Sentenza n. 211/98

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SENTENZA N. 211

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75 e degli artt. 2, comma 1, dello stesso decreto-legge e 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250((Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349, promossi con ordinanze emesse, l’una, il 1° giugno 1995 dalla Commissione tributaria di primo grado di Firenze, sui ricorsi riuniti proposti da Paladini Giorgio contro l’Ufficio tecnico erariale di Firenze, iscritta al n. 392 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 1996 e, l’altra, il 15 ottobre 1996 dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, sul ricorso proposto dalla Banca di Piacenza Soc. Coop. a r.l. contro l’Ufficio Registro di Piacenza, iscritta al n. 57 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 1997.

  Visti gli atti di costituzione di Paladini Giorgio e della Banca di Piacenza Soc. Coop. a r.l. nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

  udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 1997 il Giudice relatore Massimo Vari;

  uditi gli avvocati Felix Hofer per Paladini Giorgio, Massimo Luciani per la Banca di Piacenza Soc. Coop. a r.l. e l’Avvocato dello Stato Carlo Bafile per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 

1.1.- Con ordinanza del 1° giugno 1995 (r.o. n. 392 del 1996), la Commissione tributaria di primo grado di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75 "nella parte in cui prevede la permanenza in vigore delle tariffe d’estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto ministeriale 20 gennaio 1990".

1.2.- L’ordinanza é stata assunta nell’ambito di tre giudizi riuniti aventi ad oggetto l’impugnativa, da parte di un contribuente, dell’accertamento della rendita catastale di taluni suoi immobili, deducendo l’illegittimità della stessa "per violazione di legge ed eccesso di potere" del decreto ministeriale 20 gennaio 1990, concernente la revisione delle tariffe d’estimo.

1.3.- Il giudice rimettente, richiamate le vicende giurisdizionali che hanno interessato detto decreto, come pure quello successivo del 27 settembre 1991, al cui annullamento ha fatto seguito la disposizione denunciata, reputa quest’ultima in contrasto, anzitutto, con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto il "criterio del valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile", cui fa riferimento il primo comma della disposizione stessa, ha "esposto ed espone gli Uffici tecnici erariali - nel periodo transitorio che doveva durare fino al 1994, ma che é stato poi prorogato fino al 1° gennaio 1998 - al rischio concreto di attribuire rendite catastali superiori a quelle effettive, determinando così, nella liquidazione delle singole imposte, una ingiusta erosione del patrimonio e dando luogo ad effettive situazioni di disparità di trattamento con palese violazione del principio di uguaglianza e di quello di capacità contributiva".

Ad avviso dell’ordinanza non giova obiettare, così come fa la Corte costituzionale, nella sentenza n. 263 del 1994, che la verifica di costituzionalità va operata nell’ambito della disciplina delle singole imposte. In molti casi, come ad esempio in materia di IRPEF, in cui l’imposta é applicata direttamente dal contribuente in base ad una sua autodichiarazione, l’adesione alle suddette argomentazioni costringerebbe il cittadino ad iniziare un procedimento quanto mai macchinoso e dispendioso, al solo fine di sollevare le eccezioni di illegittimità costituzionale, e cioé "richiesta di rimborso all’amministrazione finanziaria, silenzio-rifiuto, ricorso avverso tale silenzio-rifiuto dinanzi alle Commissioni tributarie".

Secondo il rimettente, il profilo d’illegittimità denunziato si appalesa rilevante, poichè - salvo verifica in sede di esame di merito di quanto illustrato dal contribuente - l’applicazione della rendita catastale, in base ai parametri cui fa riferimento l’art. 2 del decreto-legge denunciato, evidenzia, nella fattispecie, una notevole difformità "tra il valore catastale ed il valore reale di mercato degli immobili attuale o quello riferito al periodo 1988-1989".

1.4.- Ugualmente ammissibili e rilevanti sono, secondo l’ordinanza, altri due profili di incostituzionalità.

Il primo riguarda la violazione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto la "legificazione" delle tariffe d’estimo, fissate dai decreti ministeriali 20 gennaio 1990 e 27 settembre 1991, dà luogo "all’attribuzione di fatto, in linea diretta ed immediata, delle rendite catastali alle unità immobiliari", donde la conclusione che, in tal modo, il legislatore é venuto a sostituirsi alla pubblica amministrazione, esercitando "una funzione tipicamente amministrativa" e ponendo in essere un "comportamento viziato da eccesso di potere ed irragionevolezza".

1.5.- L’altro profilo concerne, invece, la lesione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, avendo il legislatore precluso al cittadino qualsiasi possibilità di difesa giurisdizionale di fronte ad una disciplina che, nell’assorbire concretamente la funzione amministrativa, appare atta ad incidere sulle posizioni soggettive dei privati "con riguardo ai parametri di individuazione in concreto degli elementi di fatto" da cui trae origine la potenzialità reddituale.

1.6.- La parte privata, nel costituirsi in giudizio, ha depositato una memoria in cui, nel lamentare che il valore assegnato alle sue unità immobiliari sia molto più alto di quello riscontrabile in riferimento alla realtà oggettiva del mercato immobiliare locale, segnala l’esigenza di una riconsiderazione del carattere transitorio della disciplina impugnata, da cui deriverebbe, giusta la sentenza della Corte n. 263 del 1994, la mancanza di potenzialità lesiva, visto che la disciplina stessa é stata prorogata al 31 dicembre 1998.

Si osserva, inoltre, che:

- il meccanismo, automatico ed implicito, con il quale é stata attribuita la nuova rendita catastale agli immobili di proprietà del ricorrente, implica, a carico di quest’ultimo, "evidenti esiti di accertamento tributario", realizzato all’insaputa dell’interessato, senza il rispetto dell’obbligo di motivazione e di congrua esternazione dei criteri di calcolo e dei parametri utilizzati per stabilire il valore di mercato degli immobili, con conseguente lesione del diritto di difesa, violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione e preclusione del sindacato giurisdizionale assicurato dall’art. 113 e dai dettami di trasparenza ex art. 97 della Costituzione;

- sotto ulteriore e diverso profilo, la disposizione denunciata si pone in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto il criterio fissato nel primo comma dell’art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 (valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile) dà luogo all’attribuzione di rendite catastali superiori a quelle effettive, con assegnazione di un reddito astratto e virtuale, trascurando che le presunzioni, per potere essere conformi al principio di capacità contributiva, debbono essere confortate da elementi concreti che le giustifichino razionalmente.

Nè, ad avviso della parte privata, la problematica in esame può essere spostata in altra sede e, segnatamente, in quella in cui si attuano i procedimenti applicativi delle singole imposte, per le difficoltà e preclusioni oggettive che spesso si oppongono a tale trasferimento.

In definitiva, il legislatore, prevedendo la permanenza in vigore delle tariffe d’estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto del Ministro delle finanze 20 gennaio 1990, é giunto ad assegnare direttamente le rendite alle singole unità immobiliari, appropriandosi di una funzione tipicamente amministrativa e ponendo in essere disposizioni viziate da "eccesso di potere legislativo", nonchè da irragionevolezza, censurabili ex art. 3 della Costituzione, non potendo i precetti legislativi "trasmodare in un regolamento irrazionale" che incide arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica.

Esito conseguenziale di ciò é la violazione anche degli artt. 24 e 113 della Costituzione, in quanto l’assorbimento della funzione amministrativa in quella legislativa elimina ogni possibilità di tutela giurisdizionale dei singoli cittadini, per l’impossibilità di impugnare, di fronte al giudice amministrativo ovvero di fronte al giudice tributario, un provvedimento legislativo.

1.7.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sollevata venga dichiarata inammissibile ovvero rigettata.

In via pregiudiziale, l’Avvocatura sostiene il difetto di rilevanza delle prospettate censure, osservando che l’oggetto del processo principale é l’impugnazione dell’avviso di classamento, sicchè il ricorso può portare solo ad una modifica della categoria e della classe di appartenenza dell’immobile. Tutt’altro problema é, invece, quello della tariffa "che può essere affrontato innanzi alle Commissioni solo in connessione con un atto che concerne la determinazione di una delle imposte sulle quali é rilevante il reddito catastale".

Nel merito, la difesa erariale rileva che l’ordinanza di rimessione si limita a prospettare "il rischio" che il reddito, per effetto del criterio fissato dalla norma denunziata, risulti superiore alla rendita effettiva, sicchè la illegittimità si fonda sulla eventualità che, nel caso del ricorrente (e non in termini generali), possa verificarsi (ma é solo un sospetto da verificare) una valutazione sproporzionata. In ogni caso, l’ordinanza fa riferimento ad un reddito astratto, quale risulta a seguito del classamento, senza considerare che la verifica del rispetto dell'art. 53 della Costituzione si può fare solo a fronte di "una imposizione effettiva e non potenziale", promuovendo un ricorso contro un atto dell’ufficio.

1.8.- In prossimità della trattazione del giudizio, fissata, in un primo tempo, per la camera di consiglio del 9 aprile 1997, la parte privata ha depositato una memoria, in cui, replicando alle deduzioni dell’Avvocatura dello Stato, si sostiene che il giudice tributario ha ritenuto di dover nuovamente investire la Corte del sindacato di costituzionalità della disposizione denunciata, perchè, nel caso oggetto di giudizio, esiste una notevole difformità tra valore catastale e valore reale di mercato degli immobili, onde si é verificata proprio l’ipotesi prospettata nella sentenza della Corte n. 263 del 1994, nel senso che l’applicazione dei criteri contenuti nella norma al vaglio della Corte ha portato all’attribuzione di una rendita notevolmente superiore a quella effettiva, con violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione.

Si nega, peraltro, che oggetto della impugnazione nel giudizio principale sia un avviso di classamento, assumendo che oggetto del giudizio é, invece, l’attribuzione della rendita catastale intervenuta a seguito della revisione delle tariffe d’estimo e che, quindi, si tratta di una controversia sicuramente di competenza del giudice tributario.

Rammentato che la sentenza della Corte n. 263 del 1994 ha ritenuto che, nel caso allora in esame, non risultavano prospettati profili idonei a concretamente evidenziare una incongruità dei criteri di determinazione dei valori rispetto al fine che si era inteso perseguire, si sostiene che la pronunzia ha lasciato aperta la via per un vaglio di costituzionalità della legge nelle ipotesi in cui la concreta applicazione di quest’ultima dia luogo ad una rendita catastale superiore all’effettiva. Confutando, poi, la tesi della difesa erariale che ritiene la questione prospettata in astratto, si osserva che l’applicazione dei nuovi criteri ha comportato l’attribuzione di un reddito assai "concreto" cui il cittadino deve fare riferimento per ogni incombenza a carattere fiscale (in particolare, in sede di autoliquidazione ai fini IRPEF).

Non condividendo le indicazioni della difesa erariale circa le vie consentite al contribuente, per proporre la questione di legittimità costituzionale dei criteri determinativi delle nuove rendite catastali, si ribadisce che la norma denunciata ha assegnato le nuove rendite alle singole unità immobiliari urbane, appropriandosi di una funzione tipicamente amministrativa. Si é così realizzata una disciplina palesemente arbitraria ed irragionevole che, come risulta dalle perizie depositate nel giudizio principale, ha portato all’attribuzione, in concreto, di rendite assolutamente esorbitanti rispetto alla realtà, senza che siano state svolte dal legislatore la necessaria attività istruttoria e la indispensabile valutazione dei concreti elementi di fatto che avrebbero dovuto necessariamente precedere l’attività amministrativa di attribuzione della rendita catastale.

Quanto al contrasto della norma censurata con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, si sostiene che, nel momento in cui l’attività amministrativa risulta interamente assorbita dalla potestà legislativa, si nega al privato la necessaria tutela, non essendo il provvedimento legislativo impugnabile di fronte ad alcuna autorità giudiziaria.

Inoltre, la parte privata, nel rammentare che la sentenza n. 263 del 1994 aveva giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa in esame anche, e soprattutto, in considerazione della transitorietà della disciplina denunciata, rileva che tale transitorietà é venuta meno a seguito delle successive proroghe.

Ricordato, infine, che gli stessi giudici amministrativi, nell’annullare i decreti, avevano ammonito che la semplice loro legificazione avrebbe comunque sottoposto il provvedimento legislativo a chiari dubbi di costituzionalità, si afferma che al legislatore non é consentito spingersi fino al punto di stabilire egli stesso le singole rendite, determinando così addirittura i presupposti di fatto dell’imposizione tributaria.

1.9.- In prossimità della odierna udienza pubblica, la parte privata ha depositato una ulteriore memoria in cui si riconfermano, sostanzialmente, le considerazioni in precedenza svolte non senza rilevare che, nel caso di specie, l’ordinanza della Commissione tributaria ha ravvisato un classico esempio di incongruità dei criteri di determinazione normativamente stabiliti, per la discrasia tra i risultati ottenuti e la reale redditività del bene.

Nel contestare l’affermazione dell’Avvocatura dello Stato secondo la quale la lamentata illegittimità costituzionale si fonderebbe "sulla eventualità che nel caso del ricorrente (e non in termini generali) possa verificarsi (ma é solo un sospetto da verificare) una valutazione sproporzionata", si ricorda che, secondo la giurisprudenza, le leggi provvedimento, pur ammissibili in linea di principio, devono, tuttavia, conformarsi ai principi di ragionevolezza e di buon andamento.

2.1. La Commissione tributaria provinciale di Piacenza, con ordinanza del 15 ottobre 1996 (r. o. n. 57 del 1997), ha sollevato, due questioni di legittimità costituzionale, concernenti, la prima, l'art. 2 del già menzionato decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, "convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1995, n. 75" [ recte: 24 marzo 1993, n. 75] , censurato per contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, "nella parte in cui prevede la permanenza in vigore delle tariffe d’estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto ministeriale 20 gennaio 1990"; e, la seconda, l'art. 2, comma 1, "della legge n. 75 del 1993" [ recte: l'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75] , nonchè l'art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, "nella legge 8 agosto 1995, n. 344" [recte: n. 349], denunciati per contrasto con gli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione.

2.2.- Le questioni sono state sollevate nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto la richiesta avanzata dalla Banca di Piacenza, Soc. coop. a r.l., per il rimborso di somme pagate a titolo di INVIM straordinaria, sui valori finali degli immobili di sua proprietà alla data del 31 ottobre 1991; INVIM calcolata applicando, alle rendite catastali determinate a seguito della revisione disposta dal più volte menzionato decreto ministeriale 20 gennaio 1990, "i moltiplicatori di cui all'art. 1, comma 8, della legge 18 novembre 1991, n. 365" [recte: art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299, convertito, con modificazioni, nella legge 18 novembre 1991, n. 363].

Il giudice rimettente, nel rilevare che la originaria transitorietà della disciplina di cui all’art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 - su cui si fonda la declaratoria di infondatezza contenuta nella sentenza di questa Corte n. 263 del 1994 - é venuta meno a seguito della proroga della disciplina stessa al 1° gennaio 1997 (in forza dell'art. 1, comma 5, del decreto-legge n. 250 del 1995), nonchè dell’ulteriore proroga risultante dalla legge n. 549 del 1995 e dal disegno di legge collegato alla finanziaria 1997, ritiene che l’articolo denunciato sia stato salvato dal giudizio di illegittimità sul presupposto che l’operatività della disposizione di legge sarebbe stata temporanea e che la transitorietà sarebbe cessata con la revisione delle tariffe, da attuarsi entro il 1° gennaio 1995. L’inerzia del legislatore giustifica, perciò, la riproposizione della questione di legittimità costituzionale, sotto il profilo del contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione, essendo la disposizione irragionevole e tale da "dar luogo alla determinazione e alla applicazione di redditi superiori e comunque diversi da quelli voluti dal legislatore, con situazioni di disparità di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza e di quello di capacità contributiva".

2.3.- Ad avviso dell’ordinanza, la continua dilatazione del regime transitorio di applicazione dei criteri dichiarati illegittimi dal TAR Lazio (e legificati in modo asseritamente temporaneo dalla predetta legge n. 75 del 1993) impone un riesame anche delle questioni già esaminate e respinte dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 263 del 1994, relative al contrasto "dell’art. 2, comma 1, secondo periodo, della legge n. 75 del 1993" [ recte: dell'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75] e dell'art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349, con gli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione. Atteso che la transitorietà della richiamata situazione é destinata a protrarsi e non si avverte una soluzione in tempi brevi del problema, la Corte costituzionale dovrà, pertanto, valutare se il fine delle citate norme non sia stato proprio quello "di vanificare gli effetti della sentenza del TAR, con conseguente straripamento del potere legislativo in quello giudiziario".

2.4.- Si é costituito in giudizio il contribuente che, nel rilevare il carattere ormai stabile assunto dalla disciplina, a seguito dell’art. 3, comma 155, della legge n. 662 del 1996, per effetto del quale la decorrenza dell’applicazione dei nuovi estimi catastali é in pratica senza termine, ritiene che occorra giungere, ormai, a conclusioni opposte a quelle della sentenza n. 263 del 1994.

In primo luogo, riprende tutta la sua importanza il rilievo secondo il quale il legislatore non può "convalidare" un atto amministrativo illegittimo e già annullato senza invadere la sfera delle attribuzioni dell'amministrazione e del potere giudiziario. Nel nostro ordinamento la convalida degli atti amministrativi é possibile solo in sede di autotutela, mentre é, a dir poco, dubbio che il legislatore possa, con norma singolare, convalidare atti amministrativi illegittimi e annullati, senza violare gli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Infatti, i principi costituzionali di uguaglianza e di imparzialità, oltre che il principio di affidamento, escludono che la legge possa liberamente disporre - con effetti nei singoli casi e quindi con incisione su situazioni soggettive tutelate - del contenuto e degli effetti degli atti amministrativi, come é avvenuto nella specie.

Nel rilevare, poi, che il principio del giusto procedimento esige che il provvedimento che incide su situazioni giuridiche tutelate sia preceduto da una definizione legislativa di criteri e condizioni, si osserva che la distinzione tra regola e applicazione della regola é talmente fondamentale, nel disegno costituzionale delle fonti normative, che ogni deroga alla stessa, come di recente ribadito dalla stessa Corte, deve essere oggetto di uno scrutinio particolarmente stretto e rigoroso (sentenza n. 2 del 1997).

Osserva, ancora, la memoria che il legislatore, legificando gli atti amministrativi annullati, ha perseguito il fine di superare ed anzi di violare il giudicato prodottosi a seguito dell'annullamento dei vecchi decreti ministeriali, disattendendo così le disposizioni della Costituzione che assicurano il diritto di agire in giudizio, l'indipendenza della funzione giurisdizionale e la tutela dei diritti e degli interessi contro gli atti della pubblica amministrazione.

Altro profilo di illegittimità risiederebbe nella contraddittorietà e, quindi, nella contrarietà al principio di razionalità della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 16 del 1993: essa, da un lato, prevede che la nuova revisione delle tariffe sia effettuata secondo criteri aventi riguardo al reddito medio dell'immobile e, dall'altro, dispone, fino alla revisione stessa, la permanenza in vigore delle tariffe degli estimi formati sulla base del diverso criterio stabilito dal decreto ministeriale 20 gennaio 1990; criterio che, dichiarato illegittimo dal giudice amministrativo, viene mantenuto in vita per un tempo illimitato.

Nell’evidenziare, infine, la ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra le situazioni giuridiche regolate dalle tariffe di estimo determinate ai sensi dei decreti ministeriali 20 gennaio 1990 e 27 settembre 1991, fondate sul criterio del valore del bene, e quelle passate e future regolate secondo il criterio di redditività del bene, si sostiene che la tassazione delle rendite immobiliari, fondata su una ipotesi di fruttuosità dell'immobile determinata con criteri di tipo patrimoniale, contrasta con il principio di capacità contributiva e di progressività di cui all'art. 53, in relazione all'art. 3, della Costituzione: a meno di non voler rischiare di introdurre nel sistema un elemento di incoerenza, il riferimento ad estimi determinati con il criterio del valore non potrebbe ragionevolmente utilizzarsi ai fini dell'applicazione di imposte sul reddito, atteso che in tal modo non si terrebbe conto della capacità contributiva del soggetto d'imposta, con l’eventualità di tassare redditi superiori a quelli reali.

2.5.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto in giudizio chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o rigettate per infondatezza.

La difesa erariale, rilevato che la materia del contendere nel giudizio principale riguarda il rimborso dell'INVIM straordinaria pagata il 20 dicembre 1991, sulla base dei valori finali degli immobili alla precedente data del 31 ottobre 1991, reputa irrilevante l'eventuale illegittimità costituzionale sopravvenuta della disposizione, a causa della mancata successiva revisione delle tariffe.

Secondo l’Avvocatura, ulteriore motivo di inammissibilità consegue alla considerazione che, nell’INVIM, il valore finale non é determinato in base agli estimi catastali in modo cogente, in quanto il contribuente ha facoltà di invocare il reddito catastale capitalizzato con l’applicazione di un coefficiente ex art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299, per evitare che l’ufficio accerti il valore venale, senza tuttavia che sia impedito al contribuente stesso di dichiarare un valore inferiore a quello tabellare, e di svincolarsi così dalla operatività della tariffa di estimo.

2.6.- In prossimità della udienza pubblica, la parte privata ha depositato una ulteriore memoria nella quale, nel contestare le eccezioni di irrilevanza prospettate dall'Avvocatura erariale, sostiene che le norme censurate sono da reputare illegittime fin dall'inizio ed in radice.

Quanto all’altra eccezione sollevata dalla difesa erariale nel senso che la questione sarebbe inammissibile poichè il contribuente potrebbe svincolarsi dalla tariffa d’estimo, dichiarando un valore inferiore e sottoponendosi, così, alla stima del valore corrente in commercio si rileva che, nel caso di specie, é in discussione il mancato rimborso dell'INVIM straordinaria calcolata sui valori finali già ottenuti applicando, alle rendite catastali, i moltiplicatori di cui all'art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299. Onde il giudice a quo non poteva non considerare come base del calcolo le rendite catastali medesime e, altrettanto conseguentemente, non sollevare la questione.

Il suggerimento della difesa erariale (di esporsi, dichiarando un valore inferiore a quello catastale, al rischio di ulteriori accertamenti, allo scopo di invocare come base di calcolo la redditività dell'immobile), dimostrerebbe la gravità del pregiudizio che il contribuente subisce in forza dell'applicazione dei criteri contestati e, parimenti, la maggiore plausibilità e conformità a Costituzione del criterio della redditività.

Secondo la parte, anche la specifica normativa sull'INVIM straordinaria consente di riscontrare l'irragionevolezza del criterio di determinazione delle rendite catastali basato sul valore di mercato dell'immobile, dal momento che é la stessa procedura di capitalizzazione delle rendite, ai fini della comparazione con il valore accertabile d’ufficio, a perdere di significato e ad assumerne uno fuorviante ed arbitrario, se quelle che si chiamano rendite non vengono correlate al reddito. In sostanza una rendita catastale così stabilita é irragionevole ex artt. 3 e 53 della Costituzione, perchè cessa di essere, puramente e semplicemente, vera rendita, mentre le stesse risultanze catastali, che la legislazione vigente vorrebbe significative della redditività dell'immobile, cessano di assolvere la loro funzione.

Nel rilevare come venga così meno quell’effetto di certezza che il catasto e la stessa determinazione delle rendite catastali esplicano circa la redditività dei beni, anche a fini diversi da quelli fiscali, si ribadisce, infine, che cade anche la giustificazione - accolta dalla giurisprudenza della Corte (sentenza n. 263 del 1994) per rigettare le censure di illegittimità costituzionale formulate nei confronti della normativa de qua - della transitorietà del regime contestato; transitorietà sostituita, a causa della proroga sine die delle rendite catastali, dalla ordinarietà che non può non travolgere il regime stesso non solo de futuro, bensì anche de praeterito.

Rilevata, infine, l’incostituzionalità dell’adozione con decreto-legge di norme che fanno riferimento a provvedimenti ad emanazione ed efficacia differita, come quelli di revisione generale delle tariffe e delle rendite di cui all’art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993, si sostiene che le disposizioni censurate, nel pretendere di far rivivere il decreto ministeriale 20 gennaio 1990, censurato dal giudice amministrativo, violano gli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione, sottolineando, al riguardo, che il combinato disposto degli artt. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 e 1, comma 5, del decreto-legge n. 250 del 1995, fa riferimento, per la decorrenza (ormai protratta sine die) dell'applicazione delle tariffe d'estimo e delle rendite catastali di cui al predetto decreto, ad una data (il 1° gennaio 1992) anteriore all'annullamento pronunciato dal TAR del Lazio (il 6 maggio 1992). E ciò dimostrerebbe "come e quanto il legislatore abbia proprio inteso opporsi frontalmente alla pronuncia del giudice amministrativo", con un intento lesivo dei principi dell'effettività della tutela giudiziaria, dell'indipendenza del giudice e dell'intangibilità del giudicato.

Considerato in diritto

 

1.- Le questioni sollevate con le ordinanze in epigrafe investono, sotto vari profili, l’art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75, e l’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349.

2.- I giudizi, avendo ad oggetto questioni tra loro connesse, vanno riuniti per essere decisi con una unica sentenza.

3.- La Commissione tributaria di primo grado di Firenze dubita della legittimità costituzionale della prima delle sopra menzionate disposizioni e cioé dell’art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, "nella parte in cui prevede la permanenza in vigore delle tariffe di estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto ministeriale 20 gennaio 1990".

Come é noto, tale disposizione é intervenuta dopo che il giudice amministrativo aveva annullato quest'ultimo decreto, come pure quello successivo del 27 settembre 1991, contenente i prospetti delle tariffe d’estimo delle unità immobiliari urbane per l’intero territorio nazionale, avendo ritenuto che il criterio del valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile, alla stregua del quale il primo dei cennati decreti aveva autorizzato la revisione di tali tariffe, fosse in contrasto con le norme sul catasto.

3.1.- Ad avviso del rimettente, la disposizione denunciata colliderebbe con:

- gli artt. 3 e 53 della Costituzione, posto che il riferimento al "criterio del valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile" espone gli uffici tecnici erariali nel periodo transitorio, che doveva durare fino al 1994, ma che é stato poi prorogato fino al 1° gennaio 1998, al rischio di attribuire rendite catastali superiori a quelle effettive, determinando così, nella liquidazione delle singole imposte, una ingiusta erosione del patrimonio e dando luogo a situazioni di disparità di trattamento, con palese violazione del principio di uguaglianza e di quello di capacità contributiva;

- l’art. 3 della Costituzione, per avere il legislatore attuato, attraverso la "legificazione" delle tariffe, l’attribuzione di fatto, in linea diretta ed immediata, delle rendite catastali alle unità immobiliari, sostituendosi alla pubblica amministrazione, nell'esercizio di una potestà tipicamente amministrativa e ponendo in essere "un comportamento viziato da eccesso di potere ed irragionevolezza";

- gli artt. 24 e 113 della Costituzione, per avere precluso al cittadino qualsiasi possibilità di difesa giurisdizionale, di fronte ad una disciplina normativa che assorbe concretamente la funzione amministrativa e che é atta ad incidere sulle posizioni soggettive dei privati, con riguardo ai parametri di individuazione in concreto degli elementi di fatto da cui origina la potenzialità reddituale del contribuente.

3.2.- Va esaminata, in via pregiudiziale, la eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale sostiene l’irrilevanza della questione, essendo il giudizio principale rivolto all’impugnazione dell’avviso di classamento, sì da poter eventualmente mettere capo soltanto ad una modifica della categoria e della classe di appartenenza dell’immobile; mentre tutt’altro problema sarebbe quello relativo alla tariffa, dalla quale discende come mera conseguenza aritmetica la rendita delle singole unità immobiliari e "che può essere affrontato innanzi alle Commissioni solo in connessione con un atto che concerne la determinazione di una delle imposte".

L’eccezione é da disattendere, giacchè, contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura, risulta chiaramente dal testo dell’ordinanza di rimessione che il giudizio promosso dal contribuente innanzi alla Commissione tributaria concerne la "determinazione della rendita catastale", nell’ambito di un procedimento nel quale il ricorrente lamenta "violazione di legge ed eccesso di potere" da parte del decreto ministeriale 20 gennaio 1990, concernente la revisione delle tariffe di estimo.

D’altro canto, ai fini della rilevanza della questione, é sufficiente rammentare il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il controllo sull’ammissibilità della questione stessa potrebbe far disattendere la premessa dalla quale muove il rimettente, nel ritenere applicabile nel giudizio a quo la norma denunciata, solo allorchè tale premessa dovesse risultare palesemente arbitraria, ovvero quando l’interpretazione accolta si palesasse del tutto non plausibile (cfr., ex plurimis, sentenze nn. 386 e 361 del 1996, 103 del 1993). Presupposti, questi, che non é dato assolutamente ravvisare nel caso di specie, ove si tenga conto di quel filone giurisprudenziale (già ricordato anche nella sentenza n. 9 del 1993), che ha affermato, in casi analoghi a quello pendente innanzi al rimettente, la competenza del giudice tributario a conoscere della controversia e a sindacare, sia pure incidenter tantum, la legittimità dei prospetti delle tariffe derivanti dalla revisione degli estimi, argomentando dall’attribuzione di rendita che in concreto deriverebbe dall’adozione delle nuove tariffe ovvero, alternativamente, dalla modifica del classamento che ad esse conseguirebbe.

3.3.- Nel merito, la questione non é fondata nei sensi di cui si dirà.

Il rimettente denuncia, in primo luogo, violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, senza in realtà addurre alcun elemento nuovo rispetto a quelli già esaminati nella precedente sentenza n. 263 del 1994, ma limitandosi a richiamare un rilievo svolto che viene isolato dal contesto della motivazione di cui fa parte.

Invero, quello dei rischi, insiti nella determinazione delle rendite catastali sulla base dei valori di mercato del bene, é argomento già valutato da questa Corte in detta precedente circostanza, ma non ritenuto tale da influire sulla ratio decidendi allora accolta, che fa leva su una pluralità di motivi tra cui principalmente la connessione che, comunque, é dato stabilire fra il valore venale del bene e la sua redditività, come pure la mancata evidenziazione di ragioni atte a dimostrare l’incongruità del criterio di determinazione delle rendite accolto dal legislatore.

Le conclusioni di infondatezza cui é pervenuta detta pronuncia vanno, dunque, mantenute ferme, anche perchè l’esito di cui, sul piano normativo, sembra precipuamente dolersi il rimettente - sì da denunciare l’incongruità dei criteri adottati nella norma rispetto al fine dell’equa e ragionevole tariffazione che essa si prefigge - parrebbe essere quello di una violazione del principio di capacità contributiva discendente non tanto dal criterio di tipo patrimoniale accolto dal legislatore per pervenire alla rendita e quindi alla tassazione, quanto piuttosto da una tassazione che, sia pure nell’ambito dei contestati criteri di determinazione della rendita, non terrebbe conto della denunciata "notevole difformità tra il valore catastale e il valore reale di mercato degli immobili". Il che pone un problema non coincidente con quello esaminato nella già menzionata sentenza n. 263 del 1994: quest’ultima affrontava la questione della legittimità costituzionale in sè del criterio accolto dal legislatore nel passare, attraverso l’applicazione del tasso di redditività, dal valore di mercato alla rendita catastale; la censura qui formulata, come si desume dall’ordinanza, solleva, fondamentalmente, un problema di significatività, a fini di una equa ripartizione del carico tributario, di valori del bene non suscettibili di contestazione, anche se non rispondenti a quelli reali, proprio perchè desumibili, con un mero calcolo aritmetico, dalle tariffe e dalle rendite legificate dalla disposizione denunciata.

3.4.- In questo senso, meritevoli di maggiore attenzione, anche perchè più pertinenti, appaiono le ulteriori due censure con le quali viene riproposta all’esame della Corte la tematica delle leggi a contenuto sostanzialmente provvedimentale; in primo luogo, sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevole assorbimento della funzione amministrativa in quella legislativa che, ad avviso del rimettente, deriverebbe dall’art. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 il quale, nel conferire base legislativa alle tariffe d’estimo fissate dai menzionati decreti ministeriali, comporterebbe "l’attribuzione di fatto in via diretta ed immediata, delle rendite catastali alle unità immobiliari"; e, in secondo luogo, sotto quello della vanificazione delle garanzie di difesa apprestate dagli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Occorre rammentare che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le leggi in questione esigono un controllo stretto di non arbitrarietà e di non irragionevolezza restando, in definitiva, soggette a quello scrutinio che l’ordinanza di rimessione invoca nel richiamare l’art. 3 della Costituzione.

Di quanto testè considerato non può non tenersi conto ovviamente anche nell’interpretazione della contestata disposizione, in relazione all’esigenza di una lettura della medesima che non la ponga in contrasto con la Costituzione.

Il denunciato atto legislativo, annoverabile più esattamente nella categoria delle leggi di sanatoria, nel disporre la permanenza in vigore delle tariffe d’estimo e delle rendite "già determinate in esecuzione del decreto del Ministro delle finanze 20 gennaio 1990" ha avuto il fine, come già posto in risalto dalla precedente sentenza n. 263 del 1994, di conferire base legislativa a quel criterio di revisione delle tariffe d’estimo "sulla base del valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile", che era stato recepito in detto decreto, annullato dal giudice amministrativo, perchè il criterio stesso non era conforme ai principi ispiratori della disciplina all’epoca vigente in materia.

Si deve perciò ritenere che il legislatore abbia inteso salvaguardare le tariffe e le rendite solo in quanto applicative del criterio ritenuto illegittimo dal giudice, validando le stesse in stretta correlazione con il criterio legificato, senza ricomprendere nella sanatoria eventuali vizi sostanziali o procedimentali diversi da quelli derivanti dall’illegittimità del criterio medesimo.

Conclusione questa che va mantenuta ferma anche a fronte della disciplina contenuta nei commi 1-bis, 1-ter e 1-quater del denunciato articolo. Questi ultimi, aggiunti dalla legge di conversione, hanno contemplato la possibilità, a seguito di ricorso alle Commissioni censuarie, di eventuali modifiche delle tariffe d’estimo già stabilite, da recepire in un decreto legislativo (art. 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75), come in effetti é poi avvenuto, introducendosi così una disciplina che, però, rimane estranea alla presente questione di costituzionalità.

Al tempo stesso, contrariamente a quanto assume il rimettente, é da escludere che la disposizione denunciata, trasmodando in una ingiustificata disciplina delle modalità applicative, abbia inteso ricomprendere nell'effetto di legificazione anche "l’attribuzione di fatto in via diretta ed immediata della rendita catastale" ai singoli immobili. Ciò sta allora a significare che, se si sono determinati altri vizi in sede di rilevazione dei valori degli immobili ovvero di determinazione delle rendite diversi da quelli discendenti dal criterio ora legificato, i vizi stessi non possono reputarsi sanati. Oltretutto sarebbe palesemente contraddittorio, nel momento in cui si riconduce a legittimità il criterio, consentire la violazione dello stesso, come, in via pratica, potrebbe accadere se gli atti applicativi, beneficiando della disposta sanatoria, venissero sottratti al sindacato del giudice.

In tal modo viene altresì meno il presupposto della censura di violazione delle garanzie giurisdizionali di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione. Mentre infatti la sanatoria per via legislativa del vizio afferente al criterio stabilito nel decreto 20 gennaio 1990 opera sul piano sostanziale, attribuendo ex post al criterio accolto nel decreto il fondamento legislativo prima mancante, gli altri eventuali vizi degli atti che hanno portato alla determinazione di tariffe di estimo e di rendite restano interamente soggetti al controllo giurisdizionale.

4.- Con la seconda delle ordinanze in epigrafe, la Commissione tributaria provinciale di Piacenza sottopone all’esame della Corte due questioni di legittimità, concernenti, la prima, l’art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1995, n. 75 [ recte: 24 marzo 1993, n. 75] ; la seconda, l’art. 2, comma 1, della legge n. 75 del 1993 [da intendersi più esattamente come art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75] e l’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 344 [recte: n. 349].

4.1.- Le questioni di cui sopra sono state sollevate nel corso di un giudizio avente ad oggetto la ripetizione, da parte del contribuente, di somme a suo tempo corrisposte, a titolo di INVIM straordinaria, sul valore finale degli immobili di sua proprietà, alla data del 31 ottobre 1991; INVIM calcolata utilizzando i criteri dell’art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299, convertito, con modificazioni, nella legge 18 novembre 1991, n. 363, il quale stabilisce che detto valore non é sottoposto a rettifica ove dichiarato in misura non inferiore a quella che risulta applicando i moltiplicatori, previsti dalla disposizione stessa, all’ammontare delle rendite catastali determinate a seguito della revisione generale disposta con il più volte menzionato decreto del 20 gennaio 1990.

Intervenuto, nelle more del giudizio, l’annullamento di quest’ultimo decreto da parte del giudice amministrativo, il rimettente muove dalla premessa che il rinvio dell’art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299 sia da intendere oggi effettuato alla disposizione dell’art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16.

Chiede, pertanto, alla Corte di stabilire:

- se il predetto art. 2 violi gli artt. 3 e 53 della Costituzione, "nella parte in cui prevede la permanenza in vigore delle tariffe di estimo e delle rendite già determinate in esecuzione del decreto ministeriale 20 gennaio 1990", posto che il medesimo "appare irragionevole e potrebbe dar luogo alla determinazione e alla applicazione di redditi superiori e comunque diversi da quelli voluti dal legislatore, con situazioni di disparità di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza e di quello della capacità contributiva";

- se il comma 1 del medesimo articolo e l’art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349, si pongano in contrasto con gli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione, nella parte in cui operano una "dilatazione del regime transitorio di applicazione dei criteri dichiarati illegittimi dal TAR Lazio (e legificati in modo asseritamente temporaneo dalla predetta legge n. 75 del 1993)", per essere il fine delle citate norme quello di vanificare gli effetti della pronunzia del TAR, con conseguente straripamento del potere legislativo in quello giudiziario.

4.2.- Pur a voler condividere la premessa dalla quale muove il rimettente, é comunque da escludere che l’una e l’altra censura siano fondate.

A ben vedere, la prima non si discosta sostanzialmente da quella analogamente proposta dal giudice tributario di Firenze con l’altra ordinanza qui in esame, sicchè non possono che reputarsi valide le considerazioni già svolte a proposito di quest’ultima, alle quali é sufficiente rinviare.

Quanto poi alla seconda censura, anch’essa risulta già scrutinata dalla Corte con la sentenza n. 263 del 1994, la quale - dopo aver ricordato il consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo cui le leggi di sanatoria, ove non siano preordinate a vanificare i giudicati, non possono di per sè essere considerate lesive delle attribuzioni degli organi giurisdizionali - ha escluso, comunque, l’illegittimità della disposizione denunciata per la "decisiva" circostanza che, nella specie, "il legislatore, più che a vanificare pronunzie giudiziali, ha provveduto a dare fondamento legislativo a criteri che il giudice amministrativo aveva considerato illegittimi proprio perchè enunciati in un decreto ministeriale" (sentenza n. 263 del 1994). Conclusione, questa, che non può non restare ferma anche a fronte della protratta transitorietà della disciplina, il cui termine, come rammenta lo stesso rimettente, originariamente fissato al 1° gennaio 1995, é stato prorogato, dall’art. 1, comma 5, del decreto-legge n. 250 del 1995, al 1° gennaio 1997 e ulteriormente rinviato all’esito della revisione delle zone censuarie e delle tariffe di estimo che dovrà avvenire sulla base dei regolamenti previsti dall’art. 3, comma 155, della legge 23 dicembre 1996, n. 662.

4.3.- A parte dette considerazioni, non meno risolutivo appare, anche, l’argomento che é dato trarre dal carattere facoltativo del ricorso al particolare meccanismo impositivo previsto per l’INVIM straordinaria, tale di per sè da escludere qualsiasi attentato alla capacità contributiva del soggetto tassato, considerata la non cogenza del criterio di determinazione del valore finale in base agli estimi catastali. Criterio suscettibile, infatti, di essere invocato dal contribuente a sua assoluta discrezione, sulla base delle sue personali valutazioni di convenienza economica, per escludere l’accertamento del reale valore venale del bene da parte dell’Ufficio tributario, senza, però, impedire, a chi voglia svincolarsi dal riferimento alla tariffa di estimo, di dichiarare un valore inferiore a quello tabellare.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara:

a) non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonchè altre disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Firenze, con la prima delle ordinanze in epigrafe;

b) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2 del predetto decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, con la seconda delle ordinanze in epigrafe nonchè del medesimo art. 2, comma 1, e dell'art. 1, comma 5, del decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di taluni termini ed altre disposizioni in materia tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione, dalla stessa Commissione tributaria, con la già menzionata ordinanza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Massimo VARI

Depositata in cancelleria il 3 giugno 1998.