SENTENZA N. 113
ANNO 2011
Commenti alla decisione di
I. Tatiana Guarnier, Un ulteriore passo verso
l’integrazione CEDU: il giudice nazionale come giudice comune della
Convenzione?, nella Rubrica "Studi e Commenti” di Consulta OnLine
II. Roberta
Greco, Dialogo tra Corti ed
effetti nell’ordinamento interno. Le implicazioni della sentenza della Corte
costituzionale del 7 aprile 2011, n. 113, nella
Rubrica "Studi e Commenti”
di
III. Giovanni Canzio, Giudicato "europeo” e giudicato penale
italiano: la svolta della Corte costituzionale, per g.c. della Rivista
AIC
IV. Roberto E. Kostoris, La revisione del giudicato iniquo e i
rapporti tra violazioni convenzionali e regole interne, per g.c. della Rivista
AIC
V. Antonio Ruggeri, La
cedevolezza della cosa giudicata all’impatto con la CEDU, dopo la svolta di
Corte cost. n. 113 del 2011, ovverosia quando la
certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, per g.c. della Rivista
AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 630
del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di appello di Bologna nel
procedimento penale a carico di D.P., con ordinanza del 23 dicembre 2008,
iscritta al n. 303 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza
del 23 dicembre 2008, pervenuta a questa Corte, con la prova delle prescritte
notificazioni e comunicazioni, il 26 agosto 2010,
Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a
delibare due richieste riunite di revisione, proposte, ai sensi degli artt. 629
e seguenti cod. proc. pen., dal difensore di un
condannato e da quest’ultimo personalmente, in relazione alla medesima sentenza
di condanna. Alla data della prima delle due richieste – quella del difensore,
presentata l’11 gennaio 2006 – il condannato stava espiando, in regime di detenzione
domiciliare, la parte residua della pena di tredici anni e sei mesi di
reclusione, inflittagli dalla Corte d’assise di Udine con sentenza del 3
ottobre 1994, divenuta irrevocabile il 27 marzo 1996.
Dopo la condanna
definitiva – prosegue il rimettente – l’interessato si era rivolto alla Corte
europea dei diritti dell’uomo, la quale, con «sentenza del 9 settembre 1998»,
aveva accertato il carattere «non equo» del processo celebrato nei suoi
confronti, per violazione dell’art. 6 della CEDU: violazione ravvisata
segnatamente nel fatto che il ricorrente era stato condannato sulla base delle
dichiarazioni rese da tre coimputati, non esaminati in contraddittorio perché
in dibattimento si erano avvalsi della facoltà di non rispondere.
Il Comitato dei ministri
del Consiglio d’Europa aveva sollecitato, quindi, più volte lo Stato italiano
ad adottare le misure necessarie per garantire l’osservanza della citata
decisione: sollecitazioni rimaste, peraltro, senza effetto.
Nel frattempo, sul
versante interno, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine
aveva promosso incidente di esecuzione al fine di verificare – alla luce di
detta pronuncia – la legittimità della detenzione del condannato, con
contestuale richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena.
Accogliendo il
ricorso successivamente proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza di
rigetto della Corte d’assise di Udine,
Parallelamente, e
prima che intervenisse la pronuncia della Corte di cassazione ora ricordata, il
difensore del condannato aveva proposto al giudice a quo l’istanza di revisione che dà origine al giudizio principale.
La difesa aveva sostenuto, in particolare, che la fattispecie considerata
poteva essere ricondotta all’ipotesi del contrasto fra giudicati, di cui
all’art. 630, comma 1, lettera a),
cod. proc. pen., stante l’equiparabilità della
decisione della Corte europea alla sentenza di un «giudice speciale»;
aggiungendo che il mancato accoglimento di tale tesi avrebbe reso la norma
costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost. Il
difensore aveva chiesto, altresì, la sospensione dell’esecuzione della pena
inflitta al proprio assistito: sospensione che era stata concessa dal giudice a quo.
Con ordinanza del 15
marzo 2006,
In relazione agli
indicati parametri, la questione era stata dichiarata, peraltro, infondata da
questa Corte con sentenza
n. 129 del 2008.
