Sentenza n. 212 del 1986

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SENTENZA N. 212

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Antonio LA PERGOLA. Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 39 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), promosso con ordinanza emessa il 26 settembre 1978 dalla Commissione tributaria di primo grado di Orvieto sul ricorso proposto da Molajoni Mario s.p.a., iscritta al n. 645 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52 dell'anno 1979.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 maggio 1986 il Giudice relatore Francesco Saja.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un procedimento promosso dalla società Molajoni Mario la Commissione tributaria di primo grado di Orvieto con ordinanza del 26 settembre 1978 (reg. ord. n. 645 del 1978) sollevava, in riferimento all'art. 101, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, nella parte in cui stabilisce che al procedimento davanti alle commissioni tributarie si applicano le norme contenute nel libro primo del codice di procedura civile con esclusione, tra l'altro, dell'art. 128, ossia senza che l'udienza sia pubblica.

Il collegio rimettente osservava che il principio di pubblicità delle udienze doveva ritenersi recepito, sebbene non esplicitamente, nella nostra legge fondamentale, e in particolare nel citato art. 101, in quanto inteso ad assicurare il controllo dell'opinione pubblica su tutte le manifestazioni della sovranità statale.

Interveniva la Presidenza del Consiglio dei ministri, la quale eccepiva la non fondatezza della questione poiché, secondo la giurisprudenza costituzionale, sulla regola di pubblicità delle udienze potevano prevalere diversi interessi, tutelati da altre norme dell'ordinamento: e nel processo tributario la mancanza di pubblicità doveva ritenersi giustificata dalle esigenze di riservatezza connesse alla sua particolare materia.

La parte privata non si costituiva.

Considerato in diritto

1. - Con l'ordinanza in epigrafe viene proposta la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 101 Cost., dell'art. 39 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, concernente la revisione del contenzioso tributario, nella parte in cui esclude la pubblicità delle udienze davanti alle commissioni tributarie.

Rileva in proposito il giudice a quo che il principio di pubblicità delle udienze, benché non esplicitamente dichiarato, deve ritenersi accolto nella Costituzione e precisamente nel ricordato art. 101, laddove statuisce che la giustizia é amministrata in nome del popolo, sicché la ricordata esclusione risulterebbe illegittima.

2. - Non é superfluo, per la migliore intelligenza della questione, qualche cenno storico. Il principio della pubblicità delle udienze giudiziarie si afferma nei tempi moderni con la caduta dell'assolutismo e viene proclamato, con una disposizione di portata generale, per la prima volta, nell'art. 208 della Costituzione francese del 1795, anno III (non mancarono, prima, disposizioni particolari: art. 163 Cost. del 1791, in materia di istruzione criminale: artt. 94 e 96 Cost. del 1793, rispettivamente in materia di deliberazione delle cause civili e di istruzione criminale), disposizione in cui viene anche costituzionalizzato, sempre con carattere di generalità, l'obbligo di motivazione, ritenuto parimenti necessario al controllo sugli atti giudiziari. Il principio é successivamente accolto altresì in carte costituzionali della Restaurazione e trova larga diffusione, assurgendo presto al ruolo di normale guarentigia d'una retta amministrazione della giustizia, anche in ordinamenti non ispirati ai principi di libertà e di eguaglianza.

In Italia la regola fu recepita nell'art. 72 dello Statuto albertino ("Le udienze dei Tribunali in materia civile e i dibattimenti in materia criminale saranno pubblici conformemente alle leggi") e in attuazione di questa disposizione statutaria le varie leggi processuali regolarono la pubblicità delle udienze (art. 52 cod. proc. civ.; art. 268 cod. proc. pen.; art. 443 cod. pen. per l'esercito; art. 490 cod. pen. militare marittimo; art. 34 della legge sul Consiglio di Stato).

3. - Nell'iter formativo della Costituzione repubblicana, il principio venne esplicitamente enunciato nell'art. 101 del progetto presentato all'Assemblea costituente il 31 gennaio 1947 (secondo comma: "le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti"); ma poi, come risulta dai lavori preparatori, una espressa enunciazione fu ritenuta superflua, in quanto si ritenne che la pubblicità delle udienze fosse implicitamente prescritta dal sistema costituzionale quale conseguenza necessaria del fondamento democratico del potere giurisdizionale, esercitato appunto, come recita l'art. 101, in nome del popolo.

Coerentemente, tutte le leggi processuali hanno mantenuto o introdotto la regola (art. 128 cod. proc. civ.; art. 423 cod. proc. pen.; art. 41 del testo unico sul Consiglio di Stato approvato con r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, ora applicabile anche ai Tribunali amministrativi regionali; art. 72 t.u. 12 luglio 1934 n. 1214, sull'ordinamento della Corte dei conti; art. 364 cod. pen. militare di pace; art. 15 l.11 marzo 1953 n. 87 sul funzionamento della Corte costituzionale). Nelle varie norme ora indicate é possibile riscontrare qualche differenza, quanto alle eccezioni, peraltro molto limitate e largamente coincidenti; ma queste non scalfiscono affatto l'essenziale unità del principio, da considerare indefettibile - ripetesi - in un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, come il nostro, al quale non può non conformarsi l'amministrazione della giustizia, che in quella sovranità trova la sua legittimazione.

Ciò va ribadito in conformità a quanto già ritenuto da questa Corte (cfr. sent. 23 gennaio 1971 n. 12), riconoscendosi peraltro il potere del legislatore ordinario di introdurre per singole categorie di procedimenti deroghe determinate da ragioni obbiettive e razionali. Il principio, invero, non può considerarsi assoluto e deve cedere in presenza di particolari circostanze giustificative, ma, ove queste non si verifichino, é indubitabile che la regola della pubblicità delle udienze debba trovare piena attuazione.

Vale aggiungere che detta pubblicità, in quanto espressione di civiltà giuridica, viene prescritta non soltanto nell'ordinamento italiano, ma é prevista anche in convenzioni internazionali, quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (art. 6) e ratificata con 1. 4 agosto 1955 n. 848, (e così anche il Nuovo ordin. proc. della Corte europea dei diritti dell'uomo, art. 18), il Patto internazionale di Nevv York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e ratificato con 1. 25 ottobre 1977 n. 881 (art. 14), i Protocolli sullo Statuto della Corte di giustizia, annessi ai trattati CECA, CEE ed EURATOM (rispettivamente artt. 28 e 29).

4. - La generale validità del principio é riconosciuta dall'Avvocatura dello Stato, la quale però deduce che la sua mancata estensione al processo tributario dovrebbe considerarsi una eccezione, giustificata dalla "riservatezza" dell'oggetto delle controversie.

La Corte non ritiene di poter aderire a tale tesi.

É evidente, anzitutto, che di riservatezza in senso tecnico non può certo parlarsi, in quanto la materia di cui trattasi non attiene alla intimità della vita privata del soggetto e dunque non può ricevere la relativa tutela.

L'art. 53 Cost., nel disporre che "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche, in ragione della loro capacità contributiva", considera il contribuente non già quale titolare di una posizione giuridica attinente al suo patrimonio, da difendere dalle conoscenze e ingerenze altrui; al contrario, la norma crea un legame di natura solidaristica, in senso lato, tra i consociati, tutti chiamati ad assicurare il complesso delle entrate necessarie per il perseguimento delle finalità collettive. L'imposizione tributaria soggiace così, da un lato, al canone della trasparenza, che, seppure riferito direttamente all'ente impositore, espande di necessità i suoi effetti anche alla generalità dei cittadini; e, dall'altro, é soggetta ai principi di universalità e di uguaglianza, così da escludere che la posizione del contribuente possa considerarsi come esclusivamente personale e svincolata da nessi intersoggettivi.

Ciò non importa certo che ai singoli spettino vicendevoli poteri di controllo e di interferenza, che potrebbero costituire motivi di turbamento per l'ordinata convivenza sociale; ma non significa, d'altro canto, che la posizione soggettiva del contribuente possa essere considerata alla stregua di un diritto della personalità, addirittura protetto dal segreto. Infatti quest'ultimo, nell'ambito del diritto pubblico, a cui indubbiamente appartiene quello tributario, può ammettersi solo quale eccezione, che deve trovare nella legge razionale e oggettivo fondamento.

Del resto, le modalità di accertamento prescritte nel d.P.K. 29 settembre 1973 n. 600 e il numero sempre crescente delle infrazioni penalmente sanzionate dimostrano chiaramente come l'ordinamento tenda a rendere di generale conoscenza la concreta applicazione della disciplina tributaria.

Né può omettersi di rilevare che la tesi dell'Avvocatura dello Stato trova ulteriore smentita anche sul terreno strettamente processuale: invero l'esclusione della pubblicità delle udienze vale soltanto per le commissioni tributarie, ma non per le corti d'appello e la Corte di cassazione, avanti le quali il medesimo processo può continuare a seguito di impugnazione della decisione di secondo grado, ovvero di quella della Commissione centrale. Relativamente ai procedimenti davanti alle Corti suddette vale la disposizione dell'art. 128 cod. proc. civile; il che non solo costituisce un ulteriore elemento per disattendere la tesi della "riservatezza", essendo l'oggetto del processo sempre il medesimo, ma altresì rivela, in aggiunta alla mancata attuazione del citato precetto costituzionale, la scarsa coerenza del legislatore.

6. - Ricercando l'effettiva ragione dell'esclusione della pubblicità, prevista soltanto per i giudizi davanti alle commissioni tributarie, si rileva che all'epoca della legge delega n. 825 del 1971 e del decreto delegato sul contenzioso tributario n. 636 del 1972, si propendeva da più parti - e in tali sensi vi era qualche precedente pronuncia di questa Corte - per la natura amministrativa delle dette commissioni. Di tale propensione si trovano tracce in entrambi i provvedimenti legislativi ora detti e nel parere della Commissione parlamentare.

E ciò ha verosimilmente determinato, tra l'altro, l'esclusione della pubblicità delle udienze in questione: udienze che, é bene notarlo, non hanno finalità soltanto istruttorie, ma sono destinate alla decisione della causa (art. 20 d.P.R. n. 636/ 1972 cit.), così come quelle di altri tipi di processo nei quali il principio di pubblicità trova applicazione.

Soltanto dopo l'entrata in vigore del d.P.R. ora ricordato la tendenza cominciò a cambiare (la sentenza di questa Corte che riconobbe il carattere giurisdizionale delle Commissioni é posteriore di più di due anni, in quanto é del 19 dicembre 1974); sicché anche la successiva inerzia del legislatore può ritenersi giustificata dall'opportunità di attendere l'evoluzione ed il consolidamento del nuovo orientamento; ed é significativo che in occasione del c.d. "decreto correttivo" n. 739 del 1981 venne formulata una norma diretta ad adattare il processo tributario al suddetto principio costituzionale, eliminando dalla previsione del cit. art. 39 l'esclusione dell'art. 128 cod. proc. civ.; e tuttavia, nonostante il parere favorevole della Commissione parlamentare, in sede di formulazione definitiva il testo dell'art. 39 non venne modificato.

Ma ormai, risultando definitivamente consolidati l'opinione dottrinale e l'orientamento della giurisprudenza sulla natura giurisdizionale delle predette commissioni, non potrebbe ritenersi consentita un'ulteriore protrazione della disciplina attuale: per contro, é assolutamente indispensabile, al fine di evitare gravi conseguenze, che il legislatore prontamente intervenga onde adeguare il processo tributario all'art. 101 Cost., correttamente interpretato.

Nei termini cosi precisati la proposta questione va dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), sollevata in riferimento all'art. 101, primo comma, Cost. dalla Commissione tributaria di primo grado di Orvieto con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 1986.

 

Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO – Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA

 

Depositata in cancelleria il 24 luglio 1986.