ONLINE
SENTENZA N. 138
ANNO 2010
Commenti alla
decisione di
I. Luigi D’Angelo, La Consulta al
legislatore: questo matrimonio "nun s'ha da fare”, per gentile
concessione del Forum dei Quaderni
Costituzionali
II. Marco Croce, Diritti fondamentali
programmatici, limiti all’interpretazione evolutiva e finalità procreativa del
matrimonio: dalla Corte un deciso stop al matrimonio omosessuale, per
gentile concessione del Forum dei
Quaderni Costituzionali
III. Stefano
Spinelli, Il
matrimonio non è un’opinione, per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
IV. Claudio Silvis, Il
matrimonio omosessuale, tra l'art. 29 e l'art. 2 della Costituzione,
per gentile concessione del Forum dei
Quaderni Costituzionali
V. Fabrizio Calzaretti, Coppie
di persone dello stesso sesso: quali prospettive, per
gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
VI. Andrea Melani,
Il
matrimonio omosessuale dopo la pronuncia della Corte costituzionale: la
questione resta aperta, per
gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
VII. Barbara
Pezzini, Il
matrimonio same sex si potrà fare. La
qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sentenza n. 138/2010
della Corte costituzionale, per gentile
concessione dell’AIC
(Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
VIII.
Andrea Pugiotto, Una
lettura non reticente della sent. n. 138/2010: il monopolio eterosessuale del
matrimonio, per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
IX. Francesco Dal Canto, Le coppie omosessuali
davanti alla Corte costituzionale:dalla "aspirazione” al matrimonio al
"diritto” alla convivenza, (per gentile
concessione della Rivista dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti)
X. Francesco Saitto, La giurisprudenza tedesca in materia di unioni omosessuali. Spunti
di comparazione con la sent. 138/2010, per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
XI. Michele Di Bari, La
lettura in parallelo delle sentenze n. 138/2010 e n. 245/2011della Corte
Costituzionale: una breve riflessione, per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali
XII. Antonio Ruggeri, "Famiglie”
di omosessuali e famiglie di transessuali: quali prospettive dopo Corte cost. n. 138 del 2010?, per g.c. della Rivista
AIC
XIII. Michele Di Bari, Considerazioni a margine della sentenza
4184/2012 della Corte di cassazione: la Cassazione prende atto di un trend
europeo consolidato nel contesto delle coppie same-sex
anche alla luce della sentenza n.138/2010 della Corte costituzionale, per g.c. della Rivista
AIC
XIV. Roberto Romboli, La
sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e
le sue interpretazioni, per g.c. della Rivista AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis del
codice civile, promossi dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile
2009 e dalla Corte d’appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009,
iscritte ai nn. 177 e 248 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, prima serie speciale,
dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di G. M. ed altro, di E.
O. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri, dell’Associazione radicale Certi Diritti, e di C. M. ed altri (fuori
termine);
udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice
relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per
l’Associazione radicale Certi Diritti e per M. G. ed altro, Ileana Alesso e
Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e
per C. M. ed altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa
D’Amico per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per E.
O. ed altri e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale di Venezia in
composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in
riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108,
143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente
interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano
contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».
Il giudice a quo premette di essere
chiamato a pronunciare in un giudizio promosso dai signori G. M. ed S. G.,
entrambi di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto
codice, avverso l’atto del 3 luglio 2008, col quale l’ufficiale di stato civile
del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di
matrimonio dagli stessi richiesta.
Il funzionario, infatti, ha ritenuto
illegittima la pubblicazione, perché in contrasto con la normativa vigente,
costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio
nell’ordinamento giuridico italiano «è inequivocabilmente incentrato sulla
diversità di sesso dei coniugi», come dovrebbe desumersi dall’insieme delle
disposizioni che disciplinano l’istituto medesimo, del quale tale diversità
«costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto
che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è
giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del
matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti», anche
secondo l’orientamento della giurisprudenza. L’atto oggetto dell’opposizione
cita anche un parere del Ministero dell’interno, in data 28 luglio 2004, nel
quale si legge che «in merito alla possibilità di trascrivere un atto di
matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che
in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è
previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario
all’ordine pubblico»; affermazione ribadita con circolare dello stesso
Ministero in data 18 ottobre 2007.
Il Tribunale veneziano richiama gli
argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento
non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio
tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero
dell’interno si riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non a quello
pubblico interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta
di Nizza, sicché andrebbero disapplicati. In ogni caso, l’interpretazione
letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle
pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed, in
particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa.