Ripresa
quindi la trattazione del procedimento davanti alla Corte d’appello rimettente,
il Procuratore generale aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art.
630 cod. proc. pen. sotto un diverso profilo: quello,
cioè, della lesione dell’art. 117 Cost. in riferimento all’art. 46, paragrafo
1, della CEDU, che sancisce l’obbligo degli Stati contraenti di conformarsi
alle sentenze definitive della Corte europea, rimuovendo ogni effetto
contrario.
Ad
avviso del giudice a quo, la
questione sarebbe, in tale termini, proponibile, in quanto basata su censure
nuove e distinte rispetto a quelle già esaminate dalla Corte costituzionale.
Indubbia risulterebbe, altresì, la sua rilevanza nel giudizio a quo. Allo stato, infatti, le richieste
di revisione che il rimettente è chiamato a delibare dovrebbero essere
dichiarate inammissibili, ai sensi dell’art. 634 cod. proc. pen.,
perché proposte fuori delle ipotesi previste dall’art. 630 del medesimo codice:
declaratoria che lascerebbe, peraltro, «senza risposta» l’esigenza –
suscettibile di scaturire dall’eventuale assoluzione dell’imputato all’esito di
un nuovo processo – di riparare l’ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.) o l’errore giudiziario (art. 643 cod. proc. pen.). L’accoglimento della questione renderebbe, al
contrario, ammissibili le richieste, «con tutte le potenziali conseguenze».
Quanto, poi, alla non
manifesta infondatezza, il giudice a quo
rileva come, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 348
e n. 349 del
2007, le disposizioni della CEDU – nell’interpretazione datane dalla Corte
di Strasburgo – costituiscano «norme interposte» ai fini della verifica del
rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone al
legislatore di conformarsi agli obblighi internazionali: con la conseguenza
che, ove il giudice ravvisi un contrasto, non componibile per via di
interpretazione, tra una norma interna e una norma della Convenzione, egli non
può disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a scrutinio di
costituzionalità in rapporto al parametro dianzi indicato.
Il censurato art. 630
cod. proc. pen. risulterebbe, in effetti,
inconciliabile con la previsione dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, a
fronte della quale gli Stati contraenti sarebbero tenuti ad adeguare la propria
legislazione alle norme della Convenzione, nel significato loro attribuito
dalla Corte europea: obbligo internazionale che, nel caso di specie,
Si dovrebbe dunque
concludere che l’art. 630 cod. proc. pen. lede, sia
pure indirettamente, l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui –
nell’individuare i casi di revisione – omette tuttora di prevedere la
rinnovazione del processo, allorché la sentenza o il decreto penale di condanna
siano in contrasto con una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti
dell’uomo che abbia accertato «l’assenza di equità del processo», ai sensi
dell’art. 6 della CEDU.
2.1. – È intervenuto
nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha
chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.
Ad avviso della
difesa dello Stato, andrebbe escluso che l’istituto della revisione, quale
disciplinato dal codice di procedura penale, rappresenti lo strumento adeguato
per adempiere l’obbligo internazionale richiamato dal rimettente.
Dalla sentenza di
questa Corte n.
129 del 2008 emergerebbe, infatti, con chiarezza come la fattispecie in
discussione non sia assimilabile al conflitto di giudicati contemplato
dall’art. 630, comma 1, lettera a),
cod. proc. pen., non sussistendo una incompatibilità,
sotto il profilo «naturalistico», tra i fatti ritenuti nella pronuncia
nazionale e quelli ritenuti nella sentenza della Corte europea.
La revisione è,
d’altra parte, configurata dal codice di rito come un mezzo di impugnazione
straordinario preordinato esclusivamente al proscioglimento della persona già
condannata in via definitiva; laddove, di contro, l’accertata violazione del
diritto all’equo processo non equivale a prova dell’innocenza: non tutte le
violazioni procedurali si riverberano, infatti, allo stesso modo sulla
condanna, la quale potrebbe essere eventualmente confermata anche sottraendo
l’elemento d’accusa «viziato».
