondata, in quanto:

- non sussisterebbe la violazione degli artt. 70 e 77 della Costituzione, poichè "l'autonomia del Parlamento è al di sopra di ogni sospetto e comunque non valutabile in questa sede";

- l'accenno al tentativo di superare la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio sarebbe inconsistente, sia perchè questa non è passata in giudicato, sia perchè la principale ragione di annullamento posta a base di essa consisteva nella inadeguatezza della fonte normativa in una materia che richiedeva la forma della legge;

peraltro, la giurisprudenza della Corte riconosce al legislatore la possibilità di disciplinare retroattivamente il quadro normativo precedente, senza con ciò violare il diritto di difesa l'autonomia del potere giurisdizionale (da ultimo, v. la sentenza n. 6 del 1994);

inoltre, il decreto ministeriale 20 gennaio 1990 "era già stato anteriormente legificato con norme di cui non è contestata la legittimità";

- il fatto che le nuove tariffe siano stabilite sulla base del valore unitario di mercato non contrasterebbe con il principio della capacità contributiva con quello della progressività dell'imposizione, fermo comunque che tale censura dovrebbe essere considerata inammissibile, in quanto questo passaggio dell'ordinanza sarebbe incomprensibile;

- ferma la ragionevolezza del criterio seguito dalla norma denunciata, va considerato che, al valore di mercato degli immobili, per ottenere il reddito è stato applicato un bassissimo saggio di interesse (1% per le abitazioni, 2% per gli uffici, 3% per i negozi), in conformità delle deliberazioni della commissione censuaria centrale (23 aprile 1990, n.3666 e 18 giugno 1990, n.3668);

- le nuove tariffe hanno lasciato indenni situazioni meritevoli di considerazione, quali i fabbricati non di lusso utilizzati dal proprietario come abitazione principale, oppure i fabbricati dati in locazione per effetto di regimi legali ad un canone che, ridotto di un quarto, risulti inferiore alla rendita catastale;

- il riferimento alla reintroduzione di una forma di "solve e repete" sarebbe irrilevante, consistendo in "una mera dissertazione accademica del tutto avulsa da un interesse concreto dedotto in giudizio";

inoltre, l'eventualità che siano pagate somme di cui si possa successivamente chiedere il rimborso, che è normale in molti tributi, non avrebbe nulla in comune con il richiamato principio del "solve et repete".

3.1.- Con ordinanza emessa il 23 novembre 1993 (R.O. n. 798 del 1993) -sui ricorsi riuniti promossi da Via Elena ed altri avverso l'U.T.E. di Cosenza per chiedere che sia dichiarata "nulla e priva di effetti" la rendita attribuita agli immobili di loro proprietà- la Commissione tributaria di primo grado di Rossano ha sollevato questione di legittimità costituzionale:

a) dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione;

b) dell'art. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 e dell'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405, convertito in legge 10 novembre 1993, n. 457, in riferimento agli artt. 3, 102 e 103 della Costituzione.

Sostiene il remittente che la soluzione adottata dal potere legislativo nel ripristinare, sia pure per un periodo limitato, le disposizioni contenute nei decreti ministeriali annullati dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, costituirebbe uno straripamento del potere legislativo nel campo istituzionalmente riservato al potere giudiziario, in violazione degli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, della Costituzione. La disposizione menzionata violerebbe inoltre gli artt. 3 e 53 della Costituzione, introducendo una tassazione delle rendite immobiliari attraverso una determinazione operata non più su base reddituale, ma patrimoniale. Inoltre, si ripristinerebbe una forma di "solve et repete", in contrasto con gli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, per effetto dell'applicazione in via provvisoria delle tariffe annullate, essendo previsto il varo dal 1° gennaio 1995 di nuovi estimi che sostituiscano quelli il legittimi con il recupero delle somme eventualmente versate in più.

L'art. 1 del decreto-legge n. 287 del 1993 (e l'art. 1 del decreto-legge n. 405 del 1993, che lo reitera), in quanto dà esclusiva competenza alla commissione censuaria centrale in tema di revisione degli estimi, esautorando le commissioni distrettuali e provinciali ed escludendo l'interpello dei comuni interessati da parte degli uffici tecnici erariali, violerebbe l'art. 3 della Costituzione, "sotto il profilo del diverso trattamento normativo riservato a situazioni del tutto analoghe tra loro". Tale norma, inoltre, rimettendo nei termini il Ministero delle finanze per inoltrare i ricorsi presso la commissione censuaria centrale, modificherebbe il valore sostanziale della "res iudicata" e porrebbe in essere uno straripamento del potere legislativo in un campo riservato al potere giudiziario.

3.2.- Nel giudizio di fronte alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.

Soffermandosi in particolare sulla censura rivolta avverso il decreto-legge n. 287 del 1993 e il successivo n. 405 del 1993, l'Avvocatura rileva che tali atti hanno inteso colmare una lacuna dell'art.2, comma 1-bis del decreto-legge n. 16 del 1993, che non ha previsto l'ipotesi della inesistenza "per mancata costituzione" della commissione censuaria provinciale, alla quale taluni comuni hanno indirizzato i ricorsi previsti dal comma sesto. Pertanto, appare erronea la congettura secondo cui il comma 1-bis avrebbe inteso rimettere nei termini l'amministrazione finanziaria. Inoltre, non essendo le commissioni censuarie organi giurisdizionali, non ha senso parlare di "res iudicata" e di "straripamento in un campo riservato al potere giudiziario".

4.1.- Con ordinanza emessa in data 2 ottobre 1993 (R.O. n. 5 del 1994), la Commissione tributaria di primo grado di Piacenza -sui ricorsi proposti da Paperi Giorgio ed altro avverso l'applicazione da parte dell'U.T.E. di Piacenza delle tariffe di estimo di cui ai decreti ministeriali 20 gennaio 1990 e 27 settembre 1991- ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito in legge 24 marzo 1993, n.75, in relazione agli artt. 3, 24, 53, 77, 101, 102 e 104 della Costituzione.

Secondo il remittente, la disposizione impugnata violerebbe l'art.77 della Costituzione, per difetto dei presupposti di necessità e di urgenza ai quali è subordinata l'emanazione dei decreti-legge. Inoltre, essa, in contrasto con gli artt. 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, "finisce per incidere sui giudizi in corso, proponendosi come interpretazione autentica di una norma di natura interpretativa".

L'adozione, poi, sia pure in via temporanea, di un criterio impositivo basato sul valore degli immobili, anzichè sulla loro redditività, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, perchè consentirebbe, tra l'altro, l'applicazione di tariffe d'estimo espressione di un unico saggio di interesse determinato per tutto il territorio nazionale, con perdita di ogni collegamento con il bene e con la sua produttività.

4.2.- Nel giudizio di fronte alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, deducendo l'inammissibilità della censura relativa alla violazione dell'art. 77 della Costituzione, essendo rimessa al Parlamento la verifica dei presupposti della necessità e dell'urgenza dei decreti-legge. Si sostiene, inoltre, che, a seguire la prospettazione dell'ordinanza, si attribuirebbe a qualsiasi privato il potere di bloccare l'attività legislativa mediante la proposizione di ricorsi. In riferimento alla esistenza di tariffe espressione di un unico saggio di interesse su tutto il territorio nazionale, si rileva che "il saggio di interesse di riferimento è stato determinato in misura (per solito 1% annuo) di gran lunga inferiore al praticato e che non sono individuabili saggi di interesse differenziati per comune o per provincia".