Il rimettente prosegue osservando che,
sulla base di tali argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via
principale, di ordinare all’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di
procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare
questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e
156-bis cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29
Cost.
Tanto premesso, il Tribunale di Venezia
rileva che, nell’ordinamento vigente, il matrimonio tra persone dello stesso
sesso non è né previsto né vietato espressamente. È certo, tuttavia, che sia il
legislatore del 1942, sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la
questione del matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno in
Italia.
Peraltro, «pur non esistendo una norma
definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto
nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al
matrimonio tra persone di sesso diverso. Se è vero che il codice civile non
indica espressamente la differenza di sesso tra i requisiti per contrarre
matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e
sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come
"attori” della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto
coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)».
Ad avviso del Tribunale, proprio per il
chiaro tenore delle norme indicate non è possibile, allo stato delle
disposizioni vigenti, operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche
a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai
giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e
ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».
D’altra parte, prosegue il rimettente,
«non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi
avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al
superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale,
tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur
minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello
tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi
bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono
tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità
dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali».
Secondo il Giudice di Venezia, il primo
parametro è quello di cui all’art. 2 Cost., nella parte in cui riconosce i
diritti inviolabili dell’uomo, non soltanto nella sua sfera individuale ma
anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, cioè «nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità», delle quali la famiglia deve essere
considerata la prima e fondamentale espressione.
Infatti, la famiglia è la formazione
sociale primaria nella quale si esplica la personalità dell’individuo e vengono
quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di
persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all’interno della
società e che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari
e non sostituibili mediante l’esercizio dell’autonomia negoziale.
Il diritto di sposarsi configura un
diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale
(artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948,
artt. 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 –
Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del
Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo
1952 – artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonché in ambito nazionale (art. 2
Cost.). La libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge
autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, sicché si
risolve in una scelta sulla quale lo Stato non può interferire, se non
sussistono interessi prevalenti incompatibili, nella fattispecie non
ravvisabili.
L’unico importante diritto, in relazione
al quale un contrasto si potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai
figli, di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente
anche ad un interesse sociale. Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere
soltanto sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli
adottivi. Si tratterebbe, però, di un diritto distinto rispetto a quello di
contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il
matrimonio tra omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso,
la disciplina di tale istituto nell’ordinamento italiano, ponendo l’accento
sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al
giudice ogni decisione al riguardo.
Il rimettente, poi, prende in esame
l’art. 3 Cost., rilevando che, poiché il diritto di contrarre matrimonio è un
momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere
garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni
personali, come l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato
d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio.
Pertanto, se la finalità perseguita
dall’art. 3 Cost. è quella di vietare irragionevoli disparità di trattamento,
la norma implicita che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento
sessuale (non patologico né illegale), non ha alcuna giustificazione razionale,
soprattutto se posta a confronto con l’analoga situazione delle persone
transessuali che, ottenuta la rettifica dell’attribuzione del sesso ai sensi
della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di
attribuzione di sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio
sesso di nascita (il Tribunale ricorda che la conformità a Costituzione della
citata normativa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 165 del
1985).
Secondo il rimettente, le affermazioni
contenute in tale pronuncia ben potrebbero ritenersi applicabili anche agli
omosessuali. Comunque, la legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i
connotati dell’istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione
tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare,
valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona». In questo
quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che non
vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai quali il
matrimonio è precluso, ed i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur
appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare.
Le opinioni contrarie al riconoscimento
della libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso sulla base di ragioni
etiche, legate alla tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise,
sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia
perché si tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere
gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra
i coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le
discriminazioni in danno delle donne.
Del resto, «per i diritti degli
omosessuali, così come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte,
provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le
discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le
unioni affettive».
Il Tribunale di Venezia, in relazione
all’art. 29, primo comma, Cost., osserva che il significato della norma non è
quello di riconoscere il fondamento della famiglia in una sorta di "diritto
naturale”, bensì quello di affermare la preesistenza e l’autonomia della
famiglia rispetto allo Stato, così imponendo dei limiti al potere del
legislatore statale, come emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in
seno all’Assemblea costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti
a difesa di una certa tipologia di famiglia.
