Sentenza n. 21 del 1961
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SENTENZA N. 21

ANNO 1961

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale della norma contenuta nel secondo comma dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, promosso con ordinanza emessa il 21 marzo 1960 dal Pretore di Pavia nel procedimento civile vertente tra Stroppa Franco e l'Intendenza di finanza di Pavia, iscritta al n. 47 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 7 maggio 1960.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 15 marzo 1961 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per l'Amministrazione finanziaria.  

Ritenuto in fatto 

In un giudizio di opposizione ad ingiunzione tributaria proposto davanti al Pretore di Pavia con ricorso 12 dicembre 1958 da Stroppa Franco contro l'Intendenza di finanza di Pavia, l'Avvocatura distrettuale dello Stato, costituita in rappresentanza dell'Amministrazione delle finanze dello Stato, in persona del Ministro in carica, propose due eccezioni processuali: la inammissibilità della opposizione a termini dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865, allegato E, per mancato previo pagamento della imposta radio, di cui all'ingiunzione, e l'incompetenza funzionale del Pretore adito.

Replicava l'opponente Stroppa alla prima eccezione, sollevando la questione di illegittimità costituzionale della norma contenuta in detto art. 6, e in genere dell'istituto del solve et repete, perché in contrasto con le disposizioni degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.

Con ordinanza in data 21 marzo 1960 il Pretore riteneva che la questione proposta non potesse considerarsi manifestamente infondata e che essa fosse rilevante rispetto al giudizio pendente, in quanto questo non avrebbe potuto essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale; a tale proposito, osservava che "la questione relativa alla osservanza del precetto del solve et repete é pregiudiziale a quella di competenza laddove la sua inosservanza determina una carenza, sia pur temporanea, della giurisdizione del giudice ordinario".

Disponeva, pertanto, la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della questione di legittimità costituzionale dell'art, 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, sulla abolizione del contenzioso amministrativo, in relazione agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.

L'ordinanza era regolarmente comunicata e notificata a norma di legge e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 112 del 7 maggio 1960.

Si costituiva l'Amministrazione delle finanze dello Stato, in persona del Ministro delle finanze, e interveniva il Presidente del Consiglio dei Ministri, entrambi rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato.

Nelle deduzioni depositate il 21 aprile 1960, per il Presidente del Consiglio dei Ministri, e il 25 maggio 1960, per l'Amministrazione delle finanze, si fa richiamo ai precedenti di giurisprudenza, ricordando due sentenze della Corte di cassazione, Sezioni unite, che dichiararono la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale proposta anche in relazione all'art. 113 della Costituzione, e una terza, pure delle Sezioni unite, pervenuta alla stessa conclusione in relazione all'art. 111 della Costituzione. Si contesta, poi, che l'onere del pagamento dell'imposta possa concretare un ostacolo economico alla parità dei cittadini, essendo questi, in quanto contribuenti, soggetti in ogni caso al potere extraprocessuale di riscossione della imposta da parte dell'Amministrazione, potere basato sul principio generale e fondamentale della esecutorietà dell'atto amministrativo.

In relazione anche agli altri articoli della Costituzione richiamati nell'ordinanza, e pure esaminati dalla Corte di cassazione, la difesa dello Stato ricorda che, secondo l'ultima sentenza delle Sezioni unite, si deve ritenere che l'istituto del solve et repete dà all'azione dei contribuenti il contenuto di azione in ripetizione del tributo pagato, con l'accertamento della illegittimità della imposizione, quando la illegittimità già non risulti prima facie, nel qual caso l'accertamento può astrarre dal presupposto del pagamento del tributo.

Conclude, quindi, perché la Corte costituzionale dichiari non fondata la questione di illegittimità costituzionale proposta dal Pretore di Pavia.

Nella memoria depositata in cancelleria il 2 marzo 1961 la difesa dello Stato ha ribadito le sue tesi, con l'aggiunta di altri precedenti di giurisprudenza e dottrina.

Alla discussione della causa in udienza pubblica é intervenuto solo il rappresentante della Avvocatura generale dello Stato, il quale ha anche dichiarato di rinunciare alla eccezione pregiudiziale formulata nelle difese scritte.  

Considerato in diritto 

La questione che forma oggetto del presente giudizio ha dato luogo da tempo a discussioni e decisioni nella dottrina e nella giurisprudenza, che hanno prospettato diversi modi di qualificare l'istituto del solve et repete. Compito della Corte costituzionale non é quello di inquadrarlo nell'una o nell'altra categoria dogmatica, ma solo di risolvere la questione se esso sia da ritenere legittimo costituzionalmente rispetto alle norme contenute negli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, richiamati nell'ordinanza del Pretore di Pavia.

