ORDINANZA N. 463
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Riccardo CHIEPPA Giudice
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis, primo comma, della legge 1° dicembre 1979 (recte: 1970), n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), promossi dal Tribunale di Trani e dal Tribunale di Orvieto, rispettivamente con ordinanze del 21 luglio 2001 e del 20 marzo 2002, iscritte al n. 946 del registro ordinanze 2001 e al n. 230 del registro ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2001 e n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante.
Ritenuto che, nel corso di un giudizio relativo alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, il Tribunale di Trani ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, secondo comma e 38, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis, primo comma, della legge 1° dicembre 1979 (recte: 1970), n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella parte in cui "secondo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, prevede il diritto del coniuge non passato a nuove nozze nonché titolare di assegno divorzile ad una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’altro coniuge solo qualora detto trattamento sia maturato al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa e non anche in caso di maturazione dell’indennità nelle more tra il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (o l’emissione del decreto di omologazione della separazione consensuale) e la proposizione della domanda di divorzio";
che il giudice remittente precisa che, nel procedimento de quo, la moglie separata consensualmente (in base a decreto di omologazione del 21 luglio 1992), nel costituirsi in giudizio come convenuta, ha chiesto oltre alla corresponsione dell’assegno divorzile anche l’attribuzione, in base alla norma impugnata, di una quota del trattamento di fine rapporto percepito dal marito;
che lo stesso giudice soggiunge che nel corso del giudizio non è emersa alcuna contestazione in merito alla attribuzione alla convenuta dell’assegno, nella misura determinata nell’udienza presidenziale o in altra da definire, mentre l’attore si è opposto al riconoscimento del diritto della moglie (con la quale vigeva il regime della comunione legale dei beni) ad ottenere la richiesta quota di trattamento di fine rapporto, avendo egli riscosso tale provvidenza nel luglio 1996 e, cioè, circa due anni prima della proposizione dell’attuale domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio (presentata nel maggio 1998);
che, secondo il giudice remittente, tale ultima deduzione è conforme alla interpretazione che dell’impugnato art. 12-bis, primo comma, hanno fornito sia la Corte di cassazione nella sentenza n. 5553 del 1999 sia la giurisprudenza di merito, affermando che esso deve essere inteso nel senso che il diritto in questione sorge solo qualora il trattamento di fine rapporto sia maturato al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente ad essa e non anche quando – come è avvenuto nel caso di specie – la relativa maturazione e riscossione si siano verificate prima del suddetto momento;
che tale indirizzo ermeneutico, ancorché possa considerarsi, nel silenzio della norma, rispettoso della reale intenzione del legislatore – essendo in sintonia con l’art. 4, decimo comma, della stessa legge n. 898 del 1970, il quale consente di anticipare gli effetti patrimoniali della pronuncia costitutiva di divorzio facendo, appunto, riferimento al momento della proposizione della relativa domanda – porta tuttavia, ad avviso del remittente, a dei risultati insoddisfacenti;
che il Tribunale di Trani, dopo aver ricordato che sia la richiamata sentenza della Corte di cassazione sia la precedente sentenza della stessa Corte n. 7249 del 1995 hanno affermato che il diritto di cui si discute può essere riconosciuto anche con lo stesso provvedimento attributivo dell’assegno divorzile, sostiene che in tale ultima decisione è stato, fra l’altro, ritenuto, che se l’indennità di fine rapporto è maturata in costanza di separazione personale dei coniugi essa è, di regola, subordinata al regime della comunione legale e che, ove non sia in tutto o in parte utilizzata, rientra ex art. 177, lett. c), del codice civile, nella c.d. comunione de residuo;
che in base a tale ultima statuizione mentre, nella ipotesi di maturazione del trattamento di fine rapporto durante la separazione, al momento dello scioglimento della comunione dei beni (coincidente con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o l’emissione del decreto di omologazione della separazione consensuale) la parte di indennità di fine rapporto eventualmente non consumata è attribuibile a ciascun coniuge per la metà, viceversa in caso di maturazione dell’indennità dopo lo scioglimento della comunione ma prima della introduzione del giudizio di divorzio l’altro coniuge non può avanzare al riguardo alcuna pretesa, salva restando la sua facoltà di chiedere una conseguente modifica delle condizioni della separazione ai sensi dell’art. 710 cod. proc. civ.;
