SENTENZA N.
80
ANNO 2011
Commenti alla decisione di
I. Antonio Ruggeri, La Corte fa il punto sul rilievo interno della CEDU e della
Carta di Nizza-Strasburgo, per gentile concessione del Forum di Quaderni Costituzionali
II. Alberto Randazzo, Brevi
note a margine della sentenza n. 80 del 2011 della Corte costituzionale,
nella Rubrica "Studi” di Consulta OnLine
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Ugo DE SIERVO Presidente
- Paolo MADDALENA Giudice
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità)
e dell’art. 2-ter della legge 31
maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo
mafioso, anche straniere), promosso
dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di D.P.E. con
ordinanza del 12 novembre 2009, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2010
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima
serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di costituzione di D.P.E.;
udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio
2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
udito l’avvocato Alfredo Gaito per D.P.E.
Ritenuto in fatto
1.
– Con ordinanza del 12 novembre 2009,
Il
giudice a quo riferisce che con
decreto del 9 giugno 2008
Il
decreto del giudice d’appello era stato impugnato con ricorso per cassazione
dai difensori dell’interessato. Facendo leva sui principi affermati dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo nella sentenza
13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, uno dei difensori aveva,
tra l’altro, eccepito, ai sensi dell’art. 609, comma 2, del codice di procedura
penale, la violazione del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie,
sancito dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in
avanti: «CEDU»). Il medesimo difensore aveva chiesto, quindi, che il ricorso
venisse trattato in udienza pubblica in applicazione «estensiva» dell’art. 441,
comma 3, cod. proc. pen., attribuendo a tale istanza «conseguenze invalidanti
per le decisioni di merito», in quanto «ambedue scaturite all’esito di
procedure da ritenere illegali ora per allora».
Con
ordinanza del 14 maggio 2009, il Collegio rimettente, rilevato che le questioni
di diritto sottoposte al suo esame avevano dato luogo o potevano dare luogo a
un contrasto giurisprudenziale, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite. Il
Presidente aggiunto della Corte di cassazione, con provvedimento del 22 giugno
2009, aveva restituito tuttavia il procedimento, ritenendo che
Fissata
quindi una nuova camera di consiglio per l’esame del ricorso davanti alla
Sezione rimettente, il ricorrente aveva depositato memoria, insistendo nelle
richieste formulate.
Tanto
premesso, il giudice a quo osserva
che, con la citata sentenza
13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia,
In replica ai
rilievi del Governo italiano – che aveva allegato, a giustificazione della
mancanza di pubblicità, il carattere altamente tecnico della procedura di
applicazione delle misure patrimoniali –
Tale conclusione è
stata successivamente ribadita dalla Corte di Strasburgo con la sentenza
8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia, così da potersi parlare di un
indirizzo interpretativo consolidato.
Il Collegio
rimettente ricorda, in pari tempo, come
Nel caso in esame
non sarebbe, in effetti, possibile interpretare la norma interna in senso
conforme alla disposizione convenzionale, ostandovi l’evidenza del dato
testuale. L’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, ai commi sesto, decimo e
undicesimo, prevede, infatti, in modo specifico e inequivoco – con disposizioni
valevoli, oltre che per le misure personali, anche per quelle a carattere
patrimoniale previste dalla speciale normativa antimafia, di cui all’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 – che il
procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti
i suoi gradi, in camera di consiglio. Né potrebbe applicarsi in via analogica
alla procedura in esame l’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale
stabilisce che il giudizio abbreviato si svolge in camera di consiglio, ma che
se tutti gli imputati ne fanno richiesta esso ha luogo in udienza pubblica. Una
simile operazione ermeneutica risulterebbe impedita, per un verso, dal fatto
che il ricorso all’analogia è consentito solo per regolare ipotesi non previste
dalla legge; per altro verso, dalla natura eccezionale della norma da ultimo
citata.
Neppure, poi,
potrebbe condividersi la tesi, accolta in altre occasioni dalla stessa
giurisprudenza di legittimità, stando alla quale i principi affermati dalla
Corte europea nella sentenza del 13 novembre 2007 non sarebbero di ostacolo
alla trattazione dei ricorsi per cassazione in materia di misure di prevenzione
con la procedura camerale – e, in particolare, con la cosiddetta procedura «non
partecipata», di cui all’art. 611 cod. proc. pen. (caratterizzata da un
contraddittorio esclusivamente scritto) – posto che la predetta sentenza non
reca alcun riferimento al giudizio che si svolge dinanzi alla Corte di
cassazione.