5.1.- Con due identiche ordinanze, emesse il 10 novembre 1993 (R.O. n. 31 del 1994 e R.O.n. 33 del 1994) -sui ricorsi proposti, l'uno, dall'Associazione della proprietà edilizia di Perugia e da Mantellini Gino e, l'altro, da Amati Carlo, per l'annullamento delle deliberazioni con cui è stata determinata la misura della aliquota dell'imposta comunale sugli immobili, per l'anno 1993 e successivi, nel Comune di Perugia e, per l'anno 1993, nel Comune di Terni- il Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 e, in via derivata, dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504;dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 e del Capo I (artt.1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 55, 70, 77, 92, 97, 101, 102, 104, 108 e 113 della Costituzione, "nei termini precisati in motivazione".

Nella parte motiva, il giudice a quo, ritenuto il carattere pregiudiziale delle questioni di legittimità costituzionale, rispetto a quella della legittimità o meno della delibera comunale determinativa dell'aliquota dell'ICI, sostiene che non sia manifestamente infondata -in riferimento agli artt. 24, 55 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione- la questione di legittimità costituzionale dell'art.2, primo comma, seconda parte, della legge n. 75 del 1993 e, in via derivata, dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo n. 504 del 1992, che avrebbero prevaricato il diritto di difesa dei cittadini, nonchè le prerogative del potere giurisdizionale, attraverso il ripristino di decreti ministeriali annullati.

Del pari, non manifestamente infondata sarebbe la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni stesse, in riferimento agli artt. 3, 55 e segg., 70 e segg. e 97 della Costituzione per aver prevaricato le prerogative di autotutela della pubblica amministrazione, alla quale esclusivamente spetta il potere-dovere di riesaminare i propri atti, allo scopo di renderli conformi a legge.

Ancor più pregnante e significativa, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, sarebbe, ad avviso del remittente, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e dell'intero Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo n. 504 del 1992, per l'istituzione di un'imposta comunale sugli immobili basata su valori di redditività astratti e rivalutabili sulla base di parametri non pertinenti e non attendibili calcolati non sul solo effettivo andamento del mercato locativo, ma, altresì, sull'andamento del mercato immobiliare (ai sensi dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993), sicchè l'imposta viene a gravare sul patrimonio immobiliare lordo del contribuente, anzichè sul reddito effettivamente ritraibile dal medesimo. L'imposta, in violazione dell'art. 3 della Costituzione, discriminerebbe illegittimamente i contribuenti, a seconda che siano o meno proprietari di immobili, senza tener conto di altre possibili espressioni di ricchezza. Inoltre, non attribuendo rilievo significativo agli oneri e alle passività che gravano sul patrimonio immobiliare, essa illegittimamente si attesterebbe, con riferimento all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sullo stesso piano degli istituti ablatori;

infine, essa contrasterebbe con il principio della capacità contributiva, "squilibrando la stessa capacità di contribuzione a tutto danno del contribuente proprietario di immobili, senza considerazione alcuna in ordine alla pressione tributaria specifica che già opprime tali cespiti". É prevista, infatti, una aliquota a misura unica, applicabile sulla medesima base imponibile già gravata dall'aliquota progressiva dell'IRPEF, ovvero dall'aliquota proporzionale dell'IRPEG, senza alcun beneficio di detrazione dall'IRPEF (o dall'IRPEG) medesima, così come già previsto per l'ILOR. Tutto ciò, secondo il Tribunale amministrativo regionale remittente, non è sminuito dall'intervento del decreto-legge n.16 del 1993, giacchè -come è stato evidenziato nell'ordinanza 4 agosto 1993 della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993) e nell'ordinanza 13 maggio 1993 della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n.656 del 1993)- tale disciplina (con forzature di scelta anche nei confronti del libero dibattito parlamentare) dà corso all'imposizione secondo criteri che incidono sul patrimonio e che sanano l'attività di prelievo fiscale già operata, ma, ponendosi in contrasto con gli artt. 70, 77, 101, 102, 104 e segg. della Costituzione, viola il principio della divisione dei poteri.

5.2.- In entrambi i giudizi di fronte alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

Con due identiche memorie, l'Avvocatura dello Stato sostiene in primo luogo l'irrilevanza della questione di legittimità costituzionale, in quanto al Tribunale amministrativo regionale compete, quanto all'ICI, "la giurisdizione solo sull'altezza dell'aliquota in misura superiore a quella minima di legge", restando, invece, estranea "ogni questione concernente la base imponibile e, in genere, l'obbligazione tributaria".

Nel merito, l'Avvocatura deduce l'infondatezza della censura relativa alla violazione del principio della separazione dei poteri, con argomentazioni analoghe a quelle di cui alle memorie relative alle ordinanze delle Commissioni tributarie di cui si è già fatto menzione.

In ordine alla prevaricazione delle prerogative di autotutela dell'amministrazione, si sostiene che non vi è alcun ostacolo alla traduzione in norma di legge di un atto amministrativo, essendo la stessa amministrazione soggetta alla legge. Inoltre, il sistema di determinazione del reddito dei fabbricati basato sul valore di mercato degli immobili non si porrebbe in contrasto con l'art. 53 della Costituzione, in quanto al valore di mercato è stato applicato un bassissimo saggio di interesse. La memoria, così come quella depositata per il giudizio di cui al R.O. n.656 del 1993, ricorda, inoltre, che le nuove tariffe hanno lasciato indenni molte situazioni meritevoli di considerazione.

Riguardo all'imposta comunale sugli immobili, l'Avvocatura sostiene che l'art. 53 della Costituzione non vieta la istituzione di imposte di tipo patrimoniale, mentre rientra nelle scelte del legislatore, non impedite da principi costituzionali, l'esclusione delle somme corrisposte per l'ICI dalla deduzione dell'imponibile IRPEF o IRPEG.

5.3.- Nel giudizio iscritto al n. 31 del 1993 del registro ordinanze si sono costituiti l'Associazione della proprietà edilizia di Perugia e il Sig. Mantellini, la cui difesa ha presentato una memoria, simile, nella prima parte, a quella presentata dalla parte privata nel giudizio introdotto con l'ordinanza della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993).

Si sostiene, al riguardo:

- che l'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 tende ad incidere retroattivamente su situazioni sub judice;

- che la stessa norma intende ridare efficacia ad un atto amministrativo illegittimo e già annullato;

- che in base al principio del giusto procedimento "è da escludere che la legge possa disporre nei casi singoli del contenuto e degli effetti degli atti amministrativi".

Soffermandosi sulla dedotta incostituzionalità della normativa sull'ICI, la memoria osserva, poi, che l'art. 5 del decreto legislativo n. 504 del 1992 prevede coefficienti di capitalizzazione elevatissimi e vincolanti, comportando l'introduzione di una presunzione assoluta, in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, giacchè in un elevato numero di casi il prelievo sarebbe destinato a gravare su un imponibile assai superiore al valore effettivo del bene, senza che all'interessato sia offerta la possibilità di dimostrare che tali valori superano il valore venale dell'unità immobiliare.

