SENTENZA N. 39
ANNO 2008
I. Roberto Mastroianni, La sentenza della Corte cost. n. 39 del 2008 in tema di rapporti tra leggi ordinarie e CEDU: anche le leggi cronologicamente precedenti vanno rimosse dalla Corte costituzionale? (per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
II. Vincenzo Sciarabba, Il problema dei rapporti tra (leggi di esecuzione di) vincoli internazionali e leggi precedenti nel quadro della recente giurisprudenza costituzionale (per gentile concessione del Forum dei Quaderni Costituzionali)
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, promosso dal Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia-Romagna, sezione di Parma, sul ricorso proposto da B. R. contro la Provincia di Reggio Emilia ed altra, con ordinanza del 20 febbraio 2007, iscritta al n. 426 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.
Ritenuto in fatto
Il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione di Parma, con ordinanza del 20 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nelle parti in cui, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, fanno automaticamente derivare dalla dichiarazione di fallimento e dalla conseguente iscrizione nel pubblico registro dei falliti la perdita dei diritti civili dell’interessato fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell’iscrizione nel registro, ancorché questi si trovi nella condizione di richiedere la riabilitazione civile.
La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio instaurato da un farmacista per l’annullamento dalla determinazione dirigenziale n. 392 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente dell’Area Welfare della Provincia di Reggio Emilia, con la quale il ricorrente è stato escluso dalla graduatoria finale di un concorso pubblico per il conferimento di due sedi farmaceutiche – nel quale si era classificato secondo nella graduatoria di merito – in quanto, in sede di verifica del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l’amministrazione aveva accertato che l’interessato era stato dichiarato fallito con sentenza del 1986 e risultava tuttora iscritto nel pubblico registro dei falliti, non avendo mai richiesto la riabilitazione cui avrebbe avuto pieno titolo, essendosi il fallimento chiuso, appunto, nel 1986.
Il giudice a quo riferisce che l’interessato ha impugnato il suddetto provvedimento sotto molteplici profili, la maggior parte dei quali privi di fondamento.
Sottolinea, tuttavia, il remittente che alcune doglianze del ricorrente sono incentrate sul fatto che la Corte europea per i diritti dell’uomo ha più volte censurato la normativa in materia di pubblico registro dei falliti e di riabilitazione – considerandola, sotto vari aspetti, in contrasto con la Convenzione per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 8 agosto 1955 n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952) – sicché, a suo dire, ciò avrebbe dovuto indurre a disapplicare la normativa statale incompatibile con la Convenzione, ovvero a promuovere il sindacato di costituzionalità sull’omesso pieno adeguamento della disciplina nazionale alla Convenzione medesima. Al riguardo, il remittente ricorda che l’orientamento giurisprudenziale invocato dal ricorrente si desume da una serie di sentenze della Corte di Strasburgo del 2006 che, facendo riferimento all’art. 8 della CEDU, hanno censurato il sistema normativo di cui agli artt. 50 e 142 della legge fallimentare, perché, quando era in vigore, assoggettava automaticamente il fallito alle relative incapacità personali (fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell’iscrizione nel registro) prescindendo dal concreto apprezzamento delle specifiche condizioni soggettive e, quindi, dalla necessaria applicazione discrezionale delle relative misure.
Ciò assume, nella specie, ad avviso del remittente, particolare importanza in quanto mette in discussione il fondamento stesso dell’istituto giuridico in ragione del quale il ricorrente è risultato carente del requisito del godimento dei diritti civili, di talché appare necessario verificare l’efficacia esercitata, nell’ordinamento interno, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e, soprattutto, la posizione occupata dalla CEDU nella gerarchia delle fonti.