Se è vero,
infatti, che
Il ricordato
indirizzo della giurisprudenza di legittimità potrebbe essere, d’altro canto,
condiviso solo se la procedura camerale fosse l’unico tipo di procedimento
previsto davanti alla Corte di cassazione: laddove, al contrario, il giudizio
può svolgersi tanto in pubblica udienza che in camera di consiglio e, in questo
secondo caso, tanto nella forma «non partecipata» che in quella prevista
dall’art. 127 cod. proc. pen. La regola generale, al riguardo, è che «la corte
procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro
provvedimenti non emessi nel dibattimento» (art. 611 cod. proc. pen.): il che
non esclude, tuttavia, che la pubblica udienza sia talora prevista anche quando
la sentenza impugnata è stata pronunciata in camera di consiglio (come avviene,
in specie, per le sentenze emesse a norma dell’art. 442 cod. proc. pen.).
Irrilevante sarebbe,
inoltre, la circostanza che, nei procedimenti di prevenzione, il ricorso per
cassazione possa proporsi solo per violazione di legge (vizio peraltro
configurabile anche nel caso di mancanza della motivazione del provvedimento
impugnato o di carenze della stessa tali da renderla meramente apparente),
poiché, quali che siano i motivi deducibili, il giudizio di cassazione resta
comunque un giudizio di legittimità.
Non resterebbe,
pertanto, che prendere atto dell’incompatibilità delle norme censurate con l’art.
117, primo comma, Cost., nella parte in cui non contemplano la «garanzia
minima» pretesa dalla Corte di Strasburgo ai fini considerati: ossia la
possibilità che, a richiesta di parte, il procedimento per l’applicazione delle
misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica.
La questione
sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a
quo sotto due profili.
In primo luogo,
perché, come già ricordato, il rito davanti alla Corte di cassazione segue
quello adottato nei giudizi di merito: regola, questa, che dovrebbe essere
nella specie applicata tenendo conto anche di un’eventuale declaratoria di
illegittimità costituzionale delle norme impugnate, nella parte in cui
impongono lo svolgimento in camera di consiglio del procedimento di cui si
discute. Inoltre, una volta che si colleghi la scelta del rito a una opzione
del soggetto interessato, questa non dovrebbe essere necessariamente effettuata
«in limine, potendosi esprimere anche
in successivi gradi di giudizio».
Sotto diverso
profilo, poi, l’esito del giudizio di costituzionalità condizionerebbe la
decisione sulla «deduzione difensiva di conseguenze invalidanti delle pronunce
di merito "scaturite all’esito di procedure da ritenere illegali ora per
allora”». L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme
impugnate, infatti, «non potrebbe non spiegare i suoi effetti su un processo
ancora in corso che, per essere sostanzialmente giusto, deve avere la capacità
di emendarsi, per adeguarsi a regole costituzionalmente corrette».
2. – Si è costituito
D. P. E., ricorrente nel giudizio a quo.
La parte privata
svolge, in via preliminare, deduzioni adesive alle tesi del giudice a quo, traendone la conclusione che –
alla luce della ricostruzione operata dalla giurisprudenza costituzionale a
partire dalle sentenze
n. 348 e n.
349 del 2007 – le disposizioni censurate violerebbero, in effetti, l’art.
117, primo comma, Cost., stante la configurabilità delle disposizioni della
CEDU come «norme interposte» rispetto a tale parametro.
La difesa della
parte privata pone, nondimeno, l’accento su due rilevanti elementi di novità,
intervenuti successivamente all’ordinanza di rimessione.
Il primo è
costituito dall’entrata in vigore – avvenuta il 1° dicembre 2009 – del Trattato
di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto
2008, n. 130: Trattato che, imprimendo una diversa configurazione al rapporto
tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno, avrebbe reso non più attuale
la concezione delle «norme interposte».
