SENTENZA N. 362
ANNO 2008REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giovanni Maria FLICK Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), promossi con due ordinanze del 12 ottobre 2007 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili vertenti tra Intesa San Paolo S.p.A e Accinni Pia ed altri e tra Intesa San Paolo S.p.A. e Nugnes Giuseppe ed altri, iscritte ai nn. 62 e 63 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visti gli atti di costituzione di Intesa San Paolo S.p.A., di Lupoli Vittorio ed altri e di Nugnes Sergio ed altri nella qualità di eredi di Nugnes Giuseppe ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 ottobre 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;
uditi gli avvocati Roberto Pessi e Paolo Tosi per Intesa San Paolo S.p.A., Giuseppe Ferraro per Lupoli Vittorio ed altri e per Nugnes Sergio ed altri nella qualità di eredi di Nugnes Giuseppe ed altri e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di due giudizi civili aventi entrambi ad oggetto l’accertamento del diritto di alcuni ex dipendenti del Banco di Napoli alla perequazione automatica secondo la disciplina dettata dal decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357 (Disposizioni sulla previdenza degli enti pubblici creditizi), della quota di pensione a carico dell’istituto di credito, la Corte di cassazione, con due distinte ordinanze, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).
Nelle ordinanze di rimessione, di identico tenore, la Corte di cassazione premette che, nei due giudizi a quibus, i giudici d’appello hanno dichiarato il diritto degli attori (collocati a riposo anteriormente al 31 dicembre 1990) alla perequazione automatica delle pensioni in base alla disciplina del d. lgs. n. 357 del 1990, fino al 26 luglio 1996. Tali sentenze hanno fatto applicazione dei principi affermati, dalla stessa Corte di cassazione, nelle pronunce rese a sezioni unite n. 9023 e n. 9024 del 2001 (alle quali si è uniformata la successiva giurisprudenza), secondo cui il sistema di perequazione delle pensioni vigente per i dipendenti degli enti pubblici creditizi già pensionati alla data del 31 dicembre 1990 è sopravvissuto alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) ed al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ritenuti applicabili esclusivamente ai lavoratori ancora in servizio alla predetta data del 31 dicembre 1990.
Tuttavia, successivamente alla pronuncia delle sentenze di appello, è entrata in vigore la legge n. 243 del 2004, il cui art. 1, comma 55, dispone che «Al fine di estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti a talune categorie di pensionati già iscritti a regimi previdenziali sostitutivi, attraverso il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi, l’articolo 3, comma 1, lettera p), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e l’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, devono intendersi nel senso che la perequazione automatica delle pensioni prevista dall’articolo 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, si applica al complessivo trattamento percepito dai pensionati di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357. All’assicurazione generale obbligatoria fa esclusivamente carico la perequazione sul trattamento pensionistico di propria pertinenza».
La rimettente prosegue affermando che la San Paolo IMI S.p.A. ha proposto ricorsi per cassazione contro le due sentenze di secondo grado, deducendo, quale primo motivo di impugnazione, il sopravvenuto art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004. Di qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale di tale norma, la cui applicazione ai giudizi a quibus determinerebbe l’accoglimento dei ricorsi, così come già stabilito dalla giurisprudenza di legittimità in precedenti occasioni.
Circa la non manifesta infondatezza della questione, la Corte di cassazione premette che l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 ha sicuramente natura interpretativa, perché esso utilizza un’espressione («devono intendersi») equivalente all’espressione «devono interpretarsi».
Il giudice a quo, poi, riconosce che una norma di interpretazione autentica non è illegittima per il solo fatto di discostarsi dall’interpretazione sostenuta dalla giurisprudenza univoca o maggioritaria e che essa non può ritenersi irragionevole ove si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto. Secondo la rimettente, quest’ultima circostanza ricorre nella fattispecie e, tuttavia, la fissazione con norma interpretativa di una delle possibili letture del testo originario escluderebbe l’irragionevolezza della norma medesima solamente quando si accompagnasse ad una situazione di incertezza del dato normativo. Infatti, poiché l’irragionevolezza ricorre allorché sussista un’evidente sproporzione tra i mezzi approntati ed il fine asseritamente perseguito, sarebbe insufficiente, per escludere il dubbio di ragionevolezza, la semplice circostanza della corrispondenza del significato attribuito dalla legge interpretativa ad una delle possibili letture del testo interpretato, dovendosi invece esaminare tutte le peculiarità connotanti la vicenda legislativa.