Peraltro, che la tutela della tradizione
non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano
istituti aperti alle trasformazioni, sarebbe dimostrato dall’evoluzione che ne
ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una
ricognizione della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte
a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché la riforma
attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia),
e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi dall’essere
ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al contrario
dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul
regime giuridico familiare.
Sarebbero prive di fondamento, quindi,
le tesi che giustificano l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello
stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della
coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente
sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacità
di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di
tale capacità come condizione d’invalidità o causa di scioglimento del
matrimonio, sicché quest’ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente
distinti.
Una volta escluso che il trattamento
differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa
trovare fondamento nel dettato dell’art. 29 Cost., tale norma, nel momento in
cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima, non
costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra
persone dello stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro
in base al quale valutare la costituzionalità del divieto.
Infine, il rimettente richiama l’art.
117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU). In particolare, con riferimento all’art. 8, la Corte
europea dei diritti dell’uomo avrebbe accolto una nozione di "vita privata” e
di tutela dell’identità personale non limitata alla sfera individuale bensì
estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo
intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d’impedire la
piena realizzazione personale. È citata la sentenza
Goodwin c. Regno Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di
Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio
del transessuale con persona del suo stesso sesso originario.
Il Tribunale di Venezia pone l’accento
sul fatto che anche la Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita
privata e familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9),
a non essere discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali
dell’Unione Europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle Istituzioni
europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si
frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al riconoscimento di
istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere dal loro
valore giuridico, una presa di posizione a favore del riconoscimento del
diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione legislativa, nell’ambito degli
Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima, da estendere
alle unioni omosessuali (tali atti sono richiamati nell’ordinanza).
Da ultimo, il rimettente rileva che,
negli ordinamenti di molte nazioni con civiltà giuridica affine a quella
italiana, si va delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere
le coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il
divieto di sposare persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri
Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina
analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni
relative alla potestà sui figli e all’adozione. Fra i Paesi che ancora non
hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti
prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese
quelle omosessuali.
Sulla base delle considerazioni esposte,
il Tribunale veneziano perviene al convincimento sulla non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, che
inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è
superabile nel percorso logico-giuridico da compiere per pervenire alla
decisione della causa.
2. — I signori G. M. e S. G., si sono costituiti
nel giudizio di legittimità costituzionale, con ampia memoria depositata il 20
luglio 2009.
Dopo avere esposto i fatti da cui la
vicenda prende le mosse ed aver riportato il contenuto dell’ordinanza di
rimessione, le parti private, sottolineata la rilevanza della questione
proposta, osservano che il rimettente ha riconosciuto un dato
incontrovertibile, cioè che nel vigente ordinamento non sussiste alcun divieto
espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso di contrarre
matrimonio. La necessaria eterosessualità dello stesso nascerebbe da una
tradizione interpretativa, sorta in un contesto sociale del tutto diverso
dall’attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi della
disciplina canonistica dell’istituto sul sistema civilistico.
La dimensione storica del fenomeno,
tuttavia, non potrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della
fattispecie, come hanno fatto altre Corti costituzionali straniere. Né si
potrebbe dedurre che l’eterosessualità sia un carattere indefettibile
dell’istituto matrimoniale interpretando l’art. 29 Cost. a partire dalla
lettera del codice civile vigente, perché quell’articolo non costituzionalizza
i caratteri dell’istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o
emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe oggetto
e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe divenire cifra per
leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una petizione di principio
affermare che il codice non viola il diritto a contrarre matrimonio ex art. 29
poiché tale disposizione, alla luce del codice stesso, prevede l’unione solo
fra persone di sesso diverso. Con un aprioristico rinvio per presupposizione,
infatti, si attuerebbe una sovversione della gerarchia delle fonti».
Pertanto, alla luce del principio
personalistico che pervade l’intera Carta costituzionale, bisognerebbe
individuare il significato delle parole "matrimonio” e "famiglia”, utilizzate
nel citato art. 29. Detta norma privilegia la famiglia fondata sul matrimonio.
Ad avviso degli esponenti, da ciò deriva che, se nella nostra società anche due
persone dello stesso sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo
matrimoniale non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi
razionalità, ma fa sì che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato
quelle tutele che altrimenti spetterebbero loro in virtù della norma
costituzionale.
La fattispecie non sarebbe assimilabile
alle unioni di fatto eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale
(art. 2 Cost.), perché nelle unioni di fatto vi è una chiara scelta delle parti
di non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre per
le coppie formate da persone dello stesso sesso tale libertà non sussiste nella
misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no.