Si dovrebbe, pertanto,
ritenere che solo attraverso l’intervento del legislatore possa essere
introdotta una riapertura del processo specificamente modulata sugli effetti
delle sentenze della Corte europea.
2.2. – Con successiva
memoria, l’Avvocatura generale dello Stato ha insistito per la declaratoria di
inammissibilità o di infondatezza della questione.
La difesa erariale
osserva come l’inserimento della decisione della Corte europea tra le ipotesi
di revisione, nei termini auspicati dal rimettente, finirebbe per risolversi –
essendo il ricorso a detta Corte subordinato al previo esaurimento dei rimedi
interni (art. 35, paragrafo 1, della CEDU) – nella creazione di un «improvvido
quarto grado di giudizio», atto a minare la coerenza dell’intero sistema
processuale penale.
L’istituto della
revisione è infatti basato, per lunga tradizione storica, sulla sopravvenienza
di fatti oggettivi, esterni all’iter
processuale, che rendono logicamente ed eticamente doveroso rimuovere gli
effetti di una sentenza penale irrevocabile. Se si consentisse la revisione a
seguito di una mera rivalutazione degli stessi fatti già esaminati nei tre
gradi di giudizio e poi riesaminati dalla Corte europea, si innoverebbe
profondamente tale impianto, con evidenti rischi per alcune categorie di processi
(quali quelli contro la criminalità organizzata).
Occorrerebbe, in ogni
caso, individuare una categoria di vizi così assoluti da non essere sanati dal
giudicato, stabilendo, altresì, a quali condizioni le violazioni accertate
dalla Corte europea possano dare luogo alla revisione, posto che non sempre
dette violazioni incidono sulla correttezza della decisione interna. In
quest’ottica, la revisione non costituirebbe, comunque, l’istituto più adatto a
soddisfare le esigenze di adeguamento alle decisioni dei Giudici di Strasburgo,
anche per la sua rigidità riguardo all’esito, scandito dalla secca alternativa
tra la conferma della sentenza di condanna e il proscioglimento: rigidità
eliminabile solo a seguito di modifiche talmente incisive da cambiare il volto
dell’istituto stesso.
Sotto altro profilo,
poi, andrebbe tenuto conto delle differenze qualitative tra responsabilità
dello Stato derivanti da sentenze della Corte europea che richiedono misure
individuali di esecuzione, e responsabilità dello Stato scaturenti da sentenze
che richiedono misure generali, come nel caso dell’espropriazione.
Nell’accertare
violazioni dell’art. 6 della CEDU,
Tutto ciò conforterebbe
la convinzione che spetti unicamente al legislatore introdurre forme di
riapertura del processo a seguito di sentenze della Corte europea, calibrandole
sulla specificità delle diverse situazioni, nell’ottica di contemperare le
esigenze della certezza del diritto e quelle di tutela dei diritti (anche)
processuali dei soggetti che hanno subito una condanna.
Considerato in diritto
1.
–
Escluso
che la descritta evenienza possa essere ricondotta ad alcuno dei casi di
revisione attualmente contemplati dall’art. 630 cod. proc. pen.
– e, in particolare, a quello (invocato nella prima delle richieste) della
inconciliabilità tra giudicati, di cui al comma 1, lettera a) –
Di
conseguenza, il denunciato art. 630 cod. proc. pen.
verrebbe a porsi, sia pure indirettamente, in contrasto con l’art. 117, primo
comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto degli obblighi
internazionali.
2. – In via
preliminare, va osservato come la questione di legittimità costituzionale in
esame debba ritenersi ammissibile, in quanto sostanzialmente diversa – pur
nell’analogia delle finalità perseguite – rispetto a quella in precedenza
sollevata dalla Corte di appello di Bologna nel medesimo giudizio e dichiarata
non fondata da questa Corte con sentenza n. 129 del
2008.
Detta diversità si
apprezza in rapporto a tutti e tre gli elementi che compongono la questione:
l’oggetto è più ampio (essendo sottoposto a scrutinio l’art. 630 cod. proc. pen. nella sua interezza, e non la sola disposizione di cui
al comma 1, lettera a), nuovo è il
parametro evocato e differenti sono anche le argomentazioni svolte a sostegno
della denuncia di incostituzionalità.
Non ricorre,
pertanto, nella specie, la preclusione alla riproposizione della questione nel
medesimo grado di giudizio, volta ad evitare un bis in idem che si risolverebbe nella impugnazione della precedente
decisione della Corte, inammissibile alla stregua dell’ultimo comma dell’art.
137 Cost. (al riguardo, tra le altre, sentenze n. 477 del
2002, n. 225
del 1994 e n.
257 del 1991).
3. – Nel merito, la
questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
4. – L’art. 46 della
CEDU – evocato dal giudice a quo
quale «norma interposta» – impegna, al paragrafo 1, gli Stati contraenti «a
conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti
dell’uomo] sulle controversie di cui sono parti»; soggiungendo, al paragrafo 2,
che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri
che ne controlla l’esecuzione».
Si tratta di
previsione di centrale rilievo nel sistema europeo di tutela dei diritti
fondamentali, che fa perno sulla Corte di Strasburgo: è evidente, infatti, come
la consistenza dell’obbligo primario nascente dalla CEDU a carico degli Stati
contraenti – riconoscere a ogni persona i diritti e le libertà garantiti dalla
Convenzione (art. 1) – venga a dipendere, in larga misura, dalle modalità di
"composizione” delle singole violazioni accertate.
Al riguardo, si deve
rilevare come, successivamente all’ordinanza di rimessione, l’art. 46 della
CEDU sia stato modificato per effetto dell’entrata in vigore (il 1° giugno
2010) del Protocollo n. 14 alla Convenzione (ratificato e reso esecutivo in
Italia con legge 15 dicembre 2005, n. 280). La modifica non elide, peraltro, le
esigenze poste a fondamento della questione di costituzionalità, ma semmai le
rafforza. Tramite l’aggiunta di tre ulteriori paragrafi, si prevede, infatti,
che il Comitato dei ministri possa chiedere alla Corte di Strasburgo una
decisione interpretativa, quando vi siano dubbi circa il contenuto di una
sentenza definitiva in precedenza adottata, tali da ostacolare il controllo
sulla sua esecuzione (paragrafo 3 dell’art. 46); nonché, soprattutto, che possa
chiedere alla Corte una ulteriore pronuncia, la quale accerti l’avvenuta
violazione dell’obbligo per una Parte contraente di conformarsi alle sue
sentenze (paragrafi 4 e 5). Viene introdotto, così, uno specifico procedimento
di infrazione, atto a costituire un più incisivo mezzo di pressione nei
confronti dello Stato convenuto.
Quanto, poi, ai
contenuti dell’obbligo, l’art. 46 va letto in combinazione sistematica con l’art.
41 della CEDU, a mente del quale, «se
A questo proposito, è
peraltro consolidata, nella più recente giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, l’affermazione in forza della quale, «quando
La finalità delle
misure individuali che lo Stato convenuto è tenuto a porre in essere è, per
altro verso, puntualmente individuata dalla Corte europea nella restitutio in integrum
in favore dell’interessato. Dette misure devono porre, cioè, «il ricorrente,
per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si
troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza […] della Convenzione» (ex plurimis, Grande
Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 151; sentenza
10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia, punto 55;
sentenza
18 maggio 2004, Somogyi contro Italia, punto 86).
In quest’ottica, lo Stato convenuto è chiamato anche a rimuovere gli
impedimenti che, a livello di legislazione nazionale, si frappongano al
conseguimento dell’obiettivo: «ratificando
Con particolare
riguardo alle infrazioni correlate allo svolgimento di un processo, e di un
processo penale in specie,
I Giudici di
Strasburgo hanno affermato, in specie – con giurisprudenza ormai costante –
che, quando un privato è stato condannato all’esito di un procedimento
inficiato da inosservanze dell’art. 6 della Convenzione, il mezzo più
appropriato per porre rimedio alla violazione constatata è rappresentato, in
linea di principio, «da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento,
su domanda dell’interessato», nel rispetto di tutte le condizioni di un
processo equo (ex plurimis,
sentenza 11 dicembre 2007, Cat Berro
contro Italia, punto 46; sentenza
8 febbraio 2007, Kollcaku contro Italia, punto 81;
sentenza
21 dicembre 2006, Zunic contro Italia, punto 74; Grande
Camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro
Turchia, punto 210). Ciò, pur dovendosi riconoscere allo Stato convenuto
una discrezionalità nella scelta delle modalità di adempimento del proprio
obbligo, sotto il controllo del Comitato dei ministri e nei limiti della compatibilità
con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (tra le molte, Grande
Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande
Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro
Italia, punti 119 e 127; Grande
camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro
Turchia, punto 210).
5. – Si comprende,
peraltro, come al fine di assicurare la restitutio in integrum della vittima della violazione, nei sensi
indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in discussione il
giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria sanzionata. L’avvenuto
esaurimento dei rimedi interni rappresenta, infatti, condizione imprescindibile
di legittimazione per il ricorso alla Corte di Strasburgo (art. 35, paragrafo
1, della CEDU): con la conseguenza che quest’ultima si pronuncia, in via di
principio, su vicende già definite a livello interno con decisione
irrevocabile.
In tale prospettiva,
larga parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa – soprattutto dopo la
citata Raccomandazione R(2000)2 – si è dotata di una apposita disciplina,
intesa a permettere la riapertura del processo penale riconosciuto "non equo”
dalla Corte europea; mentre in altri Paesi, pure in assenza di uno specifico
intervento normativo, la riapertura è stata comunque garantita da una
applicazione estensiva del mezzo straordinario di impugnazione già previsto
dalla legislazione nazionale.
La situazione si
presenta significativamente diversa nell’ordinamento italiano. L’impossibilità
di avvalersi, ai fini considerati, del mezzo straordinario di impugnazione
storicamente radicato nel sistema processuale penale – cioè, la revisione – è,
infatti, generalmente riconosciuta, non essendo l’ipotesi in questione
riconducibile ad alcuno dei casi attualmente contemplati dall’art. 630 cod.
proc. pen. Tale insieme di casi riflette, d’altronde,
la tradizionale configurazione dell’istituto quale strumento volto a comporre
il dissidio tra la "verità processuale”, consacrata dal giudicato, e la "verità
storica”, risultante da elementi fattuali "esterni” al giudicato stesso. Si
tratta, in altre parole, di un rimedio contro il difettoso apprezzamento da
parte del giudice del fatto storico-naturalistico: difetto che può emergere per
contrasto con i fatti stabiliti da decisioni distinte da quella oggetto di denuncia
(lettere a e b dell’art. 630 cod. proc. pen.); per
insufficiente conoscenza degli elementi probatori al momento della decisione
(lettera c), o per effetto di
dimostrata condotta criminosa (lettera d).
Al tempo stesso, la revisione risulta strutturata in funzione del solo
proscioglimento della persona già condannata: obbiettivo, che si trova
immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità
dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art.
631 cod. proc. pen. eleva a condizione di
ammissibilità della domanda stessa.
Nel caso di
accertamento, da parte della Corte di Strasburgo, della violazione dell’art. 6
della CEDU la prospettiva è affatto diversa. Si tratta, in tal caso, di porre
rimedio, oltre i limiti del giudicato (considerati tradizionalmente comunque
insuperabili con riguardo agli errores in procedendo),
a un "vizio” interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga
l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della
lesione. Rimediare al difetto di "equità” di un processo, d’altro canto, non
significa giungere necessariamente a un giudizio assolutorio: chi è stato
condannato, ad esempio, da un giudice non imparziale o non indipendente –
secondo la valutazione della Corte europea – deve vedersi assicurato un nuovo
processo davanti a un giudice rispondente ai requisiti di cui all’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU, senza che tale diritto possa rimanere rigidamente
subordinato a un determinato tipo di pronostico circa il relativo esito (il
nuovo processo potrebbe bene concludersi, ad esempio, anziché con
l’assoluzione, con una condanna, fermo naturalmente il divieto della reformatio in peius).
Esclusa, dunque, la fruibilità
dell’istituto della revisione, la giurisprudenza ha sperimentato diverse
soluzioni ermeneutiche intese a salvaguardare i diritti riconosciuti dalla
CEDU, superando le preclusioni connesse al giudicato. Per comune convincimento,
tuttavia, si tratta di soluzioni parziali e inidonee alla piena realizzazione
dell’obiettivo.
La notazione vale,
anzitutto, con riguardo alla soluzione che fa leva sull’altro mezzo
straordinario di impugnazione introdotto più di recente nell’ordinamento, ossia
il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contenuto nei
provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.);
rimedio che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto utilizzabile, in via
analogica, al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte di Strasburgo
che abbiano accertato violazioni di garanzie convenzionali, ancorché non dipese
da mero errore percettivo (Cass., 12 novembre 2008-11 dicembre 2008, n. 45807;
si veda anche Cass., 11 febbraio 2010-28 aprile 2010, n. 16507). A prescindere
da ogni altro rilievo, lo strumento previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. non può comunque
rappresentare una risposta esaustiva al problema, risultando strutturalmente
inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che
non si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione (quale quella
riscontrata nella vicenda oggetto del giudizio a quo).
Analoga conclusione
si impone in riferimento all’impiego dell’istituto della restituzione in
termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.): trattandosi di meccanismo che, in ragione del
dettato della norma ora citata, risulta utilizzabile – ed è stato in fatto
utilizzato dalla giurisprudenza – unicamente per porre rimedio alle violazioni
della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale (tra le altre,
Cass., 12 febbraio 2008-27 febbraio 2008, n. 8784; Cass., 15 novembre 2006-2
febbraio 2007, n. 4395). Ipotesi che non viene parimenti in rilievo nel
giudizio a quo.
Ma la valutazione non
muta neppure con riguardo all’ulteriore soluzione interpretativa praticata
proprio in relazione alla vicenda oggetto del presente giudizio in sede di
esecuzione del giudicato e che fa perno sull’incidente di esecuzione regolato
dall’art. 670 cod. proc. pen. (supra, punto 1 del Ritenuto in fatto). Si tratta, in
specie, della tesi secondo la quale, quando
6. – L’assenza,
nell’ordinamento italiano, di un apposito rimedio diretto a tale fine è stata,
d’altronde, reiteratamente stigmatizzata dagli organi del Consiglio d’Europa,
anche e soprattutto in rapporto al caso concernente il condannato nel giudizio a quo.
A questo proposito,
occorre preliminarmente rilevare – a rettifica di quanto si afferma
nell’ordinanza di rimessione – che
La circostanza ora
evidenziata non influisce, tuttavia, sulla rilevanza della questione, giacché
in forza dell’originario art. 32, paragrafo 4, della CEDU, le decisioni del
Comitato dei ministri erano vincolanti per gli Stati contraenti allo stesso
modo delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo:
avendosi, quindi – ora per allora – una piena equivalenza delle une alle altre
ai fini considerati.
Proprio in questa prospettiva,
tanto il Comitato dei ministri (Risoluzioni interinali ResDH(2000)
30 del 19 febbraio 2002, ResDH(2004)13 del 10
febbraio 2004 e ResDH(2005)85 del 12 ottobre 2005),
quanto l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (si veda, tra le altre,
La sollecitazione ad
introdurre, «il più rapidamente possibile», un simile meccanismo è stata
nuovamente rivolta alle autorità italiane dal Comitato dei ministri anche in
occasione della decisione di chiusura della procedura di controllo relativa a
detto caso: decisione adottata dopo la ricordata pronuncia della Corte di
cassazione che aveva dichiarato ineseguibile il giudicato formatosi nei confronti
del condannato, ordinandone la liberazione (Risoluzione finale CM/ResDH(2007)83 del 19 febbraio 2007).
7. – In sede di
scrutinio della ricordata precedente questione di legittimità costituzionale,
sollevata dalla Corte di appello di Bologna nell’ambito del medesimo giudizio (supra, punto 1
del Ritenuto in fatto), questa Corte
ha già avuto modo di rimarcare come, alla luce delle vicende dianzi riassunte,
la predisposizione di adeguate misure volte a riparare, sul piano processuale,
le conseguenze scaturite da accertate violazioni del diritto all’equo processo
si ponesse in termini di «evidente, improrogabile necessità» (sentenza n. 129 del
2008).
Ciò, tuttavia, non ha
potuto impedire che tale questione – per i termini in cui era stata formulata –
si dovesse dichiarare non fondata.
Il quesito di
costituzionalità era diretto, infatti, ad estendere all’ipotesi considerata lo
specifico caso di revisione previsto dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen.,
sulla base della denunciata violazione degli artt. 3, 10 e 27 Cost. Al
riguardo, si è rilevato come nessuno dei parametri evocati – principio di
eguaglianza; presunzione di innocenza, intesa come norma di diritto
internazionale generalmente riconosciuta; finalità rieducativa della pena –
risultasse pertinente. Non il primo, stante l’eterogeneità della situazione
descritta dal citato art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. rispetto a quella
posta a raffronto: giacché il concetto di inconciliabilità tra sentenze
irrevocabili, evocato dalla norma del codice, attiene all’oggettiva
incompatibilità tra i «fatti» (intesi in senso storico-naturalistico) su cui si
fondano le decisioni, e non alla contraddittorietà logica delle valutazioni in
esse effettuate. Non il secondo, poiché l’art. 10, primo comma, Cost. non
comprende le norme pattizie che non riproducano principi o norme
consuetudinarie del diritto internazionale; ciò, senza considerare che la
«presunzione di innocenza» non ha, di per sé, «nulla a che vedere con i rimedi
straordinari destinati a purgare gli eventuali errores, in procedendo o in iudicando
che siano», dissolvendosi – quella presunzione – nel momento stesso in cui il
processo giunge al suo epilogo. Neppure, da ultimo, era conferente il terzo
parametro, posto che la pretesa del rimettente di assegnare alle regole del
«giusto processo» una funzione strumentale alla «rieducazione» del condannato
avrebbe determinato «una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe –
questa sì – la stessa presunzione di non colpevolezza» (sentenza n. 129 del
2008).
Nel respingere la
questione, questa Corte non ha mancato, tuttavia, di rivolgere un «pressante
invito» al legislatore, affinché colmasse, con i provvedimenti ritenuti più
idonei, la lacuna normativa in contestazione. Ma, nonostante il tempo
trascorso, tale esortazione è rimasta senza seguito.
8. – A diversa
conclusione deve pervenirsi circa la questione di legittimità costituzionale
oggi in esame, la quale, per un verso, investe l’art. 630 cod. proc. pen. nel suo complesso, e, per altro verso, viene proposta
in riferimento al diverso e più appropriato parametro espresso dall’art. 117,
primo comma, Cost., assumendo, quale «norma interposta», l’art. 46 (in
correlazione all’art. 6) della CEDU.
A partire dalle sentenze n. 348
e n. 349 del
2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le
norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali
«norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo
comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione
interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 1 del
2011; n. 196,
n. 187 e n. 138 del 2010;
n. 317 e n. 311 del 2009,
n. 39 del 2008;
sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l’entrata in vigore
del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del
2011). Prospettiva nella quale, ove si profili un eventuale contrasto fra
una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto
la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla
Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e,
ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la
semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve
denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità
costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta,
Nella specie, si è
già rimarcato (supra, punto 4 del Considerato in diritto) come
Tale interpretazione
non può ritenersi contrastante con le conferenti tutele offerte dalla
Costituzione. In particolare – pur nella indubbia rilevanza dei valori della
certezza e della stabilità della cosa giudicata – non può ritenersi contraria a
Costituzione la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in
presenza di compromissioni di particolare pregnanza – quali quelle accertate
dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria nel suo
complesso – delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona:
garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 della
Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel vigente testo dell’art. 111
Cost.
Il giudice a quo ha, per altro verso, non
ingiustificatamente individuato nell’art. 630 cod. proc. pen.
la sedes
dell’intervento additivo richiesto: la revisione, infatti – comportando, quale
mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del
processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di
cognizione, estesa anche all’assunzione delle prove – costituisce l’istituto,
fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta
profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria
al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale al parametro
evocato.
Contrariamente a
quanto sostiene l’Avvocatura dello Stato, d’altro canto, all’accoglimento della
questione non può essere di ostacolo la circostanza che – come pure si è avuto
modo di rilevare (supra,
punto 5 del Considerato in diritto) –
l’ipotesi della riapertura del processo collegata al vincolo scaturente dalla
CEDU risulti eterogenea rispetto agli altri casi di revisione attualmente
contemplati dalla norma censurata, sia perché fuoriesce dalla logica, a questi
sottesa, della composizione dello iato tra "verità processuale” e "verità
storica”, emergente da elementi "esterni” al processo già celebrato; sia perché
a detta ipotesi non si attaglia la rigida alternativa, prefigurata dalla
disciplina vigente quanto agli esiti del giudizio di revisione, tra
proscioglimento e conferma della precedente condanna.
Posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in
via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali –
Nella specie, l’art.
630 cod. proc. pen. deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo proprio perché (e nella parte in cui) non
contempla un «diverso» caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto
specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce
indicate nell’art. 629 cod. proc. pen.) la riapertura del processo – intesa,
quest’ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di
attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio –
quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’art. 46,
paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte
europea dei diritti dell’uomo (cui, per quanto già detto, va equiparata la
decisione adottata dal Comitato dei ministri a norma del precedente testo dell’art.
32 della CEDU).
La necessità della
riapertura andrà apprezzata – oltre che in rapporto alla natura oggettiva della
violazione accertata (è di tutta evidenza, così, ad esempio, che non darà
comunque luogo a riapertura l’inosservanza del principio di ragionevole durata
del processo, di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle
attività processuali approfondirebbe l’offesa) – tenendo naturalmente conto
delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta,
nonché nella sentenza "interpretativa” eventualmente richiesta alla Corte di
Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 3, della
CEDU.
S’intende, per altro
verso, che, quando ricorra l’evenienza considerata, il giudice dovrà procedere
a un vaglio di compatibilità delle singole disposizioni relative al giudizio di
revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni che
appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito
(porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza
della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento
del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato),
prime fra tutte – per quanto si è osservato – quelle che riflettono la
tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento
del condannato. Così, per esempio, rimarrà inoperante la condizione di
ammissibilità, basata sulla prognosi assolutoria, indicata dall’art. 631 cod.
proc. pen.; come pure inapplicabili saranno da
ritenere – nei congrui casi – le previsioni dei commi 2 e 3 dell’art. 637 cod.
proc. pen. (secondo le quali, rispettivamente,
l’accoglimento della richiesta comporta senz’altro il proscioglimento
dell’interessato, e il giudice non lo può pronunciare esclusivamente sulla base
di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio).
Occorre considerare,
d’altro canto, che l’ipotesi di revisione in parola comporta, nella sostanza,
una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al
ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato.
In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause
della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre,
appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno,
adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli.
9. – Giova ribadire e
sottolineare che l’incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull’art.
630 cod. proc. pen. non implica una pregiudiziale
opzione di questa Corte a favore dell’istituto della revisione, essendo
giustificata soltanto dall’inesistenza di altra e più idonea sedes
dell’intervento additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di
regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un
autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce
definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici
aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto
involventi scelte discrezionali (quale, ad esempio, la previsione di un termine
di decadenza per la presentazione della domanda di riapertura del processo, a
decorrere dalla definitività della sentenza della Corte europea). Allo stesso
modo, rimane affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei limiti
e dei modi nei quali eventualmente valorizzare le indicazioni della
Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, più
volte richiamata, nella parte in cui prospetta la possibile introduzione di
condizioni per la riapertura del procedimento, collegate alla natura delle
conseguenze prodotte dalla decisione interna e all’incidenza su quest’ultima
della violazione accertata (punto II, i
e ii).
per
questi motivi
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale, nella
parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del
decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo,
quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea
dei diritti dell’uomo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile
2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2011.