Nella fattispecie, dai lavori preparatori e dalla testuale formulazione dell’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 risulta espressamente che il legislatore si è assegnato la finalità di estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti ad alcune categorie di pensionati, obiettivo da perseguire attraverso il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi. Pertanto, ad avviso della rimettente, la ragionevolezza dell’intervento legislativo in esame deve essere valutata con riferimento alla suindicata finalità.
Al riguardo, il giudice a quo evidenzia che la norma di interpretazione autentica è intervenuta dopo molto tempo (circa dodici anni) dall’entrata in vigore di quelle oggetto dell’interpretazione medesima; inoltre, la norma originaria riguarda i soggetti collocati in pensione entro il 31 dicembre 1990 e dunque una categoria destinata a ridursi col trascorrere del tempo e, presumibilmente, assai meno numerosa nel 2004 di quanto non fosse nel 1990; infine, la pluralità di sensi desumibili dalle norme oggetto dell’interpretazione autentica ha dato luogo ad un nutrito contenzioso giudiziario pervenuto, sin dalla seconda metà degli anni novanta, all’esame della Corte di cassazione che su di esso si è pronunciata, dapprima con sentenze in senso diverso, ma successivamente con le sentenze n. 9023 e 9024 del 2001 delle sezioni unite che hanno composto i contrasti interpretativi esistenti, enunciando un indirizzo interpretativo al quale si sono prontamente conformate le successive pronunce di legittimità e di merito.
In questa concreta situazione, l’intervento legislativo di oltre tre anni successivo alle pronunce delle sezioni unite ed al conseguente assestamento in senso univoco della giurisprudenza, rischierebbe di alimentare (piuttosto che estinguere) il contenzioso giudiziario considerato che, in ragione del lungo tempo trascorso dal pensionamento, deve presumersi insignificante il numero dei pensionati che non abbiano ancora intrapreso azione giudiziaria: dunque il contenzioso sul quale può concretamente incidere la norma interpretativa è quello già pendente, rispetto al quale la certezza giuridica raggiunta, grazie alla pronuncia delle sezioni unite, aveva offerto un parametro di assestamento e che invece, per effetto del mutamento del quadro giuridico, riceve nuovo impulso ed incentivo.
Alla luce di tali considerazioni, la rimettente ritiene che il mezzo utilizzato dal legislatore sia sproporzionato e addirittura controproducente rispetto al fine asseritamente perseguito.
Esso, inoltre, fa dipendere l’assetto definitivo degli interessi delle parti in conflitto da un fattore – quale la durata della lite – di per sé contrario alla Costituzione (art. 111, secondo comma, Cost.) ed introduce una disparità di trattamento tra quanti hanno ottenuto, nei tre anni che separano la norma censurata dalle pronunce delle sezioni unite, una sentenza definitiva e quanti hanno ancora una lite pendente.
Infine, ad avviso del giudice a quo, la norma della cui legittimità si dubita sacrifica senza plausibili ragioni il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, favorendo le spinte a “premere” sul legislatore per piegarne la funzione, non all’imposizione di regole generali e astratte, ma ad un ruolo di giudice di quarta istanza, con ulteriore alimento ad un contenzioso giudiziario intrapreso solo nella speranza di un intervento ad hoc.
2. – Si è costituita la Intesa San Paolo S.p.A. che chiede che la questione sia dichiarata infondata.
La società deduce che, poiché la norma censurata attribuisce alle disposizioni interpretate uno dei possibili significati già in esse contenuto, non possono esservi dubbi sulla sua ragionevolezza la quale, comunque, non può essere vagliata alla luce delle vicende dell’applicazione giurisprudenziale delle norme interpretate, poiché, pur a fronte di una formulazione più o meno criptica di queste ultime, la composizione dei dissensi da parte delle sezioni unite e della sezione lavoro della Corte di cassazione non priva le norme medesime dell’originario equivoco, sempre suscettibile di favorire nuovi orientamenti dissenzienti.
Ad avviso della Intesa San Paolo S.p.A., poi, la norma censurata non potrebbe essere giudicata irragionevole per la sua inidoneità al conseguimento dell’obiettivo dell’estinzione del contenzioso. Infatti, in primo luogo, la rimettente ignorerebbe l’altra finalità dichiarata dal legislatore e cioè quella di scongiurare le disparità di trattamento derivanti dall’interpretazione affermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione. Obiettivo che deve essere considerato quello primario della norma censurata e di per sé sufficiente a ritenerla ragionevole.
In secondo luogo, ad avviso della società, la rimettente, nel valutare l’idoneità dell’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 a realizzare l’obiettivo deflativo, si affida a mere illazioni prognostiche ovvero a valutazioni ex post prive di supporto documentale e di valenza retrospettiva. Al contrario, nel momento in cui il legislatore è intervenuto, la norma interpretativa poteva sicuramente apparire idonea, con plausibile prevedibilità, a favorire il superamento di un contenzioso ampio ed articolato, come confermato dalle successive vicende giudiziarie. Infatti, si è subito formato, sia nella giurisprudenza di legittimità, sia in quella di merito, un orientamento concorde sull’applicazione della norma interpretativa e sulla sua legittimità costituzionale tale da favorire non solo la soluzione rapida ed univoca del contenzioso in essere, ma anche la prevenzione di quello futuro (come, ad esempio, quello relativo alla quantificazione degli importi spettanti a pensionati che avevano pendenti giudizi relativi al solo an della prestazione).
Quanto alla disparità di trattamento che la norma censurata determinerebbe con riferimento ai pensionati che avevano già ottenuto un giudicato favorevole, la Intesa San Paolo S.p.A. deduce che, nel periodo di tempo intercorso tra le sentenze delle sezioni unite e l’entrata in vigore dell’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004, il giudicato si è formato solamente in una controversia (peraltro coinvolgente 1724 pensionati) e che, comunque, la ragionevolezza di una norma non può essere valutata alla stregua di circostanze casuali derivanti da vicende giudiziarie. Inoltre, proprio dall’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 deriverebbe, per una consistente platea di pensionati, sempre a causa di occasionali giudicati, una disparità di trattamento a danno dei pensionati che hanno promosso i giudizi nei quali la Corte di cassazione ha definitivamente respinto – applicando la norma denunciata – le domande di perequazione automatica.
Ad avviso della società, non può neppure sostenersi che la norma censurata sia irragionevole per aver leso aspettative ormai radicate in capo agli interessati; essa, infatti, è intervenuta a stretto ridosso del superamento del contrasto giurisprudenziale (realizzatosi grazie alle sentenze delle sezioni unite del luglio 2001) e delle pronunce del periodo settembre 2003-luglio 2004 con cui la sezione lavoro della Corte di cassazione si è adeguata al principio affermato dalle sezioni unite e, dunque, quando la norma censurata è stata emanata, non potevano dirsi maturate aspettative circa l’esito favorevole delle liti.
Infine, la Intesa San Paolo S.p.A. contesta che l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 realizzi un’illegittima incursione del legislatore nell’area riservata alla funzione giurisdizionale.
Infatti, la Corte costituzionale ha costantemente affermato che una norma interpretativa, la quale non pretenda di incidere direttamente sui processi e sui loro esiti, ma operi esclusivamente a livello di fonti, non può essere considerata lesiva delle prerogative della funzione giurisdizionale, perché il legislatore ben può intervenire per rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in un senso divergente dalla linea di politica del diritto da lui giudicata più opportuna.
3. – Si sono costituiti alcuni dei pensionati controricorrenti nei giudizi a quibus, i quali concludono chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004.
Peraltro queste parti private sostengono anzitutto che la corretta interpretazione della norma denunciata è diversa da quella affermata nelle ordinanze di rimessione. Precisamente, tale norma stabilirebbe che il sistema di perequazione legale di cui all’art. 11 del d. lgs. n. 503 del 1992 - che l’art. 59, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) ha esteso a tutte le forme di trattamenti pensionistici a decorrere dal 1° gennaio 1998 - si applica, appunto dal 1° gennaio 1998, oltre che alla quota di trattamento pensionistico a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, anche alla quota rimasta a carico degli enti creditizi.
Interpretando invece l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 nel senso sostenuto dalla Corte di cassazione, ne discenderebbe, a parere delle parti private, che la norma censurata non potrebbe essere considerata interpretativa, poiché essa non si limita ad esplicitare il significato già desumibile dal testo normativo, ma introduce elementi totalmente innovativi.
Se, poi, l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 fosse considerato una norma interpretativa, ad avviso dei pensionati esso sarebbe incostituzionale sotto vari profili.
Innanzitutto, nella fattispecie non sussisterebbero le esigenze straordinarie che possono giustificare un intervento legislativo con efficacia retroattiva. Tale non potrebbe essere considerata, in particolare, quella di estinguere il contenzioso giudiziario dichiarata dalla stessa norma censurata. Infatti, considerata l’unanimità degli esiti giurisprudenziali in senso favorevole ai pensionati, il contenzioso era imputabile esclusivamente alla resistenza ad oltranza frapposta dagli istituti di credito, comportamento che sarebbe premiato dall’intervento legislativo. Inoltre, dopo l’intervento delle pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione, tutta la giurisprudenza si esprimeva in termini conformi ed il contenzioso poteva pertanto ritenersi avviato ad esaurimento.
L’intervento legislativo retroattivo sarebbe inoltre sproporzionato (trattandosi di un contenzioso concernente qualche migliaio di pensionati e di importo complessivamente trascurabile per un istituto di credito), ingiusto (perché non soddisferebbe interessi prioritari della collettività, né ridurrebbe oneri gravanti sulla finanza pubblica, bensì inciderebbe su un conflitto tra privati, sottraendo risorse economiche alla parte più debole ed attribuendole a quella più forte), contraddittorio (perché sarebbe destinato a riaccendere un contenzioso che andava esaurendosi).
I pensionati sostengono altresì che la norma censurata lederebbe il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost., l’autonomia della funzione giurisdizionale (tutelata dagli artt. 101, 102, 104, 105 e 111 Cost.), il principio di uguaglianza di cui agli artt. 3, 36 e 38 Cost., i principi costituzionali in materia di libertà ed attività sindacale (artt. 18, 39 e 40 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost.), l’art. 117, primo comma, Cost. (che impone al legislatore di rispettare gli obblighi internazionali), gli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. (trattandosi di una legge-provvedimento).
4. – E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
La difesa erariale sostiene che l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 è una norma di interpretazione autentica che enuncia una delle possibili letture delle disposizioni originarie e non è viziata da irragionevolezza, tendendo a realizzare un’uniformità tra tutti i beneficiari del trattamento pensionistico ed a salvaguardare le esigenze di riequilibrio delle risorse in materia pensionistica.
Inoltre, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la norma censurata non è fonte né di proliferazione del contenzioso, né di irragionevole aumento della durata dei processi che invece, proprio grazie ad essa, saranno presumibilmente definiti in tempi brevissimi.
Infine, quanto al principio di eguaglianza, avendo la Corte di cassazione già applicato la norma interpretativa in altre controversie, sarebbe proprio la dichiarazione di illegittimità costituzionale che provocherebbe una disparità di trattamento tra i pensionati i cui giudizi si sono già esauriti con esito per essi negativo e pensionati il cui contenzioso sia ancora pendente.
5. – La Intesa San Paolo S.p.A. ha depositato memorie nelle quali sostiene anzitutto che la questione deve essere esaminata dalla Corte esclusivamente con riferimento ai parametri dell’art. 102 e dell’art. 111 Cost., perché la rimettente non deduce la violazione dell’art. 3 Cost. come vizio autonomo, ma esclusivamente in connessione con i predetti due precetti costituzionali.
Così delimitata la questione, essa, ad avviso della società, deve essere dichiarata infondata perché la norma censurata non è idonea né ad alimentare il contenzioso, né ad incidere negativamente sulla durata dei processi pendenti e perché essa agisce esclusivamente sul piano delle fonti senza operare alcuna ingerenza nella decisione delle singole controversie.
La Intesa San Paolo S.p.A. contesta, poi, l’esattezza dell’interpretazione dell’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 sostenuta dai pensionati, interpretazione smentita già dalla giurisprudenza di legittimità, e ribadisce le argomentazioni a sostegno dell’infondatezza della questione di legittimità costituzionale già svolte negli atti di costituzione.
Infine la società eccepisce l’irrilevanza (e, in subordine, l’infondatezza) dei parametri costituzionali evocati dalla difesa dei pensionati e non menzionati nelle ordinanze di rimessione.
6. – Anche i pensionati controricorrenti nei giudizi a quibus hanno depositato una memoria. In essa sostengono l’illegittimità costituzionale della norma censurata in quanto avrebbe contenuto provvedimentale, dettando una disciplina puntuale che concerne una platea ristretta e ben individuata di destinatari (gli ex dipendenti del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia che avevano ottenuto una sentenza favorevole), con conseguente sottrazione di quelle fattispecie al controllo giurisdizionale (previsto dagli artt. 24 e 113 Cost.) e privazione delle garanzie del giusto procedimento (artt. 3, 97, 24 e 113 Cost.).
Le parti private ribadiscono, poi, che l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 attribuisce alle disposizioni interpretate un significato che non poteva ragionevolmente considerarsi in esse contenuto; che la norma censurata è irragionevole perché non estingue il contenzioso (bensì lo incrementa); che essa contrasta con gli artt. 111 e 117 Cost. (in relazione alle previsioni della CEDU); che essa è fonte di discriminazioni tra chi era pensionato alla data del 31 dicembre 1990 e chi invece era ancora in servizio, nonché tra chi aveva già ottenuto una sentenza favorevole passata in giudicato e coloro i cui giudizi erano ancora pendenti, nonché tra i pensionati del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia e quelli degli altri istituti di credito pubblici o privati che, fino al 31 dicembre 1997, hanno pacificamente usufruito di forme di adeguamento delle pensioni collegate alla dinamica retributiva del personale in servizio.
Le stesse parti private aggiungono che la norma oggetto della presente questione è estranea alla categoria di norme interpretative ritenute legittime dalla Corte costituzionale, sia perché nella fattispecie vi è stato un precedente intervento chiarificatore delle sezioni unite della Corte di cassazione, sia perché l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 interviene in un conflitto giudiziario tra parti private al quale sono estranei interessi pubblici meritevoli di tutela ed esigenze di finanza pubblica.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).
1.1. – La questione attiene al meccanismo di perequazione automatica applicabile alla quota integrativa di pensione spettante ai dipendenti degli enti pubblici creditizi cessati dal servizio entro il 31 dicembre 1990.
Per costoro, il decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357 (Disposizioni sulla previdenza degli enti pubblici creditizi), emanato in attuazione della delega prevista dall’art. 3 della legge 30 luglio 1990, n. 218 (Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico), dispose che l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) avrebbe assunto a proprio carico una quota del trattamento pensionistico già in godimento (art. 3). La quota residua (cosiddetta “quota integrativa”, da calcolare sottraendo l’importo erogato dall’INPS a quello risultante applicando la disciplina dei previgenti regimi esclusivi o esonerativi goduti dai dipendenti degli enti pubblici creditizi) sarebbe rimasta a carico dei datori di lavoro ovvero dei fondi o casse costituiti in base alla legge 20 febbraio 1958, n. 55 (Estensione del trattamento di riversibilità ed altre provvidenze in favore dei pensionati dell’assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti), contestualmente trasformati, per effetto dell’art. 5 dello stesso d. lgs. n. 357 del 1990, in fondi integrativi dell’assicurazione generale obbligatoria (art. 4).
1.2. – La successiva legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), nel delegare il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi per il riordino del sistema previdenziale (art. 3), dettò un principio direttivo anche in ordine alla perequazione automatica. Precisamente, secondo la lettera q) del citato art. 3, l’emananda disciplina avrebbe dovuto «garantire, tenendo anche conto del sistema relativo ai lavoratori in attività, la salvaguardia del loro potere di acquisto» e, in virtù di quanto disposto dallo stesso art. 3, lettera p), tale principio direttivo si sarebbe dovuto applicare anche «al personale di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 537».
In esecuzione della delega fu emanato il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), il cui art. 11 (compreso nel titolo III del decreto legislativo stesso) dispose, quale principio generale in materia pensionistica, che gli aumenti a titolo di perequazione automatica si dovessero applicare sulla base del solo adeguamento al costo della vita con cadenza annuale ed in misura pari alla variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati.
L’art. 9 dello stesso d. lgs. n. 503 del 1992, intitolato «Trattamenti di pensione ai lavoratori di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357», al comma 1, stabilì che «Le disposizioni di cui ai titoli I e III del presente decreto riferite ai lavoratori dipendenti dell’assicurazione generale obbligatoria trovano applicazione anche per gli iscritti alla gestione speciale di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, relativamente alle pensioni o quote di esse a carico della gestione medesima». Il comma 2 aggiunse che «Gli articoli 2, 3, 8, 10, 11, 12 e 13 trovano applicazione nei confronti dei regimi aziendali integrativi ai quali è iscritto il personale di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357».
1.3. – Con riferimento agli ex dipendenti degli enti pubblici creditizi che il 31 dicembre 1990 erano già in pensione, sorse il dubbio se, anche per essi, in virtù delle norme da ultimo menzionate, l’unico meccanismo perequativo operante fosse ormai quello dell’art. 11, oppure se quest’ultimo si applicasse solamente alla quota di pensione loro erogata dall’INPS, mentre, al fine di determinare il complessivo trattamento pensionistico cui essi avevano diritto - e, dunque, la quota integrativa a carico dei datori di lavoro ovvero dei fondi integrativi - dovesse continuare ad operare il diverso meccanismo perequativo proprio delle forme di previdenza esclusive o esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria di cui i lavoratori in questione godevano prima della riforma operata dalla legge n. 218 del 1990 e dal d. lgs. n. 537 del 1990: meccanismo che assicurava il collegamento del trattamento dei lavoratori ormai cessati dal servizio con quello dei lavoratori ancora in attività, prevedendo che gli aumenti stipendiali conseguiti dai secondi si riflettessero automaticamente anche sull’ammontare delle pensioni godute dai primi (cosiddetta “clausola oro”).
Ne scaturiva un contenzioso sfociato, dopo un primo contrasto, nelle sentenze n. 9023 e n. 9024 del 2001, con le quali le sezioni unite della Corte di cassazione affermavano che l’art. 9 d. lgs. n. 503 del 1992 aveva lasciato operare la “clausola oro”, limitatamente alla quota delle pensioni erogata dai datori di lavoro o dai fondi integrativi, per chi era già pensionato alla data del 31 dicembre 1990.
1.4. – E’ quindi intervenuta la disposizione censurata, a norma della quale «Al fine di estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti a talune categorie di pensionati già iscritti a regimi previdenziali sostitutivi, attraverso il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi, l’articolo 3, comma 1, lettera p), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e l’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, devono intendersi nel senso che la perequazione automatica delle pensioni prevista dall’articolo 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, si applica al complessivo trattamento percepito dai pensionati di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357. All’assicurazione generale obbligatoria fa esclusivamente carico la perequazione sul trattamento pensionistico di propria pertinenza».
La giurisprudenza di legittimità si è subito ed unanimemente indirizzata nel senso che, in base ad essa, deve ritenersi che il meccanismo perequativo di cui all’art. 11 del d. lgs. n. 503 del 1992 si applica anche alla quota di trattamento pensionistico spettante al personale già pensionato alla data del 31 dicembre 1990 ed erogata dai datori di lavoro o dai fondi integrativi.
Invece, nelle due ordinanze di cui qui ci si occupa, la Corte di cassazione sostiene che l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 violerebbe l’art. 3 «in connessione con gli articoli 102 e 111» Cost., sotto tre profili: a) il ricorso alla norma di interpretazione autentica sarebbe nella fattispecie irragionevole perché sproporzionato e addirittura controproducente rispetto al fine asseritamente perseguito (cioè quello di estinzione del contenzioso giudiziario); b) la disposizione censurata farebbe dipendere l’assetto definitivo degli interessi delle parti in conflitto da un fattore (la durata della lite) contrario alla Costituzione ed introdurrebbe una disparità di trattamento tra quanti hanno già ottenuto una sentenza definitiva e quanti hanno ancora una lite pendente; c) la norma sacrificherebbe senza ragione il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione.
2. – Le due ordinanze di rimessione sono di identico tenore ed i due giudizi vanno dunque riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.
3. – La questione non è fondata.
3.1. – Va premesso che l’oggetto del giudizio incidentale di costituzionalità è individuato esclusivamente dall’ordinanza di rimessione e che non possono quindi essere esaminati gli autonomi vizi eccepiti dai controricorrenti nei giudizi principali costituitisi nel presente giudizio, relativi alla pretesa violazione degli artt. 3, 18, 24, 36, 38, 39, 40, 97, 101, 104, 105, 113 e 117 Cost., tutti parametri non evocati dalla rimettente.
3.2. – Come è stato affermato dall’unanime giurisprudenza di legittimità, con l’art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004, il legislatore ha introdotto una disposizione interpretativa dell’art. 9, comma 2, del d. lgs. n. 503 del 1992, secondo cui il meccanismo di perequazione automatica, previsto dall’art. 11 dello stesso d. lgs. n. 503 del 1992, deve applicarsi a tutte le pensioni integrative dei dipendenti degli enti pubblici creditizi, qualunque sia la data del loro pensionamento.
La natura interpretativa risulta chiara dal fatto che il legislatore si è limitato, con la predetta norma, ad assegnare alle disposizioni interpretate un significato rientrante tra le possibili letture del testo originario (si vedano in tal senso le stesse ordinanze di rimessione). D’altra parte, già prima dell’intervento delle sezioni unite sopra menzionato, una parte della giurisprudenza di legittimità aveva statuito che, in virtù delle disposizioni contenute negli artt. 9 ed 11 del d. lgs. n. 503 del 1992, gli ex dipendenti degli enti pubblici creditizi già pensionati alla data del 31 dicembre 1990 non si sottraevano alle nuove regole uniformi stabilite per la perequazione di tutte le pensioni.
Orbene, questa Corte ha ripetutamente affermato la legittimità di norme di interpretazione autentica che attribuiscono alla disposizione interpretata uno dei significati ricompresi nell’area semantica della disposizione stessa (tra le più recenti, sentenza n. 74 del 2008 e ordinanza n. 41 del 2008).
Le censure di irragionevolezza contenute nelle ordinanze di rimessione sono formulate, peraltro, con riferimento ad uno soltanto degli scopi della norma. Il giudice a quo si è limitato a ritenere irragionevole la disposizione censurata solo perché ritenuta inidonea a conseguire uno dei suoi obiettivi.
Il ricorso alla norma di interpretazione autentica, secondo la rimettente, nella fattispecie sarebbe sproporzionato e addirittura controproducente rispetto al fine asseritamente perseguito che sarebbe quello dell’estinzione del contenzioso giudiziario. Così limitando la sua censura, la Corte di cassazione non tiene conto del fatto che la norma oggetto della questione di costituzionalità enuncia, tra i propri scopi, anche quello, non irragionevole, di realizzare «il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi». Circa l’idoneità o meno della disposizione a realizzare tale ulteriore obiettivo, nulla è detto nelle ordinanze di rimessione.
La stessa inidoneità della norma censurata a realizzare il primo obiettivo, quello deflattivo, è affermata dalla rimettente sulla base di mere presunzioni (come quella secondo cui sarebbe inesistente o trascurabile il numero di pensionati che non hanno ancora promosso azione giudiziaria) prive di effettivi riscontri. Né il giudice a quo spiega come la norma in questione (tra l’altro immediatamente oggetto di un’applicazione uniforme da parte della giurisprudenza di legittimità) possa addirittura alimentare il contenzioso, quando – proprio grazie ad essa – ne appare prevedibile l’esito.
3.3. – Infondata è anche la censura secondo cui la norma farebbe dipendere l’assetto definitivo degli interessi delle parti in conflitto dalla durata della lite e sarebbe fonte di disparità di trattamento tra quanti hanno già ottenuto una sentenza definitiva e quanti hanno ancora una lite pendente. Gli inconvenienti lamentati derivano invero da circostanze di fatto casuali, di per sé inidonee a giustificare il giudizio di illegittimità di una norma.
3.4. – Neppure la censura relativa alla pretesa compromissione del ruolo nomofilattico della Corte di cassazione è fondata, perché il legislatore può porre norme che precisino il significato di altre norme, non solo ove sussistano situazioni di incertezza nell’applicazione del diritto o siano insorti contrasti giurisprudenziali, ma pure in presenza di indirizzi omogenei (anche di legittimità), se la scelta imposta per vincolare il significato ascrivibile alla legge anteriore rientra tra le possibili varianti di senso del testo originario (sentenze n. 374 del 2002 e n. 525 del 2000).
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.
F.to:
Giovanni Maria FLICK, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.