Il vigente art. 6
del Trattato sull’Unione europea – quale risultante a seguito delle modifiche
apportate dal Trattato di Lisbona – stabilisce, infatti, al paragrafo 1, che
«l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12
dicembre
Secondo la parte
privata, alla luce di tali previsioni, indipendentemente dalla formale adesione
alla CEDU da parte dell’Unione europea – non ancora avvenuta, ma comunque
preannunciata – i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti
all’interno delle fonti dell’Unione addirittura sotto un duplice profilo. Da un
lato, cioè, in via diretta e immediata, tramite il loro riconoscimento come
«principi generali del diritto dell’Unione»; dall’altro lato, in via mediata,
ma non meno rilevante, come conseguenza della «trattatizzazione» della Carta di
Nizza.
L’art. 52 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – contenuto nel titolo VII,
cui lo stesso art. 6 del Trattato fa espresso rinvio – prevede, infatti, che
ove
Di conseguenza,
tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino un «corrispondente» all’interno
della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi «tutelati (anche) a livello
comunitario (rectius, europeo, stante
l’abolizione della divisione in "pilastri”), quali diritti sanciti […] dal
Trattato dell’Unione». Ciò avverrebbe anche per il diritto alla pubblicità
delle procedure giudiziarie, che trova riconoscimento nell’art. 47 della Carta
in termini identici, anche sul piano testuale, a quelli dell’art. 6 della
Convenzione («ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […]
pubblicamente»).
A fronte di ciò,
il giudice comune sarebbe tenuto quindi a disapplicare qualsiasi norma
nazionale in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base
al principio, fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui «le norme di diritto
comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno».
L’altro elemento
di novità è costituito dalla sentenza di questa
Corte n. 93 del 2010, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale, in riferimento al parametro evocato dall’odierno rimettente,
dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, «nella parte in cui non consentono
che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle
misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle
forme dell’udienza pubblica».
La parte privata
rimarca, peraltro, come l’odierna questione di costituzionalità sia più ampia
di quella decisa con la citata pronuncia, attenendo al rispetto del diritto
alla pubblicità delle udienze non soltanto nei gradi di merito, ma anche nel
giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Circoscrivere la
declaratoria di illegittimità costituzionale ai soli gradi di merito
equivarrebbe, in effetti, a creare «pericolosi vuoti di tutela» in tutti quei
casi in cui non siano previsti «meccanismi correttivi che consentano di
recuperare, ora per allora, la pubblicità, dapprima negata o semplicemente non
richiesta, sollevando la questione per la prima volta solo dinanzi alla Corte
di cassazione». In ogni caso, una volta che si affidi la scelta del rito alla
parte, non si vedrebbe perché la pubblicità dell’udienza possa essere richiesta
solo nei gradi di merito e non, anche per la prima volta, davanti alla Corte di
cassazione.
La parte privata
chiede, pertanto, che
La parte privata
chiede, altresì, che
Considerato in
diritto
1. –
Il giudice a quo pone a base delle proprie censure
l’affermazione della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale, ai fini del rispetto
del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dall’art. 6,
paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, le persone coinvolte nei procedimenti per
l’applicazione di misure di prevenzione debbono vedersi «almeno offrire la
possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» (sentenza
13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia).
Nella specie, non sarebbe possibile
interpretare le norme censurate in senso conforme alla Convenzione, stante
l’univocità del dato testuale, a fronte del quale il procedimento per
l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in
camera di consiglio (e, dunque, senza la presenza del pubblico); né
sussisterebbero i presupposti per l’estensione analogica alla fattispecie
considerata dell’art. 441, comma 3, del codice di procedura penale, in tema di
giudizio abbreviato.
Sarebbe, dunque, inevitabile la
conclusione che le norme denunciate violano l’art. 117, primo comma, Cost.,
nella parte in cui non accordano all’interessato la garanzia «minimale»
richiesta dalla Corte europea, ossia la facoltà di chiedere che il procedimento
si svolga in udienza pubblica.
Detta facoltà andrebbe riconosciuta,
peraltro, non soltanto in relazione ai giudizi di merito, ma anche con riguardo
al giudizio di cassazione, senza che rilevi, in senso contrario, la circostanza
che di quest’ultimo non venga fatta menzione nella citata sentenza della Corte
europea. Se pure è vero, infatti, che
D’altro canto, una volta che la
scelta del rito venga affidata alla parte, non si vedrebbe perché la relativa
opzione possa essere effettuata solo «in
limine», e non «anche in successivi gradi di giudizio».