Al riguardo, il remittente – uniformandosi all’orientamento espresso dalla Corte di cassazione e tenendo conto degli artt. 13, 46 e 56 della CEDU nonché della legge 9 gennaio 2006, n. 12 – ritiene che, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti dalla Convenzione suddetta, tuttavia le relative modalità applicative sono rimesse alla legislazione interna e le norme della Convenzione non sono assimilabili ai regolamenti comunitari, sicché non operano immediatamente nell’ordinamento interno né i diritti da essa garantiti trovano diretta tutela in sede comunitaria se la normativa nazionale censurata non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario. D’altra parte, osserva il giudice a quo, dopo la riforma dell’art. 117 Cost. anche la giurisprudenza costituzionale sembra orientata ad attribuire rilievo indiretto alle norme della Convenzione (sentenza n. 445 del 2002), così negando implicitamente ogni eventualità di abrogazione automatica o di disapplicazione giudiziale delle leggi interne in contrasto con le disposizioni di rango sovranazionale. Conseguentemente, il potere di far venire meno le norme primarie difformi dalla CEDU nel nostro ordinamento rimane riservato al legislatore statale, a quello regionale e alla Corte costituzionale, in sede di sindacato di costituzionalità effettuato soprattutto con riguardo al nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost. Rispetto a tale sindacato le disposizioni della CEDU operano quali norme interposte, attraverso l’interpretazione che ne dà la Corte di Strasburgo (loro giudice naturale) e, con riguardo alle norme interne contrastanti con la Convenzione anteriori all’entrata in vigore della riforma del menzionato art. 117 Cost., si verifica una situazione di illegittimità costituzionale sopravvenuta, derivante dall’omesso adeguamento della disciplina nazionale alla fonte sovranazionale.
In questa situazione – osserva il remittente – essendo da escludere sia che il giudice comune possa disapplicare le norme statali che la Corte di Strasburgo ha dichiarato incompatibili con l’art. 8 della CEDU sia che le suddette norme possano considerarsi direttamente abrogate per effetto del contrasto con la disciplina sovranazionale, non resta altro che investire questa Corte della presente questione di legittimità costituzionale (la quale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, coinvolge solo indirettamente l’art. 4, comma 2, della legge 8 novembre 1991, n. 362).
Quanto al merito della questione, il TAR ricollega l’ipotizzata violazione dell’art. 117 Cost. al fatto che il legislatore nazionale non ha tempestivamente provveduto a conformare la disciplina interna alla CEDU, laddove questa Convenzione tutela il diritto della persona a non essere sottoposta ad interferenze arbitrarie nella vita privata (art. 8). Tale diritto fondamentale – come affermato dalla Corte di Strasburgo con sentenze che, ancorché successive all’abrogazione delle disposizioni interne, assumono rilievo anche nella presente fattispecie in quanto di natura dichiarativa – non tollera un sistema basato sull’automatica sottoposizione dei falliti ad un regime di incapacità personali svincolato dalla preventiva valutazione giudiziale delle singole posizioni e operante per un lungo lasso di tempo dopo la chiusura della procedura concorsuale fino alla sentenza di riabilitazione civile.
Con riguardo, poi, all’ipotizzata violazione degli artt. 2, 3 e 41 Cost., il TAR remittente sottolinea come il fatto che l’automatismo insito nel regime delle incapacità personali del fallito operi – oltre tutto per molto tempo dopo la chiusura del fallimento – al di fuori di una preventiva verifica delle singole condizioni soggettive ed oggettive e, quindi, a prescindere da un appropriato rapporto di adeguatezza con le peculiarità dei singoli casi concreti, ovvero da una graduale e ponderata applicazione delle relative misure si traduca in: a) un arbitrario sacrificio del diritto alla riservatezza della sfera privata della persona, data l’assenza di un preliminare accertamento delle relative restrizioni; b) un’oggettiva lesione del principio di uguaglianza, consistente nella previsione di un identico regime di incapacità personali per tutti i soggetti, senza che sia attribuito alcun rilievo alla diversa portata delle rispettive vicende fallimentari; c) un’indiscriminata limitazione del diritto di iniziativa economica, ostacolato, nel suo esplicarsi, da vincoli che non tengono conto ex ante, caso per caso, dell’effettivo pregiudizio dei valori protetti dall’art. 41, secondo comma, Cost.