Sembra opportuno, anzitutto, rilevare che ogni richiamo al principio della normale esecutorietà degli atti amministrativi non reca alcun contributo alla soluzione della questione nel senso sostenuto dalla Amministrazione finanziaria, perché quel principio non verrebbe in alcun modo intaccato o eluso dal venir meno dell'istituto del solve et repete, ben potendo anche in tal caso l'Amministrazione stessa procedere in via esecutiva contro il contribuente moroso, nonostante qualsiasi sua opposizione, posto che il giudice ordinario non é mai autorizzato a sospendere l'esecuzione di provvedimenti dell'Autorità amministrativa. Si può dire, piuttosto, che proprio l'esistenza di tale istituto indebolisce, in certo senso, l'efficacia di quel principio, razionalmente e praticamente.

Il solve et repete é indubbiamente una misura particolarmente energica ed efficace al fine dell'attuazione del pubblico interesse alla percezione dei tributi e, appunto per questo, venne introdotto ed é stato conservato tanto a lungo nella legislazione italiana, nonostante vari progetti per l'abolizione, di iniziativa governativa e parlamentare, e pur essendo stato esposto altrettanto a lungo a severe critiche da parte della dottrina e ad interpretazioni correttive e limitative per opera della giurisprudenza, la quale é giunta ad escludere l'applicabilità dell'istituto stesso quando la pretesa tributaria risulti prima facie assolutamente infondata.

Tutto ciò conferma che, anche indipendentemente dai principi contenuti nella Costituzione, e già prima dell'approvazione di questa, si era avuta una notevole evoluzione nella sensibilità di coloro, cui spettavano la interpretazione e l'applicazione delle norme vigenti: evoluzione provocata proprio dalla eccessività di quella misura, che già appariva non consentanea ai principi informatori di un ordinamento moderno in tema di rapporti fra il cittadino e lo Stato.

Sembra difficile supporre che il legislatore costituente abbia ignorato un problema tanto dibattuto e, meno ancora, che non lo abbia considerato risolto implicitamente attraverso la formulazione dei principi generali, diretti in gran parte proprio a regolare i rapporti fra i cittadini e lo Stato, contemperando le esigenze di questo con i diritti di quelli, e - in ogni caso - ponendo le condizioni necessarie perché questi diritti possano esser fatti valere ugualmente da tutti.

La imposizione dell'onere del pagamento del tributo, regolato quale presupposto imprescindibile della esperibilità dell'azione giudiziaria diretta a ottenere la tutela del diritto del contribuente mediante l'accertamento giudiziale della illegittimità del tributo stesso, é in contrasto, a giudizio della Corte, con tutti i principi contenuti negli articoli della Costituzione enunciati nella ordinanza del Pretore.

Essa é in contrasto con la norma contenuta nell'art. 3, perché é evidente la differenza di trattamento che ne consegue fra il contribuente, che sia in grado di pagare immediatamente l'intero tributo, ed il contribuente, che non abbia mezzi sufficienti per fare il pagamento, né possa procurarseli agevolmente ricorrendo al credito, fra l'altro perché, anche in caso di vittoria in giudizio, non otterrebbe il rimborso delle somme versate se non con ritardo. Al primo é, dunque, consentito, proprio in conseguenza delle sue condizioni economiche, di chiedere giustizia e di ottenerla, ove possa provare di aver ragione; al secondo questa facoltà é resa difficile e talvolta impossibile, non solo di fatto, ma anche in base al diritto, in forza di un presupposto processuale stabilito dalla legge e consistente nell'onere del versamento di una somma eventualmente assai ingente.

Le stesse considerazioni valgono a giustificare anche il richiamo alle norme contenute negli artt. 24, primo comma, e 113 della Costituzione, nei quali l'uso delle parole tutti e sempre ha chiaramente lo scopo di ribadire la uguaglianza di diritto e di fatto di tutti i cittadini per quanto concerne la possibilità di richiedere e di ottenere la tutela giurisdizionale, sia nei confronti di altri privati, sia in quelli dello Stato e di enti pubblici minori.

La Corte é, pertanto, dell'avviso che l'istituto del solve et repete sia in contrasto con le norme della Costituzione e che debba essere dichiarata illegittima la disposizione che lo prevede.

É da osservare che nell'ordinanza del Pretore si propone letteralmente la questione della illegittimità costituzionale dell'intero art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, mentre l'istituto del solve et repete é previsto solo nel secondo comma di tale disposizione e gli altri commi riguardano oggetti del tutto diversi. Poiché l'ordinanza tratta esclusivamente, anche quando motiva sulla rilevanza della questione, di quell'istituto, la Corte ritiene di dover interpretare l'ordinanza stessa nel senso che il Pretore intendeva proporre la questione di legittimità del solo secondo comma dell'articolo citato e che di conseguenza le altre norme, pur contenute nello stesso articolo, non fanno parte dell'oggetto del presente giudizio.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara la illegittimità costituzionale della norma contenuta nel secondo comma dell'art. 6 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in riferimento alle norme degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 1961.

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI

 

Depositata in cancelleria il 31 marzo 1961.