Richiamata la nozione di famiglia come
"società naturale”, contenuta nell’ordinanza di rimessione, gli esponenti
osservano che l’interesse protetto dall’art. 29 Cost. è, in primo luogo, il
diritto all’autodeterminazione dell’individuo, al riparo da indebite ingerenze
dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se stessa
in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto
risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato.
Non sarebbe possibile sostenere che i
costituenti abbiano eletto l’eterosessualità a caratteristica indefettibile
della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost.,
tanto da escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da
persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il fenomeno
sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in quanto
socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna
considerazione. Ciò vorrebbe dire che non si è optato per la famiglia
eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una minore
dignità sociale e giuridica.
Tale stato di cose, però, non potrebbe
impedire una rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni
sociali e giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo profilo, del diritto
comunitario, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei
principi supremi dell’ordinamento, quali l’eguaglianza (e quindi la non
discriminazione) e la tutela dei diritti fondamentali.
Le parti private proseguono osservando
che il diritto vivente connota l’istituto matrimoniale di una caratteristica
(l’eterosessualità), che l’art. 29 Cost. non suggerisce affatto, così impedendo
alle persone omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del
diritto a realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell’ambito della
famiglia legittima.
Né sarebbe possibile che "società
naturale” sia intesa come luogo della procreazione, in quanto il matrimonio
civile non sarebbe più istituzionalmente orientato a tale finalità. Dal 1975
l’impotenza non costituisce causa d’invalidità del matrimonio, se non quando
sia materia di errore in cui sia incorso l’altro coniuge (art. 122 cod. civ.).
Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo cambiato
sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa dell’età, tale
attitudine più non hanno.
In definitiva, la procreazione sarebbe
soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e ciò dimostrerebbe
quanto lontano sia il concetto di famiglia da accogliere nell’ambito dell’art.
29 Cost. rispetto a quello della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio
sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze, i cui fini fondamentali
coincidono con i diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della
celebrazione in base all’art. 143 cod. civ., fini ai quali è estranea la
prospettiva, soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe
considerare impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui
sia naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare.
Gli esponenti passano, poi, a trattare
del diritto al matrimonio come diritto fondamentale della persona, richiamando
(tra l’altro) la giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto
stesso sia sotto il profilo della libertà di contrarre il matrimonio con la
persona prescelta (sentenza n. 445 del
2002), sia sotto quello della libertà di non sposarsi e di unirsi in altro
modo (sentenza
n. 166 del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono
godere di queste due libertà.
Dopo avere illustrato gli aspetti e le
finalità di quel diritto, nonché le prospettive correlate al suo esercizio
anche nel quadro della tutela delle minoranze discriminate, essi pongono
l’accento sull’esigenza che il citato diritto fondamentale sia garantito a
tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si trovi in
quella particolare condizione personale che è l’omosessualità. E ciò non in
astratto, secondo la tesi di quanti ritengono che sarebbe rimessa al
legislatore ordinario la scelta sull’ammissione o meno al matrimonio delle
coppie formate da persone dello stesso sesso. In presenza di un diritto
fondamentale spetta alla Corte costituzionale, o al giudice di merito in via
interpretativa, rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti,
tanto più se si considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensì
di una mera prassi interpretativa.
Nel caso in esame, «realizzarsi
pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio
orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all’interno di una
relazione giuridica qualificata qual è il matrimonio, una persona del proprio
sesso».
Pertanto l’interpretazione che esclude
le coppie formate da persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli
esponenti, costituisce un limite irragionevole all’esercizio della libertà
personale, disconoscendo la capacità della persona di scegliere ciò che è
meglio per sé in una dimensione relazionale.
Le parti private richiamano, poi, la
tesi secondo cui l’art. 29 Cost. escluderebbe la riconoscibilità giuridica
delle coppie omosessuali, anche soltanto attraverso un istituto alternativo al
matrimonio, e ne sostengono l’infondatezza, rilevando che il detto articolo non
può essere interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali
dell’ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo avere
argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili economici
dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano
che nella nostra società, non più caratterizzata da un’omogeneità sul piano
culturale, il principio di eguaglianza deve assumere una dimensione nuova,
volta a favorire il pluralismo e l’inclusione sociale. Con tale concezione
contrasta un uso del diritto che abbia come effetto di escludere un soggetto
dal godimento di un diritto o libertà fondamentale in virtù di una sua
condizione personale. E ciò senza considerare la contemporanea violazione
dell’art. 2 Cost., perché in tal modo s’impedisce l’esercizio del diritto alla
piena realizzazione di sé.
