SENTENZA N.190
ANNO 2001
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Cesare RUPERTO, Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO
- Massimo VARI
- Gustavo ZAGREBELSKY
- Valerio ONIDA
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 23, comma 4, della legge della Regione Veneto 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque marittime ed interne della Regione Veneto), promosso con ordinanza emessa il 1° luglio 1999 dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, iscritta al n. 701 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visto l’atto di costituzione della parte ricorrente nonchè l’atto di intervento della Regione Veneto resistente nel giudizio principale;
udito nell’udienza pubblica del 6 marzo 2001 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;
uditi gli avvocati Luigi Manzi per la parte ricorrente e Mario Loria per la Regione Veneto resistente nel giudizio principale.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, chiamato a pronunciarsi sui ricorsi riuniti, proposti avverso i provvedimenti con i quali il Comune di Castelnovo Bariano aveva, dapprima, negato il rilascio della concessione edilizia per la costruzione di un impianto di acquacoltura e, successivamente, comunicato all’istante che "ai sensi della legge regionale n. 19 del 28 aprile 1998 articolo 23, comma 4, l’impianto di acquacoltura può essere realizzato purchè non vi sia l’asportazione del terreno proveniente dagli scavi", solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 41 e 117 della Costituzione, del menzionato articolo 23, comma 4, della legge della Regione Veneto 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque marittime ed interne della Regione Veneto), nella parte in cui dispone che, in attesa di una disciplina specifica in materia di acquacoltura, nella realizzazione di nuovi impianti non é consentita l’esportazione dei materiali di risulta provenienti dalle relative escavazioni.
Il remittente rileva che la disposizione applicabile nel giudizio principale contiene un refuso e che la parola "esportazione" deve invece essere letta "asportazione"; e ciò sulla base del criterio ermeneutico costituito dalla intenzione del legislatore, che, nel caso di specie, non sarebbe tanto quella di vietare "l’esportazione" del materiale di risulta degli scavi, quanto piuttosto quella di impedire che i materiali stessi formino oggetto di commercio al di fuori dei limiti propri dell’attività di cava.
Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che la disposizione censurata sia in contrasto con l’articolo 41 della Costituzione, in quanto dalla sua applicazione potrebbe derivare la impossibilità di realizzare un impianto di acquacoltura tutte le volte in cui il materiale scavato per la costruzione delle vasche non possa essere in alcun modo collocato nell’ambito del medesimo appezzamento di terreno ovvero lo possa essere solo con grave detrimento e danno per le restanti attività agricole che sullo stesso vengano esercitate. Una siffatta limitazione della iniziativa economica privata, osserva il remittente, non risponderebbe ad alcuno dei limiti previsti dall’articolo 41 della Costituzione, e in particolare a quello della utilità sociale, posto che il divieto di asportazione sarebbe finalizzato solo a contrastare intenti fraudolenti ravvisati a priori, senza richiedere che essi siano desumibili da elementi concreti.
La medesima disposizione, ponendo significativi vincoli all’attività privata, contrasterebbe, poi, ad avviso del remittente, con l’articolo 3 della Costituzione per la mancanza di proporzione del divieto rispetto all’obiettivo avuto di mira, e con l’articolo 117 della Costituzione, che non consentirebbe alla legislazione regionale di intervenire nell’ambito privatistico.
Il remittente conclude affermando di ritenere che la natura transitoria della disposizione censurata non privi di rilevanza la questione, la cui soluzione é indispensabile per la decisione del giudizio principale.
2. — Si é costituita la parte privata del giudizio principale, la quale, condividendo le argomentazioni della ordinanza di rimessione, ha chiesto che la questione venga accolta nei termini prospettati dal giudice a quo.
3. — E’ intervenuta la Regione Veneto e ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
La difesa della Regione contesta innanzitutto l’interpretazione correttiva fatta propria dal remittente, giacchè il termine "esportazione" dovrebbe essere interpretato non nel suo significato commercial-civilistico di vendita di un prodotto fuori del territorio dello Stato, ma nel suo significato etimologico di "portare fuori" dal terreno di pertinenza, cioé dall’area su cui insiste l’azienda, i materiali provenienti dall’escavazione. Si tratterebbe, ad avviso della difesa della Regione, di una interpretazione conforme all’articolo 117 della Costituzione, giacchè entrambe le materie nelle quali potrebbe farsi rientrare la disposizione censurata (pesca e/o agricoltura) appartengono alla competenza concorrente delle Regioni.