Per quel che si riferisce alla rilevanza, il TAR pone l’accento sul fatto che il provvedimento impugnato è stato adottato sul presupposto della perdurante iscrizione del ricorrente nel pubblico registro dei falliti, sicché l’eventuale espunzione dall’ordinamento delle disposizioni impugnate comporterebbe le cessazione, con effetto ex tunc, del regime delle incapacità personali addotto a fondamento della carenza del requisito del possesso dei diritti civili. Né assume alcun rilievo in contrario la circostanza che medio tempore e, precisamente, a decorrere dal 16 gennaio 2006 – per effetto dell’art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, che ha abrogato l’art. 50 del r.d. n. 267 del 1942, e dell’art. 128 dello stesso decreto, che ha sostituito il titolo II, capo IX, della legge fallimentare – il pubblico registro dei falliti è stato soppresso e l’istituto della riabilitazione è venuto meno (sicché, da quella data, è stata eliminata la preclusione legale al godimento dei diritti civili attualmente in discussione), visto che la presente fattispecie risulta tuttora disciplinata dalla precedente normativa, in quanto essa era ancora in vigore quando si è svolta la fase procedimentale nel corso della quale occorreva maturare il possesso dei requisiti di ammissione al concorso.
Sottolinea poi il giudice a quo che il ricorrente, pur avendo a tempo debito omesso di proporre istanza di riabilitazione, appare, tuttavia, pienamente legittimato ad invocare la caducazione di un sistema normativo che ne ha causato l’automatica sottoposizione al regime di incapacità personali del fallito e che, di conseguenza, gli ha impedito di conseguire il conferimento della sede farmaceutica in esito al concorso in oggetto.
E’, infine, da escludere la possibilità di disapplicazione della disciplina censurata per contrasto con le norme comunitarie che, ad avviso del ricorrente, recherebbero disposizioni sostanzialmente corrispondenti alle prescrizioni della CEDU che vengono, nella specie, in considerazione. Infatti, da un lato, le direttive comunitarie invocate non rientrano tra quelle self executing e, d’altra parte, l’asserita violazione del generale principio della libera concorrenza – rappresentata, in ipotesi, dal regime discriminatorio riservato ai cittadini italiani falliti rispetto a quelli degli altri Paesi dell’Unione europea – neppure può indurre alla richiesta disapplicazione, poiché la presunta discriminazione in argomento non costituisce, di per sé, causa di illegittimità comunitaria, in quanto i singoli Stati della UE godono di un ambito di autonomia che esclude un’assoluta uniformità di regime delle condizioni legali di accesso alle attività economiche.
Il remittente riferisce, inoltre, che l’istanza cautelare del ricorrente, respinta dal giudice di primo grado, è stata viceversa accolta dal Consiglio di Stato, sezione V, con ordinanza del 3 ottobre 2006, n. 5065.
Considerato in diritto
1.— Il TAR per l’Emilia-Romagna, sezione di Parma, in riferimento agli articoli 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, ha sollevato, «nei sensi di cui in motivazione», questione di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.
Il remittente espone in fatto e osserva in punto di rilevanza che è stato chiamato a giudicare sulla legittimità della determinazione n. 382 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente dell’Area Welfare Locale della Provincia di Reggio Emilia, con la quale il ricorrente era stato escluso dalla graduatoria finale del concorso per il conferimento di due sedi farmaceutiche – bandito dalla Provincia di Reggio Emilia il 20 maggio 2003 – pur essendosi classificato al secondo posto della graduatoria di merito, in quanto, in sede di verifica del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l’amministrazione aveva accertato che egli era stato dichiarato fallito nel 1986 dal Tribunale di Termini Imerese e figurava ancora iscritto nell’albo dei falliti, pur essendo trascorsi molti anni dalla chiusura della procedura concorsuale (avvenuta nello stesso 1986) e avendo, quindi, la facoltà di promuovere il giudizio di riabilitazione civile, al fine di ottenere la cancellazione dal suddetto albo.
Il remittente rileva, in particolare, che, secondo la normativa censurata – vigente alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande per la partecipazione al concorso di cui si tratta e, pertanto, da applicare nel caso di specie, nonostante la sopravvenuta abrogazione dell’art. 50 del r.d. n. 267 del 1942, con conseguente soppressione dell’albo dei falliti, ad opera dell’art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, entrato in vigore il 16 gennaio 2006 – allo stato di fallito era automaticamente connessa la perdita dei diritti civili e politici (permanente fino al passaggio in giudicato della sentenza di riabilitazione civile, emanata ai sensi dell’art. 142 dello stesso r.d. n. 267 del 1942, istituto del pari eliminato dall’art. 128 del menzionato d.lgs. n. 5 del 2006), la cui titolarità è richiesta per la partecipazione ai concorsi per l’assegnazione delle sedi farmaceutiche, dall’art. 4, comma 2, della legge 8 novembre 1991, n. 362.
2.— Sulla non manifesta infondatezza della questione, il TAR remittente osserva che le norme censurate, configurando le suddette incapacità personali come conseguenza automatica della dichiarazione di fallimento e, soprattutto, prevedendo il loro permanere dopo la chiusura della procedura per lungo tempo fino alla cancellazione dall’albo a seguito dell’esito favorevole del giudizio di riabilitazione, contrastano con i parametri costituzionali suindicati.
In particolare, esse violerebbero l’art. 3 Cost. perché dispongono un’irragionevole sanzione ed equiparano situazioni diverse, prescindendo da ogni valutazione delle cause del dissesto dell’imprenditore; contrasterebbero inoltre con i diritti della persona e con il principio della libertà di iniziativa economica e anche con le disposizioni dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo quanto ritenuto in numerose decisioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui istituzionalmente è attribuito il compito di interpretare la CEDU.
3.— La questione è rilevante e, nel merito, fondata.
In punto di rilevanza non è implausibile la motivazione dell’ordinanza di rimessione, secondo la quale i requisiti per la partecipazione ad un concorso, se diversamente non è nei singoli casi stabilito, vanno determinati alla stregua della normativa vigente al momento della scadenza del termine fissato per la presentazione della domanda, nel caso in esame antecedente l’abrogazione di una delle disposizioni impugnate e la sostituzione dell’altra.
4.— Nel merito è necessario premettere che, secondo la giurisprudenza formatasi prima dell’abrogazione dell’art. 50 del r.d. n. 267 del 1942 e nella vigenza del testo originario dell’art. 142 del medesimo, il riacquisto dei diritti civili e politici, la cui perdita era automaticamente connessa allo stato di fallito, veniva, come si è detto, condizionato al favorevole esito del giudizio di riabilitazione.
Va, inoltre, sottolineato che nell’ordinanza di rimessione, anche con specifico riferimento alle peculiarità della vicenda sulla quale il giudice amministrativo deve pronunciarsi, i sospetti di incostituzionalità si appuntano non soltanto sull’automatismo delle incapacità del fallito ma anche sul loro protrarsi ben oltre la chiusura della procedura concorsuale.
5.— Così identificati i termini della questione soggetta a scrutinio, se ne rileva la fondatezza per contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.
Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l’altro, che, con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell’ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi.
Ora, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all’epoca vigente, la Corte di Strasburgo, con numerose pronunce (si veda, ex plurimis, la sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un’ingerenza «non necessaria in una società democratica».
La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell’iscrizione del nome del fallito nel registro e dell’assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull’applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l’ingerenza prevista dall’art. 50 della legge fallimentare nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell’art. 8, § 2, della Convenzione», e ha dichiarato l’avvenuta violazione del citato art. 8, dopo aver precisato che la nozione di “vita privata” presa in considerazione da tale norma, «non esclude, in linea di principio, le attività di natura professionale o commerciale, considerato che proprio nel mondo del lavoro le persone intrattengono un gran numero di relazioni con il mondo esteriore».
Nel contempo le disposizioni censurate, in quanto stabiliscono in modo indifferenziato incapacità che si protraggono oltre la chiusura della procedura fallimentare e non sono, perciò, connesse alle conseguenze patrimoniali della dichiarazione di fallimento ed, in particolare, a tutte le limitazioni da questa derivanti, violano l’art. 3 Cost. sotto diversi profili. Esse, infatti, poiché prevedono generali incapacità personali in modo automatico e, quindi, indipendente dalle specifiche cause del dissesto – così equiparando situazioni diverse – e in quanto stabiliscono che tali incapacità permangono dopo la chiusura del fallimento, assumono, in ogni caso, carattere genericamente sanzionatorio, senza correlarsi alla protezione di interessi meritevoli di tutela.
Deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 50 e 142 della legge fallimentare di cui al r.d. n. 267 del 1942, nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.
Restano assorbiti gli altri profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.