Inoltre, le parti private pongono
l’accento sulla normativa comunitaria e internazionale già richiamata
nell’ordinanza di rimessione.
Esse, poi, criticano la tesi secondo cui
un giudice, fosse anche la Corte costituzionale, non potrebbe spingersi fino al
punto di accogliere la richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le
pubblicazioni matrimoniali sul presupposto del riconoscimento del loro diritto
a sposarsi.
Ribadito che si è in presenza di una
prassi interpretativa, derivante da elementi testuali della legislazione
ordinaria, risalente a ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e
che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con norme e principi
supremi di rango costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in
esame, non si tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l’esistenza di
un nuovo diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perché il diritto
al matrimonio sussiste già ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto
fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone
eterosessuali.
Infine, sono richiamati alcuni passaggi
argomentativi di Corti straniere, che si sono occupate della tenuta costituzionale,
nei rispettivi sistemi, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso
sesso.
In chiusura, si chiede a questa Corte di
acquisire un’adeguata base informativa sul numero di coppie formate da persone
dello stesso sesso, che vivono sul territorio italiano, e sull’impatto
dell’attuale prassi interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso
dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale.
3. — Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha spiegato
intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto
depositato il 21 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile e, comunque, manifestamente infondata.
La difesa dello Stato prende le mosse
dal rilievo che la normativa riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella
prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce
senz’altro all’unione fra persone di sesso diverso.
Il requisito della diversità del sesso,
che si ricava direttamente dall’art. 107 cod. civ., nonché da altre numerose
disposizioni dello stesso codice, è tradizionalmente e costantemente annoverato
dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per
l’esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell’Avvocatura generale,
l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un istituto
pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore
tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso
diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione).
Il richiamo all’art. 2 Cost., operato
dal rimettente, non sarebbe decisivo né conferente.
Tale disposto, per costante
interpretazione di questa Corte, «deve essere ricollegato alle norme
costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno
nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano
necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del
1979), tra i quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti
nel giudizio a quo.
La collocazione dell’art. 2 Cost. fra i
"principi fondamentali” ed invece la collocazione dell’art. 29 nel titolo II
tra i "rapporti etico-sociali” costituirebbero non soltanto l’argomentazione
testuale, ma anche l’argomentazione più significativa per escludere la
fondatezza dell’assunto contenuto nell’ordinanza di rimessione, non essendo
ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello
stesso sesso. Infatti, la dottrina più recente tende a ricondurre la tutela
delle coppie omosessuali nell’ambito della tutela delle coppie di fatto.
Non sussisterebbe alcuna violazione del
principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché questo impone un
uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per
situazioni di fatto difformi.
La difesa dello Stato osserva che la
dottrina, nel commentare il citato art. 3, ha ritenuto il divieto di
discriminazione in base al sesso «in qualche misura meno rigido rispetto ad
altri», sia sul piano della correlazione di alcune distinzioni ad obiettive
differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione
si rinvengono norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni
fondate sul sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51».
La dottrina avrebbe anche ritenuto il
richiamo al principio di ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost.,
non pertinente nel caso in esame, perché un trattamento normativo differenziato
potrebbe ritenersi "ragionevole”, in quanto diretto a realizzare altri e
prevalenti valori costituzionali.
Neppure sarebbe pertinente il
riferimento alla giurisprudenza in tema di illegittime discriminazioni subite
in precedenza dalle persone transessuali, perché il problema della "identità di
sesso biologico” in quell’ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa.
Quanto all’art. 29 Cost., detta norma,
stabilendo che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio», delinea una "relazione biunivoca” tra le
nozioni in essa richiamate e, altresì, «vincola il legislatore a tenere
distinte la disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente
dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente
caratteri analoghi».
Ad avviso dell’Avvocatura, in esito al
dibattito sviluppatosi nell’Assemblea costituente in sede di elaborazione
dell’art. 29, si sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di
tale norma.
La prima sottolinea il carattere
pregiuridico dell’istituto familiare, identificando un solo modello univoco e
stabile; la seconda attribuisce all’art. 29 un contenuto mutevole con
l’evoluzione dei costumi sociali. Parte della dottrina, invece, ha superato
tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad un modello di
famiglia che, per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia però
caratterizzato "da un nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e
imprescindibile nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò
mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in
maniera differente e distante dall’iniziale formulazione.