che, secondo il remittente, quest’ultima eventualità non consente, tuttavia, di superare il prospettato dubbio di legittimità costituzionale, sia perché ai fini della valutazione della complessiva situazione patrimoniale del coniuge obbligato – rilevante ex art. 710 cod. proc. civ. – si deve considerare che, nella maggior parte dei casi, la riscossione dell’indennità in argomento è accompagnata da un peggioramento della posizione reddituale dell’interessato conseguente al suo pensionamento, sia perché la facoltà di agire per la revisione delle statuizioni patrimoniali è riconosciuta dall’art. 9 della legge n. 898 del 1970 anche al coniuge divorziato cui viene attribuito il beneficio di cui si discute;
che il giudice remittente osserva che la denunciata violazione degli artt. 3 e 29, secondo comma, della Costituzione sarebbe rappresentata dalla disparità di trattamento che si viene a creare – quando la maturazione dell’indennità di fine rapporto avviene dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione o l’omologazione del decreto di separazione consensuale – a seconda che la data di tale maturazione sia antecedente o successiva alla proposizione della domanda di divorzio, in quanto solo nel primo caso il coniuge beneficiario dell’assegno rimarrebbe privo di qualsiasi diritto rispetto alla suddetta indennità, senza alcuna razionale giustificazione e con il rischio di speculazioni da parte del coniuge debitore, il quale potrebbe appositamente anticipare la risoluzione del rapporto di lavoro rispetto al divorzio;
che, per quel che riguarda l’ipotizzato contrasto con l’art. 38, primo comma, della Costituzione, il giudice remittente rileva che, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 23 del 1991, l’istituto disciplinato dalla norma impugnata – che presenta connotati sia di tipo assistenzialistico sia di tipo compensativo del contributo dato dal beneficiario "alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune ad entrambi" i coniugi – è espressione del principio, assolutamente pacifico in giurisprudenza, secondo cui per effetto della separazione non viene meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio;
che il Tribunale di Trani – dando conto della giurisprudenza di questa Corte secondo cui le questioni sollevate in relazione ad un certo indirizzo ermeneutico emerso in giurisprudenza in ordine al significato di una norma sono ammissibili nel caso in cui, assunto tale indirizzo come diritto vivente, se ne chieda la verifica della conformità alla Costituzione e sono viceversa inammissibili se risultino surrettiziamente rivolte ad ottenere dal Giudice delle leggi una revisione della contestata interpretazione – sostiene che la presente questione rientra nella prima delle suddette ipotesi in quanto l’interpretazione censurata, oltre ad essere quella maggiormente aderente al dettato normativo, è stata seguita dalla Corte di cassazione nelle "uniche due decisioni" emesse sull’argomento (le quali, per la parte che qui interessa, non sono tra loro contrastanti) ed è stata adottata anche dalla giurisprudenza di merito, parte della quale è giunta addirittura ad affermare che il diritto in questione sorgerebbe solo dopo la sentenza di divorzio;
che il remittente afferma, infine, che dalle premesse in fatto sopra riportate si desume la rilevanza della sollevata questione;
che, nel corso di altro giudizio relativo alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, il Tribunale di Orvieto, dopo aver emesso la sentenza di divorzio ed aver attribuito alla ex moglie l’assegno divorzile, dovendo ancora pronunciarsi sulla domanda da questa avanzata in merito alla assegnazione di una quota dell’indennità di fine rapporto riscossa dall’ex marito nel maggio 1999 (e quindi prima della proposizione della domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, presentata nel dicembre 2000), ha in pari data sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del citato art. 12-bis, nella parte in cui, secondo l’interpretazione della Corte di cassazione (sentenze n. 5533 del 1999 – recte: n. 5553 del 1999 – nonché n. 3294 del 1997 e n. 7249 del 1995), prevede che il diritto in esso contemplato sia riconoscibile solo quando – a differenza di quanto accaduto nella specie – la corresponsione dell’indennità di fine rapporto avvenga dopo la sentenza che ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio;