2. – Posteriormente
all’ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 93 del
2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme sottoposte a
scrutinio, per violazione del medesimo parametro evocato dall’odierno
rimettente, «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli
interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si
svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza
pubblica» (giudizi, quelli davanti al tribunale e alla corte d’appello, ai
quali le censure formulate nell’occasione dal giudice a quo dovevano ritenersi circoscritte).
Nella circostanza,
questa Corte ha anzitutto ricordato – e giova qui ribadirlo, in rapporto a
quanto più avanti si osserverà – come, a partire dalle sentenze n. 348
e n. 349 del
2007, la giurisprudenza costituzionale sia costante nel ritenere che le
norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali
«norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo
comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione
interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317
e n. 311 del
2009, n. 39
del 2008). In questa prospettiva, ove si profili un eventuale contrasto fra
una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare
anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme
alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione;
e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite
la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve
denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità
costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta,
Su tale premessa,
questa Corte ha quindi rilevato come il sesto e il decimo comma dell’art. 4
della legge n. 1423 del 1956 – con disposizioni valevoli anche in rapporto alle
misure patrimoniali antimafia previste dall’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (il cui primo comma richiama il
procedimento regolato dalla legge del 1956) – stabiliscano specificamente che il
giudizio per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, sia in primo
grado che nel giudizio di impugnazione davanti alla corte d’appello, «in camera
di consiglio»: perciò, «senza la presenza del pubblico», secondo il generale
disposto, in tema di procedura camerale, dell’art. 127, comma 6, cod. proc.
pen.
Si è rilevato,
altresì, come tale assetto normativo sia stato in più occasioni censurato dalla
Corte di Strasburgo, per contrasto con il principio di pubblicità dei
procedimenti giudiziari sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, in forza
del quale «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […]
pubblicamente […] da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per
legge» (sentenza
13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, cui hanno fatto seguito,
in senso conforme, le sentenze
8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; 5
gennaio 2010, Bongiorno contro Italia, e 2
febbraio 2010, Leone contro Italia).
Con riguardo alla
fattispecie in discussione,
A fronte di tali
indicazioni, questa Corte ha quindi concluso che le norme censurate violavano, in parte qua, l’art. 117, primo comma,
Cost., dovendo senz’altro escludersi che la norma convenzionale, come interpretata
dalla Corte europea, «contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra
Costituzione». Per consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, pure in
assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, «la pubblicità del giudizio,
specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento
democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi
l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo
comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione» (ex plurimis, sentenze n. 373 del
1992, n. 69
del 1991 e n.
50 del 1989). D’altra parte, pur dovendosi anche precisare che il principio
in questione «non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari
ragioni giustificative», ciò tuttavia si giustifica solo quando le stesse
risultino «obiettive e razionali» (sentenza n. 212 del
1986), e, nel caso del dibattimento penale, «collegate ad esigenze di
tutela di beni a rilevanza costituzionale» (sentenza n. 12 del
1971).
Questa Corte ha anche
escluso la praticabilità di una interpretazione conforme alla Convenzione delle
norme censurate, basata, in specie, sull’applicazione analogica dell’art. 441,
comma 3, cod. proc. pen., in forza del quale il giudizio abbreviato –
normalmente trattato in camera di consiglio – si svolge in udienza pubblica se
tutti gli imputati ne fanno richiesta. Difettano, infatti, «le condizioni
legittimanti tale operazione ermeneutica, sia perché il ricorso all’analogia
presuppone il riconoscimento di un vuoto normativo, qui non ravvisabile in
presenza di una specifica disposizione contraria» (art. 127, comma 6, cod.
proc. pen.); «sia a fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali
dei procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di
prevenzione)».
3. – La pronuncia di
illegittimità costituzionale ora ricordata non è, peraltro, integralmente
satisfattiva delle richieste dell’odierno rimettente. Il quesito di
costituzionalità oggi sottoposto al vaglio della Corte è, difatti, più ampio
della questione decisa con la sentenza n. 93 del
2010, anche se la comprende, attenendo inequivocamente a tutti i gradi di
giudizio in materia di misure di prevenzione: non solo, cioè, ai giudizi di
merito, ma anche a quello di legittimità.
Ai fini della
decisione, si rende pertanto necessario scindere l’una doglianza dall’altra.
Quanto alla questione
concernente il difetto di pubblicità delle udienze di prevenzione nei gradi di
merito, la stessa è inammissibile per sopravvenuta mancanza di oggetto. La
norma per questo verso censurata – vale a dire, quella che non consente agli
interessati di chiedere che, davanti ai tribunali e alle corti d’appello, il
procedimento di prevenzione si svolga in forma pubblica – è già stata, infatti,
rimossa dall’ordinamento dalla ricordata declaratoria di illegittimità
costituzionale con efficacia ex tunc (ex plurimis, ordinanze n. 306
e n. 78 del
2010, n. 327
e n. 82 del 2009).
Codesto profilo di inammissibilità è assorbente rispetto a quello, pur
riconoscibile, che deriva dal difetto di rilevanza della questione nel giudizio
a quo, non risultando dall’ordinanza
di rimessione che l’interessato, ricorrente per cassazione, abbia formulato nei
precedenti gradi di giudizio alcuna istanza di trattazione in forma pubblica
del procedimento.
4. – Con riferimento
alla preclusione dello svolgimento in forma pubblica del procedimento davanti
alla Corte di cassazione, la questione – non esaminata dalla citata sentenza n. 93 del
2010 – risulta, per converso, senz’altro rilevante nel giudizio principale.
Essa condiziona, infatti, la decisione della Sezione rimettente sulla richiesta
di trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica, formulata dal
ricorrente.
L’art. 4, undicesimo
comma, della legge n. 1423 del 1956 stabilisce, in effetti, che anche il
ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato «in
camera di consiglio». Tale previsione si salda col disposto dell’art. 611 cod.
proc. pen., in forza del quale
5. – Rispetto allo
scrutinio del merito della questione, assume tuttavia rilievo preliminare il
problema – sottoposto specificamente all’attenzione di questa Corte dalla parte
privata – degli effetti della sopravvenuta entrata in vigore del Trattato di
Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto
2008, n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che
istituisce
Secondo la parte
privata, le innovazioni recate da detto Trattato (entrato in vigore il 1°
dicembre 2009) avrebbero comportato un mutamento della collocazione delle
disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai
inattuale la ricordata concezione delle «norme interposte». Alla luce del nuovo
testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, dette disposizioni
sarebbero divenute, infatti, parte integrante del diritto dell’Unione: con la
conseguenza che – almeno in fattispecie quale quella di cui al presente si
discute – i giudici comuni (ivi compreso, dunque, il giudice a quo) risulterebbero abilitati a non
applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della
Convenzione, senza dover attivare il sindacato di costituzionalità. Varrebbe,
infatti, al riguardo, la ricostruzione dei rapporti tra diritto comunitario e
diritto interno, quali sistemi distinti e autonomi, operata dalla consolidata
giurisprudenza di questa Corte sulla base del disposto dell’art. 11 Cost.
(secondo cui l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati,
alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace
e la giustizia fra le Nazioni»). Alla stregua di tale ricostruzione le norme
derivanti da fonte comunitaria dovrebbero ricevere diretta applicazione
nell’ordinamento italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne
e, se munite di effetto diretto, precludono al giudice nazionale di applicare
la normativa interna con esse reputata incompatibile (ex plurimis, sentenze n. 125 del
2009, n. 168
del 1991 e n.
170 del 1984). Un effetto diretto non potrebbe essere, d’altronde, negato
alle norme della CEDU, segnatamente allorché – come nell’ipotesi in esame – sia
già intervenuta una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che
abbia riconosciuto una violazione da parte dell’Italia, riconducibile a uno
specifico difetto "strutturale” del sistema normativo interno.
Benché la stessa
parte privata, nel formulare le proprie conclusioni, abbia poi insistito per la
declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate (e, in via
conseguenziale, anche di ulteriori disposizioni), appare evidente che, ove la
tesi ora ricordata fosse corretta, la questione dovrebbe essere dichiarata
inammissibile: essendo, quello denunciato, un contrasto che spetterebbe ormai
allo stesso giudice comune – e non più a questa Corte – accertare e dirimere (ex plurimis, in tema di contrasto fra
norme interne e norme comunitarie con effetto diretto, sentenze n. 284 del
2007 e n.
170 del 1984). Donde, appunto, la pregiudizialità del problema evidenziato
dalla parte privata rispetto all’analisi del merito del quesito.
5.1. – A tale
proposito, occorre quindi ricordare come l’art. 6 del Trattato sull’Unione
europea, nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo
2, che l’«Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli
Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario».
In base a tale
disposizione – che recepiva un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia fin
dagli anni settanta dello scorso secolo – tanto
Coerentemente questa
Corte ha in modo specifico escluso che dalla «qualificazione […] dei diritti
fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del
diritto comunitario» – operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche
dall’art. 6 del Trattato – potesse farsi discendere la riferibilità alla CEDU
del parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice
comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con
In primo luogo,
perché «il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti
dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima
da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà
giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata
con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di
Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del
2007).
In secondo luogo,
perché, i «princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice
comunitario assicura il rispetto», ispirandosi alle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri e alla CEDU, «rilevano esclusivamente rispetto a
fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti
comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie,
infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal
rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT)»;
avendo «
In terzo luogo e da
ultimo, perché «il rapporto tra
5.2. – L’art. 6 del
Trattato sull’Unione europea è stato, peraltro, incisivamente modificato dal
Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento dei
meccanismi di protezione dei diritti fondamentali.
Il nuovo art. 6
esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l’«Unione riconosce i
diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre
Alla luce della nuova
norma, dunque, la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione
europea deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta
dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l’Unione «riconosce»
e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, dalla
CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, dai «principi
generali», che – secondo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, del
Trattato – comprendono i diritti sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti
dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
Si tratta, dunque, di
un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel
quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione.
Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei
Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali
nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola a un testo scritto, preciso e
articolato.
Sebbene la Carta
«riafferm[i]», come si legge nel quinto punto del relativo preambolo, i diritti
derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri e dalla CEDU, il mantenimento di un autonomo richiamo ai «principi
generali» e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla
CEDU, si giustifica – oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della
Carta da parte di alcuni degli Stati membri (si veda, in particolare, il
Protocollo al Trattato di Lisbona sull’applicazione della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito) – anche al fine
di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di
evitare che
A sua volta, la
prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU rafforza la protezione dei
diritti umani, autorizzando l’Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema
internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti.
5.3. – Con
riferimento a fattispecie quali quella che al presente viene in rilievo, da
nessuna delle predette fonti di tutela è, peraltro, possibile ricavare la
soluzione prospettata dalla parte privata.
Nessun argomento in
tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione
dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è
ancora avvenuta.
A prescindere da ogni
altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del
Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale
identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui
l’adesione stessa verrà realizzata.
5.4. – Quanto, poi,
al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo
cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto
dell’Unione in quanto principi generali» – si tratta di una disposizione che
riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6
del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione
preesistente al Trattato di Lisbona.
Restano, quindi,
tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla
disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia
applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte),
di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti
fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto
comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato
normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta»
(presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno parte» – non sono, in effetti, tali da
intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del
2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia –
che la statuizione in esame è volta a recepire – era costante nel ritenere che
i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei
principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era
chiamato a garantire il rispetto (ex
plurimis, sentenza
26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29).
Rimane, perciò,
tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione rilevano
unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il
diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla
sola normativa nazionale.
5.5. – Quest’ultimo
rilievo è riferibile, peraltro, anche alla restante fonte di tutela: vale a
dire
A prescindere da ogni
ulteriore considerazione, occorre peraltro osservare come – analogamente a
quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU
(art. 6, paragrafo 2, secondo periodo, del Trattato sull’Unione europea; art. 2
del Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) – in sede di
modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che
l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati»
abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni
dell’Unione.
L’art. 6, paragrafo
1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che «le disposizioni della
Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei
trattati». A tale previsione fa eco
I medesimi principi
risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti,
la quale, all’art. 51 (anch’esso compreso nel richiamato titolo VII),
stabilisce, al paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si
applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del
principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell’Unione»;
recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della
ricordata Dichiarazione n. 1.
Ciò esclude, con ogni
evidenza, che
Presupposto di
applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta
all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente
ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al
diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro
per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione –
e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.
Nel caso di specie –
attinente all’applicazione di misure personali e patrimoniali ante o praeter delictum – detto presupposto difetta: la stessa parte
privata, del resto, non ha prospettato alcun tipo di collegamento tra il thema decidendum del giudizio principale
e il diritto dell’Unione europea.
5.6. – Alla luce
delle considerazioni che precedono, si deve, dunque, conclusivamente escludere
che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il
giudice possa ritenersi abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU, secondo quanto ipotizzato dalla parte privata.
Restano, per
converso, pienamente attuali i principi al riguardo affermati da questa Corte a
partire dalle sentenze
n. 348 e 349
del 2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa
anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1 del
2011; n. 196,
n. 187 e n. 138 del 2010),
pure in rapporto alla tematica oggetto dell’odierno scrutinio (sentenza n. 93 del
2010).
6. – Nel merito, la
questione relativa al difetto di pubblicità del giudizio di cassazione in
materia di misure di prevenzione non è fondata.
6.1. – Come già
rimarcato da questa Corte nella sentenza n. 93 del
2010 (punto 2 del Considerato in
diritto) e come rilevato anche
dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, con la quale l’odierna
ordinanza di rimessione si pone consapevolmente
in contrasto, il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nelle
decisioni poste a fondamento della censura di costituzionalità è riferito
esclusivamente ai giudizi presso i tribunali e le corti d’appello, senza che si
faccia alcun riferimento al giudizio davanti alla Corte di cassazione.
Contrariamente a
quanto sostiene il Collegio rimettente, la
mancata menzione del giudizio di legittimità risulta particolarmente
significativa – nel senso di assumere una valenza ad excludendum – ove si consideri che
La soluzione
limitativa adottata in rapporto alla fattispecie che interessa riflette, d’altro
canto, il generale orientamento della Corte europea in tema di applicabilità
del principio di pubblicità nei giudizi di impugnazione. Tale orientamento si
esprime segnatamente nell’affermazione per cui, al fine della verifica del
rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura
giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica
udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in
secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari
caratteristiche del giudizio di cui si tratta.
In specie, i giudizi
di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di
diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della
Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti
alle corti di appello o alla corte di cassazione (ex plurimis, sentenza
21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; Grande
Camera, sentenza 18 ottobre 2006, Hermi contro Italia; sentenza
8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza
25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza
27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza
29 ottobre 1991, Helmers contro Svezia; sentenza
26 maggio 1988, Ekbatani contro Svezia). La valenza del controllo immediato
del quisque de populo sullo
svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso
all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza
dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, secondo un
classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice
sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque
ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al
giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni
normative.
Si deve, di conseguenza,
ritenere che l’avvenuta introduzione nel procedimento di prevenzione, per
effetto della sentenza
n. 93 del 2010 di questa Corte, del diritto degli interessati di chiedere
la pubblica udienza davanti ai tribunali (giudici di prima istanza) e alle
corti di appello (giudici di seconda istanza, ma competenti al riesame anche
delle questioni di fatto, se non addirittura essi stessi all’assunzione o
riassunzione di prove) è sufficiente a garantire la conformità del nostro
ordinamento alla CEDU, senza che occorra estendere il suddetto diritto al
giudizio davanti alla Corte di cassazione.
6.2. – Al fine di
contrastare tale conclusione, non giova la tesi, sostenuta dalla parte privata
nel corso della discussione orale, secondo la quale, a seguito della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al
codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di
proscioglimento), che ha modificato, in senso ampliativo, i motivi di ricorso
per cassazione legati alla mancata assunzione di prove decisive e, soprattutto,
ai vizi di motivazione (art. 606, comma 1, lettere d ed e, cod. proc. pen.),
il giudizio davanti alla Corte di cassazione non potrebbe più essere
considerato un giudizio di mera legittimità.
Pure a prescindere
dal rilievo circa la natura, tuttora controversa, delle implicazioni
dell’evocata riforma normativa, l’assunto difensivo non è comunque pertinente
nella specie, poiché nel procedimento per l’applicazione di misure di
prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso solo «per violazione di legge»
(art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956, richiamato dall’art.
3-ter, secondo comma, della legge n.
575 del 1965), il che significa, per consolidata giurisprudenza, che la
deducibilità del vizio di motivazione resta circoscritta ai soli casi di
motivazione inesistente o meramente apparente, qualificabile come violazione
dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice di appello
dal nono comma del citato art. 4 della legge n. 1423 del 1956.
6.3. – Parimenti non
condivisibile è l’ulteriore assunto del Collegio rimettente e della parte
privata, secondo il quale, una volta che si affidi la scelta del rito alla
parte, non si vedrebbe perché la pubblicità dell’udienza possa essere richiesta
solo nei gradi di merito, e non – anche per la prima volta – nel giudizio di
legittimità: ciò, tenuto conto anche dell’esigenza di prevedere «meccanismi
correttivi che consentano di recuperare, ora per allora, la pubblicità,
dapprima negata o semplicemente non richiesta, sollevando la questione per la
prima volta solo dinanzi alla Corte di cassazione».
In proposito,
Quanto, poi,
all’asserita esigenza di prevedere «meccanismi correttivi» delle violazioni del
principio di pubblicità consumatesi nei gradi di merito, va anzitutto osservato
che una simile violazione non appare ravvisabile nel caso di specie. Come già
accennato, infatti, non consta che la parte interessata abbia presentato alcuna
istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento davanti al Tribunale
e alla Corte d’appello. Né gioverebbe opporre che detta istanza non avrebbe
potuto essere utilmente formulata, dato che le norme censurate prevedevano,
all’epoca, che la procedura venisse trattata in sede camerale, senza alcuna
alternativa. È agevole replicare, infatti, che l’interessato avrebbe potuto
bene chiedere l’udienza pubblica già in sede di merito, eccependo, nel
contempo, l’illegittimità costituzionale delle norme stesse in parte qua, così come è avvenuto – con
ottenimento del risultato – nel procedimento nel quale è stata sollevata la
questione decisa con la sentenza n. 93 del
2010. In termini analoghi si è, del resto, espressa la stessa Corte di
cassazione, escludendo che la mancata trattazione in udienza pubblica del
procedimento di prevenzione nei gradi di merito possa produrre alcuna
conseguenza processuale, ove gli interessati non abbiano mai richiesto, in
quella sede, che il giudizio venisse tenuto in forma pubblica (Cass., 22
gennaio 2009-23 aprile 2009, n. 17229; Cass., 18 novembre 2008-17 dicembre
2008, n. 46751).
Si deve aggiungere,
peraltro, che ove pure nel giudizio a quo
si fosse realizzata la dedotta violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU,
essa non verrebbe affatto rimossa per effetto della trattazione in udienza
pubblica del ricorso per cassazione. Anche a tale riguardo, sono puntuali le
indicazioni della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale ha reiteratamente
chiarito come lo svolgimento pubblico di un giudizio di impugnazione che sia a
cognizione limitata – in particolare, perché il controllo del giudice di grado
superiore è circoscritto ai soli motivi di diritto (come nel caso del giudizio
di cassazione) – non basta a compensare la mancanza di pubblicità del giudizio
anteriore (sentenza
14 novembre 2000, Riepan contro Austria). Ciò, proprio perché sfuggono
all’esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali
l’esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l’assunzione
delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalità tra
fatto e sanzione (al riguardo, sentenza 10 febbraio 1983, Albert e Le Compte
contro Belgio; sentenza 23 giugno 1981, Le Compte, Van Leuven e De Meyere
contro Belgio; nonché, più di recente, Grande Camera, sentenza 11 luglio 2002,
Göç contro Turchia).
7. – Sulla base delle
considerazioni svolte, la questione sollevata va dunque dichiarata
inammissibile, nella parte attinente ai giudizi di merito, e infondata, nella
parte relativa al giudizio davanti alla Corte di cassazione.
per questi motivi
1) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4
della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti
delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e
dell’art. 2-ter della legge 31 maggio
1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso,
anche straniere), nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte,
il procedimento davanti al tribunale e alla corte d’appello in materia di
applicazione di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica, sollevata,
in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di
cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4
della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter
della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta
di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga
trattato in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo
comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata
in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.