Infine, non sarebbe ravvisabile
contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
La difesa dello Stato premette che
l’ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si è
limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai
singoli Paesi membri la facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali.
La libertà lasciata ai legislatori
europei ha dato luogo, perciò, a molteplici forme di tutela delle coppie
omosessuali.
Non vi sarebbe contrasto con gli artt.
7, 9 e 21 della Carta di Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona, in
quanto proprio l’art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e di costituire
una famiglia, rinvia alla legge nazionale per la determinazione delle
condizioni per l’esercizio di tale diritto.
Per quel che riguarda gli obblighi
internazionali e, in particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa
del codice civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al
rispetto della vita familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di
discriminazione) della CEDU, dal momento che proprio l’art. 12 non solo
riafferma che l’istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma
rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per
l’esercizio del relativo diritto.
In definitiva, al di là del carattere
eterogeneo dei modelli di riconoscimento adottati dagli Stati europei,
l’elemento che li accomuna sarebbe la "centralità del legislatore” nel processo
d’inclusione delle coppie omosessuali nell’ambito degli effetti legali delle
discipline di tutela.
Peraltro, un intervento della Corte
costituzionale di tipo manipolativo non sarebbe realizzabile attraverso
un’operazione lessicale di mera sostituzione delle parole "marito” e "moglie”,
con la parola "coniugi”, perché in realtà si tratterebbe di operare un nuovo
disegno del tessuto normativo codicistico, alla luce di una norma
costituzionale che proprio ad esso rimanda; e tale compito sarebbe
necessariamente riservato al legislatore.
4. — La Corte di appello di Trento, con
l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt.
2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96,
98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui,
complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso.
La Corte territoriale premette di essere
stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 del codice di procedura
civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso)
avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione
formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di
stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario
aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli
opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio
tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato giudicato legittimo dal
Tribunale.
La Corte rimettente, dopo aver ritenuto
infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di
stato civile di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di
legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti.
Dopo aver ricordato l’ordinanza del
Tribunale di Venezia, la rimettente osserva che, rispetto all’epoca nella quale
sono state emanate le norme disciplinanti il matrimonio, «si è verificata
un’inarrestabile trasformazione della società e dei costumi che ha portato al
superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al
contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora
a gran voce) di essere tutelate e disciplinate».
In questo quadro, ad avviso della Corte
trentina è necessario chiedersi se l’istituto del matrimonio, nell’attuale
disciplina, sia o meno in contrasto con i principii costituzionali.
L’interrogativo si porrebbe, in
particolare, rispetto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In
sostanza, poiché il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento
essenziale di espressione della dignità umana (garantito costituzionalmente
dall’art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12
CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), vi è da chiedersi se sia
legittimo impedire quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere
garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni
personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato
di intervenire in caso di impedimenti all’esercizio di esso».
Sarebbe innegabile che la questione sia
rilevante ai fini della decisione, perché la dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle norme disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non
consentono il matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante
sull’esito del giudizio a quo.
Inoltre, non si potrebbe sostenere che
la questione sia manifestamente infondata, perché «quanto sopra osservato non
può essere superato da un’interpretazione secondo cui il matrimonio deve e può
essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione
sociale, principio secondo taluni ricavabile dall’art. 29 Cost. (norma che
riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla famiglia un
suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non può prescindere da
tale realtà sociale a cui tende per natura la stragrande maggioranza degli
individui e, dall’altro, afferma che la famiglia è fondata sul matrimonio; ma
certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di fatto (che
prescinde dal matrimonio) o ad affermare la funzione della famiglia come
granaio dello Stato».
Ad avviso della rimettente,
«l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, molto ben ricordata dal
Tribunale di Venezia nell’ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto
di famiglia che porta ad escludere che in forza dell’art. 29 Cost. possa darsi
rilevanza solo alla famiglia legittima funzionalmente finalizzata alla capacità
procreativa dei coniugi sicché, semmai, è anche in relazione a tale norma di
rango costituzionale che la questione sollevata deve essere giudicata
meritevole di attenzione da parte del Giudice delle leggi».
5. — Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è
intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 3
novembre 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e,
comunque, infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli
esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza del Tribunale di Venezia.