La difesa della Regione si diffonde poi sulla normativa regionale in tema di acquacoltura, rilevando che quest’ultima, nonostante sia spesso disciplinata come materia attinente alla pesca, possiede invece forti correlazioni con l’attività agricola: essa comporta infatti, nella maggior parte dei casi, rilevanti movimenti di terra ed escavazioni che, se lasciati alla libera iniziativa dei privati, potrebbero recare grave nocumento all’ambiente, una volta che l’impianto non fosse realizzato ovvero venisse dismesso o abbandonato. Per questa ragione, prosegue la difesa regionale, le opere e gli scavi relativi a tali impianti sono soggetti a concessione edilizia, la quale può essere rilasciata unicamente per i terreni agricoli e nei limiti di un rapporto di copertura pari al 50 per cento del fondo di proprietà o del quale si ha la disponibilità, al fine di consentire un coerente inserimento dell’impianto nel contesto produttivo primario del territorio ed un facile e tempestivo recupero ambientale.
La Regione Veneto, quindi, dopo aver ricordato che una precedente legge regionale aveva disposto la sospensione del rilascio delle concessioni per nuovi impianti di acquacoltura, ad eccezione di quelli realizzati fuori terra, al fine di evitare che, simulando la realizzazione di vasche di allevamento, si ponesse in essere un’attività di cava al di fuori di ogni autorizzazione e dopo aver riconosciuto che la normativa in materia di cave si é rivelata di facile elusione, ritiene che l’attuale disciplina della costruzione e dell’esercizio di impianti di acquacoltura contemperi la libertà di iniziativa economica privata con le primarie esigenze di tutela ambientale e con quella di evitare coltivazioni abusive di cave. La disposizione censurata non contrasterebbe allora con l’articolo 41 della Costituzione, dal momento che é proprio l’articolo 41 a prevedere che la libertà di iniziativa economica possa essere limitata per ragioni di utilità sociale e a consentire l’apposizione di limiti allo sfruttamento del suolo onde evitare arbitrî.
Non sussisterebbe neppure la violazione dell’art. 3 della Costituzione. La difesa regionale rileva che, al contrario di quanto sostenuto dal remittente, la disposizione censurata, lungi dall’impedire l’esercizio dell’acquacoltura, in realtà lo garantirebbe, nel senso che consentirebbe di mantenere intatta la natura agricola del fondo su cui insiste l’impianto, ed impedirebbe, ad un tempo, l’utilizzazione dei materiali per scopi industriali o edilizi, risultando in tal modo proporzionata all’obiettivo avuto di mira.
4. — In una memoria depositata in prossimità dell’udienza, la parte privata del giudizio a quo insiste per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 23, comma 4, della legge della Regione Veneto n. 19 del 1998.
Dopo aver sottolineato la arbitrarietà della interpretazione finalistica prospettata dalla difesa regionale, la parte privata rileva che, tenuto conto del fatto che, in base alla legge regionale n. 24 del 1985, la realizzazione di impianti di acquacoltura é ammessa nei limiti di un rapporto di copertura del 50 per cento del fondo, la disposizione censurata comporterebbe, non una limitazione dell’iniziativa economica privata, ma un vero e proprio divieto assoluto di esercizio dell’attività imprenditoriale di acquacoltura. L’imposizione del divieto di esportazione dei materiali di risulta e il conseguente obbligo di accumulare i materiali stessi su terreni inevitabilmente ricompresi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, posto che gli impianti di acquacoltura non possono non essere ubicati in prossimità di corsi d’acqua, altro significato non avrebbe che quello di rendere impossibile il rilascio dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione preposta alla gestione di quel vincolo.
La parte privata rileva poi che il divieto dell’esercizio dell’attività imprenditoriale in questione sarebbe definitivo, nonostante la formulazione dell’incipit della disposizione censurata: "In attesa della disciplina specifica". Invero, osserva la difesa, la legge n. 19 del 1998 - che fa seguito a precedenti norme le quali, fino all’approvazione della nuova legge regionale di disciplina della pesca, avevano disposto la sospensione del rilascio delle concessioni edilizie per la costruzione di impianti di acquacoltura - detta la disciplina della pesca e dell’acquacoltura e costituisce quindi proprio quella legge individuata come il termine ad quem della sospensione del rilascio delle concessioni. In questo quadro, la disposizione transitoria oggetto del presente giudizio non avrebbe altro significato che quello di protrarre il divieto di rilascio di concessioni per la realizzazione di impianti di acquacoltura.
Nè, ad avviso della parte privata, potrebbe attribuirsi rilievo alle argomentazioni finalistiche prospettate dalla difesa della Regione Veneto: l’esigenza di evitare che attraverso la richiesta di costruzione di un impianto di acquacoltura si possa porre in essere un’attività di cava con pregiudizio dell’integrità ambientale andrebbe infatti fronteggiata, da un lato, con la piena attuazione della normativa regionale in materia di cave e, dall’altro, con lo strumento delle convenzioni urbanistiche, con le quali ben potrebbero essere stabilite sanzioni convenzionali e garanzie finanziarie per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla concessione per la realizzazione di impianti di acquacoltura.
Considerato in diritto
1. Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto dubita, in riferimento agli articoli 3, 41 e 117 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 23, comma 4, della legge della Regione Veneto 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque marittime ed interne della Regione Veneto), nella parte in cui dispone che, in attesa di una disciplina specifica in materia di acquacoltura, nella realizzazione di nuovi impianti non é consentita l’esportazione dei materiali di risulta provenienti dalle relative escavazioni.
Sul presupposto interpretativo che l’espressione "esportazione" debba essere letta come "asportazione" e che scopo della norma sia quello di evitare che attraverso gli scavi necessari per la realizzazione di impianti di acquacoltura si ponga in essere un’attività di cava non consentita, il remittente ritiene che il predetto articolo 23, comma 4, comporti in primo luogo una ingiustificata quanto irragionevole compressione, se non addirittura la soppressione, della libertà di iniziativa economica privata in relazione all’attività di acquacoltura. La medesima disposizione, poi, violerebbe sia il canone della ragionevolezza, desumibile dall’articolo 3 della Costituzione, il sacrificio imposto al privato non risultando proporzionato al fine pubblico perseguito, sia l’articolo 117 della Costituzione, che non consentirebbe l’esercizio della potestà legislativa regionale in materia di diritto privato.
2. La questione é infondata.
La disputa lessicale intorno al contenuto della norma, sulla quale si diffonde l’ordinanza di rimessione, va risolta nel senso che, con l’espressione "esportazione", il legislatore regionale non ha inteso riferirsi tanto alla circolazione dei beni tra Stati, quanto alla specifica destinazione dei materiali di risulta provenienti dalle escavazioni necessarie per la realizzazione di impianti di acquacoltura: quei materiali – é questo l’evidente significato del divieto - non possono essere portati fuori del terreno sul quale insiste l’impianto.
Con tale prescrizione il legislatore veneto, come emerge anche dai lavori preparatori, si é prefisso una duplice finalità: da un lato impedire che il privato, giovandosi della concessione per la realizzazione di impianti di acquacoltura, ponga in essere un’attività di cava, in assenza di qualsiasi autorizzazione regionale, e faccia oggetto di commercio i materiali di risulta provenienti dai lavori di scavo per la costruzione delle vasche degli impianti; dall’altro, imponendo che quei materiali siano mantenuti nell’area, garantire l’immediato ripristino dei luoghi e dell’ambiente, nel caso in cui l’attività di acquacoltura non abbia luogo o venga per qualsiasi ragione a cessare.
3. ¾ Così precisati il contenuto e la funzione del divieto, le censure proposte dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto non possono trovare accoglimento sotto alcuno dei profili dedotti.
Innanzitutto, non può essere condiviso il rilievo che la norma in questione incida sui rapporti tra privati, oltrepassando i limiti desumibili dall’articolo 117 della Costituzione. Questa Corte ha più volte chiarito che, se alle Regioni é precluso legiferare in materia di diritto privato, tale preclusione concerne i rapporti intersoggettivi e non riguarda il potere di conformare il contenuto del diritto di proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale: la riserva di legge stabilita dall’art. 42 Cost. é infatti rispettata anche quando siano le Regioni a legiferare nelle materie di loro competenza (sentenze n. 164 del 2000, n. 379 del 1994, n. 391 del 1989).
Nel caso di specie, poichè l’acquacoltura costituisce un’attività imprenditoriale agricola (art. 2, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 102 "Norme concernenti l’attività di acquacoltura"), incidente anche sull’assetto del territorio, non può dubitarsi che la disciplina relativa alla costruzione dei relativi impianti rientri nella competenza delle Regioni, le quali, quindi, ben possono regolamentare l’utilizzazione dei terreni interessati da quegli impianti.
4. Il tema del contenuto della libertà di iniziativa economica e quello della ragionevolezza degli interventi legislativi intesi a comprimerla, anche se nell’ordinanza di rimessione mettono capo a due distinte censure rivolte contro l’articolo 23, comma 4, della legge regionale veneta, danno luogo ad una questione unitaria che deve essere risolta da questa Corte alla luce dei parametri congiunti degli articoli 3 e 41 della Costituzione.
E’ acquisito alla giurisprudenza costituzionale che al limite della utilità sociale, a cui soggiace l’iniziativa economica privata in forza dell’articolo 41 della Costituzione, non possono dirsi estranei gli interventi legislativi che risultino non irragionevolmente (art. 3 Cost.) intesi alla tutela dell’ambiente (cfr., da ultimo, sentenza n. 196 del 1998).
Ebbene, la disposizione censurata, contrariamente a quanto ritenuto dal remittente, lungi dal sopprimere la libertà di iniziativa economica in relazione all’attività di acquacoltura, si limita a regolarne l’esercizio, ponendo condizioni che, finalizzate come sono alla tutela dell’ambiente, non appaiono irragionevoli. Attesa la qualità del fine legislativo, non può infatti dirsi che il divieto di esportazione dei materiali provenienti dalla escavazione delle vasche sia incongruo. Il legislatore regionale avrebbe certo potuto avvalersi di altri mezzi, quali, secondo la difesa della parte privata, il ricorso ad apposite convenzioni o la piena attuazione della normativa in materia di cave, ma esula dai poteri di questa Corte contrastare con una propria diversa valutazione la scelta discrezionale del legislatore circa il mezzo più adatto per conseguire un fine, dovendosi arrestare questo tipo di scrutinio alla verifica che il mezzo prescelto non sia palesemente sproporzionato. Sotto questo profilo, nessun rimprovero può essere mosso alla disposizione censurata.
Il divieto di esportazione dei materiali di risulta, del resto, si coordina con la previsione dell’articolo 6, decimo comma, della legge della Regione Veneto 5 marzo 1985, n. 24 (Tutela ed edificabilità delle zone agricole), che consente la realizzazione di impianti di acquacoltura nel limite di un rapporto di copertura del 50 per cento del fondo di proprietà o del quale si ha la disponibilità, e con quella dell’art. 14, quinto comma, della legge regionale 7 settembre 1982, n. 44 (Norme per la disciplina dell’attività di cava), che fa divieto di usare il terreno di coltivo o vegetale ricavato durante i lavori di escavazione per finalità diverse da quelle di risanamento paesaggistico.
Si é quindi in presenza di una disciplina che, complessivamente considerata, non solo non preclude, in linea di principio, l’esercizio dell’attività di acquacoltura (come dimostra, nel caso di specie, il fatto che, dopo un iniziale diniego, la concessione é stata rilasciata, sia pure subordinatamente all’adozione delle misure idonee ad assicurare il rispetto del divieto di esportazione dei materiali di risulta), ma, a salvaguardia delle esigenze di ripristino ambientale, rimette al soggetto interessato la scelta, tipicamente imprenditoriale, circa l’estensione dell’impianto in relazione alle altre possibili utilizzazioni del fondo.
Nè a conclusioni differenti é possibile pervenire sulla base delle osservazioni svolte dalla difesa della parte privata, secondo la quale gli impianti di acquacoltura dovrebbero essere necessariamente ubicati in prossimità dei corsi d’acqua, e quindi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico: si tratta, infatti, di evenienza che non vale di per sè a connotare in termini di irragionevolezza la disposizione censurata. Il vincolo paesaggistico e l’esigenza di immediato ripristino in caso di dismissione dell’attività costituiscono non un posterius rispetto alla scelta se esercitare quella determinata attività economica, ma un prius, del quale l’imprenditore agricolo ha l’onere di tenere conto.
Non può essere infine attribuito carattere di decisività al rilievo secondo cui la disposizione censurata, nonostante la sua formulazione ("in attesa di una disciplina specifica in materia di acquacoltura"), non avrebbe carattere transitorio, ma sarebbe destinata ad operare per un tempo indeterminato. Seppure la dichiarata transitorietà della legge fosse mera parvenza e la disciplina in questione fosse in realtà destinata ad operare per un tempo indefinito, nessuno dei parametri evocati dal remittente risulterebbe leso.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 23, comma 4, della legge della Regione Veneto 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque marittime ed interne della Regione Veneto), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 41 e 117 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Carlo MEZZANOTTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2001.