che, dopo aver precisato che nelle richiamate decisioni la diversità di disciplina tra le due ipotesi considerate viene giustificata sul rilievo che per il periodo precedente alla suddetta sentenza opera il principio della piena disponibilità delle attribuzioni patrimoniali da parte del coniuge che riscuote il trattamento di fine rapporto, il giudice remittente sostiene che la violazione del principio di eguaglianza deriverebbe dal fatto che la norma così interpretata verrebbe a far dipendere il diritto in oggetto da una circostanza – l’antecedenza della dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio rispetto alla corresponsione dell’indennità di fine rapporto – che è indipendente dalla volontà del soggetto cui il diritto potrebbe essere attribuito e sulla quale questi non può in alcun modo influire;
che, d’altra parte, la decisività attribuita alla suddetta circostanza porrebbe la norma anche in contrasto con l’art. 31 della Costituzione, in quanto essa non agevolerebbe l’adempimento dei compiti relativi alla famiglia;
che in entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con atti di contenuto analogo, una dichiarazione di manifesta inammissibilità o di manifesta infondatezza della questione.
Considerato che i giudizi promossi dal Tribunale di Trani e dal Tribunale di Orvieto riguardano sostanzialmente la medesima questione di legittimità costituzionale e, pertanto, possono essere riuniti;
che entrambi i giudici remittenti dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 12-bis, primo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella parte in cui, secondo l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente assunto come "diritto vivente", prevede il diritto del coniuge non passato a nuove nozze e titolare di assegno divorzile ad una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’altro coniuge solo qualora detto trattamento non sia maturato prima della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio;
che la qualificazione del suddetto orientamento giurisprudenziale come "diritto vivente" non appare arbitraria in quanto esso, come sottolineato dai remittenti e, più diffusamente dal Tribunale di Trani, non trova riscontro, come sostiene l’Avvocatura dello Stato, nella sola sentenza della Corte di cassazione n. 5553 del 1999 – che si è specificamente occupata del problema in oggetto – ma anche in altre pronunce della Corte di legittimità non in contraddizione con quella citata, nonché in una copiosa giurisprudenza di merito;
che, pertanto, non può essere accolta l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato secondo la quale, non avendo l’indirizzo ermeneutico in contestazione i predetti connotati, la questione proposta sarebbe puramente interpretativa e, per tale motivo, manifestamente inammissibile;
che la separazione personale costituisce una fase del rapporto coniugale che può protrarsi nel tempo senza mai approdare allo scioglimento del matrimonio (o alla cessazione dei suoi effetti civili) ed è reversibile (v. sentenza n. 23 del 1991 e ordinanza n. 491 del 2000);
che lo scioglimento del matrimonio ha, pertanto, caratteristiche ed esigenze di regolamentazione diverse da quelle che informano la disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi durante la fase della separazione personale;
che, d’altra parte, l’istituto di cui all’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970 – introdotto dalla riforma del 1987 per fornire un ulteriore riconoscimento "al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune" ad entrambi i coniugi, nell’intento di attribuire maggiore protezione al coniuge economicamente più debole (v. sentenza n. 23 del 1991) – per come è stato strutturato presuppone, per la determinazione sia dell’an che del quantum debeatur, la configurabilità del credito già al momento della percezione della indennità di fine rapporto da parte del coniuge obbligato;
che, pertanto, l’estensione al coniuge separato della misura patrimoniale in oggetto comporterebbe l’emissione da parte di questa Corte di una pronuncia di tipo additivo volta ad introdurre, in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata, un istituto diverso da quello cui si riferiscono le attuali censure, con evidente e indebita intromissione nella sfera di attribuzioni riservata alla discrezionalità del legislatore;
che la questione è, quindi, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis, primo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 29, secondo comma, 31 e 38, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trani e dal Tribunale di Orvieto con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre 2002.
Cesare RUPERTO, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Depositata in Cancelleria il 19 novembre 2002.