6. — Si sono altresì costituite, con
atto depositato il 2 novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con
l’ordinanza della Corte di appello di Trento, signori O. E. e L. L. e signore
Z. E. e O. M., dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione
sollevata e chiedendone l’accoglimento.
7. — In quest’ultimo giudizio ha
spiegato intervento, con atto depositato il 3 novembre 2009, l’Associazione
radicale Certi Diritti, in persona del segretario e legale rappresentante
pro-tempore, che, richiamando gli obiettivi statutari dell’Associazione
medesima, ha dichiarato di ritenersi legittimata ad intervenire e di ritenere
ammissibili e fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate
dalla Corte d’appello di Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna
illustrazione delle proprie difese e il deposito di ogni eventuale
documentazione.
8.— Con atto depositato il 25 febbraio
2010 nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con la citata
ordinanza della Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori
C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.
Gli intervenienti, tutti di sesso
maschile, premettono che, con tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati
con lettere inviate l’11 novembre 2009, l’ufficiale di stato civile del Comune
di Milano ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio
da loro richieste.
Essi osservano che l’interesse proprio e
diretto ad intervenire è sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari
termini del giudizio costituzionale e per questo motivo l’atto di intervento è
depositato nel termine di venti giorni antecedenti la data dell’udienza fissata
per la discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale
indipendente dalla volontà dei ricorrenti e comprovata da documenti formati
dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in via analogica
il disposto dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che
l’intervento deve essere ritenuto tempestivo e chiedono, comunque, di essere
rimessi in termini.
Inoltre, essi affermano che l’intervento
deve essere ritenuto ammissibile, alla luce delle innovazioni introdotte dalla
Corte costituzionale, che ha espresso negli ultimi anni un orientamento
progressivamente favorevole all’ammissibilità, caso per caso, «soprattutto laddove
soggetti singoli o associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione
di legittimità costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse
pubblico: quello alla decisione sulla legittimità costituzionale della legge».
In questo quadro, l’interesse diretto,
specifico e concreto degli intervenienti alla pronuncia di questa Corte non
potrebbe essere posto in dubbio, perché la declaratoria di fondatezza della
questione consentirebbe di ottenere le pubblicazioni di matrimonio già
richieste e rifiutate dall’ufficiale di stato civile in base al rilievo
dell’inammissibilità, nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello
stesso sesso.
Nel merito, gli intervenienti svolgono
considerazioni analoghe a quelle già in precedenza richiamate a sostegno della
fondatezza della questione.
9. — In prossimità dell’udienza di
discussione le parti private nei due giudizi di legittimità costituzionale, la
Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione radicale Certi Diritti
hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste.
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale di Venezia, con
l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2,
3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile,
«nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le
persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone
dello stesso sesso».
Il giudice a quo premette di essere
chiamato a pronunciare in un giudizio promosso da due persone di sesso
maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto
col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di
procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola
in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto
l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano, sarebbe
incentrato sulla diversità di sesso tra i coniugi.
Il Tribunale veneziano riferisce gli
argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente
ordinamento, non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un suo divieto
espresso tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e
alla Carta di Nizza, rimarcando che l’interpretazione letterale delle norme del
codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe
costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3, 10,
secondo comma, e 29 Cost.
Tanto premesso, il rimettente rileva
che, nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso
non è previsto né vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una
norma definitoria, «l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale
ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra
persone di sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle
disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non
consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe
di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale),
«a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione
di un uomo e di una donna».
D’altra parte, secondo il Tribunale non
si possono ignorare le rapide trasformazioni della società e dei costumi, il
superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la
nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che
chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano
ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche
all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo
un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione
tradizionale con i princìpi costituzionali.
Ciò posto, il Tribunale di Venezia,
prendendo le mosse dal rilievo che il diritto di sposarsi costituisce un
diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale ed in
ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure riferite ai diversi
parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento sulla non
manifesta infondatezza della questione promossa, che inoltre giudica rilevante
perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso
logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della causa.
2. — La Corte di appello di Trento, con
l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt.
2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96,
98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui,
complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso.
La Corte territoriale premette di essere
stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 739 del codice di
procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello
stesso sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto
l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento
dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il
detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio
richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano
il matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato giudicato
legittimo dal Tribunale.
La Corte rimettente, dopo aver ritenuto
infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di
stato civile di procedere alle pubblicazioni, passa all’esame della questione
di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti,
svolgendo, in relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a
quelle esposte dal Tribunale di Venezia.