Inoltre, le norme sull'ICI -in specie l'art. 5, terzo comma, del decreto legislativo n. 504 del 1992- appaiono irrazionali ed arbitrarie, contrastando perciò con gli artt.3 e 53 della Costituzione, sia perchè sottopongono all'imposta anche gli impianti ed i macchinari posseduti da imprese, cioè beni soggetti ad un intenso logorio, senza che sia introdotto alcun correttivo, sia per le modalità previste per la rivalutazione del costo storico degli immobili industriali.

La mancata previsione della rilevanza delle passività che gravano l'immobile, ai fini della determinazione della base imponibile, costituirebbe ulteriore violazione dell'art. 53 della Costituzione.

Il mancato esonero della prima casa si configurerebbe altresì come mancato esonero del minimo vitale, con effetto ablatorio, a fronte del quale sarebbe insufficiente la detrazione prevista dall'art. 15 della legge n.537 del 1993.

L'effetto ablatorio dell'imposta deriverebbe anche dall'aliquota assai elevata, nonchè dalla indetraibilità dall'imponibile IRPEF o IRPEG. Le imposte patrimoniali, infatti, sono conformi al dettato costituzionale solo se possono essere pagate con il reddito, in quanto, diversamente, impongono l'alienazione del bene e assumono carattere espropriativo, intaccando le fonti produttive a disposizione del privato, in violazione dell'art. 53, inteso alla luce dell'art.42, della Costituzione.

Rilevato, inoltre, che la struttura complessiva dell'imposta personale e dell'ICI, combinandosi con il divieto di detrazione, sfocia nell'espropriazione dell'intero reddito, si lamenta, infine, l'incostituzionalità dell'art. 12 del decreto legislativo n. 504, relativo alla riscossione coattiva dell'imposta.

5.4.- Anche il Comune di Perugia si è costituito nel giudizio iscritto al n. 31 del 1994 del registro ordinanze, sostenendo che la questione relativa all'art. 2, primo comma, seconda parte, della legge 24 marzo 1993, n.75, sarebbe inammissibile, in quanto dal suo accoglimento non discenderebbe la dichiarazione di illegittimità "in via derivata" dell'art.5 del decreto legislativo sull'ICI. La stessa sarebbe comunque infondata, nel merito, non potendosi opporre al legislatore una riserva di amministrazione, e conseguentemente di giurisdizione, risultando pregiudicato il diritto di difesa.

Quanto alla disciplina dell'ICI, secondo la memoria, l'introduzione del parametro del valore del fabbricato razionalizzerebbe il sistema di determinazione del reddito medio ordinario, ove si consideri che lo stesso esprime l'attitudine del bene a produrre reddito. Circa il rilievo relativo alla tassazione del patrimonio immobiliare lordo, da questo non potrebbe discendere la illegittimità dell'intero Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo n. 504 del 1992.

Premesso che la questione andrebbe rimessa al Tribunale amministrativo regionale per una migliore specificazione o che, in alternativa, dovrebbe essere dichiarata inammissibile, si osserva comunque che il valore dell'immobile è determinato sulla base del reddito lordo diminuito delle spese di riparazione e manutenzione e di ogni altra spesa necessaria a produrlo.

Rilevato che il patrimonio ben può essere considerato sintomo di capacità contributiva, la memoria ritiene di escludere anche il contrasto con l'art. 3 della Costituzione, rientrando nella discrezionalità del legislatore la scelta di alcune situazioni, anzichè di altre, come indicative di capacità contributiva, ed apparendo l'imposta ragionevole, anche in virtù del carattere di generalità. Il tributo non avrebbe poi carattere ablatorio, ove si tenga conto della mitezza delle aliquote e del reddito catastale preso in considerazione, mentre l'art. 15 della legge n. 537 del 1993 delineerebbe in modo ancora più netto l'intento del legislatore (di cui agli artt. 8 e 17 del decreto legislativo n. 504 del 1992) di attenuare l'imposizione, in particolare quando il bene sia adibito all'uso del contribuente.

5.5.- Nell'imminenza dell'udienza, la difesa della Associazione della proprietà edilizia e di Mantellini Gino ha depositato due ulteriori memorie.

La prima, in replica alle memorie dell'Avvocatura dello Stato e del Comune di Perugia, ricorda, in particolare, che nel frattempo è intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato sugli atti amministrativi annullati dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, onde è ormai inoppugnabile che la disposizione di legge qui contestata abbia come scopo ed effetto di ridare efficacia a detti atti, con illegittima interferenza sull'esercizio della funzione giurisdizionale ed indebita commistione fra attività legislativa ed attività amministrati va.

La seconda memoria, soffermandosi specificamente sulla disciplina dell'ICI, deduce che appare irrazionale e contrastante con i principi di uguaglianza e di capacità contributiva la scelta del legislatore di istituire una imposta patrimoniale ordinaria, avente ad oggetto i soli immobili, per di più senza considerare i debiti che ineriscono ai cespiti cui si riferisce.

La memoria si sofferma criticamente su vari aspetti della disciplina dell'ICI relativi ai coefficienti di capitalizzazione "elevatissimi e vincolanti"; all'impossibilità per il contribuente di dimostrare che il valore scaturente dalla capitalizzazione delle nuove rendite catastali è di gran lunga superiore al valore venale; alla mancanza di correttivi riguardanti l'esistenza di regimi vincolistici di determinazione del canone; ai criteri di valutazione dei fabbricati classificati nel gruppo D; agli indici fissati per la rivalutazione del costo storico degli immobili industriali; all'inadeguatezza dell'esonero accordato al c.d. minimo vitale e all'omessa considerazione della composizione del nucleo familiare del soggetto; ai criteri di tassazione degli immobili inagibili; alla previsione di un'aliquota elevata (tra 4 e 7%) e al divieto di detrazione dell'ICI dall'imposta personale; al mancato esonero degli opifici utilizzati direttamente dai piccoli imprenditori commerciali; alla disciplina della riscossione delle somme liquidate dal comune per imposte, sanzioni e interessi.

5.6.- Anche il Comune di Perugia ha depositato un'ulteriore memoria, nella quale, ribadite le considerazioni già svolte sulla irrilevanza e sulla infondatezza delle questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, si osserva che con la legge n. 75 del 1993 il legislatore ha utilizzato una tecnica normativa particolare per dettare la disciplina relativa alla determinazione degli estimi catastali.

Quanto alla norma istitutiva dell'ICI, poichè la commissione censuaria centrale ha adottato saggi di interesse bassissimi per la determinazione della rendita, il valore degli immobili non può che essere determinato adottando i moltiplicatori previsti per legge, precisando che i valori hanno carattere vincolante non perchè derivino da una presunzione assoluta, ma perchè individuati sulla base di criteri di calcolo fissati dal legislatore.

Dedotta l'infondatezza di quanto assunto dalle parti private a proposito dei beni di impresa, si osserva, quanto alla mancata deduzione delle passività, che ogni acquisto a titolo oneroso esige una spesa che viene compensata dall'entrata del valore dell'immobile acquistato.

Rilevato, poi, che ai fini del minimo vitale occorre valutare l'insieme dell'importo che il soggetto è chiamato a pagare, si osserva, quanto all'effetto ablatorio dell'ICI, che esso non deriva da quest'ultima, bensì dal cumulo di più imposte.

6.1.- Con ordinanza emessa in data 20 novembre 1993 (R.O. n. 118 del 1994), la Commissione tributaria di secondo grado di Perugia -nel corso del giudizio di appello promosso dall'U.T.E. di Perugia avverso varie decisioni della Commissione tributaria di primo grado di Perugia, emesse nei confronti di Sebastiani Bruno ed altri- ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 24, 53, 102, 103 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge n.16 del 1993, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75.

Il remittente sostiene che la disposizione in esame viola:

- gli artt. 102, primo comma, 103, primo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, in quanto, facendo rivivere, sia pure per un periodo di tempo limitato, le disposizioni annullate con la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio n. 1184 del 1992, darebbe luogo ad uno straripamento del potere legislativo nel campo riservato al potere giudiziario;

- gli artt. 3 e 53 della Costituzione, "non essendo conforme al principio della capacità contributiva, a quello della progressività, la tassazione delle rendite immobiliari, su una ipotesi di fruttuosità del capitale dell'immobile determinato in base a criteri di tipo patrimoniale";

- gli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, ripristinando una forma di "solve et repete".

6.2.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Si rileva nella memoria che il Consiglio di Stato, pronunziandosi su uno degli appelli avverso le decisioni rese dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, ha affermato che, essendo stato il contenuto dei decreti ministeriali annullati trasfuso in disposizioni legislative, sarebbe venuto meno l'interesse a ricorrere.

Ciò testimonierebbe la inesistenza di un giudicato su cui avrebbe inciso la norma impugnata, mentre "appare indubbio che il legislatore può recepire il contenuto di un atto amministrativo, conferendo, così, ad esso il valore di legge".

Si osserva, poi, che la retroattività al 1o gennaio 1992 non è prevista per le tariffe e le rendite determinate a seguito della revisione generale che avrà effetto dal 1° gennaio 1995, ma è circoscritta alle tariffe e alle rendite modificate con l'intervento del decreto legislativo n. 568 del 1993.

In ordine alla violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, si nega la lesione del principio di uguaglianza, attesa la generale applicazione delle tariffe in questione. Circa la capacità contributiva, si afferma che rientra nella discrezionalità del legislatore assumere determinate situazioni, e non altre, come indicative della capacità contributiva, ha rilevanza, ai fini della progressività del sistema impositivo, la determinazione della base imponibile dei fabbricati effettuata sulla base delle tariffe d'estimo e delle rendite in questione.

Sarebbe, infine, del tutto inconferente il riferimento alla introduzione del principio del "solve et repete", in quanto la norma impugnata non pone alcun limite al diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti.

7.- Per tutti i giudizi, l'Avvocatura dello Stato ha presentato, in prossimità dell'udienza, una ulteriore memoria, nella quale, nel ribadire le argomentazioni già svolte, si osserva:

- quanto al decreto-legge n. 16 del 1993, che è "del tutto normale che l'atto annullato, perchè la materia in esso contenuta richiedeva la forma di norme aventi rango legislativo, sia stato legificato non in contrasto, ma in conformità al giudicato";

- la questione di incostituzionalità dell'ICI nel suo complesso e nei singoli aspetti è inammissibile, perchè "riguarda esclusivamente il rapporto di imposta di diritto soggettivo ed esula totalmente da quanto è oggetto del giudizio principale innanzi al Tribunale amministrativo regionale";

- così come è sollevata dalle ordinanze del Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, la questione si pone in termini astratti ed accademici, senza nessun nesso con controversie concrete, ma, soprattutto, assume il contenuto di una discussione de futuro, dal momento che l'ICI ha cominciato a manifestare i suoi effetti nel 1993, mentre i ricorsi al Tribunale amministrativo regionale sono anteriori;

- la non deducibilità dell'ICI dall'IRPEF non viola alcun precetto costituzionale;

comunque, l'eccezione non riguarderebbe la disciplina dell'ICI, bensì quella dell'IRPEF o dell'IRPEG;

- una serie di censure si rinvengono nella memoria di parte, ma non nelle ordinanze del Tribunale amministrativo regionale, quali quelle relative alla misura elevata dei coefficienti di capitalizzazione del reddito; alla necessità che il contribuente abbia il diritto di offrire la prova di un valore venale inferiore; all'imposta su fabbricati posseduti da imprese; al mancato rilievo delle passività; alla tassazione della casa destinata ad abitazione principale; al fatto che l'imposta patrimoniale debba essere concepita in modo da consentire il pagamento con il reddito derivante dal patrimonio stesso; al procedimento previsto dall'art. 12 del decreto legislativo n.504 per la riscossione dell'imposta.

Infine, si sostiene che l'imposta non può essere sospettata di incostituzionalità solo perchè patrimoniale, mentre infondata, come è dato evincere anche dalla sentenza della Corte costituzionale 23 maggio 1985, n. 159 (relativa alla SOCOF), è anche la censura relativa alla non universalità dell'imposta che non colpisce i patrimoni mobiliari.

Considerato in diritto

1.- I giudizi di cui in epigrafe, ponendo questioni identiche o quantomeno connesse, vanno riuniti in rito per essere decisi con un'unica sentenza.

2.1.- Le ordinanze delle varie commissioni tributarie di cui si è riferito in narrativa - e cioè Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993), Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993), Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O.n. 5 del 1994), Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n. 118 del 1994)- chiamano la Corte a stabilire se l'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui ripristina, sia pure in via transitoria, le disposizioni contenute nei decreti ministeriali 20 gennaio 1990 e 27 settembre 1991, relativi alla revisione delle tariffe di estimo del catasto edilizio urbano, dichiarate illegittime dal giudice amministrativo, violi gli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto la tassazione delle rendite immobiliari, fondata su una ipotesi di fruttuosità del valore capitale di un immobile determinata con criteri di tipo patrimoniale, apparirebbe in contrasto con i principi della capacità contributiva e della progressività, palesando altresì la propria irrazionalità, come si evince dalla circostanza che lo stesso criterio viene abbandonato per i periodi successivi al 1994.

Le medesime ordinanze di cui sopra, con esclusione di quella della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n.5 del 1994), denunciano le stesse norme per violazione degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione, in quanto ripristinatorie di una forma di "solve et repete", differendo al periodo di imposta successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi la possibilità da parte dei contribuenti di recuperare quanto eventualmente pagato in più e il relativo contenzioso.

2.2.- Le ordinanze predette sollevano le seguenti ulteriori questioni relative al già citato art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, e cioé se esso:

a) configuri una ipotesi di "straripamento" del potere legislativo nel campo riservato istituzionalmente al potere giudiziario, con violazione degli artt. 102 e 103 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza, nella prima ordinanza di rimessione (R.O. n. 628 del 1993), e dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n. 798 del 1993); con violazione degli artt. 102, 103 e 104 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n.118 del 1994); con violazione degli artt. 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza nella seconda ordinanza di rimessione (R.O. n.5 del 1994);

b) violi l'art. 77, secondo comma, della Costituzione, in quanto la reiterazione dei decreti-legge si sarebbe tradotta in una coartazione della volontà delle Camere, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n.656 del 1993), che ritiene questo profilo assorbente della violazione del principio della divisione dei poteri per l'evidente fine dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 e della relativa legge di conversione di superare l'annullamento della determinazione tariffaria discendente dalla sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, non senza invocare, sia pure nel solo dispositivo dell'ordinanza, la violazione anche degli artt.70, 101, 102 e 104; ovvero violi lo stesso art. 77, per mancanza dei presupposti di necessità e urgenza del decreto-legge, secondo quanto prospettato dalla Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O.n. 5 del 1994).

3.1.- Le due ordinanze del Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria (R.O. n.31 e R.O. n. 33 del 1994) pongono questioni che investono, anzitutto, l'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui prevede che "fino al 31 dicembre 1993 resta fermo per i comuni e i contribuenti l'effetto di cui al primo comma, terzo periodo, dell'art. 2 del citato decreto-legge n. 16 del 1993". Investono, altresì, l'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504.

Secondo il Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, le dette disposizioni contrastano, la prima in via diretta e la seconda in via derivata, con:

a) gli artt. 24, 55 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg., e 113 della Costituzione, ledendo il diritto di difesa dei cittadini e le prerogative del potere giurisdizionale, in quanto legittimano, fino alla data del 31 dicembre 1993, un decreto ministeriale annullato e producono una "sanatoria con efficacia retroattiva di una procedura amministrativa illegittima"; censura che, ad avviso del Tribunale amministrativo regionale, "non è sminuita" dall'intervento del decreto-legge n. 16 del 1993, il cui contrasto con gli artt. 70, 77, 101, 102 e 104 e segg. della Costituzione è stato già evidenziato nelle ordinanze di rimessione alla Corte di cui al R.O. n. 628 del 1993 e R.O. n.656 del 1993, per avere il Governo, da una parte, inciso sul patrimonio dei proprietari e, dall'altra, operato precludendo le scelte che potevano scaturire da un libero dibattito parlamentare;

b) gli artt. 3, 55 e segg., 70 e segg. e 97 della Costituzione, per avere il legislatore, con la sanatoria di cui sopra, sia pure in via transitoria, leso le prerogative di autotutela della pubblica amministrazione.

3.2.- Le medesime ordinanze del Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria chiedono, altresì, alla Corte di stabilire se l'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e il Capo I (artt.1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, nell'istituire l'imposta comunale sugli immobili, violino gli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, per avere il legislatore concepito un'imposta sugli immobili basata su valori di redditività assolutamente astratti e rivalutabili sulla base di parametri non pertinenti e comunque non attendibili, venendo a colpire il patrimonio immobiliare lordo del contribuente, anzichè il reddito effettivamente ritraibile dal medesimo;nonchè contrastino con:

a) l'art. 3 della Costituzione, discriminando illegittimamente i contribuenti, a seconda che siano o meno proprietari di immobili, senza tener conto di altre possibili espressioni di ricchezza;

b) l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto non attribuiscono rilievo significativo agli oneri e alle passività che gravano sul patrimonio immobiliare, sicchè l'imposta illegittimamente si attesterebbe sullo stesso piano degli istituti ablatori, "con l'ulteriore aggravante che la relativa disciplina non concede ristoro alcuno, in termini di componenti negativi del reddito tassabile";

c) l'art. 53 della Costituzione, collidendo con il principio della capacità contributiva, in quanto "viene squilibrata la stessa capacità di contribuzione a tutto danno del contribuente proprietario di immobili, senza considerazione alcuna in ordine alla pressione tributaria specifica che già opprime tali cespiti"; ciò atteso che l'ICI prevede una aliquota a misura unica, applicabile sulla medesima base imponibile già gravata dall'aliquota progressiva dell'IRPEF, ovvero dall'aliquota proporzionale dell'IRPEG, senza alcun beneficio di detrazione dall'IRPEF (o dall'IRPEG) medesima, così come previsto, a suo tempo, per l'ILOR.

4.- Infine, l'ordinanza della Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993) solleva le seguenti ulteriori questioni:

- se l'art. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 e l'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 -nel dare competenza esclusiva alla commissione censuaria centrale in tema di revisione degli estimi, con esautoramento delle commissioni distrettuali e provinciali ed esclusione dell'interpello dei comuni interessati- violino l'art. 3 della Costituzione, "sotto il profilo del diverso trattamento normativo riservato a situazioni del tutto analoghe tra loro";

- se le stesse norme di cui sopra violino gli artt. 102 e 103 della Costituzione, in quanto rimettono nei termini il Ministero delle finanze per inoltrare i ricorsi presso la commissione censuaria centrale, modificando così il valore sostanziale della "res iudicata" e ponendo in essere uno straripamento del potere legislativo in un campo riservato al potere giudiziario.

5.- Nei giudizi di cui sopra, l'Avvocatura dello Stato, oltre a contestare nel merito il fondamento delle questioni sottoposte all'esame della Corte, ha dedotto l'inammissibilità delle questioni sollevate da tre delle ordinanze menzionate, sotto il profilo dell'inesistenza dei presupposti atti a dare ingresso al giudizio di costituzionalità.

Più in particolare, viene negata l'ammissibilità:

a) delle questioni sollevate con l'ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), per mancanza del carattere di incidentalità, non essendo controverso un rapporto di imposta e trattandosi, in ipotesi, di una impugnazione in via principale di un atto avente forza di legge, cioè dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16;

b) della questione di costituzionalità dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75, e dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, in quanto la stessa esulerebbe dall'ambito di cognizione del giudice amministrativo e sarebbe comunque irrilevante nel processo a quo, in quanto al Tribunale amministrativo regionale spetterebbe, in tema di imposta comunale sugli immobili, "la giurisdizione solo sull'altezza dell'aliquota, in misura superiore a quella minima di legge".

Quanto alla prima delle eccezioni, il giudice remittente, come risulta dall'ordinanza, si è dato carico di esaminare il profilo della rituale introduzione innanzi a del giudizio, individuandone l'oggetto nella lesione diretta ed immediata delle situazioni soggettive dei ricorrenti, "in quanto gli interessati non possono in alcun modo sottrarsi alla tariffazione del loro immobile come operata dall'amministrazione".

Tanto è sufficiente perchè il giudizio di costituzionalità possa ritenersi ritualmente introdotto, in quanto il controllo della Corte costituzionale, ai fini dell'ammissibilità della questione di legittimità ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va limitato all'adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere.

Quanto all'altra eccezione, con la quale si deduce l'inammissibilità della questione per il fatto che essa esulerebbe dal thema decidendum affidato al giudice amministrativo nella materia di cui trattasi, giova ricordare, in linea generale, che, secondo il costante indirizzo della Corte, il difetto di giurisdizione del giudice a quo, per comportare l'irrilevanza della questione, deve risultare chiaramente dalla legge o corrispondere ad un univoco orientamento giurisprudenziale, sì da rivestire il carattere dell'evidenza. Nel giudizio pendente innanzi al Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, nel quale è in discussione la legittimità di un provvedimento amministrativo, vale a dire la delibera comunale determinativa dell'aliquota dell'ICI, il controllo della Corte -una volta accertata l'esistenza di un giudizio sulla legittimità di un atto della pubblica amministrazione, e cioè dell'oggetto tipico del giudizio amministrativo- non può implicare un sindacato circa l'iter logico seguito dal giudice remittente per affermare la propria competenza a fronte della specifica questione, ma deve limitarsi alla verifica di una ragionevole possibilità, valutata a priori in limine litis, che la disposizione denunziata sia applicabile ai fini della pronunzia da emettere nel giudizio stesso.

6.- Definite come sopra le eccezioni pregiudiziali poste dalla difesa erariale, la Corte ritiene, prima di passare al merito delle questioni di costituzionalità, e per delineare un più chiaro quadro di riferimento, svolgere una breve puntualizzazione sulla vicenda normativa della quale è chiamata ad occuparsi.

L'esigenza dell'aggiornamento del catasto edilizio urbano, resa manifesta dapprima con il d.P.R. 29 settembre 1973, n. 604, e ribadita, da ultimo, dalla legge 30 dicembre 1989, n.427, ebbe avvio con il decreto ministeriale 20 gennaio 1990, che, nel dettare i criteri per la revisione del catasto, fece riferimento, per la determinazione delle tariffe di estimo, nonchè per le rendite catastali delle unità immobiliari a destinazione speciale o particolare, al "valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile", determinato "come media dei valori riscontrati nel biennio 1988- 1989".

All'esito delle operazioni di revisione seguì il decreto ministeriale 27 settembre 1991 che stabilì le tariffe di estimo per l'intero territorio nazionale, con effetto dal 1° gennaio 1992, in conformità ai criteri di cui al precedente decreto ministeriale 20 gennaio 1990.

I predetti provvedimenti formarono oggetto di diverse sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, che li dichiararono illegittimi per aver trasformato, in contrasto con il d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142, da eccezionale a generale il criterio della determinazione delle tariffe di estimo sulla base dell'interesse del capitale fondiario, anzichè sulla base del reddito virtualmente ritraibile, trasformazione che non era consentito effettuare in via amministrativa.

Dopo l'annullamento dei predetti decreti, il Governo è intervenuto con una serie di decreti-legge, l'ultimo dei quali è stato finalmente convertito in legge, e cioé quello in data 23 gennaio 1993, n. 16, il cui art. 2 ha disposto -con effetto dal 1° gennaio 1995- una nuova revisione generale delle zone censuarie, delle tariffe di estimo, delle rendite delle unità immobiliari urbane e dei criteri di classamento, ad opera di un decreto ministeriale che, al fine di determinare la redditività media ordinariamente ritraibile, faccia riferimento al valore del mercato degli immobili e delle locazioni. Lo stesso art. 2 del decreto-legge ha peraltro previsto, fino al 31 dicembre 1993, la permanenza in vigore e quindi l'applicazione delle tariffe di estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto 20 gennaio 1990 (art. 2, primo comma, terzo periodo). A sua volta la legge 24 marzo 1993, n. 75, nel convertire il decreto menzionato, ha aggiunto al predetto art. 2 i commi 1 bis, 1-ter e 1-quater, con i quali si è data facoltà ai comuni di ricorrere alle commissioni censuarie provinciali e, in sede di appello, alla commissione censuaria centrale "con riferimento alle tariffe di estimo e alle rendite vigenti ai sensi del primo comma" del medesimo art. 2.

Le tariffe d'estimo e le rendite modificate in conseguenza di tali ricorsi, nonchè quelle derivanti da ulteriori modificazioni al fine di mantenere l'invarianza del gettito, recepite in un apposito decreto legislativo, secondo quanto stabilito dall'art. 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75, si sarebbero applicate per l'anno 1994.

Peraltro, ai fini delle imposte dirette (salve alcune esclusioni), l'applicazione sarebbe stata anticipata al 1o gennaio 1992 ove fossero risultate inferiori a quelle stabilite col decreto ministeriale 27 settembre 1991.

Di ciò i contribuenti avrebbero tenuto conto nella dichiarazione dei redditi da presentare per il 1993, secondo criteri indicati sempre dal predetto art. 2 del decreto- legge 23 gennaio 1993, n. 16, peraltro modificati con decreto-legge 31 maggio 1994, n.330.

É venuta così a determinarsi una articolata e complessa disciplina non priva di farraginosità, in spregio alla chiarezza dei rapporti fra fisco e contribuenti, per effetto della quale:

a) dal 1995 dovrebbero entrare in vigore i nuovi estimi, in attuazione della prevista revisione generale, che dovrebbe tener conto, ai fini della "redditività media ordinariamente ritraibile", dei "valori del mercato degli immobili e delle locazioni";

b) per il 1992-1993 è stata riconfermata l'applicabilità delle tariffe stabilite con il decreto ministeriale 27 settembre 1991;

c) per il 1994, ma con eventuale retroattività, in caso di maggior favore, si applicano le tariffe eventualmente modificate - all'esito dei ricorsi previsti dai commi 1-bis, 1-ter e 1-quater dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993- dall'apposito provvedimento che la legge di conversione aveva previsto e che, nel frattempo, risulta emanato, vale a dire il decreto legislativo 28 dicembre 1993, n. 568.

7.1.- Passando all'esame del merito delle varie questioni di legittimità, non fondata è, anzitutto, quella sollevata dalle varie Commissioni tributarie menzionate, le quali lamentano la violazione, da parte dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, degli artt. 3 e 53 della Costituzione, deducendo, in particolare, che la tassazione delle rendite immobiliari fondata su un'ipotesi di fruttuosità di un immobile, determinata con criteri di tipo patrimoniale, colliderebbe con il principio della capacità contributiva e del la progressività, evidenziando, altresì, profili di irrazionalità.

Al riguardo va, in primo luogo, rilevato che il riferimento al principio di progressività appare inconferente, giacchè tale principio si riferisce, come la giurisprudenza costituzionale ha avuto occasione di precisare, al sistema tributario nel suo complesso e non ai singoli tributi, dal momento che il principio stesso, se inteso come crescita dell'aliquota correlata con l'ammontare del reddito, non può che aver riguardo al rapporto diretto fra imposizione e reddito personale complessivo del contribuente (sentenza n. 159 del 1985).

Quanto agli altri profili dedotti, la Corte osserva come, nella specie, il legislatore, con la norma denunciata, rimane nell'ottica tipica del catasto, sistema che già a suo tempo ha superato positivamente il vaglio di costituzionalità (sentenza n. 16 del 1965) e la cui finalità è quella di fissare in valori obiettivi, rappresentati dalla c.d. rendita catastale, l'attitudine del bene a produrre reddito. Nel caso della disposizione portata all'esame della Corte, il procedimento seguito, anzichè fondarsi sul tradizionale parametro del valore locatizio, si basa sul valore di mercato del bene in , nell'implicito presupposto, tratto dall'esperienza, di una connessione fra valore del bene e idoneità dello stesso a produrre un reddito.

Il criterio, presumibilmente ispirato dalla constatazione di una scarsa attuale rappresentatività del mercato delle locazioni in ordine alla potenziale capacità di produrre reddito da parte del bene, in presenza di una contingente situazione legislativa quale quella connessa al regime vincolistico degli alloggi, si discosta indubbiamente da quello codificato nell'art. 15 del d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142; questo pone, infatti, a base del calcolo "il canone annuo di fitto, ordinariamente ritraibile", salvo i casi, pure previsti per legge, in cui un siffatto calcolo non sia possibile, vale a dire quando la locazione non esista o abbia carattere d'eccezione (così l'art.27 del medesimo d.P.R. n. 1142 del 1949).

Ma tutto ciò non è sufficiente per dedurre la illegittimità costituzionale del criterio seguito, per contrarietà al principio della capacità contributiva, tanto più che ciò che viene qui in discussione non è la disciplina di una specifica imposta, quanto un sistema come quello catastale, volto a definire valori, i quali hanno la limitata funzione di fornire una base di riferimento generale per l'applicazione delle singole imposte, secondo la disciplina apprestata per ciascuna di esse dal legislatore, sicchè sarà piuttosto nell'ambito della regolamentazione delle singole imposte che si potrà verificare il rispetto del predetto canone costituzionale.

É pur vero che i criteri di determinazione delle tariffe di estimo e delle rendite catastali, ove non ispirati a principi di ragionevolezza, potrebbero, benchè le tariffe e le rendite non siano di per atti di imposizione tributaria, porre le premesse per l'incostituzionalità delle singole imposte che su di essi si fondino.

Peraltro, nel momento in cui, per determinare tariffe di estimo e rendite catastali, si abbandona il tradizionale ancoraggio al reddito ritraibile e si privilegia il valore di mercato del bene, si opera una scelta procedimentale alla quale non è logicamente estraneo il rischio di determinazione di rendite catastali tali da superare per la loro misura il reddito effettivo, sicchè imposte ordinarie, che a tali rendite si rifacessero, porterebbero ad una sostanziale progressiva erosione del bene.

Ma, a parte il fatto che, al di là di generiche doglianze di non razionalità, le ordinanze non prospettano profili idonei a concretamente evidenziare una incongruità dei criteri di determinazione dei valori adottati nella norma denunciata rispetto al fine che con essi si è inteso perseguire, è importante rilevare la transitorietà della disciplina denunciata, peraltro ripetutamente sottolineata anche dalle ordinanze di rimessione e superata, a partire dal 1995, dai nuovi criteri indicati dal legislatore, e cioé il valore di mercato insieme al valore locativo, nei quali si è evidentemente tenuto conto della più recente evoluzione legislativa che tende, come è noto, a superare il regime vincolistico delle locazioni.

7.2.- Del pari infondata è la doglianza relativa alla pretesa reintroduzione della regola del "solve et repete", in violazione degli artt. 3, 53 e 24 della Costituzione. In realtà le ordinanze muovono da una erronea premessa interpretativa dell'ultima parte dell'art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, assumendo che detta norma preveda che, ove gli estimi catastali, determinati con decreto ministeriale, secondo i criteri previsti a decorrere dal 1995, risultino inferiori a quelli già vigenti per gli anni precedenti, il contribuente possa tenerne conto ai fini della imposta personale che dovrà essere pagata a partire dal 1992.

Come già rilevato, nell'illustrare, nelle sue linee generali, il quadro normativo discendente dall'art. 2 del decreto-legge n.16 del 1993 e dalla relativa legge di conversione n. 75 del 1993, il raffronto va fatto non fra le tariffe di estimo di cui al decreto del Ministro delle finanze 27 settembre 1991 e quelle che entreranno in vigore dal 1995, bensì fra quelle di cui al predetto decreto e quelle risultanti all'esito dei ricorsi alle commissioni censuarie, proposti dai comuni ai sensi dei commi 1-bis, 1-ter e 1- quater dello stesso art. 2. In ogni caso, a parte l'erroneità della premessa interpretativa, la censura è infondata, non essendo la situazione ipotizzata dalla disposizione impugnata in alcun modo assimilabile a quelle che si ispirano al principio del "solve et repete", dichiarato a suo tempo incostituzionale (sentenza n. 21 del 1961), riguardante, come è noto, l'imposizione dell'onere di pagamento di un tributo quale presupposto indefettibile dell'esperibilità del- l'azione giudiziaria diretta a ottenere la tutela del diritto del contribuente, mediante l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del tributo stesso.

7.3.- Neppure fondata è la doglianza concernente la violazione degli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione, per il lamentato straripa mento del potere legislativo nel campo riservato al potere giudiziario.

Il tema delle leggi, per lo più interpretative o innovative con effetto retroattivo, che interagiscono con controversie in corso, ha formato, come è noto, oggetto di ricorrente esame da parte della giurisprudenza costituzionale, la quale ritiene che tali leggi non urtino, in linea di principio, contro la Costituzione, vulnerino le attribuzioni degli organi giurisdizionali, a meno che non siano preordinate a vanificare i giudicati, dovendosi tener conto che l'opera del legislatore si svolge su un piano diverso da quello dell'opera interpretativa ed applicativa affidata al giudice (sentenza n. 455 del 1992).

D'altro canto, non può negarsi al legislatore nemmeno la facoltà di disciplinare settori per i quali vi sia una insufficiente copertura legislativa, come talora la Corte ha avuto occasione di precisare (sentenza n. 356 del 1993). Nel caso di specie, per negare fondamento alla proposta censura, appare decisiva la considerazione che a ben vedere il legislatore, più che a vanificare pronunzie giudiziali, ha provveduto a dare fondamento legislativo a criteri che il giudice amministrativo aveva considerato illegittimi proprio perchè enunciati in un decreto ministeriale, in contrasto con le norme sul catasto, sovraordinate in quanto contenute in un regolamento governativo.

7.4.- Inammissibile è poi la questione che l'ordinanza della già menzionata Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994) solleva in ordine al medesimo art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, deducendo che sarebbero mancati i presupposti della necessità e dell'urgenza, per l'emanazione dello stesso. Come più volte affermato da questa Corte, intervenuta la conversione, perdono rilievo e non possono trovare ingresso nel giudizio di costituzionalità le censure di illegittimità dedotte con riguardo ai limiti dei poteri del Governo nell'adozione dei decreti- legge.

Quanto, poi, al rilievo che la ripetuta reiterazione del decreto-legge avrebbe coartato, in violazione dell'art. 77, secondo comma, della Costituzione la libera espressione della volontà delle Camere, secondo quanto sostenuto dalla Commissione tributaria di secondo grado di Venezia, trattasi di notazione espressiva di null'altro che di un mero punto di vista, come tale inidonea ad attivare lo scrutinio di costituzionalità e che quindi non può che mettere capo ad una pronuncia di inammissibilità.

Come ad una pronuncia di inammissibilità non possono che mettere capo i profili sollevati nella stessa ordinanza, richiamando, nel solo dispositivo, gli artt. 70, 101, 102 e 104 della Costituzione, senza addurre alcun cenno di motivazione.

8.- Quanto alle questioni prospettate dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, vanno anzitutto esaminate quelle che investono l'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 e, in via derivata l'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, per violazione degli artt. 3, 24, 55 e segg., 70 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione. Poichè, l'art.2 della legge n. 75 del 1993, nella parte in cui forma oggetto di censura, dispone che "fino al 31 dicembre 1993, resta fermo per i comuni e i contribuenti l'effetto di cui al primo comma, terzo periodo," del decreto-legge n. 16 del 1993, ne consegue che, sia pure nella diversità delle disposizioni investite, la sostanza delle questioni portate all'esame della Corte corrisponde a quella di cui alle ordinanze delle già ricordate Commissioni tributarie, segnatamente nella parte in cui si lamenta la lesione del diritto di difesa dei cittadini e delle prerogative del potere giurisdizionale. A ciò si aggiunge l'ulteriore profilo attinente alla denunciata lesione delle prerogative di autotutela della pubblica amministrazione.

La Corte sarebbe portata a dubitare della corretta proposizione di una questione di costituzionalità, quando il giudice remittente, come nella specie, invochi a sostegno di essa parametri puntualmente indicati, ma faccia, al tempo stesso, generico richiamo a quelli che ad essi seguono, per di più senza adeguatamente ed analiticamente moti vare in ordine a ciascuno dei parametri che si assumono violati.

Ad ogni modo, valgono le considerazioni già svolte, nel senso che, nella specie, il legislatore ha provveduto a dare fondamento legislativo a criteri che il giudice amministrativo aveva considerato illegittimi, proprio perchè enunciati in un decreto ministeriale che contrastava con la disciplina del catasto contenuta nel d.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142.

Tutto ciò, se da una parte vale ad escludere, come già precisato, una illegittima interferenza nell'esercizio della funzione del giudice, non consente nemmeno di scorgere una lesione dei poteri di autotutela della pubblica amministrazione, in quanto nel caso di specie il legislatore è intervenuto a sanare situazioni derivanti proprio dall'accertata inidoneità dello strumento amministrativo a realizzare una determinata disciplina. Fermo quanto detto, non è comunque configurabile un profilo di illegittimità derivata nell'art. 5 del decreto legislativo n. 504 del 1992, rispetto all'art. 2 della legge n. 75 del 1993, posto che la prima norma, anche per essere cronologicamente anteriore, non fa, in alcun modo potrebbe fare, rinvio ai criteri enunciati nella seconda, ma si limita, nel de finire la base imponibile per l'imposta comunale sugli immobili, a richiamare le rendite risultanti in catasto, da rivalutare "periodicamente in base a parametri che tengono conto dell'effettivo andamento del mercato immobiliare", ma senza qualificare la relativa fonte.

9.- Il Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria dubita, poi, della legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge n. 421 del 1992 e del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, per violazione degli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione.

La lesione di tali parametri viene prospettata sotto molteplici profili, attinenti all'incidenza dell'imposta sul patrimonio immobiliare lordo anzichè sul reddito, alla discriminazione fra contribuenti, a seconda che siano o meno proprietari di immobili, alla mancata considerazione degli oneri e passività nonchè della pressione tributaria specifica che già grava sugli immobili stessi.

A proposito del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, occorre osservare che la denuncia proposta, la quale investe il Capo I (artt.1-18) nella sua totalità, si risolve sostanzialmente nella censura dell'intero complesso normativo riguardante l'istituzione e la disciplina, nei suoi aspetti sostanziali e procedimentali, dell'imposta comunale sugli immobili. Nei termini in cui viene proposta, la questione è da dichiarare inammissibile, in quanto le disposizioni del testo impugnato hanno oggetti eterogenei, fra i quali non è dato ravvisare quella reciproca, intima connessione che consente, secondo la giurisprudenza di questa Corte, di introdurre validamente un giudizio di legittimità costituzionale quando questo ha ad oggetto un intero testo legislativo. possono valere a superare un siffatto rilievo le puntuali censure prospettate dalla difesa delle parti private, in quanto, secondo costante giurisprudenza, la Corte deve esaminare le questioni nei limiti in cui esse sono state precisate nelle ordinanze di rinvio (da ultimo, ordinanza n. 469 del 1992).

Per la stessa ragione è da considerare inammissibile la questione di costituzionalità in quanto riferita all'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 -disposizione dalla quale trae fondamento la delega a suo tempo conferita al Governo per la istituzione dell'ICI- e che si compone di molteplici proposizioni normative, in riferimento a ben diciannove principi e criteri direttivi.

Quanto, infine, ai rilievi che le due ordinanze svolgono in ordine all' art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, per violazione degli artt. 70, 77, 101, 102, 104 e segg. della Costituzione -senza sollevare, almeno a quanto risulta dall'articolazione espositiva delle ordinanze medesime, specifica questione di costituzionalità- possono valere le argomentazioni svolte a proposito delle questioni sollevate con le ordinanze della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993) e della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), alle cui prospettazioni il giudice amministrativo remittente fa del resto rinvio.

10.- Inammissibile è, infine, la questione sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano nei confronti dell'art. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 e dell'art. 1 del decreto- legge 9 ottobre 1993, n. 405, in riferimento agli artt. 3, 102 e 103 della Costituzione.

Anzitutto, il primo di essi non è stato convertito in legge, anche se i suoi effetti sono stati fatti salvi dalla legge 10 novembre 1993, n. 457, di conversione del successivo decreto-legge n. 405 del 1993. In ogni caso, i due decreti-legge riguardano le procedure di ricorso previste dai commi 1-bis e 1-ter del decreto-legge n. 16 del 1993, per la contestazione degli estimi fra comuni e amministrazione finanziaria, destinate a concludersi con le pronunzie poi recepite con il decreto legislativo n. 568 del 28 dicembre 1993. Le norme denunziate dispongono, in particolare, che i ricorsi non decisi per mancata costituzione delle commissioni censuarie alla data di entrata in vigore del decreto stesso si intendono accolti, fissando, a decorrere da questa medesima data, un termine di trenta giorni per i ricorsi, da parte dell'amministrazione, alla commissione censuaria centrale. Poichè nel giudizio pendente innanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Rossano si discute delle rendite catastali, quali derivanti dagli estimi di cui al decreto ministeriale 27 settembre 1991, assunti a contenuto dell'art. 2 del decreto- legge n. 16 del 1993, risulta estranea al thema decidendum ogni questione attinente alle procedure di ricorso di cui sopra, peraltro non ancora definite all'epoca dell'ordinanza di rimessione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito in legge 24 marzo 1993, n. 75, sollevata con le ordinanze della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 628 del 1993), in riferimento agli artt.3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione; della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), in riferimento agli artt. 24, 3 e 53 della Costituzione; della Commissione tributaria di primo grado di Rossano (R.O. n.798 del 1993), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102 e 103 della Costituzione; della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 101, 102 e 104 della Costituzione; della Commissione tributaria di secondo grado di Perugia (R.O. n. 118 del 1994), in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 102, 103 e 104 della Costituzione;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, sollevata con la ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n.656 del 1993), in riferimento all'art. 77, secondo comma, della Costituzione, e con la ordinanza della Commissione tributaria di primo grado di Piacenza (R.O. n. 5 del 1994), in riferimento all'art. 77 della Costituzione;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, sollevata con la ordinanza della Commissione tributaria di secondo grado di Venezia (R.O. n. 656 del 1993), in riferimento agli artt. 70, 101, 102 e 104 della Costituzione;

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 24 marzo 1993, n. 75 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, recante disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie) e dell'art. 5, primo, secondo e quarto comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 55 e segg., 70 e segg., 92 e segg., 97 e segg., 101, 102, 103, 104, 108 e segg. e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria, con due ordinanze in data 10 novembre 1993 (R.O. n. 31 del 1994 e R.O. n. 33 del 1994);

5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) e del Capo I (artt. 1-18) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53 della Costituzione, con le menzionate ordinanze del predetto Tribunale amministrativo regionale dell'Umbria;

6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 del decreto-legge 9 agosto 1993, n. 287 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie) e 1 del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 405 (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alle commissioni censuarie relativi alle tariffe d'estimo e alle rendite delle unità immobiliari urbane, nonchè alla delimitazione delle zone censuarie), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 102 e 103 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Rossano, con la menzionata ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/06/94.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Massimo VARI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24/06/94.