3. — I due giudizi di legittimità
costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per
essere decisi con unica sentenza.
4. — In via preliminare, deve essere
confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata
alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli
interventi dell’Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G.
V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del
consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato
nell’ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio
di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano
parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato,
inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa
e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme
oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità
dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo
a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere
incidentale del detto giudizio di legittimità.
5. — La questione, sollevata dalle due
ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve essere
dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non
costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009,
n. 316 del 2008,
n. 185 del 2007,
n. 463 del 2002).
6. — Le dette ordinanze muovono entrambe
dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente
ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e
una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche
dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con
particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello
stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può
menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898
(Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in
materia di ordinamento dello stato civile.
In sostanza, l’intera disciplina
dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale,
postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed
ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale
veneziano.
Nello stesso senso è la dottrina, in
maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa
d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara
giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata
della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i
requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte
di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976).
7. — Ferme le considerazioni che
precedono, si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai
rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della
normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte,
della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina
del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il
legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.
8. — L’art. 2 Cost. dispone che la
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e
richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.
Orbene, per formazione sociale deve
intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e
favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto
di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare
anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone
dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente
una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere, tuttavia, che
l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una
disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei
componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una
equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame,
anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto
le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito
applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua
piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per
le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità
d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le
convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del
1989 e n. 404
del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari,
sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione
della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che
questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.
9. — La questione sollevata con
riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.
Occorre prendere le mosse, per ragioni
di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo
comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il
matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i
limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
La norma, che ha dato luogo ad un vivace
confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della
famiglia legittima, definita "società naturale” (con tale espressione, come si
desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare
che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e
preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di
famiglia e di matrimonio non si possono ritenere "cristallizzati” con
riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono
dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno
interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento,
ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione,
però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma,
modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non
considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori
preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al
dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non
fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero
di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina
nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è
inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio
definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è
visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone
di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della
disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica
dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva
attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto
costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si
tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera
prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.
Si deve ribadire, dunque, che la norma
non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al
matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
Non è casuale, del resto, che la Carta
costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario
occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento
anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri
della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli
naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia
legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a
differenziarlo dall’unione omosessuale.
In questo quadro, con riferimento
all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto
sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può
considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova
fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà
luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non
possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di
rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme
in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente.
La normativa ora citata – sottoposta a
scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del
1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità
costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione
di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che
attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di
nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali
(art. 1).
Come si vede, si tratta di una
condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò, inidonea a
fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza
fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed
a questo effetto è indispensabile, di regola, l’intervento chirurgico che, con
la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale
coincidenza (sentenza
n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona è
ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso,
autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro
che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per
confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel
vigente ordinamento.
10. — Resta da esaminare il parametro
riferito all’art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza
del Tribunale di Venezia).
Il rimettente in primo luogo evoca,
quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e
familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e
del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20
marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo (in
causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario
alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione)
con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della
fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di
Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare,
l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9
(diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non
essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee,
«che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al
matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici
equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi
civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di
relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.
Ciò posto, si deve osservare che: a) il
richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa
riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso
di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili
(sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale
però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto
95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e
soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato
che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente
paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della
Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al
diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di
discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della
CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e
di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste
ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.
Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e
donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia
secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».
A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il
diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti
secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
In ordine a quest’ultima disposizione va
premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona,
modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la
Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo
testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal
Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e
i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del
7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso
valore giuridico dei trattati».
Non occorre, ai fini del presente giudizio,
affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito
dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con
riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione.
Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta
(come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi
rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere
che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate
sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che,
pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di
interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che
«L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a
unioni tra persone dello stesso sesso».
Pertanto, a parte il riferimento
esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche
la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali
delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.
Ancora una volta, con il rinvio alle
leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla
discrezionalità del Parlamento.
Ulteriore riscontro di ciò si desume,
come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da
numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria
estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio
civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che
vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino
alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.
Sulla base delle suddette considerazioni
si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione
proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
a) dichiara
inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della
Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96,
98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale
di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le ordinanze indicate in
epigrafe;
b) dichiara
non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la
questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del
codice civile sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di
Trento con le medesime ordinanze.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.
Allegato: